di Lionello Mancini
Forse è necessario essere cresciuti in Sicilia per cogliere pienamente il groviglio che ha originato l’attuale stallo del fronte antimafia dopo le “rivelazioni” mediatico-giudiziarie su uno dei suoi esponenti di punta. È sufficiente, invece, essere seriamente interessati al percorso iniziato proprio dalla Sicilia per riflettere sugli effetti della vicenda che tocca uno dei suoi testimoni più esposti: non di sè e della propria immagine, ma di un’idea e di un metodo. Esattamente quell’idea e quel metodo che vanno rigorosamente difesi e preservati, perché hanno dimostrato di funzionare e di essere un modello per migliaia di imprenditori e operatori economici del Paese.Proprio perché in gioco c’è la salute dell’Antimafia, poco importa “chi” abbia innescato il meccanismo infernale, incurante degli effetti sulla svolta pragmatica e culturale maturata nell’isola. Quali siano tali effetti è presto detto: gente che per anni aveva subìto il racket e che aveva preso coraggio inserendosi nel fronte di resistenza civile, oggi si interroga se davvero ne valga la pena; imprenditori e commercianti pronti a denunciare, ma che ora temono ritorsioni quanto meno mediatiche, offese e lesioni reputazionali; paladini dei vecchi sistemi clientelar-assistenziali che possono dire «vedete? è tutto mafia» e riprendere a trafficare come e peggio di prima del 2007. Sembra – e qui sta il plus di gravità dello smarrimento attuale – che all’interno del fronte antimafia ci si sia divisi e si sia voluto inviare un segnale di stop a una visione diversa, forse ritenendo non riconosciute le proprie ragioni, le proprie particolari prospettive. Non doveva accadere, perché l’esperienza insegna che quando il movimento civile e istituzionale si saldano e marciano compatti, è solo in quel momento che arrivano i risultati. Quando la polizia si fida e fa assegnamento sulle organizzazioni spontanee giovanili, l’antiracket funziona; quando la magistratura discerne il grano dal loglio, le denunce degli imprenditori si infittiscono; quando persone competenti e disinteressate si prestano a incarichi gestionali, gli sprechi e i ritardi amministrativi vengono affrontati con maggior successo, la cosa pubblica ne guadagna, perde speranza il finto cambiamento gattopardesco (e non di rado reagisce graffiando). Quando, invece, una delle parrocchie inciampa, il domino distruttivo sarà più o meno veloce, ma è assicurato: dai mormorii sarcastici, alle assenze strategiche, ai gesti di contestazione, il passo per il colpo duro è breve, l’effetto sul bersaglio – meriti o non meriti, denunce o non denunce contro il pizzo – è assicurato, lo paralizza, ma gela anche tutto ciò che c’è intorno. Una pessima fotocopia della brutta politica: invece del confronto, attacchi furibondi; al posto delle scelte condivise, grida per assordare “avversari” e pubblica opinione. Eppure il contesto obiettivamente pericoloso e i risultati già raggiunti (rating di legalità, white list, protocolli, governance aziendali rafforzate, presidi anticorruzione, collaborazione con le istituzioni) dovrebbero suggerire grande prudenza, perché il “gioco” è obiettivamente pericoloso. Passerà anche questo brutto momento di insensata divisione e la legalità resta per tutti un faro irrinunciabile anche se occorrerà ricominciare da qualche passo indietro e con più fatica. Ma un’antimafia variegata, intergenerazionale, interculturale, interdisciplinare è comunque un valore, a patto che ciascuno si sforzi di riconoscere l’alleato, le sue competenze, le sue qualità e il suo coraggio. Se, invece, prevarranno i leaderismi esasperati, le rincorse a spararla più grossa e a sospettare il più insospettabile, il cammino rallenterà, l’entusiasmo si affievolirà, la cattiva politica e la pessima economia riguadagneranno il terreno fin qui conquistato.
SOLE 24 ORE 2.3.15