di Antonino Di Matteo –
L’intervento integrale di Nino Di Matteo al Convegno “La trattativa Stato-mafia: responsabilità penale o responsabilità politica?”
Innanzitutto volevo esprimere la mia sincera gratitudine al professore Amarelli e a tutti coloro i quali si sono adoperati per organizzare questo incontro così partecipato. Credetemi, la mia non è un’affermazione di formale cortesia, ma, professore, mi sento di attribuirvi sinceramente un merito: quello dell’attenzione all’approfondimento rispetto a un’inchiesta e a un processo dei quali, non sono d’accordo con lei, non si è parlato troppo, ma sono stati oggetto di costante e pervicace disinformazione in un panorama complessivo che anzi io ritengo essere stato ed essere oggi di silenzio e di nascondimento dei fatti. Io devo anzitutto premettere, per i tanti giovani che non necessariamente hanno seguito il processo e anche nel tempo il mio lavoro, che il mio punto di vista è il punto di vista di un magistrato palermitano che è entrato in magistratura nel 1991; che mentre venivano uccisi i colleghi stava facendo il tirocinio, avendo già scelto la funzione di pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Palermo, e che poi, per una serie di eventi in parte assolutamente casuali, si è trovato dal 1992 a fare parte di una procura distrettuale antimafia, quella di Caltanissetta, che si occupava delle inchieste e dei processi sulle stragi. Io dal 1992 fino ad oggi mi sono sempre e soltanto occupato di indagini e processi di mafia in Sicilia. Indagini e processi che hanno riguardato le stragi e gli omicidi di altri colleghi uccisi in Sicilia: l’omicidio Livatino, l’omicidio Setta, la strage Chinnici, e poi dal ’99 in poi a Palermo tanti processi di mafia cosiddetta ordinaria e tanti processi che hanno riguardato invece le collusioni tra mafia e politica, tra mafia e potere, molte volte con la contestazione del reato di concorso in associazione mafiosa. Questo ve lo dovevo dire, ragazzi, soprattutto per permettervi di ascoltare il mio punto di vista sapendo da che esperienza vengo. Negli ultimi anni della mia permanenza a Palermo, oramai da un anno sono stato trasferito, anche se poi ho finito il processo sulla trattativa Stato – mafia in regime di applicazione alla Procura Nazionale Antimafia, sono stato il magistrato che, insieme a un altro collega, Antonio Ingroia, ha iniziato e istruito le indagini su questo processo. Dopo che il collega Ingroia ha lasciato la magistratura, insieme ai valorosi colleghi, tra cui due vostri concittadini, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, e un altro collega, Vittorio Teresi, ho rappresentato la pubblica accusa dal primo giorno fino al giorno della sentenza nei cinque lunghi anni di dibattimento. Quindi questo, per chi non lo sapesse, è il punto di vista di un magistrato che è stato protagonista della fase sia delle indagini che della fase del dibattimento. Non sono quindi neutro e terzo rispetto alla questione, ma penso e spero di non avere mai perduto la neutralità e l’imparzialità che devono caratterizzare l’operato di ogni magistrato, a maggior ragione di quello del pubblico ministero.
Secondo me c’è stato e c’è un muro di gomma. Vi faccio riflettere soltanto su una cosa e mi rivolgo soprattutto a voi studenti. La sentenza di condanna è stata emessa il 20 aprile 2018. Se voi provate a vedere per quanto tempo si è parlato di questa sentenza constaterete che se n’è parlato il 21 aprile, forse il 22 aprile, e poi basta. Il 19 luglio 2018 sono state depositate le motivazioni che hanno fatto molto clamore, anche perché si riferivano anche a una vicenda strettamente collegata con le stragi e con la strage di Via d’Amelio in particolare. Se n’è parlato nei quotidiani e nei telegiornali principali il 20 luglio; dopodiché assoluto silenzio. Questa è una vicenda della quale non si vuole parlare. Questa è una vicenda della quale non si deve parlare. E invece oggi voi ne parlate e io di questo voglio dare atto al professor Amarelli e a tutti coloro che hanno pensato e ideato quest’incontro, così come voi, nella vostra limpida onestà intellettuale, mi darete atto, professor Amarelli, che io ho accettato quest’invito ben prima della sentenza e quando le previsioni che molti facevano, senza nemmeno conoscere gli atti del processo, erano di assoluzione tombale per tutti e quando i dibattiti che venivano organizzati – ai quali io ovviamente non potevo partecipare in quanto pm del processo – erano quelli che partivano dalla definizione di autorevoli studiosi di diritto penale che prima ancora che il processo iniziasse l’avevano definito una “boiata pazzesca”. Voi avete fatto dei dibattiti qui con quei professori ed è giusto e sacrosanto che vengano fatti ma io ho accettato in un contesto in cui non c’era ancora quella sentenza proprio perché volevo confrontarmi una volta finito il processo e ho detto subito, professore, che non appena fosse finito avrei partecipato in ogni caso.
Perché si deve parlare, a mio parlare, di questi fatti? Scusate se mi rivolgo soprattutto ai ragazzi e a voi studenti ma io mi appassiono soprattutto quando parlo con i ragazzi. Vedete, io ho lavorato sempre in Sicilia, ho fatto il giudice antimafia in Sicilia, è stata una scelta di vita che purtroppo ha caratterizzato la mia vita, io vivo sotto perenne scorta dal 1993, quindi oltre 25 anni in situazioni particolari e non voglio dire altro. Quindi mi sento di avere il diritto a stimolarvi qualche riflessione.
In Sicilia e a Palermo sono stati celebrati tanti processi importanti per il nostro Paese e lo dico con l’orgoglio di essere appartenuto a quell’ufficio giudiziario, pur con tutti i difetti che abbiamo potuto avere e incarnare, ma in tema di mafia, secondo me, ci sono stati soprattutto tre processi che hanno una natura che non esito definire storica.
Il maxi processo, perché fu quello che ebbe a oggetto e provò infine l’esistenza di Cosa Nostra (precedentemente si discuteva dell’esistenza di Cosa Nostra), la verticalità di Cosa Nostra, la sua struttura verticistica. Il maxi processo, quello istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che aveva a oggetto la struttura della mafia militare.
Poi il processo Andreotti, che ha costituito l’esemplificazione più evidente dei rapporti tra Cosa Nostra e politica perché, nonostante l’informazione che ha imperato sulla sentenza Andreotti, la sentenza definitiva afferma che fino al 1980 il 7 volte Presidente del Consiglio e non so quante decine di volte ministro, Giulio Andreotti, ha intrattenuto rapporti significativi con esponenti apicali della mafia palermitana addirittura incontrando i capi della mafia palermitana subito prima e subito dopo l’omicidio del Presidente della Regione, Piersanti Mattarella, ucciso il 6 gennaio 1980. Prima per discutere con loro dei danni che a Cosa Nostra stava portando l’azione riformatrice di quel Presidente e poi per discutere e lamentarsi dell’omicidio. Questo c’è scritto in una sentenza definitiva pronunciata in nome del popolo italiano, ma molti, anzi pochi sono gli italiani che conoscono queste cose.
Il terzo processo che, a mio parere – per fortuna non solo mio ma anche di tanti osservatori delle cose siciliane – ha avuto un’importanza storica è il processo della trattativa Stato – mafia perché, mentre il processo Andreotti costituiva l’esemplificazione più evidente del rapporto tra la mafia e la politica, questo processo costituisce la semplificazione più lampante, lineare e recente di un dato che credo difficilmente, almeno a livello storico, possa essere seriamente messo in discussione. Cioè che il rapporto tra la mafia – in particolare quella siciliana, che è stata la mafia che ha raggiunto il livello più alto al mondo, perché nessuna organizzazione al mondo ha fatto quello che la mafia siciliana ha fatto, sotto forma di uccisone di decine di magistrati, di ufficiali dei carabinieri, poliziotti, politici, stragi, omicidi di imprenditori, sacerdoti – e le istituzioni non sempre è stato conflittuale, ma molto spesso è stato caratterizzato dalla tendenza al dialogo sotterraneo, al riconoscimento reciproco, alla mediazione, alle trattative che hanno sempre finito per rafforzare prestigio e forza della mafia. Attribuendole così l’arma più micidiale che un’organizzazione criminale possa avere, l’arma più micidiale di arsenali di kalashnikov o centinaia di chili di tritolo: quella del ricatto nei confronti delle istituzioni.
Credetemi, ho tanti difetti, ma non quello di non essere sincero. Io ho sempre creduto nel valore e nell’utilità della critica, anche la più dura. Ho sempre creduto nell’apporto della dottrina, ho sempre creduto alla funzione altissima del dibattito scientifico. Per questo motivo non mi sono sottratto, ancor prima della sentenza, a questo dibattito. Mi accosto al dibattito, ai limiti della sfrontatezza, con profonda delusione per l’atteggiamento complessivo di opportunismo politico. La mancanza di coraggio e di consapevolezza dell’importanza del proprio ruolo, preponderante in parte del mondo accademico e della stessa avvocatura, ha, a mio parere, assunto e mantenuto un ruolo determinante su determinati snodi dell’inchiesta e del processo, al di là del merito e delle imputazioni delle quali parleremo. Perché quando agli altari delle cronache è balzata la vicenda delle intercettazioni casuali delle conversazioni tra Nicola Mancino e l’allora Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, quando solo perché noi avevamo pensato che quelle intercettazioni penalmente irrilevanti dovessero essere distrutte come il codice di procedura penale prevede, ovvero dopo essere state messe a disposizione degli avvocati difensori affinché anche loro ne giudicassero la rilevanza o l’irrilevanza, sono partite iniziative fortissime. Mi riferisco non tanto al procedimento disciplinare nei miei confronti, ma ancor di più al conflitto di attribuzioni. Nessuno, nessuno, ha fatto rilevare che la stessa identica situazione, intercettazioni casuali di conversazioni del Capo dello Stato, si era presentata negli anni precedenti, una volta con il presidente Scalfaro con un’indagine della Procura di Milano, più recentemente rispetto alla nostra vicenda con lo stesso Napolitano con un’inchiesta della Procura di Firenze che riguardava la ricostruzione del post terremoto a L’Aquila. Bene, in quei casi, quelle conversazioni, a differenza che da noi, erano state depositate, erano state pubblicate, erano andate a finire sulle pagine di tutti i giornali. Eppure dagli uffici del Quirinale non era partita nessuna iniziativa, nessuna lamentela. Perché due pesi e due misure? Perché il mondo accademico, che pure ha discusso a lungo di questa vicenda con l’approssimarsi della sentenza della Corte costituzionale, non ha fatto mai rivelare questo? Lo stesso quando noi abbiamo chiesto alla Corte d’Assise di citare il Capo dello Stato e il Capo dello Stato è stato citato come testimone. Noi partivamo da una lettera pubblicata dal presidente Napolitano in un libro; lettera questa indirizzata al suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, e nella cui risposta, pubblicata nello stesso libro del Capodello Stato, Loris D’Ambrosio – che nel periodo delle stragi e della trattativa era al ministero di Grazia e Giustizia – in un passaggio diceva: “Temo di avere assunto il ruolo tra il 1989 e il 1993 di utile scriba a copertura di indicibili reati”. Volevamo sapere dal Presidente della Repubblica, che era destinatario di quella lettera e l’aveva pubblicata, se avesse avuto modo di approfondire l’argomento con Loris D’Ambrosio prima che morisse. Quell’iniziativa di ammettere la testimonianza anche da parte di una Corte d’Assise è stata giudicata eversiva; ci sono stati presidenti di Corte d’Appello, non di Palermo, che nell’inaugurazione dell’anno giudiziario hanno detto che la Corte d’Assise di Palermo avrebbe potuto risparmiare al Paese questa triste pagina, parlando quindi di altri processi in corso e quindi di altre decisioni. Nessuno però ha mai difeso e si è mai preoccupato di un codice penale che prevede certe cose. C’è una Corte d’Assise che ha stabilito la rilevanza e certe affermazioni dovrebbero essere un po’ più contenute e censurate.
Professor Amarelli, sa quante volte mi è capitato a Palermo – dove è chiaro che, come tutti i magistrati, ho occasione, seppure saltuaria, di scambiare anche semplici battute con dei vostri colleghi – di sentirmi dire: “Sì, voi avete ragione, voi nella vicenda delle intercettazioni avete assunto un comportamento assolutamente rispettoso della legge, voi avete rispettato la legge e tutti i criteri previsti dal codice nella vicenda dell’intercettazione del Capo dello Stato, però è una questione di opportunità politica, certe iniziative è meglio evitarle”.
Questo è il pericolo che noi stiamo correndo secondo me, magistrati e mondo accademico. Noi magistrati stiamo correndo un pericolo che è quello di piegarsi nelle ragioni di doverosità giuridica, che dovrebbero essere le uniche ad ispirare la nostra azione, a quelle di opportunità politica. Io mi auguro che a quelle ragioni non si pieghi mai il rigore scientifico che invece deve caratterizzare la vostra attività.
Andando allo specifico del tema, cercherò di offrirvi un contributo che non perda mai di vista l’aspetto dell’accertamento fattuale, cioè degli accadimenti. Gli accadimenti si inquadrano in un periodo – ricordiamocelo sempre – in cui, dalla fine del ’91 all’inizio del ’94 in Italia sono state compiute 7 stragi. Sono stati uccisi uomini politici, di cui forse solo un siciliano può cogliere meglio l’importanza, come l’onorevole Lima, altri ne dovevano essere uccisi e sono state compiuti la strage di Capaci, la strage di Via D’Amelio, l’attentato di Via dei Georgofili, ancor prima l’attentato a Maurizio Costanzo il 14 maggio 1993 a Roma, l’attentato a Firenze del 27 maggio del 1993, l’attentato in contemporanea nella notte del 29 luglio 1993 a Roma e a Milano che fece dire all’allora presidente della Repubblica che in quel momento temeva un colpo di Stato. Altri attentati sono stati sventati per puro accidente e tra questi l’attentato che avrebbe dovuto concludere l’azione di ricatto delle mafie nei confronti dello Stato è l’attentato all’Olimpico, che per fortuna fallì per un mero accidente al funzionamento del congegno che avrebbe dovuto attivare la bomba che avrebbe provocato centinaia di morti tra i carabinieri in servizio di ordine pubblico. La trattativa Stato – mafia è inquadrata in questo contesto e, ragazzi, la sentenza dice, da un punto di vista fattuale, questo – poi vi leggerò alcuni passaggi – che la trattativa, cercata dagli uomini dello Stato, rafforzò in Riina e negli altri il convincimento che la strategia della violenza pagasse. Lo Stato che piega le ginocchia, lo Stato che dice “cosa vuoi per smettere di fare stragi?” induce Riina e gli altri a dire “aumento la violenza, la esporto fuori della Sicilia, non abbatto più solo i nemici storici di Cosa Nostra ma adotto una strategia terroristica, colpisco a caso, a Roma e a Milano, provoco il panico nella popolazione italiana”.
Non mi soffermerò tanto sul limite e sulle differenze tra l’articolo 338 e l’articolo 289, sulle aggravanti o quant’altro, però prima voglio dirvi di altro. Vi è stato giustamente ricordato che non è stato contestato a nessun imputato il fatto di avere trattato. Lo schema è molto semplice ma mi soffermo su un punto preciso. Nonostante ancora oggi, poiché la sentenza non è definitiva, molti trovino lo spunto di dire “presunta trattativa” o “fantomatica trattativa” o “supposta trattativa”, in realtà sulla trattativa non c’è nessun dubbio, non fosse altro – ragazzi mi rivolgo soprattutto a voi – perché io e i colleghi abbiamo ascoltato sia la voce di Riina sia la voce dei carabinieri, del Ros, Mori e gli altri, che hanno fin da subito definito quella una trattativa, non è in discussione che c’è stata una trattativa, è una falsità quando ancora vi parlano di presunta trattativa, perché ditemi voi, secondo un criterio di normale buon senso, che cos’è – cito le parole che l’allora colonnello Mori utilizzò in Corte d’Assise a Firenze sentito come testimone nel 1997 – andare da Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo, e dirgli “vai da Riina e gli dici cos’è questo muro contro muro, cosa vogliono per fare finire le stragi?”.
E’ “presunta trattativa” questa? Ancora parliamo di “presunta trattativa”. Qui della trattativa parlerò ma il profilo giuridico è un altro. Noi abbiamo un’organizzazione criminale, la più potente al mondo, che a un certo punto con violenza e minaccia consistita nel fare omicidi eccellenti, stragi e accompagnare questi omicidi e queste stragi con la richiesta di ottenere dei benefici, ha fatto una precisa minaccia a un corpo politico dello Stato, il governo. I mafiosi hanno fatto questo ricatto e per questo sono stati processati. Abbiamo avuto degli esponenti delle forze dell’ordine, dei servizi segreti e della politica, non mafiosi, non propriamente mafiosi, a cui abbiamo attribuito il ruolo di concorrenti secondo quelli che sono i criteri assolutamente normali nell’istituto del concorso di persone nel reato perché riteniamo che questi non mafiosi abbiamo contribuito in qualche modo o rafforzando o istigando – e in quello che vi ho detto prima ve n’è la dimostrazione – la volontà di Riina di ricattare lo stato o fungendo da cinghia di trasmissione delle richieste da mediatori. Questo processo segue uno schema così semplice che a Palermo come a Napoli ne celebriamo decine, forse centinaia, quando noi contestiamo al mediatore dell’estorsione il reato di concorso nelreato estorsivo. Il mafioso o il camorrista che chiede il pizzo all’operatore commerciale di Palermo o di Napoli è il mediatore che magari conosce l’uno e l’altro, che va prima dal mafioso e poi dalla vittima e cerca di trovare una soluzione. Questo è lo schema del concorso che abbiamo contestato e che la Corte ha ritenuto provato per gli esterni a Cosa Nostra. E su questo punto voi mi insegnate che la Corte di Cassazione è intervenuta in maniera assolutamente chiara per dire che il mediatore dell’estorsione non risponde del reato di concorso nel 629 soltanto quando ricorrono tre condizioni. La prima, “il mediatore deve avere agito su richiesta della persona offesa, deve essere stato incaricato dalla persona offesa, difetta questa condizione se il mediatore ha agito spontaneamente o se è stato chiamato a intervenire da soggetti diversi rispetto alla persona offesa”. E allora qui risulta che casomai soltanto alcuni esponenti del governo, secondo la nostra impostazione, diedero mandato ai carabinieri di trattare, ma in ogni caso vi voglio dire che il governo – che non è la persona offesa, proprietario della bottega a cui viene chiesto il pizzo mensile – non avrebbe mai potuto, secondo un criterio di legalità minima, affidare un incarico di andare a trattare col nemico. La seconda condizione che pone la Cassazione è quella che “il mediatore deve agire nell’interesse esclusivo della persona offesa”. Noi abbiamo ritenuto che questo non fosse il caso dei mediatori che abbiamo coinvolto nel processo, perché ce n’è uno per esempio, Mannino, che noi abbiamo ritenuto agire per un fine intanto personale, quello di salvarsi la vita, perché Cosa Nostra aveva già organizzato un attentato nei suoi confronti e lui sapeva e manifestava di essere la prossima vittima di un attentato dopo quello che aveva colpito Lima, Dell’Utri ha accompagnato la sua opera di mediazione dall’interesse personale e di partito ad organizzare l’attività del partito politico appena sceso in campo nel 1993, i carabinieri hanno agito secondo una logica che li aveva accompagnati – almeno alcuni di loro – nella pregressa appartenenza ai servizi segreti e al sid in particolare il colonnello Mori in un periodo in cui le ragioni di carriera non erano estranee alla mediazione prestata ma c’è una terza condizione che la Cassazione dice fondamentale per non punire il mediatore. Ed è quella per la quale “il mediatore non deve agire agevolando il mafioso al punto tale di metterlo al riparo dal rischio di denuncia”. Qui quei carabinieri che sono stati condannati hanno agito preoccupandosi di non fare risultare nessuna traccia di quello che stava accadendo, mettendo così al riparo gli interlocutori mafiosi da ogni possibile indagine. Nel momento in cui sono andati da Vito Ciancimino e Ciancimino dice “sto andando da Riina” non hanno fatto un pedinamento, non hanno fatto un’osservazione, non hanno fatto un’intercettazione, non hanno lasciato una traccia scritta pure negli appunti del loro reparto, la trattativa è stata politica, è stato fatto di tutto perché rimanesse nascosta e perché quindi gli autori mafiosi della violenza e delle minacce rimanessero impuniti. Ecco perché la Corte ha condannato anche gli esponenti istituzionali per ricatto a corpo politico dello Stato.
Io volevo dirvi questo. Poi vi dirò perché. Questo è stato il reato per cui la Corte ha condannato. Ma io non mi voglio sottrarre alla discussione sulla trattativa. Mi voglio soltanto premettere alcuni dati di fatto della sentenza, non parlo soltanto di pubblico ministero. Rappresento i fatti così come sono stati accertati da una Corte d’Assise. La trattativa ci fu. Ed ebbe la sua prima manifestazione quando gli ufficiali del Ros contattarono Ciancimino per creare un rapporto con Riina al fine di comprendere da cosa derivasse “il muro contro muro”. Vi ho detto che queste sono le parole utilizzate da Mori. La trattativa comportò di fatto un grave e implicito riconoscimento da parte dello Stato dell’organizzazione criminale Cosa Nostra e quindi il suo rafforzamento. Può ritenersi provato – ragazzi ascoltate, quando andate a commemorare Falcone e Borsellino, per favore, non vi limitate alla retorica, conoscete i fatti, conoscete quello che ha portato alla loro uccisione! Può ritenersi provato che il generico progetto di uccidere Borsellino subì un’improvvisa accelerazione proprio nei giorni precedenti alla strage di Via D’Amelio. Quell’invito al dialogo pervenuto a Riina dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisce un sicuro elemento di novità che può avere certamente determinato l’accelerazione dell’omicidio Borsellino.
La trattativa non evitò sangue. Ne provocò ancora di più.
Questo è il dato di fatto che una Corte d’Assise dopo 5 anni di dibattimento ha messo nero su bianco. Pur accettando la trattativa, Riina, per evitare che la stessa si arenasse, condusse la strategia di attacco allo Stato, alla quale vanno ricondotte, oltre alla strage di Via D’Amelio anche il tentato omicidio di Calogero Germanà, quello di Ignazio Salvo, il progetto dinamitardo per fortuna sfumato di uccidere il giudice Grasso. Devo purtroppo saltare tante cose ma credetemi, non mi basterebbe un dibattimento di un’ora per riassumervi i punti salienti. I fatti salienti che vi nascondono. I fatti ve li nascondono! Soltanto una cosa vi voglio dire. Il reato di minaccia a corpo politico dello Stato si è consumato – sono parole della Corte d’Assise – anche nei confronti del primo governo Berlusconi. Ci sono stati 4 governi che sono stati destinatari di violenza o minacce di bombe. Il primo fu il governo Andreotti fino ad aprile 92 con l’omicidio Lima. Il governo Amato, insediatosi a giugno ’92 e il governo Berlusconi. Se questa minaccia è stata percepita come la Corte ritiene, mi chiedo e vi chiedo che significato ha il fatto che nessuno dei minacciati ha reso manifesta allora la ricezione di questa minaccia. Questo è un profilo che non attiene direttamente al processo ma che da cittadino, prima ancora che da magistrato, io mi pongo e vi pongo. Vi dicevo, il reato di corpo politico nei confronti dello stato si è consumato anche nei confronti del primo governo Berlusconi. E’ stato pienamente provato che Vittorio Mangano su incarico di Brusca e Bagarella contattò Dell’Utri ricevendo da questi assicurazioni che avrebbero operato modifiche legislative nell’interesse dell’associazione. Sono stati provati incontri personali e diretti tra Mangano e Dell’Utri sia nel giugno/luglio 1994 che nel dicembre dello stesso anno. Non si può dubitare che Dell’Utri abbia effettivamente riferito a Berlusconi quanto di volta in volta emergeva dei suoi rapporti con l’associazione mafiosa. Il fatto che Berlusconi fosse stato sempre messo a conoscenza di tali rapporti è incontestabilmente dimostrato da parte dall’esborso documentato da libri mastri che abbiamo trovato in mano ai mafiosi da parte delle società facenti capo a Berlusconi di ingenti somme di denaro anche dopo che Berlusconi era diventato presidente del consiglio. E’ stato dimostrato che tali pagamenti sono proseguiti anche dopo che Berlusconi aveva assunto quell’incarico. Un’altra cosa, un’altra bugia che ha accompagnato tutti questi anni di processo e che hanno sempre detto fino dall’inizio per smontare il processo dicendo, come l’hanno definita il professor Fiandaca ed altri, di una clamorosa bufala è che questo processo fosse fondato sulle dichiarazioni di un calunniatore o comunque di un soggetto assolutamente inattendibile che era Massimo Ciancimino, il figlio di Vito Ciancimino. Nella sentenza si dice che il giudizio di non credibilità di Massimo Ciancimino comporta la scelta di non utilizzare tutte le sue dichiarazioni e anche quindi di quelle che hanno trovato inaspettate e straordinarie conferme. Quindi questo processo arriva ad una condanna senza che venga utilizzato Massimo Ciancimino neppure quando le dichiarazioni di Massimo Ciancimino hanno trovato inaspettate conferme da parte di politici che hanno ritrovato la memoria solo dopo le sue dichiarazioni. Allora non è un processo basato sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. E’ vero che siamo in primo grado ma è un processo che ha portato una Corte d’Assise ad emettere un giudizio di condanna senza utilizzare le dichiarazioni di Massimo Ciancimino. Sto sforando, avrei voluto fare delle osservazioni su quel bellissimo contributo al professor Marelli che lei ha pubblicato e che non mi vede d’accordo su alcune considerazioni. Io non posso fare tutto voglio soltanto concludere parlandovi della trattativa Stato-Mafia e ve ne voglio parlare con alcune considerazioni che sono state anche mie, sono statenostre, con i colleghi Del Bene, Tartaglia e Teresi ma sono state soprattutto della Corte. Premesso che non abbiamo processato nessuno per avere trattato ma per avere concorso in quel modo nel reato di minaccia al corpo politico dello stato 3 minuti per leggervi alcune cose che la Corte d’Assise ha sancito sulla trattativa del 1992-1994. Non sembra che possa ritenersi lecita in via generale una trattativa da parte di rappresentanti delle istituzioni statuali non eventualmente con singoli compartecipi di una associazione mafiosa e nei limiti delle concessioni che lo stato può riconoscere in forza a disposizioni di legge dettate con finalità premiali con la collaborazione con la giustizia, bensì con soggetti che si pongono in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa e richiedano nell’interesse di questa benefici che esulano da perimetri normativi. Quante volte ci siamo sentiti dire, ma in fondo lo stato quando ai collaboratori di giustizia concede il premio, lo sconto di pena perché il collaboratore di giustizia riferisce di fatti omicidiari o magari fa ritrovare delle armi o dice state attenti che stanno facendo un’altra strage non è lo stesso il comportamento, no la corte dice in un caso innanzitutto c’è una legge che prevede quella premialità, qui non c’è, e poi quella è una interlocuzione con un singolo mafioso il quale con le sue dichiarazioni contribuisce anche non solo a prevenire reati ma contribuisce a disarticolare l’organizzazione mafiosa. Qui invece è in un’interlocuzione con la mafia con il suo capo volta semplicemente non a disarticolare l’organizzazione mafiosa ma a dargli un ruolo, a riconoscergli un ruolo di interlocutore tra virgolette istituzionale. Tralascerò quello che avevo preparato sui parallelismi con la vicenda Moro e concludo e mi scuso per il tempo che ho impiegato perché il mio intervento alla fine come mi capita perché mi appassiono a questo argomento non sono neutro, d’altra parte voglio dire, non è stato un lavoro facile, non è stato un lavoro che a me e i miei colleghi ci ha tra virgolette agevolato, anzi, tutt’altro sotto il profilo non solo della di quelli che sono i rischi connessi alla nostra professione ma anche la carriera, la tranquillità e quant’altro. La mia non è stata una relazione esaustiva, rispetto e rispetterò sempre tutte le opinioni contrarie non rispetto il silenzio, non rispetto la mistificazione, non rispetto la codardia di non parlare di certi argomenti e non rispetto le scelte di opportunismo. Le scelte di opportunismo politico di cui vi dicevo “avete ragione ma non si può fare, avete ragione ma sapete non ci si può schierare”. La trattativa provocò altri morti comunque in ogni caso aldilà della conclusione della sentenza si muove in un contesto in cui sarà, perché scusate, noi a Palermo le abbiamo vissute, i colleghi della porta accanto ci sono saltati, ci sono saltati in aria i poliziotti che vedevamo ogni giorno, i carabinieri che ci scortano ogni giorno sono saltati in aria, non possiamo avere il criterio, penso un magistrato non lo debba mai avere, dell’opportunità politica perché certi argomenti sono scabrosi, quelli non li rispetto, quelli che mentono, quelli che nascondono i fatti o che mentono per un criterio di opportunità politica. Rispetto e rispetterò sempre tutte le opinioni contrarie. Rispetto per esempio Radio Radicale che ha rappresentato un organo di informazione che ha avuto un grande merito: ha documentato tutte le udienze del processo. Dopodiché ha legittimamente ospitato le opinioni dei suoi giornalisti o dei giornalisti di quotidiani o di settimanali o di media vicini a quelle posizioni che sono state estremamente critiche nei nostri confronti. Però almeno ne hanno parlato, almeno anche oggi sono qua per dare spazio a tutte le voci. Concludo dicendovi soltanto questo. Scusate, il riferimento può sembrare autoreferenziale ma l’ho concordato anche con i colleghi come l’ho concordato con i colleghi quando abbiamo chiuso la nostra requisitoria. Abbiamo avvertito la consapevolezza e l’orgoglio di avere tentato sempre di fare e soltanto di fare il nostro dovere e questa consapevolezza non ce la potrà togliere nessuno in nessun caso e qualunque sia poi l’esito dei successivi gradi di giudizio. Un’ultima cosa voglio dirvi e la voglio dire con il cuore al collega che rappresenta l’associazione nazionale magistrati proprio da magistrato a magistrato; una sensazione che ho vissuto quando il 20 aprile, dopo un’ora dalla pronuncia della sentenza, ho abbandonato l’aula bunker. Per un’ora c’era stato trambusto, avevamo commentato con i colleghi dell’accusa. Nel primo momento in cui sono rimasto solo ho pensato che quella sentenza dei giudici di Palermo, che finalmente quei fatti li avevano ricostruiti in una visione unitaria non strettamente formalistica senza abbandonare mai il criterio della legge ma una visione che metteva tutti i pezzi del puzzle insieme, ho pensato che quella sentenza di quella Corte d’Assise mi aveva restituito il senso dell’appartenenza all’ordine giudiziario che stavo perdendo ad una magistratura forte e coraggiosa diversa e distante da quella che per opportunità politica, per ambizioni di carriera, sete di potere può rischiare in qualche caso, per fortuna non tutti e non tanti, di diventare collaterale servente rispetto ad altri poteri. Questo processo tra le altre cose secondo me ha rappresentato un argine rispetto ad una deriva generale che considero pericolosa e destabilizzante per la nostra democrazia. Grazie
Pubblicato da Antimafia Duemila 18.10.2018