L’AGENDA ROSSA –Nuova premessa Venticinque anni dopo via D’Amelio L’agenda rossa non è mai più stata ritrovata. Nei primi diciotto anni dal botto di via D’Amelio, la verità sulla strage è stata affidata a un balordo di borgata trasformato da un «pressing asfissiante» degli investigatori in un oracolo di verità. Le sue accuse hanno spedito in carcere undici innocenti, di cui sette condannati all’ergastolo, ai quali due sostituti pg a Catania, nel processo di revisione, hanno recentemente chiesto scusa. Nessuno, finora, però ha chiesto scusa alla famiglia Borsellino per la scomparsa dell’agenda rossa dalla borsa del giudice presa in consegna dallo Stato: a restituirla fu il capo della Mobile Arnaldo La Barbera e quando Lucia Borsellino, figlia del magistrato, gli chiese che fine avesse fatto l’agenda, lui le rispose che stava delirando. Senza agenda, e senza i tormenti segreti affidati a quelle pagine che incrociavano i rischi di una democrazia malata, in procinto di essere capovolta a suon di bombe nei suoi assetti di governo, per venticinque anni una parte consistente dello Stato ha difeso, in buona e cattiva fede, ma sempre ostinatamente, una chiave di lettura minimale che su quella strage vuole impresso un timbro esclusivamente mafioso. Nessun mandante «esterno» a Cosa nostra è stato mai identificato, tutti i livelli investigativi «superiori» finora esplorati sono finiti con un’archiviazione. Per la Procura di Caltanissetta Vincenzo Scarantino, il falso pentito della prima indagine, è il genio del male: «per tornaconto personale» ha inventato un copione traballante di menzogne emistificazioni che poi l’asso dell’antimafia La Barbera ha sostenuto a tutti i costi per inseguire le sue ambizioni di carriera. Per la Corte d’assise presieduta da Antonio Balsamo a quel «pressing asfissiante» corrisponde, invece, un reato previsto dal codice: il 20 aprile 2017, trasmettendo tutte le deposizioni d’aula alla procura, i giudici del Borsellino quater hanno rilevato che il picciotto della Guadagna è stato «determinato», ovvero indotto a mentire: da chi e perché lo leggeremo nelle motivazioni. In questo quarto di secolo dal botto di via D’Amelio, un fascio di luce accecante ha illuminato gli errori di magistrati e investigatori che hanno dato credito a Scarantino, lasciando al buio le sottovalutazioni, le illogicità e le scelte investigative ai confini dell’omissione nella ricerca della verità: chi si scandalizza solo per il mancato deposito nel 1995 dei confronti tra Scarantino e i tre pentiti molto più accreditati di lui, dimentica che, tre anni dopo, l’allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso aveva in mano la chiave (un primo verbale di Gaspare Spatuzza che scagionava Scarantino) per aprire le celle degli innocenti: ma quel verbale non venne mai trasmesso alle procure di Caltanissetta e Palermo. E oggi che nella narrazione giudiziaria quei morti sono stati progressivamente decontestualizzati dalla storia drammatica del paese, quello che accadeva nel ’92 sembra non interessare a nessuno. Né ai pm, né ai giudici, né agli avvocati. A eccezione di quelli delle vittime di questa storia. Eppure quattro mesi prima dell’esplosione della Fiat 126 il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti, insieme al capo della Polizia Vincenzo Parisi, avevano lanciato l’allarme di un’imminente strategia eversiva. Entrambi in Parlamento vennero presi per «pataccari». Risultato? Un quarto di secolo dopo via D’Amelio, il mistero di quella strage e soprattutto il rebus di quel depistaggio sono affogati nella visione mafiocentricadelle narrazioni giudiziarie: l’unica verità possibile è quella «compatibile» con gli assetti politico-istituzionali ancora presenti nel paese. Eppure in questi anni è successo di tutto. Hanno indagato sulla presenza dell’ex 007 Bruno Contrada tra le lamiere fumanti subito dopo la strage. Hanno indagato su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti occulti delle stragi. E poi, nel 2008, dopo l’arrivo del pentito Spatuzza che ha definitivamente sbugiardato Scarantino, gli inquirenti hanno ricostruito da capo la dinamica preparatoria della strage, tagliando fuori gli uomini del clan di Santa Maria del Gesù, e attribuendo un ruolo da protagonisti ai boss Graviano, Filippo e Giuseppe, padrini di Brancaccio. Anche Spatuzza, però, ha tirato in ballo un misterioso «sconosciuto», estraneo a Cosa nostra, che avrebbe assistito al caricamento della Fiat 126 nel garage di via Villasevaglios. Non è servito a niente. L’estraneo, che in un primo momento il collaboratore aveva riconosciuto nello 007 Lorenzo Narracci, vicino a Contrada, non è mai stato individuato. Infine è arrivato un pentito della ’ndrangheta, Nino Lo Giudice, detto il Nano, che ha accusato l’ex poliziotto Giovanni Aiello, detto «Faccia di Mostro», di avere premuto il telecomando della strage. Il pentito ha collocato Aiello in una cellula di killer di Stato attiva all’interno del commissariato palermitano di San Lorenzo. Ma anche in questo caso la procura nissena non ha ritenuto di dover coltivare la pista, aperta dall’ex sostituto della Dna Gianfranco Donadio, considerata «inconcludente» se non addirittura dannosa alla genuinità delle indagini. Così oggi restano tante, troppe domande. La catena degli errori e delle omissioni è da attribuirsi solo alla responsabilità degli inquirenti che si sono susseguiti in questi venticinque anni? O anche a chi nel tempo ha portato nelle aule di giustizia testimonianze parziali, incomplete se non addirittura omissive? Dai funzionari e dagli agenti del gruppo Falcone-Borsellino guidato da La Barbera (tra l’ 86 e l’ 88 agente del Sisde sotto copertura con il nome di Rutilius), che in aula hanno esibito un rosario di incoerenze e amnesie, all’ex pm Giuseppe Ayala che ha raccontato quattro versioni diverse sulle manovre attorno alla borsa di Borsellino, prelevata tra le macerie fumanti di via D’Amelio, sono tante le contraddizioni presenti, anche recentemente, nelle deposizioni dei pm che hanno partecipato alle prime indagini «taroccate» dalle bugie di Scarantino. E i poliziotti? Archiviata la posizione dei tre funzionari Mario Bo, Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera, a lungo indagati per concorso in calunnia nel contesto del depistaggio di Scarantino, oggi la procura continua a esplorare la febbrile attività di sei sottufficiali accusati di avere «indottrinato» il falso pentito nell’appartamento di San Bartolomeo a Mare nell’imminenza delle sue deposizioni dibattimentali. Con il paradosso che a condurre l’inchiesta sono gli stessi pm che non credono a una piena manipolazione di Scarantino da parte della polizia, attribuendo al picciotto della Guadagna un ruolo più che attivo nella creazione della partitura di menzogne: infatti nella requisitoria del quater, pur riconoscendo le pressioni inflittegli, hanno chiesto per lui la condanna per calunnia senza l’attenuante della «determinazione al reato», poi riconosciuta dalla Corte d’assise. Nei cinquantasei giorni che separano il botto di Capaci da quello di via D’Amelio, Paolo Borsellino era un morto che camminava, anzi correva, negli ultimi, frenetici, momenti della sua esistenza: con Falcone se n’era andato il suo scudo e lo sapevano tutti. Alcuni, dall’Ucciardone all’Autostrada del Sole, dove un misterioso automobilista fermatosi all’area di servizio Reggello il 17 luglio 1992 aveva pronosticato un «botto più grosso di Capaci», ne avevano cognizione diretta. Ed egli stesso ne era perfettamenteconsapevole, proseguendo tuttavia la sua ricerca della verità fino alla fine, fino al martirio. Solo chi doveva proteggerlo non se n’è accorto. Manifestando «carenze ed apparenti ingenuità –come avevano scritto nella parte ancora attuale della loro sentenza i giudici del Borsellino bis –che hanno inspiegabilmente reso meno difficoltoso il compito degli esecutori materiali della strage». Ingenuità «apparenti» e compito «inspiegabilmente» meno difficoltoso: oggi, nel venticinquesimo anniversario di via D’Amelio, e a dieci anni dall’uscita di questo libro, quell’aggettivo e quell’avverbio continuano a pesare come macigni sulla stagione stragista che si chiude a febbraio del 1994 con l’arresto, a Milano, dei fratelli Graviano. Perché Borsellino non fu protetto? Perché i collaboratori più accreditati nel periodo successivo alla strage hanno preferito girare al largo, in un caso (Salvatore Cancemi) tacendo per ben tre anni la propria partecipazione alla riunione deliberativa? Chi sono quegli infiltrati della polizia nella mafia di cui parla Franca Castellese, la moglie del pentito Santino Di Matteo, in una conversazione con il marito intercettata dalla Dia? Perché uno dei membri del commando, Gaetano Scotto, titolare di una piccola impresa edile, nel febbraio precedente alla strage, telefona a un’utenza del Cerisdi, il centro di formazione per manager che sorge sul monte Pellegrino, cercando un manager poi assunto ai vertici del sottogoverno regionale? In che modo la trattativa Stato-mafia ha influito sull’improvvisa accelerazione del botto di via D’Amelio? E perché, dopo Capaci, Cosa nostra decide proprio questa accelerazione del programma stragista, sostituendo il nome della vittima successiva che avrebbe dovuto essere il ministro Dc (all’epoca) Calogero Mannino e che, invece, diventò lo stesso Borsellino? E ancora: chi è il traditore cui accennò commosso il magistrato una mattina di giugno del ’92 davanti ai suoi colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa? E soprattutto come faceva l’ignoto autore della nota del Sisde del 13 agosto 1992 a conoscere luoghi e nomi dei protagonisti delle fasi preparatorie dell’attentato, quando ancora nessuno, né Scarantino, né Candura, ne avevano parlato? Tutte domande che i giudici si posero allora, che si continuano a riproporre i pm di oggi, ma che non hanno ancora trovato risposta. Eppure una risposta lo Stato deve darla. Lo deve, nonostante il lungo tempo trascorso, non solo alla memoria di Paolo Borsellino, ma al presente e al futuro di suo nipote, Paolo jr, figlio di Manfredi: perché possa continuare a credere nell’impegno di un paese che vuole definirsi costituzionalmente democratico. Da L’AGENDA ROSSA GLI ULTIMI 56 GIORNI – Giugno 2017