Intorno alle origini della ’ndrangheta sono state formulate numerose ipotesi. Il nome suggerisce un etimo greco. Secondo l’esperto di linguistica Paolo Martino ’ndrangheta sarebbe da ricondurre a una parola del greco classico, parlato in aree della provincia di Reggio Calabria: andragathos, ossia uomo valoroso.
In varie zone della provincia di Reggio è in uso il verbo ’ndranghitiari. Questo deriva dal greco antico andragatizomai, un verbo già in uso in molti autori classici, da Tucidide a Polibio, che significa l’assunzione di atteggiamenti da uomini di potere, maniere arroganti di uomini che si fanno valere in società.
Non sono mancate le indicazioni di fenomeni paramafiosi già nell’età della Magna Grecia, dove si diede vita alle hetairiai, associazioni parzialmente segrete di cittadini che, sovente, ottenevano i loro obiettivi tramite ricatti, minacce, arrivando fino all’uccisione degli avversari. Difficile però è rintracciare un filo che colleghi questi fenomeni del mondo antico alla ’ndrangheta odierna. Occorre quindi spostarsi molto più avanti per ritrovare le possibili origini dell’odierna mafia calabrese. In un documento risalente al 1595 si scopre infatti che un’ampia zona del Regno di Napoli, comprendente l’odierna Basilicata e buona parte della Campania, a quel tempo è conosciuta come Andragathia region, che si potrebbe tradurre con “terra popolata da individui valorosi”.
Le associazioni criminali calabresi iniziano ad acquisire visibilità come fenomeno pubblico preoccupante principalmente nelle province di Reggio Calabria e Catanzaro nella seconda metà dell’Ottocento – assumendo tratti simili a quelli della camorra campana. Essa è definita dai suoi stessi accoliti “Picciotteria”. Le origini della camorra sono fatte risalire alla cosiddetta Garduna, formatasi a Toledo attorno al 1417. Presumibilmente, nel periodo della dominazione spagnola in Italia sono state importate e fatte radicare nell’economia locale organizzazioni criminali analoghe a quelle iberiche.
Nel corso del lungo periodo di incubazione che avrebbe generato la ‘ndrangheta, sarebbero sorti altri fenomeni analoghi, come per esempio gli spanzati nel vibonese.
La mafia calabrese, o meglio un’associazione criminale con caratteristiche simili a quelle che oggi contraddistinguono la ’ndrangheta, inizia a presentarsi all’attenzione pubblica nel corso degli eventi che condussero all’unificazione dell’Italia.
Negli anni Sessanta del XIX secolo, in una lettera spedita al prefetto di Reggio Calabria si invita all’arresto di “ladri e camorristi” che a Gallico sparano colpi di fucile contro cittadini che lamentano i loro soprusi.
Negli anni Settanta e Ottanta dello stesso secolo, a Lamezia Terme (che allora si chiamava Nicastro), avvengono condanne di “camorristi” e imputazioni di persone ammonite per mafia e camorra.
Non paiono esserci analogie confermate con il brigantaggio, fenomeno votato a una dissidenza radicale disordinata e spesso solitaria rispetto all’ordine costituito, nonché attecchito soprattutto in aree particolarmente povere del Meridione. Dunque è assai differente da quello mafioso.
Nel 1897 il Tribunale di Palmi emette una sentenza dove, per la prima volta, ci si riferisce a un codice mafioso che prevede gerarchie, obblighi e spartizioni di profitti, prevede peraltro la denominazione di “Picciotto” per gli affiliati.
La camarilla in questione è contraddistinta da stretti legami di parentela e da altri tipi di affinità, volti ad assicurare assoluta complicità, omertà e solidarietà. Una solidarietà che contempla fra l’altro l’assistenza legale agli accoliti arrestati e sussidi economici ai familiari.
Il picciotto era temuto e quindi rispettato. Spesso era un emarginato dalla società che aveva così ritrovato una via di autoaffermazione in un raggruppamento mafioso. La Picciotteria, per i ceti subalterni, costituiva un insieme di anomale e illecite opportunità di reinserimento sociale e di acquisizione di potere, beni materiali e forme di onorabilità sociale estorte con la prepotenza.
Più famiglie mafiose, legate fra loro fino a raggiungere la soglia minima di 49 affiliati, costituiscono il ‘locale’, ossia l’unità essenziale di aggregazione mafiosa su un dato territorio, che in genere s’identifica in un villaggio o in un rione cittadino.
Ogni “locale” è diretto da tre ’ndranghetisti, una triade detta “copiata”, in genere costituita dal capo-bastone, dal contabile e dal capo crimine.
Ai fini di evitare possibili infiltrazioni dall’esterno, la copiata va dichiarata ogni qualvolta un accolito si presenta in un ‘locale’ differente da quello di appartenenza o qualora sia richiesta da un superiore.
Il contabile si occupa delle finanze e della “baciletta”, ovvero la cassa comune. Il “capo crimine” pianifica l’esecuzione di tutti gli atti criminali delle bande mafiose. Entrambi sono tuttavia agli ordini del capo-bastone.
Il capo-bastone solitamente proviene da una ampia e potente famiglia naturale, intesa anche in senso allargato. Il legame di sangue tende a imporsi su ogni altro tipo di rapporto. Con il trascorrere del tempo il vincolo di sangue compenetra sempre più tutti i membri del raggruppamento criminale, dati i sempre più diffusi matrimoni interni ai gruppi mafiosi. Si è parlato a tal proposito di una “endogamia di ceto” che contraddistingue principalmente la mafia di Reggio e provincia. Non di rado i matrimoni hanno altresì lo scopo di ricomporre faide sanguinose.
Le cosche formate attorno a un singolo individuo, per quanto abile a intessere reti sociali e clientelari, sono costitutivamente fragili e in genere predestinate a non durare a lungo.
Il “capo-famiglia” ha altresì la facoltà di tenere segreto il nome di alcuni accoliti.
Quando una ’ndrina arriva a cinquanta-sessanta affiliati che hanno in comune la stessa copiata, il capo-famiglia è in grado di costituire la “’ndrina distaccata”. Si tratta di una cosca allargata, che cresce e si ramifica sul territorio.
In origine, solo sette ’ndrine al massimo potevano essere distaccate da un locale. Tuttavia con il tempo la ‘ndrangheta ha scoperto attività estremamente redditizie come il traffico di stupefacenti. Questo affare è andato di pari passo con una proliferazione smisurata delle ’ndrine distaccate. Ovviamente, il ‘distaccamento’ è soggetto all’autorizzazione del locale principale.
I fiancheggiatori delle cosche, di cui ci si può fidare e che potrebbero entrare nell’organizzazione, sono conosciuti come “contrasti onorati”. Invece i non facenti parte dell’organizzazione sono in gergo definiti “contrasto/i”. Per ciò che concerne la Maggiore, la prima dote, partendo dal basso, è quella del “santista”. Sette accoliti con il grado di santista sono in grado di istituire, nell’ambito del locale, la “Società Maggiore”, altrimenti detta “Santa”.
Questa non dà conto delle sue decisioni e attività al locale cui appartiene.
Solo affiliati con almeno il grado di santista possono partecipare ai vertici esclusivi della Santa, costituita dai locali più importanti, poco più di una decina.
Secondo Fonte le radici storico-culturali della Santa sono massoniche e si ispirano a personaggi come il generale La Marmora e Giuseppe Garibaldi. Quello dei santisti è una sorta di think tank segreto votato a un’attività di pensiero e pianificazione.
Alcuni membri ricoprono la carica ancora più elevata di “Vangelo”: sono personaggi al massimo livello. In questo ambito, le figure religiose di riferimento sono gli apostoli e i santissimi Pietro e Paolo, mentre fra le figure storiche spiccano Camillo Benso di Cavour e Giuseppe Mazzini – che non a caso fu fautore di società segrete.
La cerimonia di conferimento di quest’ultima carica comprende l’incisione di una piccola croce nella regione scapolare sinistra.
Si dovette arrivare al 1984 per avere la prima rivelazione sull’esistenza di questa carica, con il pentito Pino Scriva. Questi rivelò inoltre che al di sopra del vangelo erano i gradi di quintino e associazione. Si scoprirono in seguito cariche come il quartino e il trequartino, create come misure cautelative per aumentare sicurezza e segretezza. Queste erano divenute tanto più necessarie in quanto da un lato aumentavano i fattori di controllo di intelligence dell’antimafia e, dall’altro, servivano a creare nuove cortine fumogene a protezione degli scambi con i poteri radicati nelle amministrazioni politiche e nelle alte cariche istituzionali.
Nell’ambito dell’iter volto al conferimento di una “dote”, la “grazia” sarebbe una precondizione essenziale, una specie di premessa e di impegno in previsione dell’imminente promozione dell’affiliato a livelli superiori della gerarchia.
Nel simbolismo della ’ndrangheta, fondamentale è la figura dell’albero della scienza, rappresentato da una quercia alla cui base si trova il mammasantissima, vale a dire il capo-bastone.
I rami grossi rappresentano gli affiliati con dote inferiore alla precedente. I restanti rami sono i picciotti.
Le foglie sono i contrasti onorati, ossia coloro che non appartengono alla ’ndrangheta.
Nella mafia calabrese, in base alle parole di Fonte, le colpe si dividono in “trascuranze” e “sbagli”. Le trascuranze sono piccole infrazioni generalmente di tipo informale, punite con ammende o con la sospensione per un mese dal locale. Le seconde invece sono punite principalmente con la morte o, in casi sporadici, con la “spoliazione completa” dell’affiliato, ridotto al ruolo di “contrasto senza onore”, non degno né del saluto né della frequentazione da parte degli affiliati.
Ovviamente non mancano i riti d’iniziazione, come il pungersi un dito o un braccio con aghi o coltelli, facendo cadere qualche goccia di sangue sull’immagine di un santino, in primis quella di San Michele Arcangelo, protettore della mafia calabrese. Santino poi incendiato a suggellare simbolicamente l’assoggettamento simil-sacrificale al superiore potere incendiario della “famiglia”.
«Che il mondo della mafia tenda costantemente a fare binomio col mondo della politica è una verità ormai notoria» avevano concluso i giudici Guido Marino, Antonio Staltari e Luigi Cotrona nella sentenza per i fatti di Montalto.
La ’ndrangheta nel corso della sua affermazione, avvenuta negli ultimi decenni, ha intensificato le relazioni sia con le sfere politiche sia con Cosa Nostra, specialmente con cosche mafiose di Palermo e Catania. Sono state instaurate modalità di associazione fra cosche che hanno previsto anche contiguità nei rapporti con politici e logge massoniche e/o paramassoniche deviate.
La mafia calabrese negli ultimi anni come si è detto è cresciuta molto anche per via del narcotraffico dal Medio Oriente, dal Sud America e dal Nord Africa, ma altresì con i piani di intervento sul Meridione che hanno destinato alla Calabria fondi miliardari per opere pubbliche.
L’infiltrazione negli apparati politici fu in crescendo e ciò portò a una monopolizzazione dei servizi privati connessi al settore pubblico (forniture di materiali, trasporti, manodopera, assegnazione degli appalti ecc.).
La ’ndrangheta si assicurò il controllo generalizzato dei fondi agricoli a condizioni di vantaggio. Ciò assicurò il dominio sui prezzi e la monopolizzazione del mercato agricolo.
Altro settore classico di investimento e riciclaggio di denaro era la speculazione edilizia, ma la mafia calabrese iniziò a un certo punto anche a esercitare il controllo dei traffici marittimi illeciti, spadroneggiando dunque anche nel mercato di contrabbando, dalle sigarette alle droghe.
Con opere come l’autostrada del Sole nel segmento Salerno-Reggio Calabria venne presumibilmente facilitato il consolidamento delle trame che connettevano lobbismo mafioso e politica.
Negli anni Sessanta e Settanta, nella Locride, Macrì comandava con il suo carisma e la sua reputazione. Le coste siciliane, tradizionali posti di sbarco dei contrabbandieri di sigarette, furono sorvegliate efficacemente dalla Guardia di Finanza, tanto che i traffici furono dirottati verso le coste ioniche della Calabria e della Locride, soggette a minori controlli.
Oltre al contrabbando di sigarette, nell’ottica della mafia calabrese, entrò anche la distribuzione clientelare degli appalti, oltre alla guardianìa, al controllo del mercato del lavoro, al pizzo e a sequestri di vip come quello di Paul Getty III, nipote del noto magnate statunitense.
Sorsero in quel periodo le prime imprese edili mafiose sotto il controllo della ’ndrangheta. A quel tempo don Mommo Piromalli, influente boss di Gioia Tauro, riteneva che la ’ndrangheta dovesse iniziare a infiltrarsi in modo deciso negli apparati dello Stato e nei circoli di potere massonici.
La svolta suggerita da don Mommo venne subito sostenuta da Paolo De Stefano, rampante boss venuto su nel quartiere Archi di Reggio. Da allora si scatenarono due guerre di mafia.
La prima si potrebbe definire una guerra intergenerazionale che coinvolse, fra le altre, numerose famiglie del reggino. La seconda fu invece causata da una dura presa di posizione in seno al “locale” dei De Stefano, che intendevano allargare la loro influenza su Villa San Giovanni, territorio degli Imerti. Vi era poi una lotta feroce per accaparrarsi gli appalti. L’assassinio di De Stefano provocò una profonda frattura nella ’ndrangheta reggina.
Alla conclusione della guerra, nel 1991, si contarono quasi seicento morti in sparatorie, esplosioni di autobombe e altri agguati nell’ambito di faide a cui assisteva più o meno impotente lo Stato, che aveva sempre sottovalutato il potenziale di sviluppo delle mafie calabresi. Le conseguenze furono tragiche anche per molti commercianti e imprenditori, che per periodi più o meno lunghi si vedevano costretti a pagare un doppio pizzo.
L’ultimo atto della seconda guerra si ebbe nell’agosto del 1991. Questo rappresentò un periodo di unione fra gli interessi della ’ndrangheta e di Cosa Nostra.
Il magistrato Antonino Scopelliti, sostituto procuratore presso la Procura Generale della Corte di Cassazione, avrebbe dovuto impersonare l’accusa in Cassazione nel maxi-processo istruito dal pool antimafia di Palermo.
Fu però assassinato. In quel momento, seguito dalle stragi di Capaci e via D’Amelio avvenute meno di un anno dopo, la guerra si concluse. La pace di Reggio Calabria portò a istituire una commissione di membri delle famiglie più influenti della provincia. Dopo anni di scontri totali che avevano sfiancato i ‘locali’.
Da allora, la ’ndrangheta scelse di tornare ad agire in sordina. Il mutamento di strategia fu segnato anche dall’adozione del nuovo appellativo di Cosa Nuova. Con il nuovo organo direttivo venutosi a formare, l’intera organizzazione avrebbe avuto una rappresentanza davanti ad altre cosche, alle logge massoniche e ai politici collusi.
La ’ndrangheta, come si è detto, prese inizialmente piede nella provincia di Reggio Calabria. Oltre al capoluogo, nella seconda metà dell’Ottocento, furono interessati altri comuni. A Cosenza nei primi del Novecento ci furono segnali di presenze mafiose.
Dagli anni Sessanta in poi questa forma di mafia si espanse in tutte le province della Calabria, anche laddove prima era assente, e penetrò via via nel Centro e nel Nord Italia, specialmente nei territori più industrializzati, oltre che in altri Paesi del mondo.
La mafia calabrese oggi produce un giro d’affari che supera il 3,4% del PIL italiano. Il settore più redditizio resta quello del traffico di stupefacenti, che peraltro si sovrappone al traffico d’armi in quanto segue rotte simili. Scrive l’Eurispes: «Negli ultimi anni si è assistito ad un vero e proprio salto di qualità in questa particolare attività illecita: le “cosche” puntano ad ottimizzare sforzi e rischi verso una maggiore e più oculata gestione dei flussi di sostanze stupefacenti internazionali».
Le ’ndrine, negli ultimi vent’anni, hanno sviluppato reti di collaborazione con organizzazioni straniere, specialmente sudamericane e albanesi.
Fra le attività remunerative vi sono l’usura, le estorsioni. Quest’ultima attività vede la ’ndrangheta al secondo posto dietro la camorra. In base ai dati dell’Eurispes l’usura costituisce una modalità avanzata di infiltrazione mafiosa che si presenta, nella maggior parte dei casi, sotto forma di un intreccio complesso fra imprenditoria, sistemi bancari e criminalità organizzata.
Traffico d’armi e prostituzione nel corso del 2004 avrebbero prodotto per l’Eurispes un introito di oltre 4600 milioni di euro. Peraltro, appalti manipolati e compartecipazioni nel campo imprenditoriale ammontano al 18,6% della ricchezza complessiva generata in Calabria. Per l’Eurispes «Diventa sempre più preoccupante e crescente l’atteggiamento assunto dagli imprenditori che, già al momento della partecipazione alla gara d’appalto, considerano il pagamento della tangente alla criminalità organizzata come una ineludibile voce passiva di bilancio, da imputare, dunque, tra i costi della propria azienda».
Di assoluto rilievo sono poi il traffico di esseri umani e le filiere dell’eco-mafia che tratta rifiuti tossici e radioattivi. In base a un documento depositato da un collaboratore di giustizia presso la Direzione Nazionale Antimafia, negli anni Ottanta-Novanta, sarebbero state fatte affondare numerose navi con carichi di scorie tossiche e potenzialmente anche rifiuti radioattivi provenienti da centrali nucleari italiane in dismissione.
Da questi dati si può comprendere quanto possa essere devastante l’impatto della ’ndrangheta sul tessuto politico, sociale e istituzionale. Non vi è democrazia che possa sostenersi e crescere seriamente sull’illegalità e la violenza che può derivarne. Un regime democratico sorge non soltanto su un discorso collettivo intorno a norme e principi democratici da condividere, ma anche intorno al rispetto per quelle stesse norme.
Una civiltà democratica implica lo sviluppo della cultura democratica, tale da abbracciare sia i singoli cittadini sia le istituzioni; la democrazia è in altre parole un processo sempre più esteso di democratizzazione, radicato in atteggiamenti quotidiani di fondo portati avanti da ogni individuo che resiste e lotta contro le forme d’illegalità e di criminalità che disintegrano le fondazioni di ogni vita civile e quindi democratica.
Le mafie si combattono, anzitutto, dall’interno, togliendo il consenso alle associazioni criminali. Ogni forma di consenso a qualunque fenomeno sociopolitico si traduce in forme di sostegno diretto o indiretto (es. tramite forme omertose).
Da un lato tutto ciò implica forme di lotta contro la struttura delinquenziale della criminalità organizzata con gli strumenti legali di cui in democrazia si dispone. Dall’altro lato è essenziale andare a diminuire ogni forma di consenso verso i poteri mafiosi. Vi è consenso fra gli studiosi dei fenomeni mafiosi sul fatto che fra le priorità dovrebbe esserci l’opposizione alla forma mentis mafiosa e, in questo caso specifico, ’ndranghetista. La forma mentis omertosa che sta alla base di questo fenomeno e i principi che la animano rappresenta il terreno subculturale in cui mette radici e cresce la mafia calabrese.
Gagliano Giuseppe
Liceo Teresa Ciceri -Como