Il procuratore della Repubblica di Roma oggi lascia la toga, dopo 45 anni di magistratura dedicata al contrasto a Cosa nostra, alla ‘Ndrangheta e a quelle che la Cassazione ha definito “piccole mafie”. “La svolta della Chiesa è avvenuta nel 1993”. E sul caso Cucchi: “Una pagina tormentata e sofferta anche per la giustizia”
Elisa Chiari
L’ordine maschera il traffico che transita quotidianamente sulla scrivania color ciliegio del procuratore della Repubblica di Roma, alle pareti dell’ufficio, spoglie per il trasloco imminente, è rimasto solo il crocifisso. Giuseppe Pignatone lascia, per limiti di età, la toga che ha vestito per 45 anni, tutti contro la mafia. All’inizio s’immaginava giudice civile: «Poi la vita ha preso questi binari». Uno tosto, dietro l’aria pacata. Indagati intercettati dicevano di lui, in arrivo a Roma da Reggio Calabria, «è uno che non gioca», «butterà all’aria Roma».
Altri, prima, a Reggio, l’avevano gratificato del “dono” minatorio di un bazooka. Non ama le interviste e si sente che risponde più volentieri sui Modelli criminali, tema del libro scritto con il coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Roma Michele Prestipino, che a domande più personali.
Dottor Pignatone, era a Palermo negli anni Novanta, a Reggio Calabria nel 2010, è vero che è più difficile contrastare le mafie quando non sparano?
«Per certi versi sì, la repressione seria e costante nel tempo che porta a condanne e confische è indispensabile, però non basta perché le mafie non vivono solo di violenza ma anche di consenso. Serve l’attenzione della società civile, ma tende a calare in assenza di delitti eclatanti. Storicamente Sicilia e Campania sono state più sotto i riflettori anche per ragioni non giudiziarie: la Calabria è isolata, più povera e meno abitata e la ’ndrangheta è stata attenta a far passare un’immagine riduttiva di sé: si sa dai processi che ha rifiutato di associarsi a cosa nostra nella strategia stragista. E ha approfittato delle difficoltà causate alla mafia siciliana dalla reazione dello Stato».
Da Palermo a Milano a Roma si ripete la rimozione. È sempre uguale?
«La prima reazione è negare le mafie, quando l’evidenza lo impedisce, si dice: “Esistono, ma non qui”. È l’alibi che l’area grigia si dà per dire non sapevo. Ma dopo il Maxiprocesso a Palermo e Crimine-Infinito tra Reggio e Milano è finita per tutti l’età dell’innocenza».
Roma è complessa come dicono?
«Premesso che chi fa il nostro lavoro vede la patologia, la cifra di Roma è la complessità. Abbiamo: esponenti della camorra e di gruppi di ’ndrangheta e di mafia siciliana, ma anche quelle che la Cassazione ha chiamato “piccole mafie”, originali e originarie, nel basso Lazio, a Ostia e pure in città. Il fenomeno particolare del “mondo di mezzo”, al momento confermato in appello, e un consumo altissimo di stupefacenti con conseguenze in termini di narcotraffico. Innegabili problemi di corruzione ed evasione, casi di bancarotta per centinaia di milioni di euro. Il tutto nel centro del potere politico e nel contesto di un’amministrazione di tre milioni di abitanti più i turisti, che proprio perché così grande è luogo straordinario di riciclaggio».
Quando sequestra imprese alle mafie, lo Stato è percepito come ostile da chi ci lavora. È un problema?
«È un punto su cui si dovrà lavorare. Da un lato bisogna capire che spesso non sono vere imprese ma lavanderie di soldi sporchi, che vivono proprio perché risparmiano sul rispetto delle regole, bloccando la concorrenza. Dall’altro, con il codice antimafia si sta facendo un grande sforzo per prevedere strumenti intermedi come l’amministrazione e il controllo giudiziari, per cercare di riportare queste imprese nella legalità senza che falliscano. Ma la legge sulla confisca, per cui è morto Pio La Torre, è uno strumento importante, ancora avvertito dagli stessi mafiosi come il più efficace ai loro danni».
A volte i ragazzi chiedono: “Se rispetto le regole da solo a che serve?”
«Rispondo citando padre Puglisi: se ognuno fa qualcosa, insieme possiamo fare molto. Nel 2010 è stata la presidente di Confindustria a dire che a determinare i rapporti tra mafia e imprenditoria non è solo la paura ma anche la convenienza. Lo Stato deve agevolare chi rispetta le regole».
Anche la paura però c’è, chi denuncia si consegna a una vita complicata.
«La vittima che denunzia o il mafioso che collabora si affida allo stato tramite noi: è una responsabilità enorme. Anche se mi pare onesto dire che, con tutti i limiti e le cose da perfezionare nell’attività di protezione e di assistenza, il meccanismo dal 1991 a oggi nell’insieme ha funzionato».
Nel libro si parla anche di religione e mafie, è cambiato qualcosa?
«Nei decenni scorsi c’è stata una difficoltà a vedere le mafie come fenomeno dirompente, la svolta, preceduta da documenti dei vescovi, è venuta, in parallelo con la presa di coscienza della società civile, nel 1993 con l’appello di Giovanni Paolo II ad Agrigento, avvertito con preoccupazione dai mafiosi,tanto che hanno reagito con l’omicidio di padre Puglisi e con l’attentato a San Giorgio al Velabro. Ancora nel 2005 parlavano di quel discorso, intercettati, in toni molto crudi. Poi è giunta la scomunica da papa Francesco sulla piana di Sibari».
Sottoscrive l’ultima frase del libro: “Lo Stato è stato più forte”?
«Credo che l’esperienza in Sicilia contro i corleonesi, che non sono più riusciti a ricostituire la “cupola”, dimostri che se lo Stato si impegna in tutte le sue componenti ottiene risultati, ma non nascondiamoci mai: lo Stato siamo noi, ognuno per il suo frammento».
A proposito, come ha vissuto il caso Cucchi per cui ha preso con la famiglia un impegno personale?
«Un’indagine delicata e sofferta perché è inaccettabile che una persona in consegna allo Stato muoia senza spiegazioni chiare e perché coinvolge un’altra istituzione. Mi riconosco nelle parole del comandante generale dell’Arma Giovanni Nistri: “Una brutta pagina. Non dubitate che sapremo voltarla tutti insieme, ma per riuscirci dobbiamo essere convinti che la verità va perseguita a ogni costo, ciascuno al suo livello, nel suo ruolo, nel suo incarico ne porta sulle spalle la responsabilità”».
L’8 maggio lascia la magistratura. Ne valeva la pena?
«Sono grato alla Provvidenza prima allo Stato dopo per la vita che ho vissuto. Ha avuto i suoi costi personali e familiari, ma, sì, ne è valsa la pena». Quale idea di magistrato si sente di consegnare a chi entra ora? «La mia natura rifugge le prediche che Einaudi definiva inutili: la miglior cosa è l’esempio, si impara da lì».
Alla fine, a registratore è spento, lo sguardo si perde per un attimo dietro a un pensiero che però rinuncia a condividere: «Mi scusi, meglio di no. È una cosa personale». FAMIGLIA CRISTIANA