Credo che quelle di Falcone e di Borsellino siano state due vite parallele, come due canarini che difficilmente sopravvivono a lungo alla morte dell’altro. Antonino Caponnetto Per lo Stato italiano la loro morte ha segnato, di fatto, l’inizio della cosiddetta Seconda repubblica. Per la mia generazione, quella generazione di siciliani che aveva appena vent’anni in quella terribile estate del 1992, la loro morte ha segnato l’inizio autentico dell’età adulta.
Non faremo due biografie dei giudici Falcone e Borsellino. Ne esistono già di ottime, a cui abbiamo attinto e che citeremo. E nemmeno cercheremo di produrre un’ulteriore apologia dei due magistrati. Anche in questo si sono esercitati in tanti, pure tra coloro che li avevano disprezzati da vivi. Proveremo a dare alcuni tratti delle loro esistenze con l’intento di rintracciarne il senso profondo, le intime ragioni di una lotta contro un nemico che, allora, appariva tanto più forte di due semplici servitori dello Stato. Con un occhio al presente, in cui le voci di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino continuano a parlare.
A quanti vogliono ascoltare. Un desiderio di rimozione: l’Onorevole, la Cittadina, il Giudice Partiamo da un aeroporto. È quello di Palermo. Per decenni si è chiamato Punta Raisi. Si trova a ovest del capoluogo, in direzione di Trapani, sul territorio del comune di Cinisi. Qualche tempo fa l’aeroporto ha animato il dibattito politico siciliano. Non per quello che è ma per il nome che porta. Oggi, infatti, è intitolato ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Porta proprio questo nome: Aeroporto internazionale Falcone -Borsellino. Qualcuno ha pensato che il nome non è sufficientemente attrattivo, che per i turisti è triste, traumatico, arrivare e vedersi sbattuta in faccia la memoria delle stragi, dei morti ammazzati. Della mafia. Non si tratta di un’opinione ascoltata al bar. Quel qualcuno si chiama onorevole Gianfranco Miccichè ed è residente del parlamento più antico d’Europa, l’Assemblea regionale siciliana: «Che immagine negativa trasmettiamo subito col nome dell’aeroporto». Ha detto esattamente così, mentre si interrogava sulle sorti del turismo nella regione.
Il presidente si è successivamente scusato per la frase infelice. Ma un uomo con le sue responsabilità dovrebbe prestare maggiore attenzione alle parole che usa. Miccichè è anche leader locale di Forza Italia. È l’artefice principale del famoso 61 a 0, il risultato con cui nel 2001 la (ex) Casa delle libertà sconfisse il centrosinistra nell’isola, alle elezioni per il rinnovo del Parlamento nazionale. Deve molte delle sue fortune politiche a Marcello Dell’Utri, come Miccichè ex manager proveniente dal grande mondo Fininvest, ex capo di Publitalia e vero ideatore della macchina organizzativa di Forza Italia nel 1994, già condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa.
Quel Dell’Utri che alla domanda se esistesse la mafia ha risposto candidamente: «Se esiste l’antimafia esisterà pure la mafia»; quel Dell’Utri che ha fatto fortuna a Milano con Silvio Berlusconi negli anni Settanta e ha dovuto subire le accuse di numerosi collaboratori di giustizia, da Salvatore Cancemi a Tullio Cannella, da Gioacchino La Barbera a Calogero Ganci. Quel Dell’Utri che, confortato dallo stesso Berlusconi, ha individuato nell’uomo d’onore Vittorio Mangano, appartenente alla cosca palermitana di Porta Nuova, «un eroe» poiché, seppure malato, aveva preferito morire in carcere piuttosto che cedere alle pressioni dei magistrati perché accusasse i suoi ex datori di lavoro. In effetti, Mangano aveva trascorso due anni, dal 1975 fino all’ottobre del 1976, nell’ormai celebre villa di Arcore. Dell’Utri lo aveva portato lontano dalla Sicilia proprio su incarico del futuro cavaliere, il quale era alla ricerca di «una persona esperta di conduzione agricola» (intervista a Marcello Dell’Utri, in «il Corriere della Sera», 21 marzo 1994). Mangano risiedette nella residenza di Arcore con la famiglia, esercitandovi le funzioni di fattore. C’era da capirlo, il picciotto di Porta Nuova, se aveva sempre rifiutato di collaborare con la giustizia. La gratitudine è un valore per la gente di rispetto. Ma stiamo divagando e sulle riflessioni dell’onorevole Dell’Utri torneremo nelle conclusioni di questo libro. In fondo, questa è tutta un’altra storia. O è sempre la stessa? Quel che è certo, in esponenti della classe politica al governo in Sicilia o con responsabilità nazionali, si ripetono con una certa frequenza le gaffes sulla mafia. La più celebre appartiene all’allora ministro delle Infrastrutture Lunardi, che disse: «Con la mafia bisogna convivere». La tendenza agli scivoloni non sarebbe poi tanto grave se non portasse come conseguenza il rischio di una vera e propria banalizzazione della mafia e non conducesse a uno spiacevole sillogismo: «Se con la mafia posso anche convivere, se i mafiosi non sono quei mostri che dite, alla fine non è così sbagliato farci affari insieme». Un ragionamento che troverebbe rispondenza in una certa voglia di mafia (E. Bellavia –S. Palazzolo, Carocci, Roma 1995) ancora troppo diffusa presso i politici siciliani e non. La risposta più appropriata e immediata al Presidente Miccichè è stata quella di Maria Falcone, sorella del magistrato, che gli ha fatto notare come l’aeroporto sia intitolato «a due eroi italiani che credevano al riscatto della nostra terra combattendo le cosche». Chissà a chi avrebbe preferito intitolarlo il presidente Miccichè. Battute a parte, i due giudici, seppure morti, continuano a provocare, a far discutere e a dividere. Anche da vivi c’era sempre qualcuno che voleva farli spostare un po’ più in là. Un desiderio di rimozione in parte inconscio. Non proprio eliminarli, quegli scoccianti magistrati ma relegarli in un angolo in modo che non dessero fastidio. Non ci ha provato solo la mafia, che pure ha cercato di usare ogni metodo per metterli a tacere prima di ricorrere all’assassinio. In questo la consorteria ha trovato spesso la collaborazione involontaria di cittadini comuni poco interessati alle vicende criminali. La signora Santoro ebbe il suo quarto d’ora di celebrità nell’aprile del 1985, con una lettera sul «Giornale di Sicilia». Sono una onesta cittadina che paga regolarmente le tasse e lavora otto ore al giorno. Vorrei essere aiutata a risolvere il mio problema che, credo, sia quello di tutti gli abitanti della medesima via. Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato e domenica che tenga), al mattino, durante l’ora di pranzo, nel primissimo pomeriggio e la sera (senza limiti d’orario) vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io mi domando: è mai possibile che non si possa, eventualmente, riposare un poco nell’intervallo del lavoro o, quantomeno, seguire un programma televisivo in pace, dato che, pure con le finestre chiuse, il rumore delle sirene è molto forte? Mi rivolgo al giornale per chiedere perché non si costruiscono per questi “egregi signori” delle villette alla periferia della città, in modo tale che, da una parte sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori, dall’altra, soprattutto, l’incolumità di noi tutti che, nel caso di un attentato, siamo regolarmente coinvolti senza ragione (vedi strage Chinnici) (in «Giornale di Sicilia», 14 aprile 1985). Scriveva che ne aveva abbastanza la signora. Abbastanza di quei magistrati sotto scorta che abitavano troppo vicino ai “cittadini-lavoratori”; abbastanza di non poter riposare in pace; abbastanza che nessuno si adoperasse per trovare una soluzione. Eppure era tanto semplice. Per garantire la tranquillità della gente per bene e dare la possibilità ai giudici di lavorare, era sufficiente inviare questi ultimi da qualche parte alla periferia della città. Così non avrebbero più reso le giornate impossibili a quei tranquilli cittadini che desideravano solo di poter vivere in santa pace. Di genere diverso ma non troppo, è l’avversione che i due giudici suscitavano in una parte non indifferente della magistratura. L’esempio più clamoroso è quello di Corrado Carnevale, per anni dominus della I sezione penale della corte di Cassazione, passato alle cronache come il giudice “ammazzasentenze”, il cui formalismo giuridico si abbatteva come una tagliola sulle principali sentenze che riguardavano l’organizzazione mafiosa. Non ricostruiremo qui la vicenda penale che ha visto protagonista il giudice né le numerose dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che lo volevano succube di Cosa nostra –vicende da cui l’illustre magistrato è stato assolto –ma è utile, per illuminare il mondo interiore di Carnevale, l’intercettazione di una conversazione avvenuta nel marzo del 1994, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio: «Non ho presieduto il maxiprocesso in Cassazione non per la pressione di quel cretino di Falcone… perché i morti li rispetto… certi morti no» (G. Monti, Falcone e Borsellino. La calunnia il tradimento la tragedia, Editori Riuniti, Roma 2007, p. 269). No, Falcone e Borsellino non erano amati proprio da tutti. Sarebbe stato strano il contrario. Ritornato a Palermo come giudice istruttore, dopo tredici anni di assenza, Giovanni Falcone rammentò, in seguito, il primo impatto con la città. Sono andato ad abitare in via Notarbartolo, una strada che scende verso via della Libertà, il cuore di Palermo. L’amministratore dello stabile per prima cosa mi ha spedito una lettera ufficiale, che in relazione alla mia presenza in quell’immobile e nel timore di attentati ammoniva: «L’amministrazione declina ogni responsabilità per i danni che potrebbero essere recati alle parti comuni dell’edificio». Un giorno, arrivato davanti a casa, con il mio solito seguito di sirene spiegate, purtroppo, di auto della polizia e di agenti con le armi in pugno, ho avuto il tempo di sentire un passante sussurrare: «Certo che per essere protetto in questo modo, deve avere commesso qualcosa di malvagio!» (Giovanni Falcone, Cose di Cosa nostra, cit., p. 89). Il desiderio di relegare i magistrati antimafia –o meglio, l’opposizione alla mafia in genere –ai margini della vita civile è una tentazione ricorrente, che proviene dallo stomaco della società siciliana. Una volta ci riuscirono davvero a mandarli via, insieme, sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino. Era la vigilia del maxiprocesso.
A Palermo lo Stato non era in grado di garantire né la loro sicurezza né quella delle loro famiglie. Li misero su un aereo militare e li inviarono all’Asinara, un super carcere, un’isola fortezza, dove sarebbero stati al sicuro e dove avrebbero potuto lavorare in pace per completare l’ordinanza di rinvio a giudizio del primo maxiprocesso. I magistrati vi rimasero a lavorare due mesi e alla fine furono costretti anche a pagare il conto per il soggiorno-vacanza nella foresteria del carcere. Rimuovere Falcone Borsellino è un desiderio che torna, anche se ormai possono trovare spazio solo nella memoria. Ma i due giudici sono ostinati, come tutti i siciliani. Non si lasciano cacciare via nemmeno da morti. Da UOMINI CONTRO LA MAFIA