“Fiammetta Borsellino è l’ultima figlia del magistrato ucciso dalla mafia – e forse non solo dalla mafia – ventisette anni fa, insieme ai cinque agenti di polizia che gli facevano da scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Era il 19 luglio 1992, la strage di via D’Amelio, nemmeno due mesi dopo quella di Capaci che aveva portato via Giovanni Falcone, sua moglie Francesca e tre uomini della scorta. Fiammetta aveva 19 anni quando suo padre saltò in aria. Oggi ne ha 46, ed è diventata un’infaticabile accusatrice del depistaggio che ha inquinato e continua a inquinare la verità su quella bomba: bugie di Stato servite a infliggere sette ergastoli contro altrettanti innocenti (oltre alle 26 condanne confermate) e coprire qualche colpevole mai individuato. Un mistero nel mistero che questa donna ha cominciato a denunciare da un palco televisivo nel venticinquesimo anniversario della strage, e da allora non s’è più fermata. Cominciando un cammino che l’ha portata nei tribunali e nelle aule delle commissioni d’inchiesta, ma anche nelle scuole, nelle parrocchie e ovunque la chiamino per ascoltare la sua domanda di giustizia, fino al carcere dove ha incontrato due carnefici di suo padre. Un percorso lungo e accidentato, ricostruito in questo racconto che è uno sfogo ma anche un segnale di speranza.
Io e mio padre
«In casa abbiamo sempre saputo che papà correva dei rischi, io sono cresciuta nella consapevolezza che poteva morire ogni giorno. Tutti gli anni Ottanta sono stati attraversati da lutti e delitti che ci hanno toccato da vicino, dal capitano Emanuele Basile al procuratore Gaetano Costa, dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Beppe Montana a Ninni Cassarà (tutte vittime della mafia, uccise insieme a molte altre tra il 1980 e il 1985, ndr). Quando uscivo di casa con lui mi lanciavo in strada per prima, in modo che se qualcuno avesse spa rato avrebbe colpito me al posto suo. Mi illudevo di poterlo salvare così, nella mia immaginazione era un eroe invincibile. A proteggerlo c’era la scorta, ma anche noi: io che nella mia ingenuità ero pronta a morire per lui, e tutta la famiglia che l’ha sempre accompagnato e sostenuto in ogni momento e scelta della sua e della nostra vita. Io ero la più piccola, e fino all’ultimo non ho mai abbandonato questo ruolo che piaceva sia a mio padre che a me. Avevamo un rapporto particolare perché a differenza di Lucia e Manfredi, sempre molto posati, studiosi e ubbidienti, io ero molto proiettata verso l’esterno, avevo un forte senso di indipendenza che poteva essere scambiato per ribellione: a 13 anni volevo viaggiare da sola, papà cercava di frenarmi e mi diceva: “Ma dove vai? Se poi m’ammazzano come fanno ad avvisarti?”. Era un modo per trattenermi, ma anche per esorcizzare il pericolo. E di prepararci a quello che poteva succedere: piccoli messaggi, lanciati di tanto in tanto, per non farci trovare impreparati».
La tragedia dietro l’angolo
«Io intuivo che la tragedia era sempre dietro l’angolo, l’assoluta precarietà della sua e della nostra esistenza, ma il suo modo di mescolare la minaccia con la normalità è stata una forma di protezione nei nostri confronti. Anche dopo il 23 maggio, il giorno della strage di Capaci, pur nel dramma più totale abbiamo proseguito la vita di sempre. Com’era accaduto in passato di fronte agli altri omicidi, o alla tragedia del liceo Meli che segnò mio padre più di ogni altra. La morte di quei due studenti (Biagio Siciliano e Giuditta Milella, di 14 e 17 anni, ndr) travolti da un’auto della sua scorta la visse come la perdita due figli. Non si dava pace. Che lui potesse morire, e con lui qualcuno di noi, era nel conto; ma che venissero colpiti gli uomini della sicurezza, o addirittura degli estranei coinvolti casualmente, non poteva accettarlo. «Con questi pesi nel cuore è andato avanti, trovando la forza in noi che abbiamo camminato sempre al suo fianco, come un monolite inarrestabile. E lui ci aiutava sdrammatizzando. Ogni tanto scherzava: “Dopo che mi avranno ammazzato diventerete ricchi con i risarcimenti che lo Stato dovrà versare”. Oggi so che era un modo per farci capire quanto le istituzioni sarebbero state responsabili della sua dipartita».”