Depistaggio via d’Amelio, Vito Galatolo racconta l’attentato a Nino Di Matteo Primo giorno di trasferta a Roma per il collegio del tribunale di Caltanissetta, presieduto da Francesco D’Arrigo, che sta celebrando il processo che vede imputati i tre poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Chiamati a deporre all’udienza di ieri sono stati i collaboratori di giustizia Vito Galatolo, Antonino Giuffrè e Ciro Vara.
Il primo di questi, ex boss dell’Acquasanta, rispondendo alle domande del Procuratore aggiunto nisseno Gabriele Paci ha raccontato diversi episodi vissuti, seppur da giovanissimo, negli anni delle stragi. Prima di entrare nel vivo della questione, però, ha ripercorso l’inizio della propria collaborazione con la giustizia spiegando di averlo fatto per “dare un futuro ai propri figli” ma anche “per fermare l’attentato contro il pm Antonino Di Matteo“.
“Stava andando troppo oltre”
“In me era maturato il senso di colpa – ha detto rivolgendosi alla Corte -. Vincenzo Graziano, che era stato arrestato con me nel blitz Apocalisse, era uscito dal carcere. Io sapevo che lui era in possesso dell’esplosivo e sapevo che lo avrebbe portato a termine. E dovevo dare un taglio con tutta la situazione”. Il pentito ha spiegato, ancora una volta, che l’ordine arrivò nel dicembre 2012, tramite Biondino, capomafia di San Lorenzo, direttamente da Matteo Messina Denaro. “Per me era lui il capo di Cosa nostra all’epoca perché era l’unico figlioccio di Totò Riina. Inviò due lettere. Nella prima mi voleva come capo mandamento di Resuttana. Nella seconda ci chiedeva il favore, se ce la sentivamo, perché stava andando troppo avanti e si doveva fermare. Per fare quell’attentato doveva esserci anche una persona estranea a Cosa nostra, che noi la conoscevamo di viso ma non dovevamo fare domande. A lui dovevamo dare una base logistica e quattro persone di fiducia. Del resto io ho visto l’esplosivo ma non ho mai né fatto né usato telecomandi. Doveva esserci una persona di esperienza”.
Nel corso della deposizione Vito Galatolo ha ricordato che da Vicolo Pipitone, all’Acquasanta, zona dove le famiglie Madonia e Galatolo “regnavano” incontrastate, “sono stati fatte tutte le riunioni per l’omicidio Dalla Chiesa, per quello di Chinnici, per la guerra di mafia”. Non solo. Rispondendo ad una domanda specifica del pm sui rapporti tra Cosa nostra e gli appartenenti ai servizi di sicurezza il teste ha risposto: “Quando eravamo ragazzini io ed i mei cugini facevamo le sentinelle – ha aggiunto – vedevamo tutti quelli che entravano e che uscivano, io e i miei cugini dovevamo badare a tutto, mentre dentro alla casuzza di vicolo Pipitone si facevano omicidi, anche quindici al giorno, si soppressavano le persone là. Anche se non sapevamo quello ch facevano poi leggevamo i giornali e capicamo”. Nel continuo via vai che c’era in quella zona non c’erano solo i capimafia ma anche altri soggetti: “Vedevamo diverse persone. E mio zio Giuseppe spesso ci diceva chi erano le persone. Ad esempio sapevamo che Gaetano Scotto (in questo processo parte civile, ndr), sottocapo della famiglia de l’Arenella era in contatto con appartenenti dei servizi. Gli incontri si facevano anche a vicolo Pipitone, anche prima dell’arresto di Madonia”.
Tra i soggetti che si recavano in quei luoghi Galatolo ha anche nominato altre figure di spicco come ad esempio l’ex questore Arnaldo La Barbera (“era uno che bazzicava… Mio zio spiegò che era un uomo di fiducia nostra e a libro paga del mandamento di Resuttana per dare delle notizie”), il maresciallo dei carabinieri Salzano (“a cui davamo dei soldi”), Giovanni Aiello, anche noto com “Faccia da Mostro”.
“Lo chiamavamo proprio così, il mostro. Sapevo che era dei servizi perché me lo disse mio zio. Me lo ricordo bene quando veniva dentro Vicolo Pipitone – ha detto Galatolo – C’era mio padre, c’era Nino Madonia libero. Siamo prima del Novanta. Ci sono situazioni che l’ho visto entrare anche con il dottor Contrada. Quando veniva ci faceva impressione per come era combinato. Mia mamma a me e mia sorella, quando facevamo qualcosa di male ci diceva ‘adesso lo dico a faccia d mostro’ e a noi ci spaventava”.
L’incontro con Filippo Graviano
Così come aveva già raccontato in altri processi il collaboratore di giustizia ha ricordato l’incontro avuto con Filippo Graviano. “Lui veniva in casa nostra, lo conoscevo. Poi nel 1992, mi manda a chiamare tramite Vittorio Tutino. Siamo tra la strage di Falcone e quella di Borsellino. Lui era ai domiciliari e non poteva uscire. Assieme ai miei cugini gestivamo un posteggio poco più avanti di via d’Amelio e praticamente Graviano mi disse di evitare di andare là. Lo diceva anche Tutino. Poi, prima di andarmene, mi disse di salutare mio padre e di dirgli che ‘qualsiasi cosa può succedere e che lui senta, siamo coperti e che doveva stare tranquillo. Noi capimmo che c’era qualcuno dietro le istituzioni che aveva dato il via libera per fare queste cose”. Quella stessa parola, “siamo coperti”, Galatolo l’ha risentita anni dopo “per la strage del dottor Di Matteo. Anche questo c’era scritto sulla lettera”.
Dopo il 19 luglio il giovane Galatolo incontrò il padre, Vincenzo, che era particolarmente arrabbiato “in quanto non gli era stata chiesta l’autorizzazione. E non vedeva di buon occhio quello che era accaduto perché poi è stato portato a l’Asinara e c’era il 41 bis. Diceva di essere contrario alle stragi, anche se in precedenza aveva partecipato alla strage Chinnici”.
Giuffrè e “la resa dei conti”
Successivamente è stata la volta dell’ex boss di Caccamo Antonino Giuffrè che ha parlato dei motivi che portarono Cosa nostra a decidere di uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
“La goccia che ha fatto traboccare il vaso è venuta dalla sentenza della Cassazione sul maxi processo – ha detto il pentito – Tutto era come una pentola a pressione che già era messa sul fuoco antecedentemente anche per una questione politica”.
Giuffrè ha spiegato che sul maxi processo “Riina si era giocato la faccia perché aveva detto a tutti che le cose si sarebbero messe bene e che ci saremmo fatti al massimo pochi anni per associazione mafiosa. Poi nella riunione di Natale, del dicembre 1991, si ha la ‘resa di conti’. Riina già sapeva che le cose in Cassazione sarebbero andate male e fu dichiarata la guerra a tutti i suoi nemici, in particolare Falcone e Borsellino, ma anche quei politici che non avevano mantenuto i loro impegni: Lima, Andò, Mannino, Vizzini e un elenco che non è mai finito”.
L’ex boss di Caccamo ha anche riferito delle “diversità di vedute” tra Riina e Provenzano, a cominciare dalle elezioni del 1987 quando il primo decise di votare socialista e radicale. “Provenzano in ‘camera caritatis’ a me, Pietro Aglieri e Carlo Greco diceva che non condivideva la scelta ma il capo era comunque Riina e noi eseguimmo. Da quel momento in poi i rapporti si deteriorarono sempre di più. Quando nel 1993 incontrai nuovamente Provenzano lo ritrovai totalmente cambiato come se lui non c’entrasse con tutto quello che era avvenuto prima. Quando verranno arrestati Bagarella e Brusca, Provenzano darà vita ad una nuova politica di sommersione di Cosa nostra”.
Rispondendo ad una domanda specifica del pm Paci Giuffrè ha anche raccontato che prima delle stragi di Capaci e via d’Amelio, “vi furono contatti anche con Cosa nostra americana”. Inoltre ha anche ribadito che “Cosa nostra aveva contatti esterni” e che “Riina non vietava l’appartenenza di un mafioso a una loggia massonica, coperta o non coperta, però sottolineava sempre che ‘le cose nostre sono nostre’, quindi di ‘pendere e conservare'”.
Al Borsellino quater aveva anche specificato che prima di passare all’attuazione della strategia stragista erano stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti” appartenenti al mondo economico e politico.
Scarantino il “pazzo”
Giuffrè ha anche detto che nel corso degli anni aveva sentito parlare di Scarantino: “Era considerato un povero pazzo, perché non sapeva quello che diceva. Questo mi era stato confermato da Pietro Aglieri e Carlo Greco che dicevano: ‘questo ci sta consumando a tutti’. Non mi ricordo bene i particolari ma mi sembra che loro stessi si stavano muovendo per cercare di far sparire il nome di Scarantino dai registri di un alberghetto che veniva usato per le scappatelle extra coniugali. Si voleva insinuare che era gay e che pertanto non poteva essere mafioso”. Il pentito ha anche riferito che “Bruno Contrada, quando Riina era latitante, avrebbe avvisato di un blitz negli anni ’85-’86” e che “in Cosa nostra girava la voce di contatti tra i Graviano ed i Servizi segreti”.
Proprio con Giuseppe Graviano, Giuffrè ebbe un incontro al carcere di Novara nel 2002: “Tra noi c’erano ancora rapporti normali, non ricordo se avevo già iniziato a collaborare o ero in attesa. Avevamo un processo comune e tra i vari discorsi ad un certo punto mi disse: ‘le cose non andranno sempre così male, si metteranno in meglio’.
Il riferimento era al trattamento penitenziario, ma anche sul punto di vista politico. C’era il discorso del 41 bis, il discorso dei collaboratori, c’era la possibilità di poter uscire. Cosa si aspettava Graviano? Il discorso non era una novità perché nel 1993-1994 c’era stato un nuovo cambiamento politico e nel 1994, finalmente, c’era una nuova ondata politica che si era prospettata, quella per appoggiare Forza Italia. I Graviano e le persone di Brancaccio avevano un ruolo importante con i politici”.
C’è stato spazio anche per un botta e risposta con l’avvocato Panepinto, legale dell’imputato Mario Bo. Rispondendo alla domanda se “avesse mai fatto colloqui investigativi o avuto colloqui prima che arrivasse il magistrato” Giuffrè ha risposto in maniera secca: “No, scherzetti non ce ne sono stati. Tutto è stato alla luce del sole. Io ho sempre parlato con i magistrati. Se ho mai ricevuto documenti o fogli con dichiarazioni rese? No”.
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Il pm ucciso nella strage di via d’Amelio insieme alla sua scorta, Paolo Borsellino © Shobha
“Borsellino ucciso perché non si era messo da parte”
Infine è stata la volta di Ciro Vara, ex uomo d’onore fedelissimo al boss Piddu Madonia“personaggio che mi ha portato in Cosa nostra, con il quale ho avuto una grande amicizia” poi arrestato nel settembre del ’92.
Rispondendo alle domande del pm Luciani ha riferito dei vari tentativi di aggiustamento del maxi processo: “Madonia mi disse di aver avvicinato il dottor Giordano che in un primo momento si era reso disponibile, ma che poi disse che con il dottor Grasso accanto, come giudici a latere, gli riusciva difficile e che quindi non riusciva a gestire come avrebbe voluto. C’era anche una dei giudici popolari che era di Cefalù e che a Peppino Farinella, del mandamento di San Mauro Castelverde, dava informazioni sul processo. Poi fu avvicinato il dottor Signorino e lui fece sapere che avrebbe fatto qualcosa per la sentenza con le richieste di condanna più lievi. Anche questo me lo disse Madonia”.
Vara ha riferito che nel settembre 1997, c’erano stati alcuni segnali politici nella direzione voluta da Cosa nostra: “Mi ero incontrato con l’avvocato Raffaele Bevilacqua di Barrafranca, a Pesaro. Mi presentò uno che non era un mafioso, ma un politico poi eletto all’Assemblea Regionale, Salvatore Termine. Questo era stato ad un convegno della corrente di Cesare Salvi che in quegli anni voleva diventare ministro della giustizia dopo la caduta del governo Prodi. D’Alema però scelse Diliberto ma ci furono comunque dei segnali come l’incontro tra D’Alema e Berlusconi a casa Letta, furono fatte leggi in favore di Cosa nostra, fu ritoccato l’articolo 192, fu ritoccato l’articolo 111 della Costituzione, volevano abrogare l’ergastolo, hanno ritoccato ed inasprito e rivedendo la legge sui collaboratori di giustizia. Cose che si sono verificate e che ci hanno fatto commentare positivamente la situazione perché si andava incontro alle nostre aspettative”.
Anche Vara ha dichiarato di aver sentito dei contatti tra massoneria in Cosa nostra: “Piddu Madonia mi disse che c’era la possibilità di entrare nella massoneria, due per provincia e me lo propose. Io rinunciai. Fu un peccato non entrare perché avrei potuto apprendere tante cose che oggi avrei potuto raccontare all’autorità giudiziaria. Lui mi parlava di Trapani, di Mariano Agate che era nella massoneria e che aveva fatto la proposta anche alle altre province. Una volta di massoneria ne parlai con Salvatore Gentile, di Campobello di Mazara, e mi diceva come se vi fosse qualche entità superiore a Cosa nostra lì a Trapani. E mi parlava di uomini d’onore che essendo massoni erano superiori”.
Così come aveva fatto al Processo trattativa Stato-mafia, l’ex boss di Vallelunga ha raccontato del colloquio avuto con Giovanni Napoli (fedelissimo di Bernardo Provenzano): “Noi stavamo parlando della strage di via d’Amelio, del fatto che fosse un qualcosa di inspiegabile in quel momento storico. C’era in Parlamento la discussione sul decreto Scotti-Martelli, il fatto del 41 bis. Ed entrambi avevamo giudizi pesanti. Ad un certo punto Napoli mi disse anche che dopo la strage di Capaci Peppino Comparetto (uomo d’onore di Prizzi, nel palermitano) aveva avvicinato il presidente del tribunale di Palermo Piraino Leto, suocero di Paolo Borsellino, e gli aveva detto che Borsellino si doveva mettere da parte, Piraino Leto lo aveva però mandato a quel paese”.
Secondo il collaboratore quel termine “mettersi da parte” era riferibile alla trattativa che era in corso tra Stato e mafia, anche se ha ammesso che quella parola non sarebbe mai uscita dalla bocca di alcun mafioso. “L’ho capito quando c’è stata l’indagine del processo e sono venuti fuori gli incontri di Borsellino – ha detto Vara rispondendo alle domande dei legali dei poliziotti – In un primo momento pensavo si riferisse al farsi da parte dalla corsa a Procuratore nazionale antimafia ma cosa poteva cambiare se ancora non c’erano le leggi? Invece sul rapporto mafia-appalti posso dire che veniva visto con preoccupazione ma non come motivo per le stragi. Il motivo scatenante è il maxi processo”. Rispondendo ad una domanda sulla strage di via d’Amelio ha infine aggiunto: “Ho detto quello che sapevo e prima che parlasse Spatuzza, che io nemmeno conosco Non ho mai detto nulla di Scarantino e della sua attendibilità, io non l’ho mai incontrato, non l’ho mai conosciuto. Però in carcere si parlava di quella strage, si diceva che dietro le sbarre c’erano persone innocenti…io non avevo elementi certi, ma queste erano le cose che si dicevano”.
Il processo prosegue oggi con la deposizione di altri tre collaboratori di giustizia: Gaspare Spatuzza, Mario Santo Di Matteo e Francesco Di Carlo. ANNTIMAFIA 2000 5.2.19