“Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. P.B
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PAOLO BORSELLINO E I GIOVANI
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- Mafia e legalità 10
- A Bassano del Grappa – versione integrale
- Al Liceo Garibaldi
- Mostra all’aula bunker di Palermo
- Palermo è nostra e non di cosa nostra…
- Spot antimafia scuola Falcone Borsellino
- Inno alla legalità IC Falcone Borsellino Bari
Quando BORSELLINO spiegava la mafia ai giovani
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PAOLO BORSELLINO RISPONDE AI RAGAZZI DEL LICEO GARIBALDI DI PALERMO
PAOLO BORSELLINO CON I RAGAZZI DI BASSANO DEL GRAPPA
Il suo ultimo scritto ad una liceale di Padova
«L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest’uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati? » Paolo Borsellino, Istituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa 26/01/1989
“La lotta alla mafia deve essere un movimento culturale e morale che coinvolga tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità, quindi complicità”. Paolo Borsellino
“I giovani e la mafia? È un problema di cultura, non in senso restrittivo e puramente nozionistico, ma come insieme di conoscenze che contribuiscono alla crescita della persona. Fra queste conoscenze vi sono quei sentimenti, quelle sensazioni che la cultura crea e che ci fanno diventare cittadini, apprendendo quelle nozioni che ci aiutano a identificarci nelle Istituzioni fondamentali della vita associativa e a riconoscerci in essa”. – Paolo Borsellino.
“Se i giovani oggi cominciano a crescere e a diventare adulti, non trovando naturale dare alla mafia questo consenso e ritenere che con essa si possa vivere, certo non vinceremo tra due,tre anni. Ma credo che, se questo atteggiamento dei giovani viene alimentato e incoraggiato, non sarà possibile per le organizzazioni mafiose, quando saranno questi giovani a regolare la società, trovare quel consenso che purtroppo la mia generazione diede e dà in misura notevolissima. E questo mi fa essere ottimista”. Paolo Borsellino
I GIOVANI LA MIA SPERANZA – di Paolo Borsellino
Sono nato a Palermo e qui ho svolto la mia attività di magistrato. Palermo è una città che a poco a poco, negli anni, ha finito per perdere pressoché totalmente la propria identità, nel senso che gli abitanti di questa città, o la maggior parte di essi, hanno finito per non riconoscersi più come appartenenti a una comunità che ha esigenze e valori uguali per tutti. E questo è dimostrato dal fatto che questa città, dove ci sono molte abitazioni, al loro interno ricche e ben curate, ha strade in pessime condizioni com’è facile vedere. E i monumenti, che ricordano il passato regale, sono nelle stesse condizioni di disfacimento. Questa è la situazione in cui Palermo si è venuta a trovare per tante ragioni: perché è stata una delle città più danneggiate dai bombardamenti, e già questo provocò una fuoriuscita degli abitanti dal centro storico, cioè dai luoghi in cui riconoscevano la propria identità. Ma a questa perdita d’identità hanno contribuito anche le attività delle organizzazioni mafiose. Avendo deciso, in un determinato periodo della loro storia, di sfruttare a pieno le aree edificabili attorno a Palermo, hanno fatto sì che anche l’asse geografico della città si spostasse. Molti abitanti del centro storico (e io sono stato uno degli ultimi a lasciarlo) sono finiti in quartieri periferici privi di servizi dove vivono in condizioni di profondo degrado ambientale. Tuttavia a Palermo, dall’inizio degli anni Ottanta e a causa dei gravissimi delitti della guerra di mafia che turbarono ferocemente l’ordine pubblico, e a causa anche del clamore delle inchieste giudiziarie iniziate subito dopo dal pool antimafia, cominciò a crescere una notevole rinascita della coscienza civile. Nel senso che a un certo punto vi è stata una parte della città che si è reinterrogata su se stessa e in qualche modo, talvolta anche un po’ arruffone, ha cercato di reagire. E la maggior parte di coloro che cominciano a domandarsi chi sono, e come debbono portare avanti questa città, sono giovanissimi. E’ una constatazione che io faccio all’interno della mia famiglia, perché sono stato più volte portato a considerare quali sono gli interessi e i ragionamenti dei miei tre figli, oggi tutti sui vent’anni, rispetto a quello che era il mio modo di pensare e di guardarmi intorno quando avevo quindici – sedici anni.
A quell’età io vivevo nell’assoluta indifferenza del fenomeno mafioso, che allora era grave quanto oggi. Addirittura mi capitava di pensare a questa curiosa nebulosa della mafia, di cui si parlava o non si parlava, comunque non se ne parlava nelle dichiarazioni degli uomini pubblici, come qualcosa che contraddistinguesse noi palermitani o siciliani in genere, quasi in modo positivo, rispetto al resto dell’Italia.
Invece i ragazzi di oggi (per questo citavo i miei figli) sono perfettamente coscienti del gravissimo problema col quale noi conviviamo. E questa è la ragione per la quale, allorché mi si domanda qual è il mio atteggiamento, se cioè ci sono motivi di speranza nei confronti del futuro, io mi dichiaro sempre ottimista. E mi dichiaro ottimista nonostante gli esiti giudiziari tutto sommato non soddisfacenti del grosso lavoro che si è fatto. E mi dichiaro ottimista anche se so che oggi la mafia è estremamente potente, perché sono convinto che uno dei maggiori punti di forza dell’organizzazione mafiosa è il consenso. È il consenso che circonda queste organizzazioni che le contraddistingue da qualsiasi altra organizzazione criminale.
Se i giovani oggi cominciano a crescere e a diventare adulti, non trovando naturale dare alla mafia questo consenso e ritenere che con essa si possa vivere, certo non vinceremo tra due-tre anni. Ma credo che, se questo atteggiamento dei giovani viene alimentato e incoraggiato, non sarà possibile per le organizzazioni mafiose, quando saranno questi giovani a regolare la società, trovare quel consenso che purtroppo la mia generazione diede e dà in misura notevolissima. E’ questo mi fa essere ottimista.
Mi sono fatto questa convinzione non solo attraverso le indagini sui miei figli, ma anche a seguito di un episodio accaduto qualche tempo fa: una delle macchine che mi scortava, uccise involontariamente due ragazzi davanti ad un liceo palermitano, il Meli (lo stesso che avevo frequentato in gioventù). Questi giovani, che sul momento si erano messi a picchiare coi pugni la mia macchina, quando si resero conto della situazione dimostrarono di capire che quello, purtroppo, era il prezzo da pagare per combattere le organizzazioni mafiose: in quel momento il prezzo era la difesa del magistrato che se ne occupava e la situazione della scorta che, forse inopportunamente correva troppo. Questi giovani mi furono vicinissimi, sollevandomi in parte dalla crisi morale che l’incidente mi provocò. Loro, quei giovani avevano capito appieno qual era la battaglia che si stava conducendo, quali prezzi altissimi si dovevano pagare e quali prezzi bisognava accettare.
…questo tipo di criminalità non può vivere se non ha un certo rapporto con il potere, che è essenziale alla criminalità mafiosa; ecco una delle ragioni per cui, essendoci questo rapporto, è difficile che il potere si muova globalmente nei confronti dell’organizzazione…
…ora rinasce la tentazione della connivenza con la mafia, tentazione durissima da sradicare. Ma i giovani e la popolazione studentesca sono la parte più vicina alla magistratura ed alla lotta contro la mafia: e questo è un punto di non ritorno… Tratto da Epoca del 14 ottobre ’92, a cura di Antonietta Garzia
IL CONSENSO DELLA SOCIETA’ CIVILE PER LO STATO, ARMA CONTRO LA MAFIA – Di Paolo Borsellino I4 maggio del 1989 presso il liceo Visconti di Roma, conferenza di Paolo BORSELLINO incentrata sul tema dell’importanza dei giovani nella lotta alla “mentalità mafiosa”. L’assemblea, partecipe e attenta, ha più volte applaudito l’intervento del magistrato e in particolare quando il giudice ha espresso un suo pensiero sul significato della paura. La domanda che oggi ci poniamo, o meglio vi ponete, è che cosa interessa a voi della mafia. Perché è interessante che voi sappiate e parliate di mafia? E a questa domanda bisogna dare subito una risposta cruda: perché se la mafia fosse soltanto criminalità organizzata, una forma pericolosa quanto si vuole di criminalità organizzata, il problema della mafia interesserebbe soprattutto gli organi repressivi dello stato, polizia e magistratura, e ai giovani della scuola fregherebbe ben poco, se non come interesse generale a che la criminalità organizzata venisse comunque repressa. E questo era sostanzialmente il discorso che si faceva, o era sotteso, in Sicilia sino a qualche tempo fa perché in effetti nessuno pensava di andare a parlare ai giovani di mafia, nessuno pensava di entrare nelle scuole a parlare di mafia, nessuno pensava di parlare di mafia addirittura all’interno delle famiglie. E allora avveniva qualcosa di strano. Avveniva che, proprio perché la mafia non è e non è soltanto una forma di criminalità organizzata, i giovani siciliani crescevano in una curiosa situazione, quella di non sentirsi parlare mai di mafia da nessuno. […] Sino a qualche tempo fa […] in Sicilia […] il discorso sotteso era che la mafia se esisteva, e sempre ammesso che esistesse, era qualcosa che riguardava soltanto l’attività repressiva dello Stato, cioè magistratura, polizia e carabinieri […] Addirittura si riteneva che la giustizia fosse sostanzialmente amministrata in modo più veloce e più efficace […] da quella organizzazione alla quale ci si poteva anche rivolgere […] per recuperare un credito invece di iniziare lunghe e defatiganti cause giudiziarie. Ci si rivolgeva a qualcuno che con la violenza riusciva a farci ottenere ragione ed ecco che si creava questo consenso diffuso nei confronti di questa organizzazione storicamente sorta in Sicilia la quale fingeva, o faceva credere, di poter assicurare queste faccende. Non vi sembri un discorso tanto lontano perché anche recentemente a Palermo, penso che non sia passato neanche più di un anno, in occasione di alcune manifestazioni economiche fatte da scioperanti, ora non ricordo bene il caso, a Palermo si sfilava con i cartelli con scritto: Viva la mafia, Viva Ciancimino. E non era un fatto soltanto provocatorio perché a Palermo è stata diffusa sino a ieri – non sino all’altro ieri, se non forse in alcuni ambienti sino ad oggi – l’impressione che le organizzazioni mafiose, una volta che fossero riuscite ad attirare i narcodollari in Sicilia, potessero creare addirittura una possibilità di sbocco, di crescita economica perché creavano e portavano una ricchezza che lo Stato non riusciva ad assicurare. In realtà si trattava e si tratta, sia nel campo della giustizia, sia nel campo della sicurezza, sia nel campo dell’economia, di mistificazioni di enorme portata perché soltanto apparentemente le organizzazioni mafiose sono riuscite, storicamente, a distribuire questo tipo di sicurezza, questo tipo di giustizia, questo tipo di economia. Sono riuscite a distribuirle ad alcuni, a pochi, togliendole ad altri. Sono cioè riuscite ad amministrare un tipo di fiducia a somma algebrica zero perché non è possibile a parti di organizzazioni diverse dalle istituzioni pubbliche assicurare fiducia a tutti bensì soltanto ad alcuni togliendola agli altri. Si poteva fare giustizia a qualcuno creando ingiustizia alla quasi totalità, si poteva portare all’arricchimento di alcuni, marginalizzando invece quelli che volevano lavorare onestamente. Però la ragione fondamentale della crescita e dell’allignare della mafia nelle nostre regioni è stato questo senso di sfiducia nello stato, nelle istituzioni pubbliche, che portava a indirizzare la fiducia verso queste organizzazioni che, diciamocelo francamente e non vergogniamocene come siciliani, se siamo siciliani che vogliamo reagire a questo stato di cose, ha vissuto a lungo in un consenso generalizzato. Non che molti siciliani fossero mafiosi, non che molti acconsentissero alla mafia ma, purtroppo, molti erano, e probabilmente ancora in gran numero sono, soggetti alla grossa tentazione della convivenza. Cioè di vivere con la mafia perché questo, tutto sommato, può pure procurare vantaggi. E allora perché è necessario, era necessario, sarebbe stato necessario parlare da tanti anni ai giovani siciliani nelle scuole? Per insegnare a questi giovani a essere soprattutto cittadini, per insegnare a questi giovani soprattutto che il consenso deve andare verso le leggi, il consenso deve andare verso lo stato, il consenso deve andare verso le istituzioni pubbliche e non verso le istituzioni che hanno bisogno di questo consenso soltanto per fare i propri e particolaristi interessi e non gli interessi di carattere generale. E perché è necessario parlare anche ai giovani di altre regioni d’Italia di queste cose? E’ necessario perché in un determinato momento storico la mafia, che non era e non è soltanto – ancora è un grosso errore ritenerlo – traffico di droga, si impossessò di questo traffico che non nacque con la mafia, nacque con i contrabbandieri di tabacchi. La mafia però fiutò il business, si impossessò del monopolio del traffico degli stupefacenti, cooptò all’interno della mafia coloro i quali già questo traffico facevano in modo estremamente lucroso e, pur non cambiando affatto la sua struttura, cioè quella di istituzione alternativa esterna e interna allo stato […], ebbe in mano questo enorme potere derivato dalla possibilità di avere tali traffici. Ripeto: la mafia non coincide affatto con il traffico delle sostanze stupefacenti, se coincidesse soltanto col traffico delle sostanze stupefacenti sarebbe solo una grossa organizzazione criminale della quale dovremmo interessarci soltanto sul piano repressivo, di polizia e sul piano giudiziario. La mafia non è questo: la mafia è qualcosa di molto più pericoloso e di più complesso che ha il traffico delle sostanze stupefacenti in mano. Questo le ha dato una forza incredibile, le ha dato un’enorme capacità di espansione [dalla quale derivano], oggi, questi fenomeni di sfiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche che indirizzano il consenso di tanta parte di cittadini verso qualcos’altro: in Sicilia […] verso il consenso della mafia, […] nelle altre regioni […] verso forme di corruzione, verso forme di affarismo non necessariamente mafiose. Oggi c’è il grosso, enorme pericolo che con questo enorme potere che ha nelle mani per la disponibilità degli enormi introiti del traffico delle sostanze stupefacenti, la mafia invada, come sta invadendo, a macchia d’olio tutta l’Italia e che riesca un domani a polarizzare anche nel resto d’Italia quella forma di consenso che la ha resa pressoché, non voglio dire indistruttibile, ma la ha resa così potente in Sicilia. [Tanto potente] che talvolta sembrano o appaiono inutili tutte le forme di repressione, anche quelle più dure, e probabilmente inutili sono se nei confronti della mafia ci si continua a limitare ad attività meramente repressive e giudiziarie e si continua a delegare a magistrati e polizia la lotta contro la mafia senza riflettere che bisogna togliere attorno alla mafia l’acqua in cui questo immondo pesce nuota. E l’acqua la si toglie da un lato insegnando ai giovani a diventare cittadini, a sapersi riconoscere nelle istituzioni pubbliche. Ecco perché il discorso che si fa a proposito della mafia è un discorso che va fatto ai giovani di tutta Italia e non soltanto ai cittadini. […] E i giovani lo vanno imparando, e lo vanno imparando velocemente, a diventare cittadini, anche quelli delle province più interne della Sicilia. Io opero in una provincia ad alto tasso mafioso, vado spesso a parlare in paesi dell’interno o del Belice […][e mi viene detto]: “ma come mai vai lì? Quella è una zona dove è meglio non andare a parlare di queste cose”. Invece io mi sono accorto che mentre sono restii ad ascoltare certi discorsi quelli della mia generazione, o delle generazioni precedenti, i giovani ascoltano, fanno tesoro. La coscienza giovanile dei cittadini contro la mafia, che poi è la coscienza di star diventando cittadini, va crescendo e va crescendo velocemente.
Soltanto che questo è solo metà del cammino perché quand’anche tutti i giovani imparassero veramente a diventare cittadini e a rifiutare queste forme di organizzazioni che si pongono in alternativa, sotto questo profilo, allo stato sarebbe stato fatto metà del cammino. Perché l’altra metà del cammino debbono farla le istituzioni. Altrimenti questo incontro a metà strada fra i giovani che crescono e le istituzioni che rispondono a questa crescita culturale dei giovani non può avvenire. E sino a quando, purtroppo, le istituzioni saranno intese dalle organizzazioni partitiche come posti di occupazione, sino a quando i pubblici amministratori non impareranno che i loro incarichi sono loro attribuiti per l’interesse pubblico e non per gli interessi particolaristici, singoli, di fazione, di lotte, [sino a quando] occuperanno quelle poltrone, occuperanno quei posti soltanto per rispondere agli interessi dei loro partiti o delle loro lobby, questo incontro non potrà avvenire. Ecco perché se da un lato si deve parlare ai giovani di mafia, soprattutto per insegnar loro a diventare cittadini, dall’altro meritorie sono quelle iniziative, e anche a Palermo ve ne sono, dove bisogna insegnare ai politici a fare politica. Che significa soprattutto agire nell’interesse di tutti e non l’interesse né dei singoli né delle fazioni.
Le ultime parole di Paolo Borsellino – Una lezione su mafia e legalità – La cultura della legalità – Grazie di essere intervenuti così numerosi. Io lavoro nella più lontana provincia d’Italia, nella provincia di Trapani e, nonostante i miei impegni di lavoro non me lo dovrebbero consentire spesso, io amo incontrarmi con gli studenti di quella provincia e soprattutto con quelli di una zona di quella provincia che si chiama Belice, una zona interessata anni fa da un violento terremoto, sottoposta a profondi sconvolgimenti. È stata quasi tirata fuori dal terremoto e da una condizione di degrado economico e di sottocultura. Non amo, però, quando mi incontro con gli studenti, parlare di mafia o parlarne come spesso coloro che mi ascoltano si aspettano, cioè per i fatti inerenti alla criminalità mafiosa dei quali per ragioni professionali mi son dovuto occupare. Perché mi sembra estremamente più importante, quando si parla con degli studenti, scandagliare quali sono le ragioni di fondo –culturali, economico-sociali –per cui non solo esiste questo fenomeno (e il fenomeno si è radicato in Sicilia per ragioni storiche, peraltro non del tutto ancora ben chiarite) ma quali sono le ragioni culturali e socioeconomiche per le quali questo fenomeno è o sembra così invincibile, nonostante l’impegno di tanti magistrati e tante forze dell’ordine, nonostante l’attenzione che va crescendo nell’opinione pubblica. Vorrei cominciare dicendo che, in un tempio della cultura qual è la scuola, non si può soprattutto non parlare di quella che io chiamo la cultura della legalità, una cosa che probabilmente a scuola si insegna molto poco, sulla quale ci si sofferma molto poco, ma che mi sembra estremamente importante. Che cosa intendo per cultura della legalità? Intendo il sapere e recepire appieno che cosa sono le leggi e perché le leggi debbono essere osservate. Le leggi, brevemente e senza volere entrare in definizioni scientifiche, sono dei comandi e dei divieti che dà lo Stato, comandi e divieti che normalmente prescrivono certe attività o vietano certe attività, che normalmente sono accompagnate dalla cosiddetta sanzione. Cioè, se si compie un’azione che lo Stato proibisce o se non si compie un’azione che lo Stato impone, lo Stato impone una sanzione e, a seconda del tipo di sanzione che lo Stato impone, le leggi si distinguono in leggi penali o leggi civili. Facciamo questa grossa distinzione. Ci sono poi le leggi amministrative. Cioè, tanto per fare un esempio, se io costruisco una casa aprendo una finestra sul fondo del vicino, poiché questa azione è proibita dalla legge –ovvero bisogna osservare certe distanze, non si può andare a guardare dappresso nel fondo del vicino –lo Stato impone una sanzione, una sanzione civile, cioè il vicino può costringermi a farmi chiudere questa finestra. Se io, nonostante lo Stato mi impedisca di uccidere, per fare l’esempio del delitto più grave, uccido il mio prossimo, lo Stato mi punisce con una determinata pena da ventuno a ventiquattro anni di galera, o ancora di più se ci sono delle aggravanti. E allora verrebbe fatto di pensare che le leggi vengono osservate soprattutto perché, se non si osservano, ci sono queste sanzioni, sia penali, se si tratta di leggi penali, sia civili, se si tratta di leggi civili. Ma non è vero: le leggi non vengono osservate dalla maggior parte della popolazione perché, nel caso in cui non venissero osservate, si rischia di sottostare alla sanzione stabilita. Le leggi, la maggior parte della popolazione le osserva o dovrebbe osservarle perché acconsente a esse, cioè ritiene che si tratti di comandi o divieti giusti. Il senso della giustizia La maggior parte di noi non apre finestre sul fondo del vicino, non fa sorpassi in curva per strada, […] se così non fosse, se le leggi non fossero osservate soprattutto perché i vari cittadini consentono a esse, cioè ritengono giusto e doveroso quel divieto, be’, non basterebbero tanti carabinieri quanti sono i cittadini della Repubblica italiana, ce ne vorrebbe almeno uno per ogni persona, per sorvegliarla e saltarle addosso non appena commette il divieto. Voi sapete che la maggior parte della popolazione osserva le leggi perché sente di doverle osservare, non perché teme il divieto. Ma è chiaro che, tanto più queste leggi vengono osservate, quanto più si ritiene che le leggi siano giuste, quanto più il cittadino tende a identificarsi con le istituzioni e quanto più il cittadino si sente partecipe, parte integrante dello Stato, del Comune, della Provincia, della Regione, cioè di quell’organo che emana queste leggi. Perché, quanto più invece comincia per una qualsiasi ragione a ritenersi estraneo a queste istituzioni, tanto più o tanto meno osserverà i comandi che da queste istituzioni promanano, e allora ci vorranno sanzioni più forti. […] Questo è quello che per ragioni storiche è avvenuto nella gran parte del Meridione d’Italia e soprattutto in Sicilia, perché proprio lì, per una vicenda storica o socioeconomica che si chiama grosso modo «questione meridionale», il cittadino del Meridione si è sentito lontano, si è sentito estraneo allo Stato. Conseguentemente l’impulso istintivo di osservare le leggi non è stato mai sentito pesantemente, ecco perché in queste regioni, soprattutto nelle più grosse regioni meridionali quali la Campania, la Calabria e la Sicilia, si sono create queste situazioni generalizzate di disaffezione alla legge, di non osservanza della legge che, con varie articolazioni, sia in Sicilia sia in Calabria sia in Campania, hanno provocato il sorgere nella storia del fenomeno di queste grosse organizzazioni criminali. Perché? Perché ci sono dei bisogni del cittadino che sono il bisogno di giustizia, il bisogno di sicurezza –il bisogno di sicurezza sia dal punto di vista civile sia dal punto di vista economico –, che il cittadino chiede naturalmente che gli vengano assicurati da un’istituzione soprapersonale quale è lo Stato, inteso in tutte le sue articolazioni: Stato, Comune, Provincia eccetera. Quando ritiene che non gli vengano assicurati, quando non si identifica, quando non ha la fiducia nelle pubbliche istituzioni, cerca naturalmente di trovare dei surrogati a queste esigenze. Vi faccio qualche esempio, probabilmente più facile da capire. Se il cittadino vuole reagire a un danno subito, per esempio uno scippo o una rapina, e ha la sensazione che le istituzioni non gli assicurino una risposta a questo danno che ha subito, se c’è un’organizzazione la quale, sostanzialmente e apparentemente, tende a presentarsi come un’organizzazione in grado di fargli recuperare la refurtiva o impedire che per le strade avvengano le rapine, si rivolge a queste organizzazioni. Questa è una delle ragioni per le quali queste organizzazioni criminali riescono a trovare addirittura un grosso consenso nella popolazione, cioè quel consenso che invece dovrebbe essere rettamente indirizzato verso le istituzioni pubbliche e lo Stato. Cosa deve garantire lo Stato Se passiamo più specificamente al campo che più vi interessa –questo mi sembra che sia un istituto che si occupa del commercio –è chiaro che nella vita ordinaria, civile, economica di ogni cittadino, regolata dal libero mercato, è chiaro che i vari contraenti –siano essi imprenditori, siano essi industriali, siano essi soggetti economici in genere –hanno bisogno naturalmente per le loro contrattazioni di una fiducia, di quella che io vorrei chiamare fiducia, cioè la fiducia di poter svolgere liberamente la contrattazione con il proprio contraente, il quale rispetterà i patti, pagherà quel determinato prezzo che io gli ho imposto, che abbiamo concordato per la vendita. Se io ho un’industria, ho bisogno che mi si assicuri intorno la fiducia, cioè che io possa trattare con i miei operai a determinate condizioni, senza che queste condizioni vengano rotte o non vengano rispettate una volta che i patti vengono firmati. Questa fiducia chi la deve assicurare? La fiducia chiaramente la deve assicurare lo Stato, sia garantendo le generali condizioni perché le contrattazioni private si possano svolgere in un clima di reciproca fiducia, sia intervenendo allorché da queste contrattazioni nascano delle controversie, intervenendo cioè con l’amministrazione giudiziaria per risolvere queste controversie. Se il mio vicino, il mio contraente, non mi paga, io devo essere in condizione di rivolgermi a un giudice che lo condanni a pagare e che mi assicuri la possibilità di riprendermi quello che gli ho dato, di eseguire le esecuzioni immobiliari, pignoramenti e così via. Quando tutte queste cose non funzionano, cioè quando questo clima di reciproca fiducia non viene assicurato dallo Stato, non funzionano perché la società civile non è ben vigilata dalla presenza pesante dello Stato; quando nel caso di controversie nascenti tra le parti lo Stato, con un’amministrazione della giustizia che è allo sfascio e che è inefficiente, non assicura la possibilità di risolvere pacificamente queste libere contrattazioni, allora, se esiste, se storicamente si è formata un’organizzazione criminale in grado di assicurare qualcosa del genere, un surrogato di questa fiducia che lo Stato deve poter assicurare fra tutti i cittadini, ecco che queste organizzazioni traggono forza, perché un surrogato di questa fiducia l’organizzazione criminale di tipo mafioso riesce ad assicurarlo. Riesce ad assicurarlo, nel momento in cui il mio vicino non mi paga, perché opera questa minaccia per cui, se io mi rivolgo a loro, se i cittadini si rivolgono a loro, nelle popolazioni meridionali si ha la possibilità di recuperare un debito che la giustizia non mi può far recuperare presto, dato che una causa civile dura dieci, venti anni. Viceversa, io posso rivolgermi a taluno al quale pagherò una tangente, un pizzo; in realtà mi dà un servizio, mi protegge, nel senso che mi assicura che la mia fabbrica non sarà oggetto di attentati o non mi faranno ruberie o qualcosa del genere. Cioè la mafia nasce, si presenta, come qualcosa che assicura questi servizi. Naturalmente questi servizi non li può presentare a tutti perché per dare a uno deve togliere all’altro. Mentre la fiducia che lo Stato dovrebbe garantire riguarda imparzialmente tutti i cittadini, la fiducia che distribuiscono le organizzazioni criminali è una fiducia a somma algebrica zero perché, per fare il vantaggio di uno, le organizzazioni criminali devono fare necessariamente lo svantaggio dell’altro. L’essenza della mafia La vera essenza della mafia è questa. È quando, per scendere ancora più nel particolare, il cittadino ritiene talmente inaffidabile la pubblica amministrazione che non la ritiene sostanzialmente affidabile nel momento in cui distribuisce le commesse, gli appalti pubblici eccetera, cioè in quella distribuzione di ricchezza che purtroppo nel Meridione è molto più ampia della produzione di ricchezza: nel Meridione soprattutto si distribuiscono risorse piuttosto che creare risorse. Però quando lo Stato non si presenta con la faccia pulita, tale da assicurare l’imparziale distribuzione di queste risorse, allora ecco che lo Stato spesso diventa il veicolo in cui si inserisce l’organizzazione criminale rivolgendosi alla quale si ha quantomeno la speranza di riuscire ad accaparrare quella commessa, quell’appalto pubblico, quella possibilità di lucrare sulla distribuzione di risorse pubbliche. Ed ecco perché queste organizzazioni criminali hanno sempre cercato di inserirsi nel mondo del potere politico, nel potere burocratico: per avere le leve per inserirsi in questi ambiti di distribuzione della ricchezza. Quindi è errato pensare che la mafia sia soltanto un supporto, una conseguenza del mancato benessere economico, tant’è che da taluni si sono sostenuti tipi di intervento quali: più soldi diamo più possibilità di lavoro diamo, più risorse dispensiamo allora in questo modo… Eh no, in realtà lo Stato ha sì il dovere di intervenire dove vi sono sacche di disoccupazione, sacche di miseria, sacche di emarginazione, ma quando interverrà in modo tale da non riuscire a captare la fiducia dei cittadini sulla imparziale ed equa distribuzione di queste risorse, le organizzazioni criminali da questo profluvio di risorse in più si inseriranno per poter meglio lucrare. Pensate soltanto –l’avete probabilmente letto sui giornali –a quello che è avvenuto in Irpinia […] in riferimento alla ricostruzione del dopo terremoto. È stata una torta meravigliosa messa a disposizione di una di queste organizzazioni, che si chiama camorra, la quale non soltanto si è accaparrata gran parte delle risorse, in più si sono scannati uno con l’altro per vedere come meglio si doveva distribuire tra loro delinquenti. La vera essenza, la vera causa di resistenza delle organizzazioni mafiose è questa. La mafia al Nord Poi è avvenuto qualcosa di ancora più grave perché negli anni Settanta e Ottanta la mafia si è impossessata del monopolio del traffico delle sostanze stupefacenti. Badate bene, il traffico delle sostanze stupefacenti non l’ha inventato la mafia, è nato fuori dalla mafia ed è stato gestito a lungo da organizzazioni non mafiose. In principio, in Europa, furono i cosiddetti marsigliesi che se ne occuparono. La mafia non si occupava di queste cose, era dedita a tutt’altro, alle cose di cui ho parlato prima. Senonché, a un certo punto, la mafia scoprì che interessandosi di questo traffico i suoi profitti potevano essere enormemente moltiplicati. Per questo si impossessò, tra l’indifferenza generale, tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, del monopolio del traffico di sostanze stupefacenti e, mentre prima era solo un’organizzazione parassitaria che si inseriva, nel modo che ho cercato di descrivervi, nella distribuzione delle risorse, cominciò addirittura a produrre queste risorse […] in maniera incredibile. Allora è diventato davvero un grossissimo problema nazionale perché altro è un’organizzazione che agisce illecitamente in un campo che però economicamente resta limitato solo ad alcune regioni, altro è che questa organizzazione diventi potentissima perché ha la disponibilità di risorse così enormi che talvolta raggiungono quasi le disponibilità o le cifre di bilancio di piccoli o grossi Stati. E, diventando così enorme e dovendo gestire questi enormi capitali, che cosa ha fatto? I capitali come si gestiscono? Si vanno a cercare dei mercati dove poterli poi impiegare, nelle attività che noi chiamiamo «paralecite»: cioè, le attività nascono dall’illecito e poi bisogna impiegare i capitali da qualche parte, e la mafia va a cercare naturalmente i mercati più ricchi, che non sono i mercati del Sud, sono i mercati del Nord, sono Milano, sono Torino, sono le zone dove i capitali impiegati fruttano di più. In Sicilia c’è un proverbio che dice: «Il nemico è chi fa il tuo mestiere». Perché in realtà la normale concorrenzialità di mercato là viene intesa, anche culturalmente, in un senso del genere, e cioè: io, nel momento in cui sono in concorrenza con taluno, mi riesce molto più facile e molto più semplice eliminarlo, eliminarlo non soltanto fisicamente ma, per esempio, pagando il mafioso il quale protegge me e non protegge lui e fa saltare la fabbrica a lui. Questa enorme potenza economica che la mafia ha acquisito, che non aveva prima e che ha acquisito con il traffico delle sostanze stupefacenti che la porta naturalmente a riversare la sua attenzione là dove esistono i più grossi mercati, ha portato questa spinta notevole di espansione delle organizzazioni criminali verso i centri più ricchi del mercato e cioè nel Nord Italia. Espansione che si era già verificata per altre ragioni, ma non così importante come questa. […] Spesso si è parlato contro il soggiorno obbligato, si è detto che mandando i mafiosi a svernare in soggiorno obbligato al Nord si è esportata la mafia. Badate, il soggiorno obbligato avrà fatto pure dei danni ma, anche se il soggiorno obbligato non ci fosse mai stato, la mafia sarebbe comunque arrivata sotto questa forma, per impiegare questi grossissimi capitali. Sarebbe arrivata comunque al Nord perché è chiaro che quando si hanno questi grossi capitali non c’è la possibilità di farli fruttare in un’area economica depressa quale può essere la Sicilia, la Calabria o la Campania, ma si va dove i capitali fruttano di più, cioè al Nord Italia, e dove appunto, assieme a questi capitali, arriva questo modus faciendi di violenza, arriva questa specie di sistema distorto di trattare i propri affari economici che hanno i mafiosi. Lo Stato non è credibile Se queste sono le ragioni di fondo del pericolo e della persistenza dell’attività mafiosa, non illudiamoci che le azioni giudiziarie, per quanto penetranti, possano fare piazza pulita della mafia. Si potrà accertare l’esistenza di quello o di quell’altro mafioso, raggiungere le prove, condannarlo, ma se non si incide a fondo sulle cause che generano la mafia è chiaro che la sua pericolosità… è chiaro che ce la ritroveremo davanti così come era prima. Tutti abbiamo assistito al grande clamore che si è fatto attorno al maxiprocesso di Palermo. Finito il maxiprocesso, si è cominciato punto e daccapo. Ma è evidente, poiché, quando un’azione è soltanto giudiziaria –e così soltanto poteva essere quella della magistratura e della polizia –e non incide sulle cause di fondo del fenomeno, è chiaro che ce la saremmo dovuti ritrovare davanti, così come ce la siamo ritrovata. La verità è che vi è stata una delega inammissibile a magistrati e polizia di occuparsi essi soli della mafia, e lo Stato non ha fatto sostanzialmente nulla; non ha fatto nulla perché non aveva un’amministrazione della giustizia efficiente in senso soprattutto civile, a cui il cittadino si potesse rivolgere quando doveva risolvere i suoi problemi. Noi sappiamo il grande sfascio che c’è nella giustizia soprattutto civile in Italia, non è possibile fare una causa e concludere in tempi minori di dieci anni o dodici anni. [Lo Stato] non ha fatto nulla per dare alle pubbliche amministrazioni, soprattutto a quelle locali, mi riferisco al Meridione, ma ci sono grossi problemi del genere anche in tutte le altri parti d’Italia… Per dare un’immagine credibile, il presidente della Regione siciliana [Rino Nicolosi, democristiano, ndr], poche settimane fa, ha dichiarato che le Usl, cioè le Unità sanitarie locali siciliane, subiscono e non resistono a grossissime pressioni mafiose. Addirittura nella formazione degli esecutivi: sostanzialmente i mafiosi si sono inseriti pesantemente anche lì perché le Usl oggi amministrano enormi quantità di denaro per quello che dovrebbe essere l’adempimento delle condizioni di salute di tutti i cittadini, che si disperdono in mille rivoli creando anch’esse una sanità allo sfascio. Che cosa si è fatto per dare allo Stato, in queste regioni e comunque dappertutto in Italia, un’immagine credibile? Si è fatto ben poco… In Sicilia è soprattutto accentuata con riferimento alla mancanza di credibilità degli enti locali, quelli che stanno più a diretto contatto con il cittadino. Come enti locali mi riferisco al sindaco, mi riferisco ai prefetti, alle Unità sanitarie locali, ai vari enti, alle varie aziende che agiscono negli enti locali, che sono quelli che il cittadino vede. C’è questa mancanza di credibilità. In realtà c’è in gran parte anche del resto d’Italia e siccome la mafia, forte oggi della potenza economica enorme che ha per il traffico di sostanze stupefacenti, tende a operare in qualsiasi parte delle regioni italiane, ecco che questo diventa un problema di tutti. E diventa un problema di tutti non gridando che il giudice deve arrestare più persone o la polizia deve presidiare più […], perché la vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni. […] Non si tratta di un fenomeno di facile o immediata risoluzione. La criminalità si può contenere, ma non fare scomparire del tutto. È un dato storico ormai accettato, ma la soluzione che io auspico è riuscire a non avere più questa pericolosissima forma di criminalità la cui caratteristica principale sta proprio nel confondersi e stravolgere il senso vero delle istituzioni statali. […] Il pool antimafia Quando ci si accorse, a Palermo –io con i colleghi Falcone e gli altri –, che le dimensioni delle indagini erano tali (c’era un processo che prendeva tutta una stanza, penso che si sia abbondantemente superato il milione e mezzo di carte processuali), quando ci si è accorti che una persona da sola non poteva dominare tutta questa materia processuale perché gli episodi erano enormi, tantissimi (pensate che la sentenza istruttoria che ha concluso questo processo è formata da ben 8700 e oltre pagine, che per scriverle una sola persona evidentemente… già soltanto a copiarla sarebbe stata una fatica immane)… allora abbiamo sperimentato un modo di lavorare insieme, è stata una sperimentazione estremamente difficile perché non prevista dalla legge. […] È stato qualcosa che non è che si è creato dall’oggi al domani. Ci sono voluti ben tre anni di tentativi e di sperimentazioni per riuscire a creare qualcosa che funzionasse come quello che oggi si chiama il pool antimafia. Una legge per regolarizzarlo non è stata mai fatta. […] Purtroppo, in attesa di una regolamentazione legislativa, sembra che a Palermo le difficoltà di funzionamento del pool che io denunciai a luglio in parte continuano tuttora. Lo smantellamento del pool. Non faccio più parte da tempo del pool antimafia, dall’agosto del 1986, ma ho continuato a lavorare in collegamento con questi colleghi, mi sono fatto carico di questi problemi. Quando ho avuto la sensazione che stava succedendo qualcosa, che dal mio punto di vista ovviamente non potevo apprezzare, ho rilasciato dapprima una dichiarazione a un convegno e poi, con due interviste ai giornali «la Repubblica» e «l’Unità» ho detto che vi era in atto una vera e propria smobilitazione del pool antimafia di Palermo. Non che il pool antimafia sia la bacchetta magica per risolvere il problema della mafia, stiamo attenti. Non era la bacchetta magica, ma era l’unico organo che facesse effettive investigazioni e quindi almeno le facesse con un metodo che aveva portato a notevoli risultati. Io lanciai un allarme dicendo, badate, oggi non è che il pool antimafia risolve il problema della mafia, ma è l’unico che fa effettive investigazioni con metodi ormai affinati, non mettetelo nelle condizioni di non poter lavorare più. Vi fu un’ampia polemica sui giornali per tutto il mese di agosto del 1988. Si risolse la vicenda dopo una prima insoddisfacente decisione del Consiglio superiore della magistratura. Vi fu, a metà settembre, una decisione del Csm che riconosceva la validità di questo pool antimafia e raccomandava di farlo continuare a lavorare così come aveva lavorato prima. Da quel momento sono successe altre cose, sembra che ci siano ulteriori difficoltà. […] Purtroppo non ho letto questo articolo [in cui] il professor Guidotto afferma a chiare lettere che questo sgambetto che sarebbe stato dato al pool o a Falcone sia stato uno sgambetto intenzionale. Siccome sono magistrato e debbo sempre parlare con riferimento a prove, debbo dire che in realtà si è verificata una notevole difficoltà di funzionamento e si continua tuttora a verificare una notevole difficoltà di funzionamento di questo pool. Non ho prove che vi sia un’intenzione o un disegno determinato per non farlo funzionare. C’è qualcuno che autorevolmente lo afferma. Mafia e politica Non è che ci siano indizi che ci fanno pensare che il potere politico collabori con la mafia nel senso che noi giudici attribuiamo alla collaborazione nel reato. Perché se questi indizi ci fossero è chiaro che ci sarebbe un numero estremamente ampio di politici incriminati. In realtà, un caso almeno rilevante c’è stato ed è quello che riguarda l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino. Non soltanto è stato accertato che questo signore era vicino e aveva delle cointeressenze con le organizzazioni mafiose, ma che addirittura era organico alla stessa mafia e aveva commesso quindi il reato di associazione mafiosa. […] Sono emersi dalle nostre indagini tutta una serie di rapporti fra esponenti politici e organizzazioni mafiose che nella requisitoria del maxiprocesso vennero chiamati contiguità. Cioè delle situazioni di vicinanza o di comunanza di interessi che però non rendevano automaticamente il politico responsabile del delitto di associazione mafiosa. Perché non basta fare la stessa strada per essere una staffetta. La stessa strada si può fare perché in quel momento, almeno dal punto di vista strettamente giuridico, si trova conveniente fare convergere la propria attenzione sullo stesso interesse. Questo non ci ha consentito, dal punto di vista giudiziario, di formulare imputazioni su politici, però stiamo attenti… Vi è un accertamento rigoroso di carattere giudiziario che si esterna nella sentenza, nel provvedimento del giudice, e poi, successivamente, nella condanna, che non risolve tutta la realtà, la complessa realtà sociale. Oltre ai giudizi del giudice esistono anche i giudizi politici, cioè le conseguenze che da certi fatti accertati trae o dovrebbe trarre il mondo politico. Esistono anche i giudizi disciplinari. Un burocrate, un alto burocrate dell’amministrazione che ad esempio abbia commesso dei favoritismi potrebbe non aver commesso automaticamente –perché manca qualche elemento del reato –il reato di interesse privato in atto d’ufficio, ma potrebbe essere sottoposto a procedimento disciplinare perché non ha agito nell’interesse della buona amministrazione. Ora, l’equivoco su cui spesso si gioca è questo; si dice: quel politico era vicino al mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con l’organizzazione mafiosa, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! Questo discorso non va perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire be’ ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire che quest’uomo è mafioso. Però siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato, ma erano o rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo «schermo» della sentenza, si è detto: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia e non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato
Da LE ULTIME PAROLE DI FALCONE E BORSELLINO – Trascrizione Intervento presso Istituto Superiore di Bassano del Grappa 26.1.1989 Il ruolo dei pentiti I pentiti sono stati utilissimi alla giustizia perché in materia di organizzazione mafiosa hanno permesso qualche cosa che prima veniva ritenuto assolutamente impossibile e cioè guardare dal di dentro queste organizzazioni sulle quali era difficile addirittura guardare dal di fuori perché sono state sempre circondate da un muro di omertà tale che è difficile raccogliere testimonianze sulle organizzazioni mafiose o sulla loro attività. A Palermo anche nel periodo in cui ci furono cinquecento omicidi in un anno, era naturale che non c’era neanche una persona che aveva sentito gli spari. Figurati se qualcuno poteva andare a dire che c’era una organizzazione mafiosa che aveva organizzato quel delitto. Ma i pentiti hanno avuto una funzione ancor più penetrante. La mafia aveva un punto di forza in questa omertà. Nel senso che uno dei complici di un delitto non temeva mai che l’altro complice lo andasse a denunciare o che andasse poi un domani a raccontarlo. E questo era un elemento di forza e di coesione fortissimo per la mafia. Quando si cominciò a manifestare il fenomeno del pentitismo, in un certo qual senso questa sicurezza finì, cioè c’era il pericolo che il mio complice di oggi, domani diventasse pentito. Quindi la fiducia reciproca fra gli appartenenti all’organizzazione mafiosa cominciò a incrinarsi. Senonché, che cosa avvenne? Che, probabilmente per l’uso scriteriato che dei pentiti è stato fatto, e mi riferisco soprattutto ad alcuni clamorosi processi fuori dalla Sicilia, è avvenuto che i pentiti sono stati considerati un po’ come la scorciatoia all’acquisizione delle prove. Cioè, a un certo punto, quando il pentito andava a raccontare qualche cosa, alcuni giudici, alcuni poliziotti hanno ritenuto che bastava registrare quello che aveva detto il pentito e la prova era raggiunta. Con scarsi accertamenti, con scarsi riscontri, talvolta
“Io non perdo la speranza in una società più giusta ed onesta, sono anzi convinta che sarete capaci di rinnovare l’attuale classe dirigente e costruire una nuova Italia” – Agnese Borsellino