30.10.2019 – Fiammetta Borsellino: «Mio padre e Falcone non avrebbero liquidato l’ergastolo ostativo in modo così semplicistico»
L’intervento al festival della comunicazione sulle pene e sul carcere. «Penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno va…
«È stata la cultura dell’emergenza, la rabbia che sicuramente in quegli anni richiedeva una risposta immediata, che ha dato luogo al grande inganno di via d’Amelio, una storia di menzogne che hanno dato luogo a innocenti condannati all’ergastolo tramite falsi pentiti costruiti a tavolino tramite torture e processi caratterizzati da gravissime anomalie».
È Fiammetta Borsellino, figlia più piccola dell’ex giudice stritolato dal tritolo a via D’Amelio, a parlare durante il secondo incontro intitolato “Paure e gabbie. Perché la giustizia non subisca le infiltrazioni della vendetta”, nell’ambito del Secondo Festival della comunicazione sulle pene e sul carcere a Milano. Una vera e propria spina nel fianco del coro granitico di una certa antimafia, la figlia di Borsellino, la quale – come ha detto Ornella Favero, presidente della Conferenza nazionale volontariato giustizia, nel presentarla – «è una fra le poche persone che ha avuto il coraggio di non entrare nel coro sui temi dell’antimafia e di avere un pensiero complesso che ha messo in discussione tutto, anche il ruolo di alcuni magistrati ed esponenti delle forze dell’ordine». Si è affrontata la questione scottante dell’ergastolo ostativo e della recente senza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale quella parte del 4 bis che subordina la concessione o meno del permesso premio alla collaborazione. «Io penso che, da giudici, mio padre e Giovanni Falcone non avrebbero liquidato così come viene fatto in questi giorni la questione se sia giusto o sbagliato eliminare o mantenere il carcere ostativo, perché loro ci hanno insegnato che questi problemi sono dei problemi complessi, che non possono essere semplificati in questo modo», ha risposto Fiammetta. «Sicuramente io non sono una esperta in questo settore – ha continuato la figlia di Borsellino -, ma penso che bisogna lasciare aperte delle maglie perché le situazioni vanno valutate caso per caso. Non bisogna confondere dei provvedimenti che sono stati pensati ventisette anni fa sull’onda di una gravissima emergenza, bisogna anche pensare a quello che è il contesto attuale. Sicuramente bisogna diffidare delle semplificazioni». Fiammetta Borsellino ha sottolineato che si tratta di «un problema molto complesso, che va letto in relazione all’attuale disastrosa condizione delle carceri italiane. Bisogna evitare le semplificazioni come ‘ la mafia ha perso’ o ‘ la mafia ha vinto’ o anche ‘ la mia antimafia è migliore della tua’, perché fanno male. Io sono convinta che il problema invece andasse affrontato e che la modalità con cui si sta affrontando sia esattamente quelle giusta, quella che va incontro a quell’altissimo senso di umanità che poi è stato il valore che ha guidato tutta la vita di mio padre». Parole lucide, di alto spessore e soprattutto umane che ha creato commozione tra i presenti, soprattutto i detenuti come Pasquale Zagari e l’ergastolano Roberto Cannavò con dietro una storia di mafia, di morte e poi di rinascita. Ornella Favero ha poi chiesto a Fiammetta se è vero che la sentenza della Consulta abbia ucciso una seconda volta il padre. «A uccidere mio padre per la seconda volta sono stati i depistaggi: è stato il tradimento di alcuni uomini delle Istituzioni che oggi tra l’altro, proprio per aver dato prova di altissima incapacità investigativa, hanno fatto delle carriere senza che tra l’altro, e questo lo voglio sottolineare, il Csm si sia mai assunto una responsabilità circa l’avvio di procedimenti disciplinari diretti ad accertare quello che è stato fatto e perché è stato fatto», ha risposto Fiammetta Borsellino. Ma, alla sollecitazione posta dal professore Davide Galliani, ha anche aggiunto che parlare in nome delle vittime della mafia è sbagliato, perché ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti.
18.5.2019 Scarantino: «Su via D’Amelio solo Ilda Boccassini capì le mie menzogne»
Ilda Boccassini, l’allora pm di Caltanissetta, che indagò sulle stragi mafiose del 1992 mise in dubbio le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino «Scaranti’, io non le credo», questo disse nel 1994 l’allora pm di Caltanissetta Ilda Boccassini che indagò sulle stragi mafiose del 1992 a Vincenzo Scarantino per un colloquio investigativo, il quale da qualche mese collaborava con i magistrati per raccontare alcuni retroscena sulla strage in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta. Dichiarazioni che poi si riveleranno farlocche, ma riconosciute tali solo dopo diversi anni e grazie al Borsellino quater il quale certificò che l’indagine sulla strage di Via D’Amelio fu il più grande depistaggio della storia. A raccontare questo retroscena in aula, al processo sul depistaggio sulle indagini della strage di 27 anni fa, è proprio Vincenzo Scarantino. Non ha chiarito se si trattava di un interrogatorio formale o un colloquio ma ha ricordato che alla fine dell’incontro, Ilda Boccassini lo osservò e, guardandolo fisso negli occhi, gli disse quella frase: «Scaranti’, io non le credo». Di più non ha aggiunto l’ex picciotto della Guadagna, al secondo giorno di deposizione nel processo che vede alla sbarra tre poliziotti, Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, che facevano parte del Gruppi investigativo “Falcone e Borsellino” guidato dall’allora capo della Squadra mobile Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002. I tre, ricordiamo, sono accusati di concorso in calunnia aggravata dall’avere favorito Cosa nostra. Nel dicembre del 2015 Ilda Boccassini, deponendo in videoconferenza al processo Borsellino quater, aveva ripetuto le sue perplessità sulla credibilità di Scarantino che però era stato creduto da poliziotti e pm. «Il pentimento di Scarantino? La prova regina della sua inaffidabilità», aveva detto. E ancora: «Verificare quello che diceva Scarantino non era mio compito, io stavo per andarmene ed ero impegnata in altre attività e quelle spettavano ad altri pm». Perplessità che furono oggetto anche di una lettera inviata alle Procure di Caltanissetta e Palermo. Scarantino, durante la sua deposizione, ha aggiunto altri dettagli per quanto riguarda i motivi per il quale era stato indotto a confessare e accusare persone del tutto estranee alla strage dove perse la vita Borsellino. «Io ero un ragazzo – ha raccontato Scarantino, anche ieri coperto da un paravento per non farsi vedere – E se non combaciavano le cose che dovevo dire, loro mi dicevano di non preoccuparmi. Io andavo dei magistrati e ripetevo, quando ci riuscivo, quello che mi facevano studiare». Scarantino si riferisce al periodo del 1995, quando l’ex pentito si presentò per la prima volta davanti a una corte d’assise al processo per la strage di via D’Amelio. «Ma non sempre riuscivo a spiegare ai magistrati o alla corte quello che mi insegnavano. Loro mi dicevano. “Quando non sai una cosa basta che dici ai magistrati che devi andare in bagno, tu ti allontani e poi ci pensiamo noi. Ti diciamo noi quello che devi dire”. Quando andavo alle udienze dicevo che dovevo fare la pipì, andavo nella stanza e mi dicevano loro cosa dire. E io poi in aula cercavo di ripetere le cose che mi dicevano». Poi, il procuratore aggiunto di Caltanissetta, Gabriele Paci, che rappresenta l’accusa con il pm Stefano Luciani, gli ha chiesto del periodo trascorso da Scarantino a Imperia dove viveva sotto protezione con la sua famiglia. «Veniva il dottor Bo con una carpetta – ha detto Scarantino -, c’era Mattei che consegnava dei fogli e loro mi tranquillizzavano. Mi dicevano sempre di stare tranquillo ma la mia coscienza non mi permetteva di avere questa tranquillità che loro mi volevano trasmettere». E ha parlato di ‘ minacce psicologiche’ che avrebbe subito da un altro poliziotto, Vincenzo Ricciardi. «Gli dissi che ero innocente, lui mi ha fatto questa minaccia psicologica che ero lontano da mia moglie e dai miei figli che, per me, erano la cosa più importante della mia vita e quando toccavano questo tasto io rischiavo di impazzire».
7.5.2019 Fiammetta Borsellino: «L’ergastolo va rivisto: più educatori e meno agenti»
Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso nella strage di Via D’Amelio, ha partecipato a due incontri in Calabria Verità, diritto alla conoscenza, depistaggi e difesa dello Stato di diritto. Queste le parole chiave del ciclo di incontri, organizzati dall’associazione Yairaiha Onlus, che si sono conclusi la settimana scorsa e che hanno visto la partecipazione di Fiammetta Borsellino, la figlia del magistrato Paolo Borsellino dilaniato dal tritolo il 19 luglio del 1992. Nei due incontri, il primo a Catanzaro, alla facoltà di Sociologia e il secondo al Comune di Rende, presso la sala Tokyo del Museo Del Presente, non si è parlato dell’antimafia come di solito avviene nei convegni sponsorizzati dai mass media, dove molto spesso la narrazione non coincide con lo Stato di diritto, evocando teorie della cospirazione che – divenute una spada di Damocle – frenano qualsiasi governo nel rivedere quelle misure emergenziali divenute nel frattempo ordinarie. Si è parlato della ricerca della verità sulle stragi, in particolar modo quella che ha coinvolto Borsellino. Così come sono stati trattati i temi del sistema penitenziario, che assume a volte forme più vendicative che non di reinserimento del detenuto nella società, e del giusto processo, da tutelare perché garantito dalla Costituzione. La verità sulla strage di via D’Amelio, infatti, è stata insabbiata dal depistaggio certificato, dopo 26 anni, grazie alla sentenza del Borsellino quater. Depistaggio avvenuto non solo per la conduzione delle indagini, ma reso possibile anche grazie l’irritualità dello svolgimento dei primi processi. «ll vero aiuto che avremmo dovuto avere da parte dello Stato non era una pacca sulla spalla, ma risposte precise», ha esordito Fiammetta Borsellino durante il primo incontro. Ma non solo. «Si parla sempre dell’agenda rossa di mio padre – ha spiegato Fiammetta -, ma nessuno dice della scomparsa dei tabulati telefonici del suo cellulare, unico oggetto rimasto integro dopo la strage». Ma la causa della morte del padre? Un quesito posto da Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaiha, che ha sottolineato come solo pochi giornalisti– incappando in querele – ricordino ad oggi la vecchia storia del dossier mafia- appalti. Fu un’operazione condotta dai Ros e depositata in Procura a Palermo nel ’ 91 su spinta di Giovanni Falcone. Un dossier che poi interessò molto Paolo Borsellino. Ed è la figlia che risponde, ribadendo che la concausa della morte del padre è da ritrovarsi nel suo interessamento sul dossier di mafia- appalti. Ricordiamo che questa indagine è stata presa in considerazione, con sentenza definitiva emessa il 21 aprile del 2006, da parte della Corte d’Assiste d’Appello di Catania. Scrivono, infatti, i giudici che Falcone e Borsellino erano «pericolosi nemici» di Cosa Nostra in funzione della loro «persistente azione giudiziaria svolta contro l’organizzazione mafiosa» e in particolare con riguardo al disturbo che recavano ai potentati economici sulla spartizione degli appalti. Motivo della “pericolosità” di Borsellino? La notizia che egli potesse prendere il posto di Falcone nel seguire il filone degli appalti. Tale motivazione sarà poi ripresa anche nel Borsellinoquater, dove furono acquisite anche le dichiarazioni del pentito Antonino Giuffrè, secondo cui «il dottor Borsellino forse stava diventando più pericoloso di quello che addirittura si era pensato, in particolare (…) per quanto riguarda il discorso degli appalti». La Corte dà molto credito a Giuffrè, il quale aveva posto in evidenza altri aspetti di rilievo, come il fatto che, prima di attuare la strategia stragista, sarebbero stati effettuati “sondaggi” con “persone importanti”, appartenenti al mondo economico e politico. Nelle motivazioni viene quindi evidenziato come questi “sondaggi” si fondavano sulla “pericolosità” di determinati soggetti non solo per l’organizzazione mafiosa, ma anche per i suoi legami esterni con ambienti imprenditoriali e politici interessati a convivere e a fare affari con essa. Da questo tipo di discorsi iniziava l’isolamento che ha portato all’uccisione di Falcone e Borsellino, i quali «non interessavano proprio a nessuno». Nella decisione di eliminare i due magistrati, quindi, aveva avuto un peso proprio il loro isolamento. «L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova – si legge nella motivazione del Borsellino quater -, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento, che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino, e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura».
Fiammetta Borsellino ha ribadito l’importanza del dossier e ha chiesto lumi sulla richiesta di archiviazione, che fu depositata dopo tre giorni dalla morte del padre. Ha aggiunto la figlia del giudice, a proposito dei giornalisti che vengono querelati, l’importanza del diritto all’informazione e ha approfittato per ricordare che è a rischio la chiusura di Radio Radicale, «perché se non ci fosse stata lei che segue tutti i processi, noi oggi non sapremmo nemmeno di cosa si sta parlando». Fiammetta poi è ritornata su mafia- appalti e ha aggiunto qualcosa di inedito. Il 14 luglio, cinque giorni prima dell’attentato, ci fu una riunione alla Procura di Palermo avente come oggetto anche la questione del dossier mafia- appalti, proprio perché i giornali montarono delle polemiche circa la conduzione dell’inchiesta. Vi partecipò Paolo Borsellino. La figlia, durante il primo convegno alla facoltà di Catanzaro, ha quindi posto una domanda: «Qualcuno tra magistrati e componenti del Csm, saprà dirmi cosa disse mio padre quel giorno?». Durante il convengo di Rende, parliamo della seconda e ultima giornata del ciclo di incontri, interessante l’intervento del sociologo Ciro Tarantino che parte dalla domanda posta dalla locandina dell’evento “Chi è Stato”, con un duplice significato dal “chi è stato” l’esecutore delle stragi a chi è Stato con la maiuscola. «Gianni Rodari – ha spiegato Tarantino – dava valore cambiando la minuscola con la maiuscola, quindi qual è questa parte di Stato che si è reso responsabile della strage di via D’Amelio?». Il sociologo ha sottolineato che nella storia repubblicana tale domanda si pone inevitabilmente sempre dopo le stragi, esattamente quando si fanno i funerali, appunto, di Stato. «Ed è proprio in quel momento – ha aggiunto – che si verifica lo scarto tra lo Stato ideale che noi vogliamo, da quello reale». Tarantino ha puntato sul diritto alla verità e quindi l’importanza della memoria collettiva. «Gianni Rodari – ha concluso – sosteneva che la verità è una malattia e oggi assistiamo ad una molteplicità di verità prive di sapere. La memoria collettiva deve invece essere alimentata dalla duplice volontà di sapere». Si è affrontato anche il ripristino del 41 bis, così come la riapertura delle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara. È intervenuto a tal proposito il presidente della camera Penale di Cosenza, avvocato Maurizio Nucci: «I diritti del soggetto non vengono garantiti, la Costituzione è violata perché viene a mancare il diritto alla speranza». Poi c’è Sandra Berardi, presidente dell’associazione Yairaha, ha posto delle riflessioni in merito all’ergastolo ostativo e al carcere duro: «Ci sono persone condannate all’ergastolo, a cui è stata rubata la vita al pari delle vittime delle stragi. È necessario un regime carcerario che anche l’Onu considera tortura? Serve ad ottenere la verità?». Fiammetta Borsellino ha raccontato di aver incontrato i fratelli Graviano «in quell’inferno del 41 bis», così come ha voluto sottolineare. «Sapere che c’è chi è recluso in carcere senza possibilità di reinserimento è un fallimento dello Stato!», ha affermato Fiammetta. E ha aggiunto: «Bisogna rivedere l’ergastolo! Più personale di sostegno, psicologi, educatori, sociologi, meno guardie carcerarie». La figlia di Borsellino ha così concluso il suo pensiero: «lasciarsi andare alla rabbia e alla vendetta non serve».
26.3.20 19 – Fiammetta Borsellino: «Se per quelle indagini su via D’Amelio si fosse usato il metodo di mio padre…»
Fiammetta, figlia di Paolo «non sono tutti morti, c’è ancora chi, tra gli appartenenti alle istituzioni, non, darà il suo contributo alla verità «Tutto è stato disatteso dalla parte poco sana delle istituzioni: mio padre è stato tradito da vivo e da morto». Sono alcune delle parole, forti e appassionate, di Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992. Parole seguite da scroscianti applausi da parte delle centinaia di studenti al Teatro Massimo di Cagliari, durante l’incontro della settimana scorsa “La verità è un diritto’, organizzato dall’Osservatorio per la giustizia.Prima dell’incontro, nella mattinata, Fiammetta Borsellino si è recata a Sestu per deporre una corona di fiori sulla tomba di Emanuela Loi, una dei componenti della scorta di Borsellino, uccisa nella strage di via D’Amelio. Ha incontrato Maria Claudia, la sorella dell’agente di scorta, e si sono abbracciate. La prima cittadina Paola Secci, nell’occasione, ha voluto ringraziare l’avvocato Patrizio Rovelli, Presidente dell’Osservatorio per la giustizia, che ha reso possibile l’incontro. Poi è arrivato il pomeriggio, ed è lì che al teatro Massimo di Cagliari ha preso il via il primo incontro. La sala era gremita e l’emozione ha coinvolto tutti i partecipanti.
«Sono qui – ha esordito Fiammetta – per condividere con voi il ricordo di mio padre e con l’auspicio che assuma un ruolo diverso, perché diventi il patrimonio di un popolo: parliamo di un uomo che è morto nell’esercizio del dovere per senso di fedeltà allo Stato, come salvaguardia dei diritti e delle libertà». La figlia più piccola di Paolo Borsellino parla del coraggio di portare avanti la scelta da che parte stare «anche quando c’è il pericolo: la paura non è grave – sottolinea Fiammetta -, purché ci sia il coraggio. Mio padre – ha raccontato – prima di andare a letto si guardava sempre allo specchio per capire se lo stipendio se lo fosse meritato». Fiammetta era giovanissima quando il padre era ancora in vita e istitutiva il maxi processo, ricorda la scrupolosità che utilizzava per le indagini. «Metodo di indagine – ha raccontato – non avvenuto però per l’accertamento dei responsabili sulla strage di Via D’Amelio». Parliamo del più grande depistaggio della storia, come sentenziato dal Borsellino Quater. «Se oggi sappiamo qualche verità – ha spiegato Fiammetta – è perché nel 2008 Spatuzza ha detto la verità, e cioè che non era stato Scarantino che non aveva organizzato la strage». La figlia di Paolo Borsellino ha sottolineato: «Il problema è che Scarantino è stato indotto, da chi lo gestiva, e questo lo stabilisce la sentenza Borsellino Quater». Poi ha aggiunto: «Lui era di infimo spessore ma facilmente manovrabile, perché è stato gestito in primis dai poliziotti e poi dai magistrati che avevano governato le indagini».Il moderatore dell’incontro, l’avvocato Patrizio Rovelli, presidente dell’Osservatorio per la giustizia, ha approfittato per ricordare il ruolo fondamentale dell’avvocato e ha fatto proprio l’esempio della gestione dei pentiti, perché «con loro la prudenza e l’attenzione deve essere massima».
Interessante l’intervento della giornalista della Rai Barbara Romano. La domanda posta è stata secca: «Noi abbiamo una sentenza che punta il dito accusando i magistrati e i poliziotti. Da giornalista colpisce l’attacco nei confronti dei magistrati, secondo lei è colpevole insabbiare la verità?». Fiammetta Borsellino ha risposto che un atteggiamento di omissione deve essere accertato. «Prima di tutto dalla magistratura – ha spiegato – e poi dalle autorità disciplinari. Alcuni di questi magistrati – ha sottolineato – erano anche amici della mia famiglia: noi all’inizio, frastornarti, siamo stati in silenzio e in attesa; poi, quando abbiamo iniziato ad alzare la cresta, siamo stati isolati». Barbara Romano ha citato una frase di Borsellino che molto spesso viene riportata a metà. «C’è questa frase, quando suo padre disse che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i magistrati a permettere che ciò potesse accadere. Cosa direbbe oggi suo padre?». Fiammetta ha risposto: «Non è facile rispondere a questa domanda. Immagino oggi mio padre come una persona che ha raggiunto la sua serenità. Mi piace vederlo non più tormentato come lo era nei 57 giorni dopo che era morto Falcone. Non sono tutti morti, c’è ancora chi, tra gli appartenenti alle Istituzioni e non, darà il suo contributo alla verità e chi dovrà fare i conti con la propria coscienza».L’avvocata del foro di Milano Simona Giannetti ha ricordato di quando era al primo anno di università di Giurisprudenza proprio dopo le stragi, con l’animo di chi aveva un senso di ricerca della giustizia che avevano lasciato le stragi dell’estate 1992. «Volevo fare l’avvocato non il magistrato, perché sentivo di essere una garantista come in fondo lo erano Falcone e Borsellino. Loro avevano un metodo, cioè usavano i riscontri alle dichiarazioni dei pentiti e le consideravano solo il punto di partenza non di arrivo». L’avvocata Giannetti ricorda di come Falcone e Borsellino non erano amati in vita. «Loro davano un po’ fastidio – ha ricordato-, infatti Falcone nel 1991 a ottobre fu costretto a presentarsi davanti al Csm a dare spiegazioni per un esposto che gli fecero i politici di allora e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando: gli contestavano di “tenere le carte nei cassetti” come a dire che non faceva i processi, peccato solo che non fossero come i due magistrati e quindi non potevano comprendere quello che Falcone disse al Csm in audizione. Disse che per processare qualcuno, servono i riscontri, perché poi un processo ha delle conseguenze».Quindi Simona Giannetti fa l’inevitabile paragone con il depistaggio. «La sentenza del Borsellino Quater, poco fa già citata, parla delle indagini e le addita per “irritualità” e “anomalie”, quelle che hanno permeato l’intera vicenda processuale e investigativa della strage di Via D’Amelio. Ma nel processo – sottolinea- noi sappiamo che forma è sostanza, che il rito è ciò che legittima un atto. Irritualità è un termine che attiene alla sfera processuale, che non è quella dei poliziotti. E allora viene in mente che oggi Fiammetta è suo padre, cerca la verità, con coraggio, come lui le ha insegnato. Se posso dirlo: buon sangue non mente! Fiammetta cerca la verità!». L’avvocata Giannetti poi ha proseguito: «Perché suo padre è morto? Cosa stava facendo prima di morire? Fiammetta, ricordo, è andata da Fabio Fazio e ha detto che non si può fare a meno di cercare nell’indagine mafia- appalti di cui Paolo Borsellino si stava occupando. Sì, il 19.7.1992 alle ore 7 di una domenica mattina Pietro Giammanco, morto a dicembre scorso e mai sentito dagli inquirenti, chiamò a casa Borsellino e diede al Procuratore aggiunto la delega per occuparsi dell’indagine, che fu iniziata da Falcone. Borsellino era solo. Lo ha detto anche oggi Fiammetta: dobbiamo cercare la verità perché è un diritto e solo la verità rende liberi». Poi Giannetti ha ricordato il ruolo essenziale dell’avvocatura nell’accertamento sulla verità. «L’Avvocatura è quella che difende le garanzie costituzionali della difesa e del giusto processo. L’avvocato – ha spiegato Simona Giannetti – è quello che si occupa di evitare che le dichiarazioni di un pentito vengano considerate oro colato dalla Procura per impedire che ci siano i depistaggi». Poi ha aggiunto: «È su Radio Radicale, e permettetemi di dire “ Salviamo Radio Radicale”, che ascoltiamo il processo che è in corso a Caltanissetta nei confronti dei poliziotti che avrebbero materialmente realizzato il depistaggio svolgendo le indagini su Via D’Amelio. In queste registrazioni che, diciamolo, ci sono le difese degli imputati, con i loro esami e controesami, sono quelle che fanno emergere le circostanze più interessanti per tracciare un solco in cerca della verità».
Fiammetta Borsellino, sentendo queste ultime parole è intervenuta e ha confermato che le difese sono quelle che fanno le domande che lei stessa ritiene più utili dal punto di vista per la ricostruzione della verità.L’incontro si è chiuso con l’intervento dell’avvocato di Cagliari Fabrizio Rubiu sul ruolo del difensore e sul diritto alla difesa oggi sempre più bisognoso di essere preservato. Un evento unico e raro, dove è emerso per la prima volta che la lotta alla mafia è imprescindibile dalla lotta per lo stato di diritto.
5.2.2019 – La figlia di Borsellino: “Perché avete archiviato mafia-appalti?”
La denuncia della figlia del magistrato ucciso a via d’Amelio svela in tv il più grande depistaggio della giustizia italiana «Un tema che stava molto a cuore a mio padre era il rapporto tra la mafia e gli appalti. Infatti mi chiedo come mai il suo dossier fu archiviato il giorno dopo l’uccisione». Le parole, durissime, sono di Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato Paolo Borsellino ucciso dalla mafia a via D’Amelio nel 1992, che domenica sera è stata ospite di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. Una lunga intervista, quella di Fazio, preceduta dalle terribili immagini di quel tragico 19 luglio 1992. «Come mai – le ha chiesto il conduttore – ha deciso di parlare proprio ora?». Fiammetta ha risposto partendo da quanto avvenuto un paio di anni fa, ovvero la fine di un processo che non era riuscito ancora a fare piena luce su quanto avvenuto. «Nell’aprile del 2017 – ha raccontato Fiammetta Borsellino – il bilancio è stato amarissimo. C’è stata una sentenza che svelava il grande inganno di Via D’Amelio, in quello che poi verrà definito il depistaggio più grave della storia di questo Paese». Fiammetta ha poi spiegato che le indagini e i processi sono stati una storia di bugie. Borsellino non si è risparmiata e ha fatto nomi e cognomi delle persone coinvolte nel grande depistaggio. «La Procura di Caltanissetta – ha detto – non ha mai ascoltato un testimone fondamentale dopo la morte di mio padre: il procuratore Giammanco. Colui il quale conservava nel cassetto le informative dei Ros che annunciavano l’arrivo del tritolo. Fino a quando Giammanco, poco tempo fa, è morto».
Fiammetta Borsellino si riferisce a Pietro Giammanco – morto lo scorso dicembre -, ex Capo della Procura di Palermo dal 1990 al 1992, poi dimessosi e trasferitosi in Corte di Cassazione qualche mese dopo l’uccisione di Paolo Borsellino, quando otto Sostituti Procuratori avevano lanciato un appello minacciando le dimissioni dalla Procura se lui non se ne fosse andato, oltre a chiedere misure di sicurezza eccezionali per prevenire nuove stragi. Al suo posto – il 15 gennaio del 1993 – arrivò Giancarlo Caselli, che si insediò proprio nel giorno in cui venne catturato Riina grazie ai Ros capitanati dal generale Mario Mori.Il biennio di Giammanco – ricordiamo – fu un periodo caldissimo. Stragi, inchieste delicate, gravi accuse nei suoi confronti poi definitivamente archiviate. L’unica certezza è che gli attriti all’interno della Procura non mancavano. A partire dal disagio di Giovanni Falcone, cristallizzato negli stralci del suo diario pubblicati dal Sole24ore dopo l’attentato di Capaci. Tanti sono i passaggi che evocavano il suo malessere per spiegare la sua decisione di lasciare la Sicilia per il ministero: «Che ci rimanevo a fare laggiù? Per fare polemiche? Per subire umiliazioni? O soltanto per fornire un alibi?».Gli stralci dei diari furono confermati da Paolo Borsellino durante la sua ultima uscita pubblica a Casa Professa. Ma anche quest’ultimo era sofferente. Una sofferenza che ritroviamo narrata in un articolo di Luca Rossi pubblicato sul Corriere della Sera il 21 luglio, due giorni dopo la strage di Via D’Amelio ( l’intervista era del 2 luglio precedente – come confermò nella testimonianza a Palermo del 6.7.2012). Vale la pena riportarla, soprattutto quando l’eroico magistrato gli ammise testualmente: «Devo reggere il mio entusiasmo con le stampelle». Borsellino gli disse che stava seguendo delle indagini sull’omicidio di Falcone e che aveva un’ipotesi. Quale? «Pensava che potesse esistere una connessione tra l’omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d’union fosse una questione di appalti, in cui Lima era stato in qualche modo coinvolto e che Falcone stava studiando». Il riferimento era all’inchiesta sul dossier mafia- appalti. Ma ritorniamo all’intervista della figlia più piccola di Paolo Borsellino e della sua decisione di rompere il silenzio in occasione del 25esimo anniversario delle stragi del ’ 92, fino a quel momento «dettato da una rispettosa attesa». In quell’occasione ci fu una diretta Rai condotta proprio da Fazio. «Quella sera sono rimasta fino alla rimozione dell’ultima transenna – racconta Fiammetta Borsellino -. Provai un grande senso di vuoto. Non fui avvicinata da nessuno, se non da alcuni ragazzi che erano venuti apposta dalla Campania e dall’unico superstite di quella strage, Antonio Vullo».Continua con le sue considerazioni sul depistaggio. «C’è stata una grande mole di anomalie e omissioni che hanno caratterizzato indagini e processi – ha aggiunto Fiammetta Borsellino -. Le indagini furono affidate a Tinebra, appartenente alla massoneria. E poi i magistrati alle prime armi che si ritrovarono a gestire indagini complicatissime tanto che dichiararono di non avere competenze in tema di criminalità organizzata palermitana. Fu un depistaggio grossolano perché le indagini furono totalmente delegate ad Arnaldo La Barbera, una persona che era un poliziotto da un lato e dall’altro pare che ricevesse buste paga dal Sisde per condurre una vita dissoluta in giro per l’Italia». Fiammetta poi racconta la vicenda di Scarantino che «fu vestito da mafioso» e che si prestò per far condannare persone poi rivelatesi innocenti. Fiammetta non risparmia nessuno, oltre ai poliziotti, anche i magistrati che «evitarono confronti che avrebbero fatto crollare immediatamente l’impianto accusatorio». Sappiamo che l’anno della svolta è il 2008, quando parlò Spatuzza: dopo gli opportuni riscontri, i magistrati hanno avuto chiari i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Fiammetta Borsellino parla proprio dell’incontro che lei ha avuto con i fratelli Graviano al 41 bis. «Questa esigenza è venuta fuori da un percorso privato – ha detto Fiammetta Borsellino -. Avevo la necessità di dare voce a un dolore profondo che era stato inflitto non solo alla mia famiglia ma alla società intera. Lo chiamo il mio viaggio nell’inferno dei silenzi, dei cancelli. È stato però un viaggio di speranza. Io dico sempre alle mie figlie che non bisogna mai smettere di sognare. Forse quando intrapresi quel viaggio ero io stessa quella bambina che spera nel cambiamento, nel cambiamento delle coscienze». E quando Fazio le domanda se c’è qualcuno del quale si fida, lei risponde: «Né io né tutta la mia famiglia – risponde Fiammetta – pensiamo di avere dei nemici, neanche i peggiori criminali che attualmente stanno scontando delle pene».
Poi aggiunge: «Credo di non fidarmi di chi dà le pacche sulle spalle, mentre mi fido di chi essendo esposto al peggiore pericolo svolge il suo lavoro con sobrietà e in silenzio. Non mi fido di chi si espone alle liturgie dell’antimafia per la devozione dei devoti». Fazio le chiede su che cosa stava lavorando suo padre, cosa c’era di così di indicibile tanto da ammazzarlo e attuare un depistaggio. «A mio padre – risponde Fiammetta- sicuramente stavano a cuore i temi degli appalti, dei potentati economici: eppure il dossier su mafia e appalti fu archiviato il 20 luglio, a un giorno dalla strage. Ci saranno sicuramente state delle ragioni, ma io non le ho mai sapute». A quanto detto occorre solo fare una piccola precisazione sulla sequenza degli atti che importarono l’archiviazione dell’indagine aperta con il deposito della nota informativa “mafia appalti” da parte dei Ros su insistenza di Giovanni Falcone. Occorre rammentare che dagli atti emerge che la richiesta, scritta nel 13 luglio 1992 dalla Procura palermitana, fu vistata dal Procuratore Capo e inviata al Gip nello stesso 22 luglio. L’archiviazione fu disposta il successivo 14 agosto dello stesso anno, con la motivazione «ritenuto che vanno condivise le argomentazioni del Pm e che devono ritenersi integralmente trascritte».
11.11.2018 Fiammetta Borsellino a Parma incontra i detenuti per mafia
Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso in via D’Amelio, ha accettato l’invito della rivista “Ristretti Orizzonti” In carcere dove ci sono detenuti per reati di mafia possono accadere eventi quasi inaspettati, commoventi e di forte impatto emotivo. Accade che Fiammetta Borsellino, la figlia più giovane del giudice Paolo dilaniato dal tritolo della mafia nell’ormai lontano 19 luglio del 1992, è stata invitata dalla redazione di Ristretti Orizzonti del carcere di Parma, dove era recluso al 41 bis Totò Riina. Ha accettato l’invito e ad accoglierla, oltre alle giornaliste Ornella Favero e Carla Chiappini che coordinano il giornale, ci sono stati una decina di detenuti che hanno già oltre 20 anni di carcere alle spalle ed alcuni di loro sono ergastolani ostativi, coloro che sono davvero in fine pena mai. Frutto di leggi emergenziali nate proprio come risposta alle stragi di mafia, compresa quella di Via D’Amelio. Fiammetta è stata lì con loro, guardandosi negli occhi per parlare di mafia, carcerazione dura, vendetta inutile e riparazione. La figlia di Paolo Borsellino ha detto di credere nella riparazione, nella possibilità che anche un mafioso possa redimersi, prendere le distanze e, appunto, riparare al danno. Non mette in discussione il car- cere, ma ci tiene a sottolineare che l’inasprimento delle condizioni detentive sono dovute dal fatto che la violenza genera risposte violente, ed «è per questo che va rifiutata a monte», ha detto Fiammetta. «Io non ho mai pensato che il dolore che provo sia diverso da quello del figlio di un mafioso ucciso», ha tenuto a ribadire davanti ai detenuti. Parole che hanno generato momenti di commozione. Ma non solo. Come ha detto in una intervista a Il Dubbio l’ex ergastolano Car- melo Musumeci, un detenuto che ha commesso crimini come quelli mafiosi, si rende conto di essere colpevole solo quando ha i contatti con le persone esterne. «Questo accade quando una parte della società ti prende in considerazione e vuole aiutarti nonostante il danno che hai causato», aveva detto Carmelo. Figuriamoci quando a prenderli in considerazione è la figlia del magistrato Borsellino. Non è un caso che, proprio all’intervista pubblicata su Il Dubbio, a proposito della sua visita ai fratelli Graviano al 41 bis ( poi negata dalle procure), Fiammetta dichiarò: «Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta».
Sempre Fiammetta – si apprende da una bella ricostruzione dell’evento pubblicata sulla Gazzetta di Parma a firma di Chiara Cacciani – ha ricordato ai detenuti che suo padre gli aveva dato un insegnamento importante. Ovvero che si può morire con dignità, quando si vive con dignità. «E si può morire con dignità anche quando, dopo aver fatto cose gravissime, si arriva a riconoscere i propri sbagli, a prendere le distanze e a cercare di riparare», ha aggiunto Fiammetta. Neanche a farlo apposta, la figlia di Borsellino ha evocato la giustizia riparativa, una pratica che teoricamente esiste nel nostro Paese, ma concretamente da qualche anno si svolge attraverso delle sperimentazioni di incontri di mediazione reo/ vittima mediante l’intervento di un terzo indipendente rispetto agli operatori deputati al trattamento, su autorizzazione specifica del ministero attraverso la stipula di convenzioni ad hoc con centri e uffici di mediazione sparsi sul territorio nazionale. Queste attività devono necessariamente conservare le caratteristiche loro proprie legate ai principi di confidenzialità, volontarietà e gratuità degli interventi. Un esempio virtuoso è il “Progetto Sicomoro”, patrocinato dal ministero della Giustizia. Il nome si ispira al brano evangelico in cui Zaccheo si nasconde fra i rami dell’albero, ma viene riconosciuto da Gesù, che lo chiama per nome e suscita in lui un ravvedimento. La giustizia riparativa era anche contemplata dalla riforma originale, oramai depennata per sempre. Ma nella giornata dell’incontro con i reclusi per reati mafiosi, diversi “Zacchei” ravveduti hanno potuto dialogare e confrontarsi. Fiammetta poi ha lasciato il carcere, promettendo la condivisione di un progetto comune, magari coinvolgendo le scuole del sud.
5.10.2018 – Fiammetta Borsellino: «La mafia uccise mio padre. Lo Stato ha depistato e insabbiato i dossier»
Fiammetta Borsellino in questa intervista denuncia i depistaggi che hanno impedito di scoprire chi e perché ha ucciso suo padre «Nessuno ha dato un contributo di verità negli anni, possibile che tutti siano stati fatti fessi da Arnaldo La Barbera?».
Fiammetta Borsellino, la figlia del giudice ucciso in Via D’Amelio, racconta a Il Dubbio il suo stupore di fronte al fatto che nessuno si sia accorto di quello che succedeva sotto i propri occhi, e cioè uno dei più “grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, così come è stato definito dalle motivazioni della sentenza del Borsellino Quater.
Fiammetta non si capacita soprattutto dei magistrati di allora che non solo credettero all’auto- accusa indotta di Vincenzo Scarantino, ma in seguito non presero atto della sua ritrattazione. In questi anni la figlia di Paolo Borsellino, assieme alla sua famiglia, ha lottato per la verità, non perdendo mai la lucidità, anche se il dolore per la perdita di un padre, ucciso barbaramente assieme alla sua scorta, è sempre più logorante con il passar del tempo. Il dolore aumenta soprattutto quando ci si accorge che alcuni ex colleghi del padre tradirono la sua fiducia. Però c’è una Procura, quella di Caltanissetta, che vuole andare fino in fondo. Non a caso, dopo la sentenza del Borsellino Quater, la Procura nissena ha rinviato a giudizio i tre poliziotti che avrebbero avuto un ruolo per il depistaggio. Tutti accusati di concorso in calunnia. I tre facevano parte del gruppo “Falcone-Borsellino”, creato dopo le stragi per fare luce su quanto accaduto nel 1992. Per l’accusa, i tre poliziotti avrebbero agito con l’aggravante di avere agevolato Cosa nostra. Il 5 novembre ci sarà la prima udienza preliminare. Fiammetta Borsellino si augura che sia una occasione per non limitarsi solo a stabilire le responsabilità di loro tre, ma per capire chi c’era dietro. Magari anche attraverso le testimonianze dei magistrati di allora. Quelli che sarebbero stati fatti “fessi” da La Barbera, il funzionario di polizia che coordinò le indagini sull’attentato, poi morto di tumore nel 2002.
Parliamo della sentenza Borsellino quater, dove dalle motivazioni emerge il depistaggio ( e non vengono salvati neppure gli inquirenti), tant’è vero che giudica le incongruenze, le oscillazioni e le ritrattazioni delle dichiarazioni di Scarantino, come elementi tutti che avrebbero dovuto consigliare un atteggiamento di particolare cautela.
Si attendevano le motivazioni della sentenza, ma già il dibattimento aveva reso chiaro che Scarantino è stato indotto alla calunnia da coloro che lo gestivano. Oggi, il rinvio a giudizio dei tre investigatori, che parteciparono alle indagini sotto la direzione di La Barbera, non è che la naturale conseguenza di quello che era emerso durante il processo Borsellino quater. Ora in questo momento mi faccio solo una domanda: come questi investigatori, mandati a giudizio, possono aver fatto tutto da soli? Non finirò mai di farmi questa domanda. Anche il Csm, se da un lato ha fatto le audizioni, dall’altro ha messo le mani avanti, dicendo che non ha poteri. Mi sono chiesta se si potesse dare inizio ad un’audizione dicendo “scusate” al magistrato che si sta per sentire. Mi chiedo: chi ha potere per stanare certe verità?
Che cosa si aspetta da questo processo che partirà nei confronti dei tre investigatori?
Mi aspetto che le persone chiamate a giudizio non dicano i soliti “non ricordo”. Ma non solo: io mi auguro che tra i testimoni che verranno citati ci siano anche i magistrati, e che in veste di testimoni diano dei chiarimenti esaustivi. Diversamente, ci dovremo rassegnare a non avere più una risposta alle domande sull’attentato che uccise mio padre.
Ma questo è un processo contro i tre poliziotti, e peraltro il loro superiore è morto.
Sì, ma non è una scusante la circostanza di essere dei poliziotti e di aver eseguito solo degli ordini. Il problema è anche un altro: hanno fatto passare 27 anni, era prevedibile il rischio che certe persone potessero morire con tutti i loro segreti. In più, è vero anche che La Barbera era un dirigente del gruppo “Falcone- Borsellino”, ma a questi livelli non si può tacere che le persone del suo ruolo agiscano sotto l’impulso di vertici superiori, anche di magistrati. Mi auguro, da figlia e da cittadina, che non si rinunci a intraprendere questo percorso verso la verità: non so dove ci porterà, ma che sia la strada della giustizia. Non si può tacere che c’è un punto di rottura tra la famiglia e le istituzioni, non tutte naturalmente: se da un lato si è arrivati a intraprendere certi percorsi verso la verità grazie ad una Procura che sta lavorando in questa direzione, e nella quale noi riponiamo fiducia, è anche vero che questa stessa Procura non può fare tutto da sola: ha bisogno della collaborazione delle persone che saranno chiamate in causa.
Nelle motivazioni del Borsellino quater si cerca di affrontare non solo il discorso del depistaggio, ma anche la causa dell’attentato di Capaci richiamandosi all’indagine “mafia- appalti”, di cui recentemente noi de Il Dubbio ci siamo occupati molto.
Sono convinta che nel dossier “mafia- appalti” ci siano le risposte: e non capisco perché sia stata chiusa l’indagine. Capisco però che ci sono persone che allora dovevano assumersi lo stesso impegno che si erano assunti mio padre, Falcone e tanti altri, per cercare la verità e invece questa verità l’hanno occultata, archiviando l’indagine. L’unico mio sapere è questo. Avrebbero dovuto fare qualcosa fin da subito, invece noi siamo stati ingannati dalle persone amiche o che si professavano tali, colleghi e quant’altro, che per lunghi anni – cosa che abbiamo capito dopo – ci hanno tenuti a bada e mai ci hanno informato di nulla. Siamo stati traditi a tutti i livelli, dai magistrati agli avvocati, in un momento in cui non potevamo fare nulla, perché a distanza di anni nulla si può fare se non sopravvivere a qualcosa di inimmaginabile. Mi domando, cosa avremmo potuto fare noi: forse i controllori dell’operato dei colleghi di mio padre, amici che entravano e uscivano da casa nostra? Del resto, anche oggi nessuno di loro Annamaria Palma o Nino Di Matteo sono gli unici che oggi posso citare – ha pensato di avvicinarsi a noi per darci delle spiegazioni.
Lei si è data molto da fare. È riuscita anche ad andare a trovare i fratelli Graviano che sono al 41 bis da anni. Ha avuto modo di parlare con loro? Che sensazione ha avuto?
Ho avuto molti incontri che sono durati ore, ma devo dire con sincerità che non possono essere qui sintetizzati in poche parole, perché sono di una vastità enorme. Posso dire che queste sono situazioni che in pochi capiscono; solo chi ha fatto percorsi di questo tipo può intenderne a pieno il significato. Sono entrata in carcere grazie ai pareri delle Procure competenti, che erano almeno quattro perché i Graviano avevano processi pendenti. Io andavo a fare loro visita per capire, non certo per fare indagini. Né ci poteva essere pericolo di una specie di depistaggio, come invece fu detto dalle Procure che ad un certo punto, senza motivo, mi vietarono di proseguire gli incontri. Questa mia scelta non l’hanno capita. Probabilmente fa più paura agli altri che a me, perché per me invece è una sconfitta averli interrotti. Alla luce di questo vuoto che c’è attorno a questa storia dell’attentato, pensare che le persone che probabilmente sanno, siano state confinate in un regime così tremendo, è per me una sconfitta. Sono cosciente che hanno dato pure l’alibi a queste persone per non parlare, del resto nemmeno loro sanno con chi parlare: con il depistatore, con i magistrati di Caltanissetta dell’epoca, con chi? In più c’è da dire che l’informazione non dà risalto alle Procure che si stanno occupando di indagare sulla verità, dando invece accondiscendenza a un circuito mediatico che mette in evi- denza altro. L’esito dei processi è stato emblematico: l’orrore stava a monte, già nell’individuazione del pool: cosa hanno dedicato a mio padre? Tinebra, notoriamente vicino alla massoneria; Palma, una che è andata a fare il Capo di Gabinetto del signor Pisani; Carmelo Petralia che nel Borsellino Quater ha dichiarato di non essersi mai occupato di mafia prima di allora, come scusante; e infine Di Matteo, che all’epoca era alle prime armi, e che ha negato di aver partecipato alle indagini, pur avendo condotto almeno 5 interrogatori. Mi chiedo: erano tutti nelle mani di Scarantino, fatti fessi da La Barbera, ignari e inconsapevoli?
19.7.208 Nel Borsellino quater una conferma ai dubbi di Fiammetta
Le motivazioni della sentenza del processo Borsellino quater potrebbero contenere elementi chiarificatori per la strage di via D’Amelio «Perché via D’Amelio, la scena della strage, non fu preservata consentendo così la sottrazione dell’agenda rossa di mio padre? E perché l’ex pm, allora parlamentare, Giuseppe Ayala, fra i primi a vedere la borsa, ha fornito versioni contraddittorie su quei momenti?». È una delle domande, pubblicate ieri sul quotidiano La Repubblica, che Fiammetta Borsellino ha posto a coloro che dovrebbero o avrebbero dovuto darle delle risposte sui colpevoli dell’uccisione del padre, il magistrato Paolo Borsellino, avvenuta ormai 26 anni fa in quella domenica in cui si trovava in via D’Amelio a far visita alla madre. La risposta a quella terza domanda di Fiammetta Borsellino si potrebbe trovare nelle motivazioni della sentenza, che ha concluso il primo grado di giudizio del processo Borsellino quater: Giuseppe Ayala era sul luogo della strage – ma non fu il primo ad arrivare – dopo quattro minuti dalla deflagrazione che uccise il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta. L’allora parlamentare Giuseppe Ayala giunse infatti quasi per primo in via D’Amelio al cratere. Fu sempre in quel momento che disse di aver visto la borsa di Paolo Borsellino appoggiata sul sedile posteriore della vettura, di averla presa in consegna ma di non averla aperta perché consegnata subito. Questo è un passaggio delle motivazioni sulla sentenza del Borsellino quater, più precisamente al capitolo relativo alla vicenda della scomparsa dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. La famosa agenda, mai trovata, dalla quale ( come è noto) il magistrato, nel periodo successi- vo alla morte di Giovanni Falcone, «non si separava mai», portandola sempre nella sua borsa di cuoio e nella quale appuntava, in modo «quasi maniacale» e con grande ampiezza di dettagli, fatti e notizie riservate, nonché le proprie riflessioni sugli accadimenti che si susseguivano.
Ma torniamo all’arrivo di Ayala sul luogo dell’attentato. Egli, come sempre nei suoi fine settimana a Palermo, anche quel 19 luglio, soggiornava nel vicinissimo Residence Marbella: per questo, appena sentita la deflagrazione, trovandosi a poche centinaia di metri da via D’Amelio, arrivò in auto, per ovvi motivi di sicurezza assieme alla scorta. «A Palermo non facevo un passo a piedi», disse al pm Domenico Gozzo, che nel corso della testimonianza al processo Borsellino Quater gli chiese come era arrivato in via D’Amelio. Ayala, riferisce al pm, di esserci andato in auto, di aver raggiunto il cratere percorrendo a piedi tutta la via sul lato sinistro del marciapiede. Un dato è certo nelle sue dichiarazioni: Ayala ricorda perfettamente la presenza di Guido Lo Forte sul luogo del fatto, perché assieme «si piegarono» per il riconoscimento del corpo dilaniato di Paolo Borsellino. Non solo, il teste lo ricorda già presente nei pressi del cratere, al momento in cui vi sopraggiungeva. Di certo per Ayala c’è che sul luogo del fatto ci fosse Lo Forte al sul arrivo; forse ancora prima dell’arrivo della volante, della cui presenza il teste non ha certezza.
La testimonianza non fu la prima occasione in cui Ayala raccontò del suo arrivo a via D’Amelio dopo la strage: era il settembre 2015 quando Ayala riferisce di essere giunto sul luogo e di non aver trovato neppure i Vigili del Fuoco e neanche le Forze dell’Ordine. È il pm Gozzo che insiste sulla questione e, in cerca di conferma sul punto, gli chiede «quindi lei sarebbe arrivato, praticamente, quasi per primo. Ecco, le chiedo se può (…) se può ricordare con noi». La domanda non è irrilevante, se si pensa che Ayala risponde «Adesso anche, voglio dire, io… qualche minuto è passato». Insiste il pm per sapere quanti minuti ci avrebbe messo ad arrivare in via D’Amelio per non trovarci neppure i soccorsi, ma solo il magistrato Lo Forte, forse anche il collega Gioacchino Natoli, citato nella contestazione del pm riguardo alle dichiarazioni rese dal teste a settembre 2015, ma non in quelle della testimonianza al processo. «Ecco quanti minuti sono passati rispetto a quando lei ha sentito la deflagrazione?», chiede il pm. La risposta di Ayala è decisa: «Ma guardi, qualche minuto è passato cinque, quattro, adesso non le so dire, poi sono sceso giù, siamo saliti in macchina, bene o male ‘ sti trecento – quattrocento metri li abbiamo fatti, poi sono sceso, insomma, a piedi ho percorso… non che via D’Amelio sia lunghissima, ma insomma, ho percorso questa strada, quindi al momento… penso dieci minuti saranno passati sicuro, quindi io penso che forse una Volante c’era, adesso però, francamente, non me lo ricordo, ma..». Però alle richieste della Procura Ayala risponde che la ricostruzione sulla presenza di «forse una volante» è logica: egli infatti tiene a precisare al pm di non avere un ricordo preciso, ma che gli sembra ragionevole supporre di sì. L’unica certezza che ha Ayala è il ricordo che ci fosse il magistrato Lo Forte, nel momento in cui si avvicinava a piedi al cratere; aggiunge, quando il pm – questa volta il magistrato Stefano Luciani – gli contesta che in una precedente dichiarazione aveva testimoniato che c’era Natoli, che «di certo c’era Lo Forte (..) se ho detto che Natoli c’era, c’era; in questo momento non me lo ricordavo. Lo Forte… lo sa probabilmente la differenza di ricordo qual è? Che Lo Forte io me lo ricordo proprio piegato assieme a me, perche ´, dico, lo abbiamo dovuto guardare molto da vicino per cercare di confermare la… l’identificazione, chiamiamola così. Magari Gioacchino Natoli sarà` rimasto in piedi, insomma, ma se ho detto che c’era, c’era».
L’insistenza delle domande del pm Gozzo, che vuole sapere con precisione dal testimone Ayala la tempistica di arrivo su luogo della strage, ha un senso. Così come ha un senso che il pm Luciani insista per sapere chi altro ci fosse in quei primi «quattro o forse cinque minuti» in via D’Amelio, quando sopraggiungeva Ayala. Ma la risposta è stata esaustiva.
Anche Lo Forte fu sentito nel corso del processo, ma le sue dichiarazioni non sono utilizzate dalla Corte per argomentare il capitolo relativo alla sparizione dell’agenda rossa. Alla domanda sul suo arrivo nel luogo della strage, Lo Forte risponde di essersi recato immediatamente con la sua auto dopo una telefonata, non ricorda di chi ma che «era domenica», e che appena giunto «c’erano già naturalmente militari esponenti delle forze dell’ordine alcuni colleghi altri sopraggiunsero dopo». Alla domanda se altri colleghi sopraggiunsero dopo di lui, tra i quali il dottor Natoli, Lo Forte risponde di non ricordare se prima o dopo perché c’era moltissima gente, ma che ci fossero tutti i colleghi «quindi ricordo in particolare il collega Ayala che trovai praticamente in preda alle lacrime, col quale mi sono abbracciato ma poi dato il momento noi eravamo del tutto attoniti».
Sull’agenda e la borsa di Borsellino anche Lo Forte diede la sua versione dei fatti alla Corte, rispondendo di non aver guardato all’interno della vettura, alla domanda se la borsa fosse aperta o chiusa o se ebbe la percezione delle condizioni eventualmente all’interno di questa autovettura «se ci fosse qualche oggetto particolare». Domande significative. Del resto nello stesso esame si parla della sparizione dell’agenda rossa, che poteva essere dentro la borsa. Quest’ultima, era sul sedile posteriore oppure sul pianale fra i sedili anteriori e quelli posteriori, ma Ayala non vi avrebbe guardato dentro, limitandosi a prenderla in mano per pochi attimi ( forse, era una persona in borghese che gliela passava), consegnandola – subito dopo – a un ufficiale dei Carabinieri che nemmeno conosceva, per poi recarsi a Mondello a rassicurare i propri figli, dal momento che il giornalista Felice Cavallaro gli raccontava della diffusione della falsa notizia che fosse proprio lui la vittima dell’attentato. Si insiste molto su questo punto, perché la logica vuole che la sparizione dell’agenda dalla borsa potesse essere avvenuta nei primi minuti, possibilmente senza la presenza di troppe persone. Ragionamenti deduttivi, ovviamente.
E l’ex ministro Carlo Vizzini, ascoltato come teste al processo sulla Trattativa Stato- mafia, ricordò via D’Amelio.
che tre giorni prima dell’attentato di via D’Amelio, cenò a Roma con Paolo Borsellino, che era nella capitale con i colleghi Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli. Nel corso della cena, secondo riferito da Vizzini, si parlò dell’indagine Mafia- Appalti. «Un argomento – aveva precisato Vizzini – che mi interessava fin dal 1988, quando avevo denunciato il sistema di spartizione dei lavori pubblici e gli interessi che legavano Cosa Nostra a grandi aziende nazionali. Già allora io avevo parlato dei mediatori che favorivano le grosse imprese e del ruolo che la mafia rivendicava negli appalti. Cose che furono dimostrate quando Angelo Siino cominciò a collaborare con la giustizia». Borsellino sarebbe stato molto interessato al tema, tanto che pensò di rivedere Vizzini «nelle sedi opportune», ha detto il teste, riferendosi agli uffici del palazzo di giustizia, ignaro che la procura di Palermo avesse richiesto, il 13 luglio, l’archiviazione dell’indagine Mafia- Appalti. Era il 16 luglio e tre giorni dopo Paolo Borsellino venne ucciso, insieme con gli agenti della sua scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina.
3.7.2018 – La figlia di Borsellino: «Ora indagate sui pm!»
Fiammetta Borsellino attacca, facendo nomi e cognomi e chiede l’intervento del presidente della Repubblica e del Csm, perchè si accertino le responsabilità Chiede l’intervento del presidente della Repubblica e del Csm, Fiammetta Borsellino, facendo nomi e cognomi. All’indomani delle motivazioni della sentenza Borsellino quater sulla strage di via D’Amelio che costò la vita al padre, in cui i giudici hanno scritto che l’indagine fu inquinata da «uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana», la famiglia Borsellino alza la voce, con un’intervista su Repubblica.
«Queste motivazioni non sono un punto d’arrivo, ma di partenza. Bisogna andare avanti processualmente per accertare le responsabilità di chi ha commesso i reati, ma anche dei magistrati che controllavano e coordinavano le indagini», ha detto Fiammetta, scandendo i nomi di quei magistrati che 26 anni fa avallarono il falso pentito Vincenzo Scarantino: «Anna Palma è avvocato generale di Palermo, Carmelo Petralia è procuratore aggiunto a Catania». Si rivolge poi anche a Ilda Boccassini, che nel 1992 era a Caltanissetta e «autorizzò dieci colloqui investigativi dell’allora capo della Mobile La Barbera proprio con Scarantino», e al magistrato Giuseppe Ayala, parlamentare all’epoca della strage che «fornì sette versioni diverse dei momenti successivi alla strage, in cui si trovò tra i primi in via D’Amelio a tenere in mano la borsa di papà». Proprio la borsa che conteneva la famosa agenda rossa, sparita misteriosamente e a cui – secondo i giudici d’appello di Caltanissetta – è legato anche Scarantino. Fiammetta Borsellino non parla di ipotesi di reato a carico degli inquirenti ma di «lacune gravissime e inaudite, sicuramente funzionali a quello che è successo». Per questo chiama in causa il Csm, chiedendosi il perchè del «reiterato silenzio sui magistrati che hanno avallato il falso pentito Scarantino», e lo stesso Mattarella, in qualità di presidente del Csm, perchè faccia da «garante che questo ( il Csm ndr) assolva i propri compiti istituzionali, cosa che fino a oggi non ha fatto». La richiesta è chiara: «Il fascicolo che a settembre era stato aperto sui magistrati non può restare vuoto. Bisogna fare chiarezza sulle gravi lacune procedurali che configurano addebiti di carattere disciplinare, messe in risalto dalle motivazioni del Borsellino quater». A rispondere positivamente alla fi- glia del magistrato è intervenuto il togato di Area al Csm, Antonello Addituro, il quale ha chiesto al Comitato di presidenza di «aprire una pratica in Sesta Commissione, competente anche sulla materia antimafia, relativa a quanto emerso dalla sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta nel processo Borsellino quater». Ardituro ha anche sollecitato l’acquisizione formale da parte di Palazzo dei Marescialli della sentenza in cui si parla di «gravi depistaggi» nelle indagini sulla strage di via D’Amelio. Intanto, la procura nissena ha chiesto il rinvio a giudizo per concorso in calunnia dei poliziotti infedeli Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, sottoposti dell’allora capo della Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, morto 15 anni fa e pesantemente implicato in molti dei misteri che ancora si affollano intorno all’indagine sulla strage di via D’Amelio. La chiamata in causa della magistratura inquirente da parte della figlia di Borsellino è stata immediatamente raccolta dal Partito Democratico e da Liberi e Uguali, on il deputato dem Carmelo Miceli che ha chiesto che «il Parlamento vari entro il prossimo 19 luglio, anniversario della morte di Paolo Borsellino, la Commissione antimafia e questa, come primo atto, convochi in audizione la figlia Fiammetta». Anche Erasmo Palazzotto (Leu) ha chiesto che la Commissione parlamentare antimafia «si occupi di ricostruire questa pagina oscura della storia d’Italia».
Fortificata dalla sentenza di Caltanissetta, Fiammetta Borsellino ha ribadito che insisterà per incontrare di nuovo in carcere i fratelli Graviano nonostante qualche magistrato, al momento del primo incontro, avesse ipotizzato il rischio di inquinamento delle prove: «Non sono un magistrato, in carcere non parlo di indagini. Vedo solo una grande speranza negata». Una speranza che, forse, potrebbe essere meno flebile, ora che i magistrati nisseni hanno per la prima volta squarciato il velo di silenzio sui depistaggi della strage.