Corriere del Ticino 23.5.2022 di DARIO CAMPIONE
Trent’anni fa moriva a Capaci il magistrato simbolo della lotta a Cosa Nostra – Il ricordo di chi lo ha conosciuto si intreccia con vicende oscure rimaste tuttora senza risposta – Ad esempio, perché e da chi fosse stato manomesso il plico spedito da Palermo nell’estate del 1985 agli uffici di polizia della città ticinese
Raccontare Giovanni Falcone ai lettori del Corriere del Ticino, a trent’anni dall’esplosione che il 23 maggio 1992 uccise il giudice, la moglie e tre uomini di scorta (oltre a spegnere le residue «speranze dei palermitani onesti»), potrebbe essere un esercizio di stile. Una commemorazione. Che non piacerebbe, in primo luogo, nemmeno allo stesso magistrato. Meglio, allora, entrare nella storia di quei terribili anni attraverso le donne e gli uomini che ne furono diretti protagonisti lavorando a fianco delle due figure carismatiche – Giovanni Falcone, appunto, e Paolo Borsellino – destinate a diventare, con la loro tragica morte, simboli di una (fragile) stagione di riscatto sociale e culturale.
Un salto nel passato riporta così a Palermo, nell’estate del 1985. Il 6 agosto, prima di varcare il portone di casa in via Croce Rossa, il vicequestore Ninni Cassarà, 38 anni, è fatto bersaglio dei colpi di kalashnikov sparati da un gruppo di fuoco di nove uomini, guidati da Antonino Madonia, Giuseppe Greco e Giuseppe Giacomo Gambino. Cassarà muore tra le braccia della moglie Laura. Con lui, viene ucciso anche uno degli agenti della scorta, Roberto Antiochia.
Qualche giorno dopo, giunge negli uffici della polizia di Lugano un plico spedito proprio da Cassarà poco prima di morire. Contiene una richiesta di informazioni. L’ultimo atto ufficiale del dirigente della questura di Palermo.
La relazione del 1985
L’episodio, uno dei tanti misteri di mafia che non ha mai trovato risposta, è riemerso in queste settimane con la pubblicazione del libro di Salvo Palazzolo I fratelli Graviano. Stragi di mafia, segreti, complicità (Laterza). Cronista della redazione siciliana della Repubblica, Palazzolo è stato uno dei giovani collaboratori di don Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio assassinato da Cosa Nostra il 15 settembre 1993 proprio su ordine dei Graviano. «Racconto questa storia perché me lo ha chiesto chi ha lavorato fianco a fianco con Ninni Cassarà – dice Palazzolo al CdT – e in particolare Margherita Pluchino, fino a pochi mesi fa a capo del gabinetto di polizia scientifica a Palermo. All’inizio degli anni ’80, Margherita era alla mobile. In quel terribile agosto del 1985 aveva scritto una relazione di servizio in cui spiegava ai capi della questura come Cassarà, poco prima di morire, avesse spedito alcuni documenti in Svizzera per un’indagine riservata che stava conducendo con il giudice Falcone sui soldi dei mafiosi all’estero. La rogatoria si fermò prima ancora di iniziare. Dopo l’omicidio di Cassarà, infatti, la polizia di Lugano informò che il plico era arrivato aperto e privo di alcuni fogli. “Nessuno ha mai voluto approfondire questa storia”, mi ha detto Margherita Pluchino, “prova a capire tu”».
«Cassarà – dice ancora Salvo Palazzolo – aveva chiesto ai suoi di controllare che il plico fosse arrivato. Con Falcone cercava informazioni su un finanziere originario di Terrasini, Vito Roberto Palazzolo, il manager dietro il quale – si sarebbe poi scoperto – si muoveva la colossale operazione di riciclaggio messa in piedi in Svizzera per ripulire i soldi della Pizza Connection, il traffico di droga gestito da Cosa nostra fra il Medio Oriente, la Sicilia e gli Stati Uniti».
Pizza Connection
«Tutto era cominciato con l’arresto da parte mia del Palazzolo, che io stesso interrogavo, con un mio segretario e senza agenti di polizia, da solo, in penitenziario – ricorda l’avvocato Paolo Bernasconi, all’epoca procuratore pubblico del Sottoceneri – Mi aveva fornito informazioni molto utili sulla base delle quali potemmo poi preparare la grande retata di appartenenti alla Pizza Connection. L’operazione era stata preparata con magistrati e funzionari di Paesi diversi in una riunione che avevamo tenuto segretamente, assieme a Giovanni Falcone, in una caserma di Zurigo».
Nelle indagini su Pizza Connection, dice ancora Bernasconi, «era coinvolto anche il commissario Ninni Cassarà. Non ricordo di averlo visto personalmente a Lugano. Tuttavia, a proposito del plico di cui parla la dottoressa Pluchino, se mai una rogatoria fosse arrivata priva di qualche pagina, non sarebbe stato un problema insormontabile. Suppliva comunque il fatto che Giovanni Falcone e io ci scambiavamo le informazioni personalmente nei nostri incontri a Lugano, in presenza di pochissimi e fidati agenti di polizia giudiziaria».
E a questo proposito, Bernasconi rammenta sempre quanto il giudice siciliano gli diceva riguardo agli spostamenti in Ticino: «Paolo, non scendere tu a Palermo, perché comunque gli accusati vorrebbero avvalersi della facoltà di non risponderti e perché la tua sicurezza mi creerebbe soltanto problemi. Lascia che venga io a Lugano, almeno per una notte dormo tranquillo».
Una storia di segreti
La storia della mafia è soprattutto «una storia di segreti – rimarca però Salvo Palazzolo – Chi ha rubato il diario di Falcone e l’agenda rossa di Borsellino? Chi ha aperto il plico di Cassarà spedito a Lugano? La forza di Matteo Messina Denaro, latitante ormai da quasi 30 anni, si basa proprio sui segreti che custodisce. Lo stesso vale per i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, figure centrali delle cosche palermitane, uomini direttamente coinvolti in tutte le stragi del ’92 e ’93 e del mancato attentato allo stadio Olimpico di Roma del 1994. Dal carcere, Giuseppe Graviano continua a mandare segnali a persone vicine a Silvio Berlusconi, con il quale dice di aver avuto contatti. Perché lo fa? Chi ricatta? Che cosa vuole? E che cosa può ottenere? Una cosa è certa: Messina Denaro e i Graviano, che erano la “SuperCosa” di Totò Riina, oggi sono al comando dell’organizzazione».
Questa nuova Cosa Nostra ha cambiato le sue rotte tradizionali, «la Svizzera – conclude Salvo Palazzolo – non è più un porto sicuro, anche per merito delle scelte politiche in materia di segreto bancario. Ma non bisogna allentare la presa, come dimostra la vicenda di Mimmo Scimonelli, l’uomo che, si dice, custodisse a Lugano il tesoro del boss di Castelvetrano».
L’atto d’accusa nell’ultima intervista
Martedì 19 maggio 1992. A Roma, in via Arenula, al terzo piano dell’edificio in cui ha sede l’allora ministero di Grazia e Giustizia, Giovanni Falcone risponde alle domande di Giovanni Marino che lo intervista per l’edizione napoletana della Repubblica. L’articolo esce due giorni dopo. È l’ultimo in cui il magistrato parla di sé, del suo lavoro, di Cosa Nostra.
«La mafia – scandisce Falcone – non è il frutto malato di una società sana, ma una realtà autonoma con leggi severe create al proprio interno. Dotata di una struttura verticistica, piramidale e unitaria. Cosa Nostra si fonda sull’assenza dello Stato in Sicilia, un vuoto colmato con regole alternative, elastiche nella loro apparente rigidità formale. Cosa Nostra è come una chiesa, dispone di un ordinamento paragonabile a quello ecclesiale. E come la chiesa, sa rinnovarsi senza rinunciare alle proprie fondamenta: non è un caso che il capo della Cupola, Michele Greco, sia stato soprannominato il Papa».
Combattere la mafia si deve. Sconfiggerla si può. Ma serve cambiare passo.
«Cosa Nostra non dimentica – dice ancora il magistrato al giornalista – Non l’ho mai concretamente vista come una piovra. La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante. Per questo bisogna fare in fretta e mettersi d’accordo sulla superprocura, strumento essenziale per arginare l’espansione dei boss».
Il riferimento di Falcone è chiaro. Dopo l’istituzione per decreto (nel novembre dell’anno precedente) della Direzione Nazionale Antimafia, tutto è inspiegabilmente fermo. L’ex giudice istruttore del Tribunale di Palermo, in quel momento a capo della direzione Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, è riuscito nell’obiettivo di creare la cabina di regia unitaria di lotta alle cosche. Ma fatica a comprendere lo stallo sulla nomina di chi deve dirigere la nuova struttura.
«Inutile farsi illusioni – aggiunge realisticamente il magistrato – Non credo che sarò io il superprocuratore. Ma non mi importa granché. Quello a cui tengo veramente è che la DNA entri al più presto in funzione. Che a guidarla possa essere io o il procuratore calabrese Agostino Cordova è davvero un dettaglio. Non c’è tempo da perdere, bisogna mettere da parte le guerre tra il Consiglio Superiore della Magistratura, l’Associazione Nazionale Magistrati, il ministro Guardasigilli (il socialista Claudio Martelli, ndr), i partiti. Cosa Nostra delinque senza soste, mentre noi litighiamo senza soste».
Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur, aveva detto – citando Tito Livio – il cardinale arcivescovo di Palermo Salvatore Pappalardo nell’omelia dei funerali del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, in una basilica di San Domenico attonita e muta. Lo stesso sembra ripetere ora Giovanni Falcone.
«Critiche, polemiche strumentali, partiti un contro l’altro armati, che tristezza – commenta il magistrato palermitano che, nota il cronista, “ha messo da parte il linguaggio burocratico e i grandi silenzi che ne hanno scandito l’incisiva attività di giudice, perno del pool antimafia” – Mi accusano di volere il pubblico ministero schiavo dell’Esecutivo, succube del potere politico, incapace di esplicare la propria irrinunciabile autonomia. È una mistificazione, una scusa per bloccare la DNA. Senza coordinamento, quella con la mafia si può già considerare una guerra persa, senza appello. Stiamo perdendo un’occasione storica per mettere in piedi una struttura moderna, funzionale; l’unica arma con la quale si può cercare di bloccare l’avanzata mafiosa. Dicevano che ero comunista, adesso mi etichettano come socialista: c’è sempre una buona ragione per ritardare le misure antimafia e prendersela con Giovanni Falcone».