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28 luglio 1988 – Tratto dall’intervento del dottor FALCONE al convegno promosso da Mondo Operaio
3 ottobre 1991 – La Repubblica – Intervista di Mario Pirani al dottor Giovanni Falcone
Sono state le influenze mafiose che hanno indotto l’apparato dello Stato a ripiegare sui vecchi metodi, da sempre inefficaci? Le gelosie corporative dei magistrati? Le titubanze di una classe politica, condizionata da connivenze difficili da sciogliere? Una congiura sotterranea? “Nessun complotto, nessun complotto. La verità è più semplice, più impalpabile, più desolante. Quando nell’ 84, grazie alle rivelazioni di Buscetta, furono emessi una serie di mandati, che sfociarono poi nel maxi- processo contro numerosi imputati, e caddero dai loro piedistalli personaggi eccellenti come l’ex sindaco Ciancimino e i potenti fratelli Salvo, il Time dedicò una copertina alla Sicilia, intitolata Break-down on the mafia (Colpo vincente sulla mafia). Ci stavamo muovendo, finalmente, con metodi in qualche modo comparabili a quelli messi in atto negli Stati Uniti contro Cosa nostra. Purtroppo, per una serie di ragioni, quello che avrebbe dovuto essere il primo colpo si è limitato ad essere l’unico”.
Nessun complotto contro i pool Lei accenna ad una “serie di ragioni”, ma le lascia nel vago. Vorrebbe essere più esplicito? “Come le ho detto non si è trattato affatto di un complotto, ma, oserei dire, di una crisi di rigetto dalle molteplici origini. Non bisogna dimenticare che allora, ed anche dopo, vi era chi sosteneva la non esistenza della mafia come organizzazione complessa, coi suoi vertici, i suoi capi, i suoi gregari, un suo proprio dinamismo e strategia; e soprattutto una struttura molto forte e duratura. La visione riduttiva di una mafia essenzialmente molecolare, che proliferava grazie ad un clima diffuso ma contro cui vi era poco da fare, se non cercare, con poco successo, di perseguire di volta in volta i singoli delitti, cozzava con la filosofia del pool e dei maxi processi. Questa aveva anche fatto cadere anche tanti luoghi comuni, come l’ impossibilità di utilizzare i pentiti o di arrivare ad individuare i colpevoli nei delitti di mafia. Venne, così, alimentata la preoccupazione che, se si seguitava con la strategia dei pool, si sarebbe lasciato via libera a una furia repressiva la quale, per combattere la mafia, avrebbe anche finito per travolgere ordinamenti stabiliti e tradizionali”.
Forse avevate anche creato eccessive aspettative? “Indubbiamente. Giocò anche contro di noi il timore di alcuni settori di partito che le inchieste si prestassero a speculazioni politiche. Si scatenò, quindi, una controffensiva di proporzioni gigantesche e alcune giuste critiche furono stravolte in accuse distruttive: il pool venne definito un centro di potere, le difficoltà naturali dei maxi processi vennero enfatizzate, gli errori commessi da altri magistrati in situazioni diverse (vedi caso Tortora) vennero strumentalizzate contro di noi, attacchi feroci vennero mossi al protagonismo dei giudici e, persino, all’ uso delle scorte. Tutto questo era espressione di una reazione naturale e spontanea, senza alcun bisogno di ricorrere a dietrologie, di un sistema basato su equilibri pietrificati. La stessa polemica di Sciascia nei confronti dei professionisti dell’antimafia venne letta come un attacco al pool”.
Ma non può certo negare che oltre che con Orlando e i gesuiti, Sciascia ce l’avesse con il giudice Borsellino, che era il suo più stretto collaboratore ? “Non lo nego affatto, ma ho sempre considerato Sciascia un grande siciliano, profondamente onesto. La sua critica ai criteri di nomina di Borsellino venne da altri enfatizzata proprio per colpire una innovazione rivoluzionaria, essenziale per condurre davvero la lotta alla mafia: quella di privilegiare nelle nomine di prima linea il criterio di professionalità sulle aspettative automatiche di carriera, basate sull’ età. Ora Borsellino era stato nominato procuratore a Marsala in base al merito e non all’ età. Sciascia osservò che i vecchi criteri andavano osservati, almeno fino a quando non ne fossero sanciti dei nuovi”.
Aveva torto? “Forse non aveva colto il valore esemplare di quella nomina. Certo, è evidente che di fronte ad un meccanismo automatico, la scelta professionale comporta il rischio di raccomandazioni e d’ influenze anche politiche. Queste, peraltro, hanno altri mezzi per farsi sentire e non si possono esorcizzare i rischi facendosi scudo con l’ anzianità. Se così fosse non si capisce cosa ci stia a fare il Csm: basterebbe un impiegato addetto all’ aggiornamento del registro anagrafico dei magistrati. Comunque è un grave handicap per la giustizia che certi posti decisivi vengano assegnati come premio e non in base alle esigenze del servizio. Del resto la storia della mia esperienza siciliana parla da sola: la nomina di Meli a consigliere istruttore di Palermo nell’ ‘ 87 segnò la prima battuta d’ arresto; poi seguì nell’ ‘ 88 l’inchiesta del Csm su Borsellino e la vanificazione del pool. Quel nucleo di forze venne disperso. Subentrò la stanchezza e la delusione. Il terreno conquistato contro la mafia fu via via eroso. Frattanto, nel corso di queste laceranti vicende, i politici venivano affermando che il nuovo codice di procedura avrebbe messo a posto tutto”.
E così non è stato? “La questione centrale, che non riguarda solo la criminalità organizzata, sta nel trarre tutte le conseguenze sul piano dell’ordinamento giudiziario che il passaggio dal processo inquisitorio al processo accusatorio comporta.
Se questa riforma dell’ ordinamento non sopravviene rapidamente il nuovo processo è destinato a fallire.
Un sistema accusatorio parte dal presupposto di un pubblico ministero che raccoglie e coordina gli elementi della prova da raggiungersi nel corso del dibattimento, dove egli rappresenta una parte in causa.
Gli occorrono, quindi, esperienze, competenze, capacità, preparazione anche tecnica per perseguire l’obbiettivo. E nel dibattimento non deve avere nessun tipo di parentela col giudice e non essere, come invece oggi è, una specie di para-giudice.
Il giudice, in questo quadro, si staglia come figura neutrale, non coinvolta, al di sopra delle parti.
Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri.
Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il Pm sotto il controllo dell’ Esecutivo.
È veramente singolare che si voglia confondere la differenziazione dei ruoli e la specializzazione del Pm con questioni istituzionali totalmente distinte.
Gli esiti dei processi, a cominciare da quelli di mafia, celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell’ ordinamento, sono peraltro sotto gli occhi di tutti”.
L’investigazione deve fare un grande salto. Se non sbaglio si vuole un processo all’ americana (come si vede nei film), ma con una magistratura assolutamente all’ italiana. Nei processi di mafia il nuovo codice non ha, dunque, risolto nulla? “Si può dire che siamo in una delicatissima fase di transizione in cui si contrappongono due concezioni, quelle che già si scontrarono sui pool, tra chi sostiene che ogni magistrato può essere titolare di ogni tipo d’ indagine e chi, come il sottoscritto, reputa illusorio per questa via arrivare ad indagini con risultati processuali apprezzabili nei confronti di una criminalità organizzata che opera su scala nazionale e internazionale. Cosa facciamo? Seguitiamo a contrapporgli il procuratore di Patti o di S. Maria Capua Vetere, sol perché la polverizzazione individuale delle competenze della magistratura impedirebbe il suo condizionamento politico? E come rendere compatibile il coordinamento delle indagini tra una polizia con struttura sempre più centralizzata e una magistratura polverizzata nel territorio? Come arrivare a una strategia d’ intervento su larga scala? Un passo in avanti mi sembra la recente proposta di concentrare le inchieste sulla criminalità organizzata dalle 159 procure presso i tribunali alle 26 procure presso la Corti d’ Appello. Occorrerebbe ora orientarsi alla creazione di una struttura di procuratori esclusivamente dedicati a questo tipo d’ indagini e processi”.
Resta il fatto che i colpevoli non vengono scoperti o che i processi seguitino a concludersi con scarcerazioni e assoluzioni. Tutta colpa del nuovo codice? “È un codice di altissima civiltà giuridica, ma, per renderlo pienamente operativo, non può essere lasciato monco delle indispensabili strutture materiali e di una riforma dell’ ordinamento della magistratura, come ho cercato di spiegare. Del resto ce lo conferma proprio l’ esperienza processuale. Il vecchio codice privilegiava il reato associativo, che, d’ altra parte, era difficile da appurare quando si arrivava al dunque. Col nuovo codice bisogna provare soprattutto i delitti specifici, di cui l’ associazione mafiosa costituisce il quadro di riferimento (già col maxi-processo ci eravamo attenuti alla ricerca dei delitti specifici su cui incardinare le accuse). Ma come arrivarci senza un grande salto di qualità e di organizzazione della capacità investigativa, atta ad individuare e provare i fatti specifici (quindi micro- spie, infiltrati, agenti sotto copertura, pentiti, sofisticate indagini patrimoniali e quant’ altro)?”
L’utilizzazione dei pentiti è stata sovente disattesa dalle corti di seconda e terza istanza. Lei reputa ancora possibile la loro utilizzazione? “Su questo punto ci sono state enormi polemiche che non toccano l’essenza del pentitismo come elemento probatorio. Sbaglia chi confonde i collaboratori di giustizia, gente che ammette i propri reati e chiama la correità di altri, con i delatori o gli informatori. È , comunque, materia di grande delicatezza su cui si gioca la professionalità del magistrato che deve vagliare nel concreto l’ attendibilità delle dichiarazioni. Queste possono rivelarsi utilissime o creare problemi d’ inquinamento probatorio di dimensioni incredibili. Sta al libero convincimento del giudice accertarne la fondatezza e cercare i riscontri: ad esempio Buscetta diceva il vero quando mi dichiarò che Ciancimino era nelle mani dei corleonesi, ma per il mandato di cattura il necessario riscontro mi venne dalle indagini patrimoniali sull’ accusato. Ciò detto ho fiducia nel programma di protezione dei pentiti che sta entrando in vigore anche da noi, speriamo con risultati utili”.
È necessaria una specie di Fbi anche in Italia? “Vorrei fare una premessa di carattere più generale sul rapporto magistratura-polizia: ebbene io credo che sia profondamente sbagliata la concezione, che si evince anche dal nuovo codice, secondo cui il Pm è il capo effettivo, addirittura operativo, della polizia giudiziaria. Si è confuso l’ organo investigativo con l’ organo dell’ esercizio dell’ azione penale. Il controllo di un Pm che indica alla polizia i modelli giuridici validi e ne controlla l’ applicazione è una norma di civiltà, ma il timore che una polizia giudiziaria troppo indipendente possa ledere l’ indipendenza della magistratura si è tradotto nella pericolosa e velleitaria utopia di un Pm, magari di prima nomina, superpoliziotto per diritto. È questa una delle cause della attuale situazione catastrofica, in cui la polizia giudiziaria è indotta a deresponsabilizzarsi, attende istruzioni e si appiattisce sull’ inadeguatezza del Pm, divenuto punto di riferimento di ogni possibile errore”. Una sola agenzia addestrata e agguerrita Negli Stati Uniti una struttura a disposizione del procuratore nelle inchieste contro “Cosa nostra” è la cosiddetta “Strike force”. Il gruppo interforze di cui si parla come di una futura Fbi italiana è qualcosa di analogo? “Non direi: la forza d’ urto americana è basata su una collaborazione interdisciplinare tra uomini delle varie agenzie (Fbi, antidroga, delitti fiscali, dogane, polizia territoriale). Da noi abbiamo tre organismi – Carabinieri, Ps e GdF – con competenze promiscue e indifferenziate. Si dice che questo esalta una concorrenza positiva ma non è vero niente: non serve a nessuno che tutti e tre lavorino sulle stesse indagini e questo provoca solo duplicazioni e intralci reciproci. Occorre puntare ad una agenzia investigativa, come c’ è in tutti i paesi, un corpo bene addestrato e professionalmente agguerrito. Forse, però, sarebbe opportuno procedere per gradini intermedi, sulla base di una idea guida, iniziando con un coordinamento dei vertici e andando avanti con progressive modifiche per arrivare ad un corpo unico d’ investigatori”.
La trasmissione di Samarcanda-Costanzo ha lasciato, tra gli altri, qualche strascico polemico circa la sua posizione. Non le sembra il caso di chiarirla meglio? “Posso solo dire che nutro sempre il timore che, a volte, il parlare di mafia, confondendo cose giuste e accuse generiche, possa concludersi con una glorificazione involontaria di Cosa nostra, la quale accresce la sua influenza quando le parole non sono seguite da fatti; allo stesso tempo, però, sono convinto che una delle maggiori spinte e aiuti alla lotta alla mafia venga dalla consapevolezza del fenomeno, dal coinvolgimento della opinione pubblica, dalle denunce della stampa e della Tv. Dunque, più se ne parla e meglio è: a condizione che si abbia consapevolezza della responsabilità delle cose che si dicono“.
MARZO 1989 – La lezione inedita del dottor Giovanni Falcone sulla separazione delle carriere
1ª PARTE
2ª PARTE
Giovanni Falcone, spiegò perché giudici e procure dovevano avere carriere separate. Lo riportò “il Dubbio” del primo giugno che pubblicó un estratto dal libro ‘ La posta in gioco. Interventi e proposte per la lotta alla mafia’ – Bur biblioteca univ. Rizzoli. Un approfondimento a firma di Giovanni Falcone qui di seguito riportato.
«Timidamente, dunque, e tra molte esitazioni e preoccupazioni, comincia a farsi strada faticosamente la consapevolezza che la regolamentazione delle funzioni e della stessa carriera dei magistrati del pubblico ministero non può più essere identica a quella dei magistrati giudicanti, diverse essendo le funzioni e, quindi, le attitudini, l’ habitus mentale, le capacità professionali richieste per l’espletamento di compiti così diversi: investigatore a tutti gli effetti il pubblico ministero, arbitro della controversia il giudice. Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere.
Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura,costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti.
È unanimemente riconosciuto che i valori dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura non costituiscono un privilegio di casta, ma un necessario riconoscimento previsto al fine di garantire l’imparzialità del giudice e l’eguaglianza del cittadino di fronte alla legge; si tratta quindi di valori che debbono essere intesi non in senso formale, ma in funzione dei fini in vista dei quali sono stati riconosciuti.
Se così è, a me sembra che continuando a disciplinare unitariamente la carriera dei magistrati con funzioni giudicanti e quella dei magistrati requirenti, non si potranno cogliere normativamente le specificità delle funzioni requirenti e, quindi, non si potranno disciplinare adeguatamente quei passaggi centrali in cui in concreto si gioca l’autonomia e l’indipendenza del pubblico ministero; dal momento che non si può disconoscere che un giudice penale, ormai passivo e terzo rispetto all’esercizio dell’azione penale e alla attività di acquisizione delle prove, ha esigenze di indipendenza e di autonomia, identiche nella sostanza ma ben diverse nel loro concreto atteggiarsi, rispetto a un pubblico ministero che ha la responsabilità e l’onere, non solo dell’esercizio dell’azione penale, ma anche della ricerca delle notizie di reato e degli elementi che gli consentiranno di esercitare utilmente il suo magistero. Se non si porrà mente con attenzione a questo delicato aspetto della questione, si correrà il rischio – e già si colgono alcuni segnali in questa direzione – di impantanarsi in dibattiti estenuanti e fuorvianti su problemi che, pur essendo indubbiamente importanti (come ad esempio quello sulla obbligatorietà dell’azione penale), non colgono l’essenza della questione, che è quella di dare slancio e incisività all’azione penale del pubblico ministero, garantendo, però, l’indipendenza e l’autonomia di tale organo.
I valori di autonomia e indipendenza rapportati al ruolo del pubblico ministero nell’impianto complessivo della Costituzione, non equivalgono a sostanziale irresponsabilità.
E con ciò, ovviamente, non mi riferisco soltanto alle responsabilità penale, civile e disciplinare, connesse a violazioni di doveri di condotta espressamente sanzionati. Mi riferisco, piuttosto, alla responsabilità per la funzionalità degli uffici di procura e per la politica giudiziaria complessiva, che non può essere lasciata alla mercé delle scelte, prive di adeguati controlli, dei capi degli uffici – o peggio dei singoli magistrati – senza alcuna possibilità istituzionale di intervento.
Tanto non giova alla resa del servizio- giustizia in termini di reale, coordinato e generalizzato contrasto delle manifestazioni di criminalità, e non giova nemmeno in termini di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; dato che, ad esempio, un evasore fiscale di Torino sarà perseguito, a differenza di quello di Palermo, perché il procuratore della Repubblica del luogo avrà privilegiato – nell’impossibilità di attivarsi per tutti i reati di competenza – la persecuzione di siffatte attività illecite, piuttosto che, ad esempio, della microcriminalità, senza dovere per questo rendere conto delle ragioni e dei criteri che hanno orientato la sua scelta. Ma ciò non giova neanche all’immagine della giustizia, che a fronte di interventi talora tempestivi soltanto per fatti di scarsa rilevanza sociale, e talora tardivi per episodi di elevata pericolosità, appare all’opinione pubblica come una variabile impazzita del sistema.
Mi rendo perfettamente conto che l’argomento è fra i più delicati e che merita attenta riflessione.
Mi piace in proposito ricordare, che in sede di Costituente, proprio uno dei maggiori sostenitori dell’indipendenza della magistratura, l’on. Calamandrei, sul rilievo che un sistema di assoluta separazione della magistratura dagli altri poteri dello Stato presentava inconvenienti di segno opposto, ma non meno gravi, rispetto a quelli di dipendenza dall’esecutivo, propose la istituzione di un «Procuratore Generale Commissario della Giustizia», scelto tra i procuratori generali di Corte d’appello o di cassazione, nominato dal presidente della Repubblica su designazione delle Camere, con diritto di prendere parte alle sedute del Consiglio dei ministri con voto consultivo e responsabilità di fronte al Parlamento per il buon funzionamento della giustizia».
13.9.2023 – Greco (CNF): “Separazione carriere magistrati è indispensabile” – CNF News
Audizione davanti alla commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati
«Riteniamo che sia indifferibile il momento della separazione delle carriere dei magistrati in due ordini differenti, ossia tra magistratura giudicante e inquirente. Se si vuole attuare il principio costituzionale del giusto processo separare le due funzioni è indispensabile. Perché altrimenti è come se l’arbitro di una partita di calcio appartenesse a una delle due squadre che si sfidano in campo. I timori espressi sui rischi di questa riforma sono assolutamente infondati, non esiste il pericolo di una magistratura assoggettata al potere esecutivo. Nei sistemi democratici più avanzati c’è separazione delle funzioni tra magistratura giudicante e inquirente. È nelle dittature che chi giudica e chi accusa appartengono allo stesso soggetto. Oggi, in Italia, il processo si celebra tra due colleghi e un estraneo: i due colleghi sono il giudice e il pm, l’estraneo è l’avvocato difensore». Così Francesco Greco, Presidente del Consiglio Nazionale Forense in audizione in commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati sulle proposte di legge sulla separazione delle carriere dei magistrati.
“𝗣𝗥𝗘𝗠𝗜𝗘𝗥 𝗘 𝗡𝗢𝗥𝗗𝗜𝗢 𝗡𝗢𝗡 𝗨𝗦𝗜𝗡𝗢 𝗜𝗟 𝗡𝗢𝗠𝗘 𝗗𝗜 𝗙𝗔𝗟𝗖𝗢𝗡𝗘”
Giuseppe Pipitone intervista 𝐀𝐥𝐟𝐫𝐞𝐝𝐨 𝐌𝐨𝐫𝐯𝐢𝐥𝐥𝐨 sul Fatto Quotidiano del 31/05/2024
Alfredo Morvillo è furibondo. “Carlo Nordio deve lasciar riposare in pace i morti”, ripete più volte il fratello di Francesca, la moglie di Giovanni Falcone, uccisa con lui nella strage di Capaci. Magistrato in pensione, a Morvillo non è piaciuto che il guardasigilli abbia dedicato a suo cognato la riforma sulla separazione delle carriere. “Questo è il solito giochetto: usano il nome di Falcone come prova della bontà delle loro tesi”, dice l’ex pm. “Eppure – sottolinea – quando il ministro parla di concorso esterno, di intercettazioni o di 41 bis, si guarda bene dal citare Falcone: come mai? Forse perché in realtà tra le posizioni di Nordio e quelle di Giovanni c’è un abisso”.
𝐈𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐜𝐚𝐬𝐨, 𝐩𝐞𝐫𝐨̀, 𝐢𝐥 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐠𝐧𝐨 𝐝𝐢 𝐅𝐚𝐥𝐜𝐨𝐧𝐞 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐬𝐞𝐩𝐚𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐜𝐚𝐫𝐫𝐢𝐞𝐫𝐞 𝐞̀ 𝐮𝐧 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐨 𝐧𝐨𝐭𝐨: 𝐝𝐨𝐭𝐭𝐨𝐫𝐞, 𝐧𝐨𝐧 𝐞̀ 𝐝’𝐚𝐜𝐜𝐨𝐫𝐝𝐨? Non è affatto vero, questa è una mistificazione. Per fortuna siamo ancora in tanti che conosciamo il pensiero di Giovanni, essendo cresciuti al suo fianco.
𝐄𝐩𝐩𝐮𝐫𝐞 𝐢𝐧 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐞 𝐨𝐫𝐞 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐭𝐨𝐫𝐧𝐚𝐭𝐢 𝐚 𝐜𝐢𝐫𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐢 𝐯𝐢𝐫𝐠𝐨𝐥𝐞𝐭𝐭𝐚𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐅𝐚𝐥𝐜𝐨𝐧𝐞 𝐬𝐮𝐥 𝐭𝐞𝐦𝐚. 𝐀𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐞𝐦𝐢𝐞𝐫 𝐌𝐞𝐥𝐨𝐧𝐢 𝐥𝐢 𝐡𝐚 𝐩𝐨𝐬𝐭𝐚𝐭𝐢 𝐬𝐮𝐢 𝐬𝐨𝐜𝐢𝐚𝐥: 𝐢𝐥 𝐬𝐢𝐠𝐧𝐢𝐟𝐢𝐜𝐚𝐭𝐨 𝐝𝐢 𝐪𝐮𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐩𝐚𝐫𝐨𝐥𝐞 𝐞̀ 𝐜𝐡𝐢𝐚𝐫𝐨, 𝐧о? Sono frasi che fanno parte di un discorso più ampio, pronunciato da Falcone in due interventi del 1989 e 1990, come ha ricordato Gioacchino Natoli: Giovanni era contrario alla separazione delle carriere. Semmai era un sostenitore della cosiddetta separazione delle funzioni o quantomeno della necessità di una specializzazione per l’ufficio del pubblico ministero.
𝐈𝐧 𝐮𝐧’𝐢𝐧𝐭𝐞𝐫𝐯𝐢𝐬𝐭𝐚 𝐝𝐞𝐥 𝟏𝟗𝟗𝟏, 𝐩𝐞𝐫𝐨̀, 𝐅𝐚𝐥𝐜𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐢𝐜𝐡𝐢𝐚𝐫𝐚𝐯𝐚: “𝐈𝐥 𝐩𝐦 𝐧𝐨𝐧 𝐝𝐞𝐯𝐞 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐧𝐞𝐬𝐬𝐮𝐧 𝐭𝐢𝐩𝐨 𝐝𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐞𝐧𝐭𝐞𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐧 𝐢𝐥 𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐜𝐞 𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐝𝐞𝐯𝐞 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞, 𝐜𝐨𝐦𝐞 𝐢𝐧𝐯𝐞𝐜𝐞 𝐞̀ 𝐨𝐠𝐠𝐢, 𝐮𝐧𝐚 𝐬𝐩𝐞𝐜𝐢𝐞 𝐝𝐢 𝐩𝐚𝐫𝐚𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐜𝐞”. Quelle risposte sono decontestualizzate. All’epoca era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale e Falcone esponeva le sue preoccupazioni sul cambiamento delle funzioni dei pm.
𝐎𝐯𝐯𝐞𝐫𝐨? Con la riforma, gli uffici della Procura sarebbero stati improvvisamente investiti dell’onere del coordinamento delle indagini, che fino a quel momento era compito dell’Ufficio Istruzione. Falcone sapeva che le Procure non avevano esperienza pregressa in materia, dunque riteneva necessaria una sorta di specializzazione.
𝐃𝐮𝐧𝐪𝐮𝐞 𝐜𝐡𝐢𝐞𝐝𝐞𝐯𝐚 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐨𝐫𝐬𝐢 𝐬𝐞𝐩𝐚𝐫𝐚𝐭𝐢 𝐭𝐫𝐚 𝐩𝐦 𝐞 𝐠𝐢𝐮𝐝𝐢𝐜𝐢? Ma questo non ha niente a che vedere con la separazione delle carriere: anche Armando Spataro ha scritto di recente che Falcone era contrario. Semmai poneva una necessità: i pm non avevano mai coordinato le indagini, dunque avrebbero dovuto avere una preparazione supplementare, al di là delle semplici materie del concorso. D’altra parte se parliamo di separazione delle carriere dovremmo anche ricordare che tipo di carriera ha fatto Giovanni.
𝐍𝐞𝐥 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐚𝐦𝐛𝐢𝐨̀ 𝐩𝐢𝐮̀ 𝐯𝐨𝐥𝐭𝐞 𝐟𝐮𝐧𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞? Per quattro volte: fu pretore, giudice, pm, Procuratore aggiunto e poi magistrato fuori ruolo al ministero. Lo stesso ha fatto Paolo Borsellino.
𝐄𝐩𝐩𝐮𝐫𝐞 𝐢 𝐬𝐮𝐩𝐩𝐨𝐫𝐭𝐞𝐫 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐫𝐢𝐟𝐨𝐫𝐦𝐚 𝐬𝐢 𝐟𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐬𝐜𝐮𝐝𝐨 𝐜𝐨𝐥 𝐧𝐨𝐦𝐞 𝐝𝐢 𝐬𝐮𝐨 𝐜𝐨𝐠𝐧𝐚𝐭𝐨. E magari in questo modo evitano di ricordare che la separazione delle carriere era contenuta nel 𝑷𝒊𝒂𝒏𝒐 𝒅𝒊 𝒓𝒊𝒏𝒂𝒔𝒄𝒊𝒕𝒂 𝒅𝒆𝒎𝒐𝒄𝒓𝒂𝒕𝒊𝒄𝒂 𝒅𝒆𝒍𝒍𝒂 𝑷2 𝒅𝒊 𝑳𝒊𝒄𝒊𝒐 𝑮𝒆𝒍𝒍𝒊. Per questo dico a Nordio di lasciar riposare in pace i morti. Vada pure avanti con le sue riforme, anche più inutili di questa, ma la smetta di citare a sproposito il nome di chi non c’è più e non può replicare.
𝐌𝐢 𝐬𝐞𝐦𝐛𝐫𝐚 𝐝𝐢 𝐜𝐚𝐩𝐢𝐫𝐞 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐦𝐮𝐧𝐪𝐮𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐞𝐩𝐚𝐫𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐜𝐚𝐫𝐫𝐢𝐞𝐫𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐥𝐞 𝐩𝐢𝐚𝐜𝐞: 𝐩𝐞𝐫𝐜𝐡𝐞́? Questa riforma non ha niente a che vedere coi problemi attuali del sistema giustizia, che sono ben altri. Avere un giudice che fa una carriera separata rispetto a quella del pm in che modo velocizzerà i processi? Direi nessuno. In compenso si avrà un altro effetto.
𝐐𝐮𝐚𝐥𝐞? Aver svolto entrambe le funzioni, di giudicante e di requirente, consente al magistrato di avere una cognizione completa della giurisdizione. Lo dico avendo fatto sia il pm che il giudice. La verità è che questa riforma ha un altro obiettivo.
𝐂𝐢𝐨𝐞̀? Ritengo che sia gravemente offensivo dipingere i giudici come passacarte delle Procure, influenzabili solo per aver fatto lo stesso concorso del pm. Ma risponde a un’operazione portata avanti negli ultimi anni da quasi tutte le forze politiche: si vuole diffondere sfiducia nei confronti della giustizia. Solo che quando in un Paese viene meno la fiducia nella giustizia, cominciano a essere in pericolo anche le libertà democratiche
Nel maggio del 2017, le camere penali e il Partito Radicale stavano raccogliendo le firme per la separazione delle carriere. Massimo Bordin, nel suo corsivo su Il Foglio, scrive di aver firmato e ricorda che già negli anni ’80 i radicali avevano posto la questione: l’ANM era ovviamente contraria, ma non diversi singoli magistrati che mostrarono apertura. Tra di loro Giovanni Falcone.DAMIANO ALIPRANDI
Chi ha torto e chi ragione su Falcone e la separazione delle carriere. L’opinione di Cangini