Nel 1990, durante una puntata di ‘Samarcanda’, Orlando attaccò Falcone: “Ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti”.
9.5.2022 Orlando: “A Falcone direi le stesse cose ma con tono diverso. La mia fu una denuncia politica”
Nel 1990, durante una puntata di ‘Samarcanda’, Orlando attaccò Falcone: “Ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti“. Un’accusa che provocò polemiche e divisioni sul fronte antimafia e che come ha ammesso lo stesso Orlando, causò anche grande dolore in me come in lui. Ieri a Sambuca il sindaco di Palermo ha ripercorso quegli anni e ha tracciato un bilancio della lotta alla mafia a trent’anni dalle stragi in un dialogo con i giornalisti dell’ANSA che ha promosso insieme all’amministrazione comunale un evento per ricordare i trent’anni dalla stragi del ’92.
“Palermo – ha sottolineato Orlando – oggi non è più la capitale della mafia ma una città dei diritti, a dispetto degli anni in cui la mafia non stava a guardare ma governava attraverso Vito Ciancimino e Salvo Lima“. Nel corso della serata si è parlato anche del libro “L’eredità di un giudice” (Mondadori editore) scritto da Maria Falcone con Lara Sirignano che sarà presentato al Salone del libro di Torino il prossimo 18 maggio.
In teatro, dopo la proiezione del docu-film e il dibattito con Orlando, è andato in scena lo spettacolo ‘Nel tempo che ci resta. Elegia per Giovanni Falcone e Paolo Borsellino’, con la regia di Cesar Brie. Sulla scena quattro attori interpretano Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e Agnese Piraino Leto e poi lo stesso Brie nel ruolo di Tommaso Buscetta… IL SICILIA 9 maggio 2022
9.5.2022 Leoluca Orlando, direi stesse cose a Falcone ma tono diverso
Ribadirei oggi, come allora, quelle affermazioni sulle ‘prove nei cassetti’ riguardo ai rapporti tra mafia e politica, la mia, come era una denuncia politica non giudiziaria”.
Lo ha detto ieri sera il sindaco di Palermo Leoluca Orlando intervenuto alla proiezione del docu-film “Falcone e Borsellino trent’anni dopo”, prodotto dall’ANSA, al teatro ‘L’Idea’ di Sambuca di Sicilia.
Nel 1990, durante una puntata di ‘Samarcanda’, Orlando attaccò Falcone: “Ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti”. Un’accusa che provocò polemiche e divisioni sul fronte antimafia e che. come ha ammesso lo stesso Orlando, causò anche grande dolore in me come in lui. Ieri a Sambuca il sindaco di Palermo ha ripercorso quegli anni e ha tracciato un bilancio della lotta alla mafia a trent’anni dalle stragi in un dialogo con i giornalisti dell’ANSA che ha promosso insieme all’amministrazione comunale un evento per ricordare i trent’anni dalla stragi del ’92. “Palermo – ha sottolineato Orlando – oggi non è più la capitale della mafia ma una città dei diritti, a dispetto degli anni in cui la mafia non stava a guardare ma governava attraverso Vito Ciancimino e Salvo Lima”. ANSA
20.5.2021 Martelli, “Falcone non si spiegava gli attacchi di Orlando”
25.5.2019 L’ex pm antimafia Di Lello: “Fu Orlando a firmare un esposto contro Falcone”
Non si è ancora spento l’eco delle polemiche che hanno segnato le celebrazioni per il 27esimo anniversario della strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Dopo le assenze eccellenti del 23 maggio dalla cerimonia che si è svolta all’Aula bunker dell’Ucciardone a Palermo (prime fra tutte quelle di Leoluca Orlando, Claudio Fava e Nello Musumeci), interviene Giuseppe Di Lello, ex magistrato, già componente del pool antimafia ed ex parlamentare di Rifondazione comunista, che intervistato dall’Adnkronos, non usa giri di parole: “Fu Leoluca Orlando insieme al gruppo della Rete a fare l’esposto contro Falcone. Ma l’Italia è un Paese che non ricorda. Il 23 non è andato all’aula bunker perché c’era Salvini? Io dico che non sarei andato perché c’era lui”.
“La verità? E’ che la Sicilia è un’isola pirandelliana” ha detto ancora all’Adnkronos. Di Lello che fece, appunto, parte del pool antimafia spiega come anche quest’anno “come sempre” lui sia stato nell’Aula bunker, quella stessa aula in cui fu celebrato il primo maxiprocesso alla mafia. “Un’emozione come ogni anno – racconta –, ma anche un ricordo triste. Ho pensato a Chinnici, a Falcone, a Borsellino, un intero ufficio Istruzione demolito con il tritolo”.
“Troppi veleni” aveva comunicato il presidente della Regione siciliana per motivare la sua assenza. Una cerimonia ridotta a un “Grande Fratello”aveva detto Fava, mentre il sindaco Orlando aveva accolto gli ospiti istituzionali fuori dall’aula bunker “trasformata in piazza per comizi“, per poi andar via prima dell’arrivo del ministro dell’Interno. Secondo Peppino Di Lello, invece, quella del 23 “non è stata una passerella“. Per l’ex componente del pool antimafia, il ministro dell’Interno “aveva l’obbligo di essere presente” perché nella strage di Capaci “la mafia ammazzò anche tre poliziotti. Sarebbe stata assurda l’assenza di Salvini o del premier Conte” . IL SICILIA
22.5.2012 La storia di Leoluca Orlando e Giovanni Falcone
È la storia, questa, di un tradimento orribile da raccontare proprio nei giorni in cui Leoluca Orlando potrebbe diventare sindaco di Palermo per la terza volta, e che sono gli stessi giorni nei quali si celebra il ventennale della morte di Giovanni Falcone. Difatti «Orlando era un amico», racconta oggi Maria Falcone, sorella di Giovanni. «Erano stati amici, avevano pure fatto un viaggio insieme in Russia… Orlando viene ricordato soprattutto per quel periodo che in molti chiamarono Primavera di Palermo, ma anche per lo scontro durissimo che ebbe con Giovanni e che fu un duro colpo, distruttivo per l’antimafia in generale». Uno scontro che va raccontato bene, al di là della dignitosa discrezione adottata da Maria Falcone in Giovanni Falcone, un eroe solo da lei scritto di recente per Rizzoli.
Siamo nei tardi anni Ottanta. Leoluca Orlando, tuonando contro gli andreottiani, era diventato sindaco nel 1985 e aveva inaugurato la citata Primavera di Palermo che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni. Però, a un certo punto, dopo che il 16 dicembre 1987 la Corte d’assise di Palermo aveva comminato 19 ergastoli nel cosiddetto «maxiprocesso», qualcosa cambiò. Tutti si attendevano che il nuovo consigliere istruttore di Palermo dovesse essere lui, Falcone: ma il Csm, il 19 gennaio 1988, scelse Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità. E a Falcone cominciarono a voltare le spalle in tanti. Con Orlando, tuttavia, vi fu un episodio scatenante: «Orlando ce l’aveva con Falcone», ha ricordato l’ex ministro Claudio Martelli ad Annozero, nel 2009, «perché aveva riarrestato l’ex sindaco Vito Ciancimino con l’accusa di essere tornato a fare affari e appalti a Palermo con sindaco Leoluca Orlando, questo l’ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno». Il fatto è vero: fu lo stesso Falcone, in conferenza stampa, a spiegare che Ciancimino era accusato di essere il manovratore di alcuni appalti col Comune sino al 1988: si trova persino su YouTube.
Quando Falcone accettò l’invito di dirigere gli Affari penali al ministero della Giustizia, poi, la gragnuola delle accuse non poté che aumentare. Fu durante una puntata di Samarcanda del maggio 1990, in particolare, che Orlando scagliò le sue accuse peggiori: Falcone – disse – ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Per l’esattezza il riferimento era a otto scatole lasciate da Rocco Chinnici e a un armadio pieno di carte. Le trasmissioni condotte da Michele Santoro erano dedicate a una serie di omicidi di mafia, e «io sono convinto», tuonò Orlando, «che dentro i cassetti del Palazzo di Giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su quei delitti». L’accusa verrà ripetuta a ritornello anche da molti uomini del movimento di Orlando, tra i quali Carmine Mancuso e Alfredo Galasso. Divertente, o quasi, che tra gli accusati di vicinanza andreottiana – oltre a Falcone – figurava anche il suo collega Roberto Scarpinato, cioè colui che pochi anni dopo istruirà proprio il processo per mafia contro Andreotti.
È di quei giorni, comunque, uno slogan di Orlando che fece epoca: «Il sospetto è l’anticamera della verità». Falcone rispose a mezzo stampa: «È un modo di far politica che noi rifiutiamo… Se Orlando sa qualcosa faccia i nomi e i cognomi, citi i fatti, si assuma la responsabilità di quel che ha detto, altrimenti taccia. Non è vero che le inchieste sono a un punto morto. È vero il contrario: ci sono stati sviluppi corposi, con imputati e accertamenti». Ma Orlando era un carroarmato: «Diede inizio», scriverà Maria, a una vera e propria campagna denigratoria contro mio fratello, sfruttando le proprie risorse per lanciare accuse attraverso i media». Così aveva già fatto nell’estate del 1989, quando il pentito Giuseppe Pellegriti accusò il democristiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani: Falcone fiutò subito la calunnia ma Orlando si convinse che il giudice volesse proteggere Lima e Andreotti. «Seguirono mesi di lunghe dichiarazioni e illazioni da parte di Orlando, che voleva diventare l’unico paladino antimafia», ha scritto ancora Maria Falcone.
Del fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, vicino a Palermo, torneremo a scrivere nei prossimi giorni. Per ora appuntiamoci soltanto quanto scrisse il comunista Gerardo Chiaromonte, defunto presidente della Commissione Antimafia: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».
Orlando era instancabile. Tornò alla carica il 14 agosto 1991, quando rilasciò un’intervista su l‘Unità poi titolata «Indagate sui politici, i nomi ci sono»: «Sono migliaia e migliaia i nomi, gli episodi a conferma dei rapporti tra mafia e politica. Ma quella verità non entra neppure nei dibattimenti, viene sistematicamente stralciata, depositata, e neppure rischia di diventare verità processuale… Si è fatto veramente tutto, da parte di tutti, per individuare responsabilità di politici come Lima e Gunnella, ma anche meno noti come Drago, il capo degli andreottiani di Catania, Pietro Pizzo, socialista e senatore di Marsala, o Turi Lombardo? E quante inchieste si sono fermate non appena sono emersi i nomi di Andreotti, Martelli e De Michelis?». Orlando citò espressamente, tra i presunti insabbiatori, «la Procura di Palermo» e implicitamente Falcone. Per il resto, tutte le accuse risulteranno lanciate a casaccio. Poco tempo dopo, il 26 settembre 1991, al Maurizio Costanzo Show, ad attaccare Falcone fu il sodale di Orlando, Alfredo Galasso.
Lo stesso Galasso assieme a Carmine Mancuso e a Leoluca Orlando, l’11 settembre precedente, aveva fatto un esposto al Csm che sarà il colpo finale: si chiedevano spiegazioni sull’insabbiamento delle indagini sui delitti Reina, Mattarella, La Torre, Insalaco e Bonsignore e anche sui rapporti tra Salvo Lima e Stefano Bontate e sulla loggia massonica Diaz e poi appunto sulle famose carte nei cassetti. Così, dopo circa un mese, il 15 ottobre, Falcone dovette vergognosamente discolparsi davanti al Csm. Non ebbe certo problemi a farlo, ma fu preso dallo sconforto: «Non si può andare avanti in questa maniera, è un linciaggio morale continuo… Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo». Racconterà Francesco Cossiga nel 2008, in un’intervista al Corriere della Sera: «Quel giorno lui uscì dal Csm e venne da me piangendo. Voleva andar via».
Anche della strage di Capaci torneremo a raccontare. Ora restiamo a Orlando, e a quando il 23 maggio 1992, a macerie fumanti, da ex amico e traditore si riaffaccerà sul proscenio come se nulla fosse stato. Il quotidiano la Repubblica gli diede una mano: «A mezzanotte e un quarto una sirena squarcia il silenzio irreale del Palazzo di Giustizia di Palermo. Arriva Antonio Di Pietro da Milano, il giudice delle tangenti, il Falcone del Nord… Con lui ci sono Nando Dalla Chiesa, Carmine Mancuso e Leoluca Orlando». Cioè parte degli accoltellatori, quelli dell’esposto al Csm. Proprio loro. Partirà da quel giorno un macabro carnevale di sfruttamento politico, editoriale, giudiziario e «culturale» dell’icona di un uomo che ne avrebbe avuto soltanto orrore.
Il 25 gennaio 1993, intervenendo telefonicamente a Mixer su Raidue, Maria Falcone disse a Leoluca Orlando: «Hai infangato il nome, la dignità e l’onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato. Hai approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario».
Il 18 luglio 2008, intervistato da KlausCondicio, Orlando l’ha messa così: «C’è stata una difficoltà di comprensione con Giovanni Falcone». Una difficoltà di comprensione. E poi: «Ma ridirei esattamente le stesse cose… Ho avuto insulti ai quali non ho mai replicato, perché credo che sia anche questa una forma di rispetto per le battaglie che io ho fatto… (pausa, poi aggiunge) … e che Giovanni Falcone meglio di me ha fatto, perché trascinare una storia straordinaria come quella di Falcone dentro una polemica politica, francamente, è cosa di basso conio». E lui non l’avrebbe mai fatto. IL POST 22.5.2012
31.1.2013 Due o tre cose che bisognerebbe sapere sul rapporto tra Falcone e Leoluca Orlando
L’ennesimo cazzotto a Giovanni Falcone. Nemmeno di fronte alla morte, si fermano gli attacchi e le polemiche. Si specula, si distorce, si spiega il suo nome per una manciata di voti. Perché non parlare di programmi, di piattaforme, di riforme, di contenuti del suo movimento? No, il leader di Rivoluzione Civile, Antonio Ingroia, non si arresta di fronte a nulla. Eppure di motivi per stare in silenzio ce ne sarebbero: come lo scontro Orlando-Falcone, che culminò con l’ennesimo calvario del giudice di doversi difendere davanti al Csm. E Leoluca Orlando è anche uno dei primi firmatari di quel movimento di Ingroia. E allora diventa imbarazzante, non ricordare la storia.
Nell’agosto del 1989 inizia a collaborare con i magistrati il mafioso Giuseppe Pellegritti, fornendo preziose informazioni sull’omicidio del giornalista Giuseppe Fava rivelando al magistrato Libero Mancuso di essere a conoscenza, di fatti inediti sul ruolo del politico Salvo Lima negli omicidi di Piersanti Mattarella e Pio La Torre.
Mancuso informa subito Falcone, il quale interroga il pentito il 17 agosto. Il giudice si muove rapidamente e il 21 agosto parte una richiesta istruttoria dalla Procura di Palermo. Negli atti depositati, Falcone spiega che il pentito non sta dicendo la verità.
Il giorno dopo, Pellegritti viene interrogato dalla Corte d’Assise d’Appello nel carcere di Alessandria, dove conferma il teorema su Lima mandante dell’omicidio Mattarella. Il 4 ottobre, Falcone dopo due mesi di indagini, appurando la sua totale inaffidabilità, firma un mandato di cattura per “calunnia continuata” contro Pellegritti. È una reazione dura ma necessaria.
Subito si scatena la canea contro Giovanni Falcone. La versione corrente è che il magistrato vuole proteggere Andreotti e Lima, cioè il potere. Leoluca Orlando Cascio dichiara guerra a Falcone. E proprio da una puntata della trasmissione Sarmarcanda, condotta da Michele Santoro su Rai Tre, il 24 maggio 1990 il sindaco di Palermo lancia un’accusa gravissima: il pool ha una serie di omicidi eccellenti a Palermo e li tiene «chiusi dentro il cassetto».
A questa denuncia si associano gli uomini del movimento La Rete: Carmine Mancuso, Alfredo Galasso e Nando Dalla Chiesa. In particolare si fa riferimento a una serie di documenti, otto scatole sigillate negli uffici giudiziari e a un armadio pieno di carte, lasciato da Rocco Chinnici. Galasso, Mancuso e Orlando fanno esposto al Csm, l’11 settembre 1991.
L’avvocato Giuseppe Zupo, avvocato di parte civile della famiglia Costa, recapita, sempre al civico del Palazzo dei Marescialli, due memorie, proprio su questi otto pacchi, sottolineando “il mancato esame… e di doveri trascurati”.
Falcone ormai è sotto tiro. E anche i giornali intraprendono una battaglia di fuoco tra di loro. La Repubblica, del 20 maggio 1990, titola un’intervista di Silvana Mazzocchi a Falcone, con I nomi, altrimenti stia zitto…, dove il giudice replica:” Se il sindaco sa qualcosa faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma tutta la responsabilità di quello che ha detto.
Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati…”. Il sindaco di Palermo ribatte attraverso L’Unità del 14 agosto 1991, a firma di Saverio Lodato, Indagate sui politici, i nomi ci sono.
Per un anno Leoluca Orlando Cascio, come un martello pneumatico, bombarda Falcone con le stesse accuse. Lo fa con ogni mezzo: interviste su giornali, tv e conferenze stampa. Intercede anche Cossiga, ma il sindaco di Palermo non si placa. Il capo dello Stato allora il 16 agosto 1991 scrive una lettera al Guardasigilli Claudio Martelli e ne manda copia al presidente del Consiglio e al ministro dell’Interno affinché sulla “già nota teoria di Orlando”, “venga aperta un’inchiesta affidata all’autorità giudiziaria al di fuori della Sicilia”. (Leoluca Orlando Cascio, recentemente ha dichiarato di non pentirsi della polemica con Falcone e che “oggi dichiarerebbe le stesse cose”).
Il Csm, dopo l’intervento di Cossiga, l’esposto di Galasso, Mancuso, Orlando e dell’avvocato Zupo, convoca Falcone. Ormai non si contano più le sue audizioni dentro al Palazzo dei Marescialli. E’ il 15 ottobre 1991 quando depone davanti al Csm, in un’udienza riservata. Ecco che cosa Falcone dichiara nel verbale (il n. 61):
«Se c’è stata preoccupazione, da parte nostra, è stata proprio quella di non confondere le indagini della magistratura nella guerra santa alla mafia… Adesso non si parla di prove nel cassetto perché i cassetti sono stati svuotati. Essere costretto a scrivere all’Unità che non è certo carino scrivere – dopo che si presenta questo memoriale – Falcone preferì insabbiare tutto. Quando nel corso di una polemica vivacissima fra Orlando e altri, una giornalista mi chiese che cosa pensassi di Orlando, io ho detto “ma cosa vuole che possa rispondere di un amico”, ecco, dopo poche ore, tornato in sede, ho appreso quell’attacco riguardante le prove nei cassetti. Se vogliamo dirlo questo mandato di cattura non è piaciuto, perché dimostrava e dimostra che cosa? Che nonostante la presenza di un sindaco come Orlando la situazione degli appalti continuava a essere la stessa e Ciancimino continuava ad imperare, sottobanco, in queste vicende. Difatti sono stati arrestati non solo Ciancimino, ma anche Romolo Vaselli, e Romolo Vaselli è il factotum di Vito Ciancimino per quanto attiene alle attività imprenditoriali. Devo dire che, probabilmente, Orlando e i suoi amici hanno preso come un inammissibile affronto alla gestione dell’attività amministrativa del comune un mandato di cattura che, in realtà, si riferiva a una vicenda che riguardava episodi di corruzione molto seri, molto gravi, riguardanti la gestione del comune di Palermo.. la Cosi e la Sico (due imprese romane n.d.r.) durante la gestione Orlando… quegli stessi appalti che le imprese di Ciancimino si sono assicurati durante la gestione Orlando. La Cosi e la Sico, due imprese, che erano Cozzani e Silvestri che si trovavano a Palermo con tutte le attrezzature, materiale e con il personale umano di Romolo Vaselli, che è un istituzione a Palermo, il conte Vaselli”.
Poi Falcone si sfoga: «Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo…Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che vedeste che tipo di atmosfera c’è per adesso a Palermo».
Questo diceva Falcone. Dopo la sua morte fu Ilda Boccassini, senza tanti giri di parole, a denunciare: “Né il Paese né la magistratura né il potere, quale ne sia il segno politico, hanno saputo accettare le idee di Falcone, in vita, e più che comprenderle, in morte, se ne appropriano a piene mani, deformandole secondo la convenienza del momento”. Panorama di Anna Germoni 31.1.2013
La storia di Leoluca Orlando e Giovanni Falcone
È la storia, questa, di un tradimento orribile da raccontare proprio nei giorni in cui Leoluca Orlando potrebbe diventare sindaco di Palermo per la terza volta, e che sono gli stessi giorni nei quali si celebra il ventennale della morte di Giovanni Falcone. Difatti «Orlando era un amico», racconta oggi Maria Falcone, sorella di Giovanni. «Erano stati amici, avevano pure fatto un viaggio insieme in Russia… Orlando viene ricordato soprattutto per quel periodo che in molti chiamarono Primavera di Palermo, ma anche per lo scontro durissimo che ebbe con Giovanni e che fu un duro colpo, distruttivo per l’antimafia in generale». Uno scontro che va raccontato bene, al di là della dignitosa discrezione adottata da Maria Falcone in Giovanni Falcone, un eroe solo da lei scritto di recente per Rizzoli.
Siamo nei tardi anni Ottanta. Leoluca Orlando, tuonando contro gli andreottiani, era diventato sindaco nel 1985 e aveva inaugurato la citata Primavera di Palermo che auspicava un gioco di sponda tra procura e istituzioni. Però, a un certo punto, dopo che il 16 dicembre 1987 la Corte d’assise di Palermo aveva comminato 19 ergastoli nel cosiddetto «maxiprocesso», qualcosa cambiò. Tutti si attendevano che il nuovo consigliere istruttore di Palermo dovesse essere lui, Falcone: ma il Csm, il 19 gennaio 1988, scelse Antonino Meli seguendo il criterio dell’anzianità. E a Falcone cominciarono a voltare le spalle in tanti. Con Orlando, tuttavia, vi fu un episodio scatenante: «Orlando ce l’aveva con Falcone», ha ricordato l’ex ministro Claudio Martelli ad Annozero, nel 2009, «perché aveva riarrestato l’ex sindaco Vito Ciancimino con l’accusa di essere tornato a fare affari e appalti a Palermo con sindaco Leoluca Orlando, questo l’ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno». Il fatto è vero: fu lo stesso Falcone, in conferenza stampa, a spiegare che Ciancimino era accusato di essere il manovratore di alcuni appalti col Comune sino al 1988: si trova persino su YouTube.
20.5.2012 Leoluca Orlando e Giovanni Falcone
Quando Falcone accettò l’invito di dirigere gli Affari penali al ministero della Giustizia, poi, la gragnuola delle accuse non poté che aumentare. Fu durante una puntata di Samarcanda del maggio 1990, in particolare, che Orlando scagliò le sue accuse peggiori: Falcone – disse – ha una serie di documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Per l’esattezza il riferimento era a otto scatole lasciate da Rocco Chinnici e a un armadio pieno di carte. Le trasmissioni condotte da Michele Santoro erano dedicate a una serie di omicidi di mafia, e «io sono convinto», tuonò Orlando, «che dentro i cassetti del Palazzo di Giustizia ce n’è abbastanza per fare chiarezza su quei delitti». L’accusa verrà ripetuta a ritornello anche da molti uomini del movimento di Orlando, tra i quali Carmine Mancuso e Alfredo Galasso. Divertente, o quasi, che tra gli accusati di vicinanza andreottiana – oltre a Falcone – figurava anche il suo collega Roberto Scarpinato, cioè colui che pochi anni dopo istruirà proprio il processo per mafia contro Andreotti.
È di quei giorni, comunque, uno slogan di Orlando che fece epoca: «Il sospetto è l’anticamera della verità». Falcone rispose a mezzo stampa: «È un modo di far politica che noi rifiutiamo… Se Orlando sa qualcosa faccia i nomi e i cognomi, citi i fatti, si assuma la responsabilità di quel che ha detto, altrimenti taccia. Non è vero che le inchieste sono a un punto morto. È vero il contrario: ci sono stati sviluppi corposi, con imputati e accertamenti». Ma Orlando era un carroarmato: «Diede inizio», scriverà Maria, a una vera e propria campagna denigratoria contro mio fratello, sfruttando le proprie risorse per lanciare accuse attraverso i media». Così aveva già fatto nell’estate del 1989, quando il pentito Giuseppe Pellegriti accusò il democristiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti palermitani: Falcone fiutò subito la calunnia ma Orlando si convinse che il giudice volesse proteggere Lima e Andreotti. «Seguirono mesi di lunghe dichiarazioni e illazioni da parte di Orlando, che voleva diventare l’unico paladino antimafia», ha scritto ancora Maria Falcone.
Del fallito attentato a Giovanni Falcone all’Addaura, vicino a Palermo, torneremo a scrivere nei prossimi giorni. Per ora appuntiamoci soltanto quanto scrisse il comunista Gerardo Chiaromonte, defunto presidente della Commissione Antimafia: «I seguaci di Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».
Orlando era instancabile. Tornò alla carica il 14 agosto 1991, quando rilasciò un’intervista su l‘Unità poi titolata «Indagate sui politici, i nomi ci sono»: «Sono migliaia e migliaia i nomi, gli episodi a conferma dei rapporti tra mafia e politica. Ma quella verità non entra neppure nei dibattimenti, viene sistematicamente stralciata, depositata, e neppure rischia di diventare verità processuale… Si è fatto veramente tutto, da parte di tutti, per individuare responsabilità di politici come Lima e Gunnella, ma anche meno noti come Drago, il capo degli andreottiani di Catania, Pietro Pizzo, socialista e senatore di Marsala, o Turi Lombardo? E quante inchieste si sono fermate non appena sono emersi i nomi di Andreotti, Martelli e De Michelis?». Orlando citò espressamente, tra i presunti insabbiatori, «la Procura di Palermo» e implicitamente Falcone. Per il resto, tutte le accuse risulteranno lanciate a casaccio. Poco tempo dopo, il 26 settembre 1991, al Maurizio Costanzo Show, ad attaccare Falcone fu il sodale di Orlando, Alfredo Galasso.
Lo stesso Galasso assieme a Carmine Mancuso e a Leoluca Orlando, l’11 settembre precedente, aveva fatto un esposto al Csm che sarà il colpo finale: si chiedevano spiegazioni sull’insabbiamento delle indagini sui delitti Reina, Mattarella, La Torre, Insalaco e Bonsignore e anche sui rapporti tra Salvo Lima e Stefano Bontate e sulla loggia massonica Diaz e poi appunto sulle famose carte nei cassetti. Così, dopo circa un mese, il 15 ottobre, Falcone dovette vergognosamente discolparsi davanti al Csm. Non ebbe certo problemi a farlo, ma fu preso dallo sconforto: «Non si può andare avanti in questa maniera, è un linciaggio morale continuo…
Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del komeinismo». Racconterà Francesco Cossiga nel 2008, in un’intervista al Corriere della Sera: «Quel giorno lui uscì dal Csm e venne da me piangendo. Voleva andar via».
Anche della strage di Capaci torneremo a raccontare. Ora restiamo a Orlando, e a quando il 23 maggio 1992, a macerie fumanti, da ex amico e traditore si riaffaccerà sul proscenio come se nulla fosse stato. Il quotidiano la Repubblica gli diede una mano: «A mezzanotte e un quarto una sirena squarcia il silenzio irreale del Palazzo di Giustizia di Palermo. Arriva Antonio Di Pietro da Milano, il giudice delle tangenti, il Falcone del Nord… Con lui ci sono Nando Dalla Chiesa, Carmine Mancuso e Leoluca Orlando». Cioè parte degli accoltellatori, quelli dell’esposto al Csm. Proprio loro. Partirà da quel giorno un macabro carnevale di sfruttamento politico, editoriale, giudiziario e «culturale» dell’icona di un uomo che ne avrebbe avuto soltanto orrore.
Il 25 gennaio 1993, intervenendo telefonicamente a Mixer su Raidue, Maria Falcone disse a Leoluca Orlando: «Hai infangato il nome, la dignità e l’onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato. Hai approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario».
Il 18 luglio 2008, intervistato da KlausCondicio, Orlando l’ha messa così: «C’è stata una difficoltà di comprensione con Giovanni Falcone». Una difficoltà di comprensione. E poi: «Ma ridirei esattamente le stesse cose… Ho avuto insulti ai quali non ho mai replicato, perché credo che sia anche questa una forma di rispetto per le battaglie che io ho fatto… (pausa, poi aggiunge) … e che Giovanni Falcone meglio di me ha fatto, perché trascinare una storia straordinaria come quella di Falcone dentro una polemica politica, francamente, è cosa di basso conio». E lui non l’avrebbe mai fatto. IL POST
17.4.1993 Pentito accusa: Orlando amico dei boss
«Un altro uomo politico che in passato ha avuto rapporti con Cosa Nostra è Orlando Leoluca. Ciò non mi risulta personalmente ma mi è stato riferito da altri uomini d’onore».
Replica di Orlando: tutte falsità, io da sindaco ho combattuto i comitati d’affari. Caso Andreotti. L’avvocato difensore prospetta che il processo finirà davanti al tribunale dei ministri, «giudice naturale» in quegli anni in cui si sarebbero stretti i legami con Cosa Nostra l’indagato è stato quasi sempre al governo. Sul fronte della lotta alla criminalità, intanto, decapitata la banda della Magliana: 55 arrestati. G. Bianconi e F. Martini A PAG. 6 E 7
Il pentito Messina accusa «Orlando era amico nostro »
L’8 febbraio 1991, si legge sul settimanale, «dal telefono sotto controllo di Viviana Maggio, moglie del riciclatore Ulrich Bahl, che parla con la madre, si apprende che l’ex sindaco Leoluca Orlando si sarebbe recato, a casa del trafficante di droga Giovanni Lo Cascio, mafioso e massone. In altre conversazioni si accenna anche ai rapporti fra Lo Cascio e Licio Gelli». Cosa avrebbe detto Bahl? Ecco il testo dell’interrogatorio reso, a detta di «Panorama», dal”tedesco in un carcere americano a un magistrato italiano alla fine del 1991 : «Lo Cascio vantava amicizie tra persone potentissime e anche negli ambienti politici. In particolare egli mi disse che conosceva a Roma politici influenti ai quali aveva esternato il mio progetto di realizzare nella zona di Palermo un eliporto. Io avevo segnalato la zona di Bagheria. In ogni caso occorreva l’aiuto di personaggi politici che assicurassero la concreta realizzazione. Lo Cascio ne parlò con il sindaco di Palermo che incontrai una sera proprio a casa del Lo Cascio». «Panorama» riferisce anche che in seguito Lo Cascio ha negato con forza la circostanza, così come fece lo stesso Orlando. Per quanto riguarda le presunte rivelazioni di Leonardo Messina, «Panorama» afferma che Messina ricorderebbe i colloqui avuti nel carcere di Caltanissetta con tre mafiosi: Diego Di Trapani, Giovanni Teresi e Ludovico Visconti. I tre – sempre secondo quanto, attribuito a Messina – «commentarono negativamente l’attuale linea politica di Orlando, contraria a Cosa nostra. I miei interlocutori facevano riferimento al periodo in cui l’on. Orlando era sindaco di Palermo, prima dell’accordo con i comunisti. In quel periodo, Orlando era considerato “amico nostro” ed era a conoscenza di tutte le spartizioni che si facevano con gli appalti comunali». «Panorama» annuncia anche che Vito Ciancimino «vuole soffermarsi a lungo» su Orlando proprio per il periodo in cui fu sindaco, dal 1985 al ’90. [r. i.] Leoluca Orlando, leader della Rete, sindaco di Palermo dall’85 al ’90 LA STAMPA
17.4.1993 «Per loro ogni dc è mafioso»
5.9.1991 LA REPUBBLICA
5.9.1991 LA STAMPA
6.9.1991 LA STAMPA
15 ottobre del 1991 Giovanni Falcone viene audito dalla prima commissione referente del CSM a seguito delle accuse mosse da Leoluca Orlando che chiedeva l’apertura di un’inchiesta sull’operato delle istituzioni giudiziarie e sui magistrati della procura di Palermo. ed a seguito di una nota del Procuratore della Repubblica di Palermo che riguardava delle dichiarazioni, riportate dal quotidiano L’Ora, in cui il giudice Salvatore Barresi criticava il modo di condurre la lotta alla mafia da parte della procura di Palermo.
verbale prima commissione 15 ottobre 1991
Va ora in onda l’antimafia
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Segue INCHIESTE su politici e potenti tenute nei CASSETTI – Falcone audito dal CSM dopo le accuse di Leoluca Orlando