25 giugno e 20 anni dopo, un ricordo di Paolo Borsellino.
Io c’ero e faceva caldo. 25 giugno, alla sera, 20 anni fa. A Palermo, il centro del mondo disorientato dalla strage di Capaci fu allora l’atrio della biblioteca comunale di Casa Professa. Cuore barocco e popolare dove chiamare e pretendere, dal basso, la reazione dello Stato. Lasciai il ciclomotore allacciato ad un palo con la catena in Piazza Bologni, per raggiungere a piedi, dopo una breve discesa l’edificio annesso alla chiesa del Seicento. Nel trigesimo, trentadue giorni dopo esattamente, dal tritolo politico mafioso di Capaci tutta la città civile si sentiva a sua volta chiamata, spontaneamente, a ritrovarsi attorno ai magistrati, alle istituzioni e al movimento ancora instabile della Primavera politica. Città per l’Uomo, il Comitato dei Lenzuoli – ancora embrionale – e molte altre realtà anche politiche come La Rete, il Partito Popolare e il Partito dei Democratici di Sinistra (l’allora PDS). Ma oltre le sigle migliaia e migliaia di persone, che in un almanacco andarono a combinare una rarissima mappa urbana di protagonisti, che da allora e un pezzo alla volta si sono riconosciuti in giro per l’Italia. Ma era una folla mobile, in attesa. C’era Saverio Lodato de L’Unità, Paolo Flores D’Arcais di Micromega, Francesco La Licata, Attilio Bolzoni, Francesco Crescimanno e Giovanni Fiandaca con la faccia terrea, e Di Lello, Guarnotta, Lo Forte, Pignatone e moltissimi magistrati che non ricordo e si perdono in quella penombra serale e calda del cortile della biblioteca. Il cortile appunto, che al massimo avrebbe potuto contenere un paio di centinaia di persone e invece ne conteneva zeppo, quella sera di giugno, almeno tre volte tanto. E poi c’era il fuori, fino al Cassaro e alla via Maqueda, pieno e ondeggiante di teste e di parole mezze vive o mezzr morte. C’era Ayala e col telefonino antidiluviano chiamò la soluzione dell’attesa, Paolo Borsellino. Lui, il Dottore era a casa, in famiglia e forse aveva dimenticato l’appuntamento con la città. Dopo quella telefonata si rianimò la folla e l’attesa si fece rapida. Ho ancora nel naso il fumo delle sigarette del Dottore Borsellino, mentre attraversava la folla protetto dal guscio dei poliziotti di scorta. Ero ad un metro e mezzo da lui quel 25 giugno di vent’anni fa. A Palermo. Ero coi compagni di allora, Ottavio, Beppe, Isidoro, Calogero, Alessio, e dovevamo ascoltare quelle parole e dovevamo ascoltarle ad un passo dalla Facoltà di Giurisprudenza. Fu una grande orazione civile, un canto politico, un testo umano sobrio, un’accusa circostanziata, un indice di buchi nel corpo dello Stato da dove entrarono (e ancora entrano) gli uomini rivoltanti che sostengono i mafiosi e i boss col lasciapassare del consenso politico. Consenso di cui beneficiarono e ne beneficiano molti imprenditori, commercialisti, notai, professionisti consapevoli e rinfrancati dall’amicizia triangolare dei boss, della politica sciagurata e del denaro circolare della droga e degli appalti appena consumati dei mondiali di calcio di Italia90. Il Dottore Borsellino prese posto al tavolo e accese un’altra sigaretta, fumandone due insieme. E iniziò il canto dei rimedi e delle colpe. Il testo esatto si trova ancora su youtube e dalla sua viva voce, ma il senso rimase ancor più pesante e presente. Lo Stato non tratta e non negozia, non si piega al terrorismo e ai mafiosi, non si distrae, non dimentica, non esclude niente e resta sui fatti e sulle persone. I colpevoli, i timorosi, i comodi, i collusi e coloro che convivevano con Cosa Nostra trattano tradendo per paura in nome dello Stato, sfregiandone il volto e i valori. Quella sera crollarono le maschere dell’innocenza politica ed economica, si ruppe il legame con la menzogna e fu raso al suolo il muro del silenzio civile, utile ad arginare un’azione che non fu solo della magistratura, ma un’ampia e profonda condizione di resurrezione civile. Pertanto non si può accettare un utilizzo purcarusu e miserrimo della memoria e dei ruoli di allora. Chi trattó con Cosa Nostra e trattando tradì il Dottore Borsellino lo fece personalmente e per la conservazione, a bagno della paura, dei propri privilegi che il ruolo gli consegnava in realtà solo temporaneamente. Si vestì di Stato per rapinare la vita di Borsellino uomo, Loi donna, Cosina uomo, Li Muli uomo, Traina uomo, Catalano uomo, e anche la Giustizia tutta intera, quella delle leggi e quella sociale e popolare. Erano circa le 22, quando il Dottore Borsellino cantò per tutti, pure per quei topi di fogna che ascoltavano dalle orecchie dei loro ostaggi presentabili, mischiati alla società civile delle buone azioni e delle buone maniere. Alla fine resta e resiste da allora l’attesa delle proposte più forti e coraggiose a chiudere quel canto, a sconfiggere Cosa Nostra e infine rispondere all’esplosivo impunito di allora coi battiti del cuore di un nuovo siciliano magari nato e che nascerà altrove. Io sono rimasto, da allora, in quel chiostro, appoggiato alla colonna dietro a quel tavolo, ad ascoltare quel canto. Adesso forse peró mi tocca andare, gli amici sono altri e vogliono rammendare lo strappo della memoria, sarcendo col lavoro le radici con le ali del più profondo scontento con la più grande energia della memoria consapevole. Vado.
ADL