Le parole sono pietre, e a Palermo possono essere anche pallottole

di Alessandro de Lisi

All’altezza di una Pasticceria. Carlo Alberto Dalla Chiesa con Emanuela Setti Carraro, sua moglie, vengono uccisi alle 21,15 del 3 settembre del 1982.
Pochi metri dietro, a bordo di un a Fiat 131 non blindata, viaggiava Domenico Russo, agente di scorta anch’egli ucciso da una raffica di kalashnikov.La lunga attività di Carlo Alberto Dalla Chiesa nell’Arma è impossibile da sintetizzare in poche righe, di certo ha un’origine coinvolgente e una fine non riconducibile esclusivamente alla morte per mano mafiosa. Dalla Chiesa fu partigiano da carabiniere, entrato giovanissimo come volontario ufficiale di complemento della Benemerita non poté accettare di combattere gli italiani al fianco dei nazisti e dei fascisti tedeschi. Piemontese di Saluzzo non aveva due strade possibili, bensì un’unica via maestra: il servizio istituzionale. Non si giura, da ufficiale o da semplice militare, sul governo in carica, sul partito di maggioranza, ma sull’Italia. L’Italia di allora non era meno complicata di quella odierna, tanto meno di quella del principio degli anni Ottanta. Il comandante partigiano Dalla Chiesa, attivo con una brigata e con dei “gap” – Gruppi di Azione Partigiana –  nelle Marche, ritrovò sempre il senso profondo del rifiuto alla violenza del prepotente, così come da capitano, poi da maggiore e infine da colonnello contro il terrorismo. Dalla Chiesa indagò sull’omicidio di Placido Rizzotto, assassinato per volontà di Luciano Liggio e combattè il terrorismo anche attraverso le indagini sul caso Moro. L’ingenuità colpevole della politica immaginava che la mafia potesse essere colpita come il terrorismo dall’uomo più duro contro i terroristi. Ma Dalla Chiesa, ormai generale di brigata e prefetto straordinario a Palermo, sapeva benissimo che la mafia non è alternativa allo Stato, non voleva e non vuole sostituirsi alle istituzioni, bensì controllarle. Chi sperava in un fallimento del carabiniere Dalla Chiesa restò, già dopo pochi giorni dall’incarico, delusissimo. Egli arrestò un gran numero di criminali, stilò un approfondito rapporto sul sistema economico delle cosche e interpretò nel sentimento di vicinanza o almeno di indolente indifferenza della borghesia, la chiave del successo dei mafiosi. Dalla Chiesa seppe indicare come colpevoli non soltanto gli esecutori materiali dei crimini quali responsabili oggettivi, ma vide nell’omertà l’arma segreta, sempre carica, delle cosche. Fu ucciso male, anzi malissimo.
Alla guida della A112 bianca, quella sera di settembre, c’era la moglie Emanuela, mentre il generale sedeva al suo fianco. Vista oggi sembra un’auto di carta, quella vecchia utilitaria, come ugualmente la Fiat 131 che seguiva la coppia con a bordo l’agente Russo. In quest’ipocrita scelta di scorta – Russo come avrebbe potuto difendere il generale e contemporaneamente guidare? – si rintraccia un’anima nera, molto italiana, fatta di invidie, pregiudizi e rancori professionali che aleggia ancora troppo spesso nelle istituzioni, nella politica e a volte anche nei sindacati. Chi è bravo, spesso, rischia di essere colpito da fuoco amico. Il fuoco del settembre 1982, contro Russo, Setti Carraro e Dalla Chiesa fu certamente mafioso, ma nelle lacrime dei partecipanti alle esequie se ne poteva rintracciare il riflesso.

 

Alessandro de Lisi