L’intervista al figlio di Giorgio Ambrosoli, avvocato come suo padre
di ALESSANDRO DE LISI
AVEVAMO BISOGNO DI ANCORARCI AD UN ESEMPIO NON COMUNE DI FORZA CIVILE.
GIORGIO AMBROSOLI ERA UN AVVOCATO MILANESE, LIQUIDATORE DELLA BANCA PRIVATA ITALIANA DI MICHELE SINDONA, FU ASSASSINATO L’11 LUGLIO DEL 1979 DALLA MAFIA.
PER IL PROGETTO SAN FRANCESCO CONTRO LE MAFIE ABBIAMO INCONTRATO UMBERTO, SUO FIGLIO E ANCH’EGLI AVVOCATO.
NELLO STORICO STUDIO DELL’AVVOCATO ISOLABELLA COL QUALE OGGI LAVORA, A DUE PASSI DAL TRIBUNALE DI MILANO, UMBERTO CI HA LASCIATO UNA TRACCIA DA SEGUIRE, UNO SPUNTO.
E CI HA RACCONTATO UNA STORIA PRIVATA, DI FAMIGLIA, MA LA CUI LEZIONE ETICA È TANTO GRANDE DA POTER VALERE ANCORA OGGI PER TUTTI.
Cosa è significato scrivere un libro come Qualunque cosa succeda (Sironi, 2009) che narra del rapporto d’affetto e culturale con suo padre, l’avvocato Giorgio Ambrosoli?
È stata innanzi tutto un’opportunità per raccontare una storia che reputo molto bella, per condividerla anche coi miei figli, per raccontarla a una generazione che comprensibilmente non è entrata in contatto con quel segmento di storia del nostro Paese. E inoltre, attraverso i miei ricordi e le mie impressioni, è un racconto diretto a chi ha vissuto quegli anni e dei quali potrà forse scoprire una prospettiva differente, sfumature o passaggi che all’epoca dei fatti gli sono sfuggiti. È stata anche una documentazione storica su un’epoca la cui storia è frammentaria e che solo da quei frammenti può ricostruire le proprie responsabilità. Poi il libro è stato anche una prova di consapevolezza, di responsabilità e di testimonianza, anche rispetto a chi crede che mio padre “se la sia andata a cercare”.
Giorgio Ambrosoli non era né addestrato né abituato a riconoscere la mafia, tuttavia ha studiato e ha indagato il crimine organizzato al nord rivelando una competenza peculiare. Crede che ci sia un momento particolare nel quale si può iniziare a capire la mafia, per poi combatterla al meglio delle proprie forze?
C’è un momento in cui di tutto si stabiliscono le misure. Se consideriamo le relazioni scritte da mio padre, possiamo capire come egli sia stato ucciso per essere entrato in conflitto con la mentalità mafiosa, con la sua organizzazione tipicamente violenta, per aver scoperto le motivazioni delle dinamiche che hanno portato al dissesto della Banca Privata Italiana. In quelle relazioni si capisce che il dissesto della banca di Sindona era insito nelle simmetrie tra le norme «che abbiamo e le facce che conosciamo, senza bisogno di immaginare chissà quali disegni o chissà chi si nasconde dietro tali azioni», senza bisogno di evocare patrimoni mafiosi o altre manovre di riciclaggio. Per rappresentare i meccanismi di svuotamento della bpi si è evidenziato soprattutto un cattivo uso delle regole, tale da consentire le manovre d’interesse mafioso, da costituire varchi aperti per l’ingresso delle varie forme d’illegalità. In quegli anni la presenza della mafia al nord non era una novità, come non lo è oggi, e non era nuovo né che le mafie riciclassero i loro capitali al nord, né che Michele Sindona, da un certo punto in poi, si fosse legato al potere delle famiglie mafiose americane e siciliane, ma questo ha un aspetto secondario. La questione principale è che laddove c’è un’illegalità, cioè c’è un sistema che consente alle norme della legalità di essere violate, si spalanca la porta ad ogni illegalità, consentendo il passaggio sia della piccola ingiustizia, sia della grande violenza, sia della piccola violazione, sia della estrema sopraffazione.
Possiamo quindi affermare che suo padre non indagava sull’economia e sulla finanza della mafia ma che, partito da un crimine “minore”, trovò la mafia?
In termini di allarme sociale si trattava certamente di un reato minore (e del codice penale minore) ma fu sufficiente a lasciare aperto quel varco attraverso il quale poi passò anche altro…
A un certo punto suo padre sperimentò il “rodaggio del sacrificio” e percepì nuovi pericoli…
La “percezione del pericolo” è una cosa fondamentale. Ardito Desio scriveva che se in montagna non si ha paura, si muore, perché è la paura a renderci responsabili. Non tutti hanno lo stesso coraggio, ma oltre la paura c’è la capacità di guardare al pericolo non solo come un “rischio di danno” ma anche come la misura del significato delle azioni che si compiono. Rischiare così tanto vuol dire, forse, che la cosa che faccio è molto importante. Trascurare qualcosa, essere superficiali è un pericolo maggiore: fare male l’avvocato è pericoloso, fare male il sindacalista è pericoloso, poiché si rischia di guardare solo l’interesse del lavoratore dimenticando il più ampio interesse della società e il bene comune.
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