“Il silenzioso tramonto della responsabilità solidale negli appalti: cronaca di una pericolosa involuzione

di  DOMENICO TAMBASCO

 

 

 

Su chi si scaricano i costi e i pesi degli appalti?

Questa secca domanda iniziale è utile per comprendere il problema in esame. L’esperienza concreta insegna, infatti, che nella stragrande maggioranza degli appalti privati e pubblici, sia di opere sia di servizi, soprattutto se assegnati con la procedura del cd “massimo ribasso”, gli anelli della catena dell’appalto (general contractor, committente, appaltatore, subappaltatore e/o subappaltatori) tendono a scaricare i costi e i rischi dell’operazione sugli anelli inferiori, fino ad arrivare al livello finale, quello solitamente dell’ultimo subappaltatore, che in ragione dell’ormai quasi nullo margine di profitto rimasto a seguito dei diversi passaggi in cui si articola l’appalto, riversa i costi, i rischi e le perdite su quella che è al contempo la base ed il motore dell’opera o del servizio appaltato: la massa dei lavoratori.

Quella dell’appalto è spesso, infatti, una vera e propria struttura gerarchico-piramidale, in cui –analogamente al sistema feudale-, il peso viene sostenuto dalla massa inferiore, quella dei “servi della gleba” che nel nostro caso sono i moderni lavoratori che si fregiano delle formali e ridondanti dichiarazioni di principio della Costituzione. E’ da aggiungere che spesso, inoltre, gli ultimi anelli della catena sono ditte subappaltatrici di dubbia provenienza (molte volte espressione economica delle organizzazioni criminali mafiose) e dalle dimensioni assai modeste (generalmente ditte individuali o piccole s.r.l.), scelte dai committenti (ovvero dai livelli piu’ alti della catena) ben sapendo che il costo dell’operazione appaltata sarà pagato dai lavoratori di tali soggetti, che rimarranno in tutto o in parte privi della retribuzione spettante per il lavoro prestato.

In questo quadro pluridecennale tutt’altro che gratificante si è inserito un lungimirantelegislatore nazionale che già nel 2003 con la cd “Legge Biagi” e successivamente con la legge Finanziaria del 2007, ha prima introdotto e poi potenziato il principio della responsabilità solidale negli appalti, con una norma che stabiliva quanto segue: “ In caso di appalto di opere o di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti” (art. 29 comma 2 dlgs. 267/2003 così come modificato dall’art. 1 comma 911 legge finanziaria 2007).

Questa norma, è il caso di dirlo a chiare lettere, ha rappresentato negli ultimi anni sia un formidabile strumento di tutela del fondamentale diritto alla retribuzione dei lavoratori (diritto che ricordiamo costituzionalmente garantito dall’art. 36), sia un’eccezionale arma di contrasto avverso tutti i soggetti partecipanti ad appalti “malati”. Infatti, ogni qualvolta (purtroppo frequentemente) si è presentato il caso di lavoratori abbandonatisenza retribuzione alcuna al termine di un appalto, la possibilità di aggredire indifferentemente sia il patrimonio del diretto datore di lavoro sia il patrimonio di qualsiasi anello della catena dell’appalto (e dunque anche i livelli piu’ alti dei general contractor), ha avuto sia una funzione effettivamente “risarcitoria” (attraverso l’integrale soddisfacimento dei legittimi crediti dei lavoratori) sia una funzione preventiva, ingenerando negli appalti delle prassi “virtuose”, tali per cui la scelta soprattutto dei subappaltatori si è fatta via via sempre piu’ rigorosa e stringente.

Del resto, nella pratica si è spesso verificato, grazie a tale marchingegno normativo, che i lavoratori alle dipendenze dell’ultimo subappaltatore si rivolgessero per le proprie retribuzioni direttamente al general contractor o primo committente: cio’, oltre al facile recupero dei crediti per la naturale solvibilità del primo soggetto della piramide, ha comportato –come detto- un formidabile effetto di responsabilizzazione di tutti i livelli dell’appalto.

E’ evidente che tale strumento, se ha rappresentato la “salvezza” di tanti lavoratori, è stato sempre osteggiato sia dalle singole imprese datrici sia dalle associazioni imprenditoriali di categoria che hanno spesso contestato la difficoltà, soprattutto per gli anelli piu’ alti della catena degli appalti, di controllare la condotta dei subappaltatori.

Ne è derivata, in questi ultimi anni, un’intensa azione di lobbyng che ha portato, alla fine, alla totale disarticolazione della norma.

Certo, abrogarla con un tratto di penna sarebbe stato troppo evidente e molto poco “politically correct”: meglio una modifica tale da rendere, di fatto, inoperante la tutela.

Ed ecco dunque prima l’art. 21 comma 1 del D.L. 9 febbraio 2012, n. 5 convertito con Legge n. 35 del 4 aprile 2012 e successivamente la cd “Legge Fornero” (art. 4 comma 31 L. 92/2012) che hanno letteralmente “stravolto” l’art. 29 comma 2 dlgs. 276/2003, che oggi ha la seguente “fluviale” fisionomia: Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente piu’ rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali dovuti e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento. Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro puo’ eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il Giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva puo’ essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento puo’ esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali.

Paradossalmente, l’aumento a dismisura delle dimensioni della norma non ha coinciso con l’aumento delle tutele, tutt’altro.

Il legislatore, infatti, ha aperto tre grandi “brecce” nel muro delle garanzie contro gli appalti malati: in primo luogo, la responsabilità solidale puo’ essere addirittura esclusa dai contratti collettivi nazionali o dai contratti collettivi di livello aziendale (modifica, quest’ultima relativa alla contrattazione aziendale, gia’ introdotta dall’art. 8 dellla Legge 148/2011).

In secondo luogo –ed è questa l’innovazione dagli effetti piu’ deleteri- ora il lavoratore che voglia recuperare le proprie retribuzioni e i propri contributi deve necessariamente citare in giudizio tutti gli anelli della catena dell’appalto (cosiddetto litisconsorzio necessario). Questo, in concreto, vanifica con un tratto di penna tale garanzia, poiché nell’ipotesi (assai frequente) di fallimento o di altra procedura concorsuale in cui incorra anche solo uno degli anelli della catena dell’appalto, il processo dinanzi al Giudice del lavoro “salta”, si interrompe, ed il lavoratore potrà proseguire soltanto nei confronti del suo diretto datore di lavoro (se non è già fallito anch’esso): la responsabilità solidale, infatti, funziona solo se sono presenti tutti gli anelli nel processo. O tutti o nessuno.

Ma non è finita.

Quand’anche il lavoratore sia riuscito, con somma fatica e dispendio di energie, a scalare la parete verticale della responsabilità solidale ottenendo una condanna di tutti i soggetti dell’appalto (ma proprio di tutti, senza escluderne nemmeno uno..), in quel caso dovrà ridiscendere la montagna appena scalata, aggredendo il patrimonio del diretto datore di lavoro e, soltanto in caso di procedura esecutiva infruttuosa (per insolvibilità del soggetto), potrà rivolgersi all’anello immediatamente superiore, e così via via fino a quando, finalmente, non sarà riuscito ad avverare il proprio sogno di conseguire il giusto riconoscimento economico per il lavoro prestato. Facilmente immaginabile, peraltro, la raffica di eccezioni che potrebbero essere presentate dai difensori delle società in ordine all’effettiva escussione del patrimonio dell’anello immediatamente inferiore, oltre al dispendio di tempo e di costi di tali procedure.

In definitiva, la prassi applicativa dei primi mesi di entrata in vigore delle modifiche normative dimostra come lo strumento della responsabilità solidale negli appalti sia diventato, di fatto, totalmente inutilizzabile per i lavoratori che vi abbiano speso le proprie energie lavorative e che siano rimasti privi di retribuzione: con buona pace del diritto costituzionale “ ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.

Le organizzazioni criminali, intanto, sentitamente ringraziano.

 

Avv. Domenico Tambasco