L’esercito grigio che la politica deve respingere

di Lionello Mancini

 

di Lionello Mancini

In questi giorni quasi tutti i partiti stanno ancora fibrillando nello sforzo di varare le liste dei candidati alle elezioni politiche e regionali di fine febbraio. Anche stavolta, con sommo atto di fede, bisogna sperare che qualche innovativa precauzione impedisca a certi figuri di incistarsi in Parlamento – direttamente o per interposto eletto – persino a costo di rinunciare a succulente doti di voti.

Per tenere desta l’attenzione dei partiti, di chi si è candidato e anche di chi andrà soltanto a votare, offriamo il contributo di un documento inedito: il decreto del tribunale per le misure di prevenzione di Milano, che il 18 dicembre ha imposto la sorveglianza speciale e il soggiorno obbligato a Pasquale Marando, classe ’53, funzionario (ex, si spera) dell’agenzia delle Dogane. Nato a Grotteria (Reggio Calabria), in stretti rapporti con boss e affiliati alla ‘ndrangheta, Marando rappresenta una figura ormai ricorrente nei processi di mafia: quella del “fiancheggiatore”, il cui operato forse non viola il codice penale, ma non di meno rappresenta l’indispensabile anello di congiunzione con gli altrimenti irraggiungibili gangli dell’economia, dell’amministrazione, delle istituzioni, della politica. Una di quelle figure che – nell’ipocrita indignazione postuma di chi ha spalancato loro le porte – ritroviamo a scrivere leggi, governare, dirimere vertenze, distribuire appalti, imporre una concorrenza malata all’economia normale.

In 42 cartelle i giudici ricostruiscono l’inquietante “capitale sociale” di una sola famiglia, i Valle-Lampada, da anni nociva anche per Milano e provincia, partendo ovviamente dallo stesso Marando «presente al summit dell’associazione mafiosa tenutosi il 23 maggio 2009, che aveva la finalità di promuovere la candidatura di Leonardo Valle al consiglio comunale di Cologno Monzese». Le intercettazioni dicono inoltre che il Marando è a disposizione dei boss.

Ma non è il solo, come dimostra il campionario di personaggi a disposizione della cosca: un maresciallo capo della Guardia di finanza in servizio a Monza (oggi in carcere in attesa di sentenza); due magistrati reggini (uno già condannato e uno in cella, in attesa di sentenza); un medico e due avvocati, calabresi di origine, ma il cui campo d’azione si estende alla Lombardia. Il medesimo clan, scrivono poi i giudici, ha «fatto confluire preferenze su candidati a loro vicini» – cioè ha influenzato il risultato del voto – nelle elezioni degli ultimi sei anni. E qui i magistrati mettono in fila risultanze da brivido: anno 2005, regionali in Calabria; anno 2006, comunali a Milano; anno 2007, comunali in Calabria; anno 2008, elezioni politiche nazionali; anno 2009, provinciali a Milano; anno 2010, regionali in Calabria e Lombardia.

La stessa famiglia, per le politiche 2008, ha anche organizzato una serata in Via Veneto, al Cafè de Paris (ora sotto sequestro), cui hanno preso parte alti funzionari dello Stato, parlamentari, esponenti di spicco dell’alta borghesia reggina.

Questo il variegato esercito “grigio” individuato per una sola cosca. E le cosche sono tante. Un esercito sulle cui nefaste influenze partiti e cittadini dovrebbero ormai essersi formati un giudizio molto netto, senza più trincerarsi dietro l’attesa di condanne più o meno definitive.

Sole 24 Ore 14.1.2013

Editoriali precedenti