Sul rating pesano i dubbi delle banche

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 di Lionello Mancini

 

 

 

 

 

 

 

 

di Lionello Mancini

C’è qualcosa che sfugge al senso comune, nelle scelte e nelle strategie del sistema bancario nei confronti del mondo delle aziende, in questi anni di crisi crudele. Dopo gli eventi negativi susseguitisi dal 2008 – molti di origine finanziaria come la crisi dei subprime, i costosi salvataggi, i consolidamenti organizzativi – stiamo assistendo alla lenta agonia di migliaia di piccole e medie imprese tra i ripetuti allarmi di associazioni, sindacati e imprenditori alla disperazione.

Una situazione di asfissia che spalanca ovviamente la strada a forme di finanziamento non regolari, all’usura, a occasioni ghiotte e plurime di riciclaggio del denaro di origine illegale. In questo contesto, in fase di ulteriore aggravamento e nel quale si cercano soluzioni che interrompano al più presto la spirale negativa, dal sistema creditizio giungono segnali di resistenze e di condizioni a senso unico che ritardano il varo definitivo del rating di legalità, il pacchetto di misure premiali affidato all’Autorità Antitrust, che rende convenienti scelte forti di governance, specie quando orientate alla legalità e al contrasto alle infiltrazioni criminali. Quando, nel gennaio 2012, Confindustria lanciò l’idea di un rating che avvantaggiasse le imprese virtuose nell’accesso al credito e agli appalti pubblici, il consenso fu caldo e unanime, come sempre accade quando si parla di legalità e si contrasto ala criminalità. Ma la costruzione del regolamento per l’ammissione alle “stellette” e la definizione del quadro di riferimento normativo che stabilisse i diversi gradi di premialità, si sono rivelati percorsi faticosissimi e, infatti, non ancora conclusi. Perché?

Tra le cause, c’è la resistenza del mondo bancario a cedere sovranità nella valutazione del rapporto tra rating e merito del credito. Anche se lo dice la legge, stabilendo che un eventuale «no» vada motivato sia al cliente, sia alla Banca d’Italia. Dalle indiscrezioni che circolano sul decreto interministeriale che fissa i paletti del ristoro alle buone prassi, si coglie il rischio di vanificare il senso stesso della proposta premiale, limitando i benefici alla fissazione di un tempo massimo per lo svolgimento dell’istruttoria e di uno sconto variabile sulle spese dell’istruttoria medesima. Uno sconto peraltro minimo, così da poterlo aumentare a seconda dell’entità dell’operazione e del livello di rating esibito.

L’articolato in gestazione tra Mef e Mise, sembra incagliato sui «no» delle banche a qualunque automatismo – pur di legge – sulla valutazione del peso da attribuire al livello di rating ottenuto. Fino al paradosso che la stessa qualificazione – ottenibile solo dopo severi controlli e verifiche sull’assetto, l’organizzazione, l’affidabilità e pulizia dell’impresa – potrebbe anche non valere nulla. Certo, all’azienda spetterebbero un’istruttoria bancaria dai tempi certi e che costerà un po’ meno, ma si tratta di due obiettivi che ogni istituto dovrebbe darsi per maggior trasparenza ed efficienza conseguite, non come premio da attribuire al cliente più meritevole. Perché tener congelata a questo stadio di incompiuta, un’idea che rappresenta il passaggio necessario dai controlli e le sanzioni per gli errori, al premio per le pratiche virtuose?

 

Sole 24 Ore 20.5.2013

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