di Lionello Mancini
Da alcuni mesi la Sicilia è teatro di attacchi concentrici alla Confindustria regionale e anche, personalmente, ad alcuni suoi esponenti di rilievo. Un fenomeno apparentemente bislacco, ma che è meglio non liquidare come beghe locali senza capo né coda. Intanto per il tipo di accuse lanciate e poi perché mentre alcuni imprenditori isolani sono platealmente indicati come i destinatari delle feroci critiche, non sempre è altrettanto chiaro chi ne siano i veri mittenti. Con il risultato di una sostanziale delegittimazione di persone che da molti anni mettono sul piatto energie, coraggio, reputazione. Quanto meno agli occhi dei meno avvertiti a opera di indefessi manipolatori. Manovre già viste dispiegarsi in altri momenti ai danni di quanti mettevano i bastoni tra le ruote a rentier, grassatori e malviventi di varie specie.
Così, ecco che dopo gli applausi dei primi anni in cui l’impresa siciliana è venuta alla ribalta decidendo l’espulsione degli associati che si assoggettano al pizzo, sono iniziate le manovre per indebolire i protagonisti, neutralizzarne lo slancio, offuscarne credibilità e leadership. Finché si trattava di elogiare pubblicamente chi aveva preso l’iniziativa, nessun problema (si è mai sentito qualcuno esaltare illegalità e parassitismo?); ma quando l’azione innovatrice, piano piano ma inesorabilmente, è entrata in profondità, il fronte dello statu quo ha cominciato a riorganizzarsi, a trovare nella Rete i suoi sferzanti portavoce, anonimi e no.
Chiedere trasparenza ed efficienza alle amministrazioni, chiarezza negli appalti, denunciare gli sprechi della formazione, l’inutilità (se non per gli amici e gli amici degli amici) delle Asi e dei tentativi di occupazione dei gangli della burocrazia per controllarli, fino alla polemica scatenata sulla gestione dei rifiuti, ha portato la polemica a surriscaldarsi e un cinismo malevolo a disprezzare pubblicamente – tacciandola di opportunismo – la denuncia di un imprenditore che ha fatto arrestare i suoi presunti estorsori. Senza risparmiare insulti veri e propri quali «professionisti dell’antimafia» o «nuovi occupanti del potere con la scusa del contrasto alla criminalità». Fino a mettere in rete, nascosti dietro il paravento del dovere di cronaca, lettere anonime che aggiungono ingiurie contro chi – intanto – diffonde protocolli di legalità, stringe alleanza con la Federazione antiracket, si autolimita nel passaggio dall’associazionismo alla politica.
Tra i tanti buoni motivi per non girare la testa, anzi, per mantenere ben alta la guardia, ne citiamo solo due. Il primo è che le scelte compiute nel 2007 da questa pattuglia di imprenditori siciliani sono state la molla per un balzo in avanti della cultura economica nazionale; hanno indicato un percorso a quanti vogliono prendendo le distanze da vecchie e malsane abitudini, molto diffuse; in secondo luogo, perché in alcune parti del Paese – tra queste Sicilia, Campania, Calabria – le soffocanti incrostazioni di clientelismo, corruzione, zero-mercato si sono potute formare solo in stretto connubio con la criminalità organizzata, che qui affonda le radici per infestare ogni altro angolo del Paese.
Sole 24 Ore – 2 dicembre 2013