Di Lionello Mancini
Di Lionello Mancini
«Maneggiare con cura». Un buon precetto assai spesso ignorato nelle complesse dinamiche che caratterizzano l’infiltrazione mafiosa nell’economia, i suoi effetti, le conseguenze del contrasto repressivo. Dopo decenni di sottovalutazione (o peggio) degli intrecci affari-criminalità, si è scatenata tra diversi comparti dello Stato una disordinata rincorsa al merito antimafioso, che tradotta in norme di ogni ordine e grado, sfornate con la nota incultura legislativa, ha prodotto una strumentazione grossolana dagli effetti spesso letali per l’anello debole della catena – l’impresa – alternativamente preda dei boss oppure finita nel mirino non sempre ben tarato delle Procure, quando non le due cose insieme.
Dopo questo oscillare tipicamente italiano tra sciatta indifferenza e ricorso martellante al Codice penale, forse qualcosa sta per cambiare, almeno stando alle conclusioni della commissione che ha individuato le necessarie correzioni alle normative vigenti. Il gruppo di lavoro istituito sei mesi fa dal Guardasigilli, presieduto dal docente di diritto penale Giovanni Fiandaca e formato da giuristi, prefetti, magistrati, avvocati, forze dell’ordine, ha appena consegnato la relazione finale (si veda Il Sole 24 Ore del 16 gennaio) con alcune importanti novità, già in forma di articolato, che assegnano all’impresa un ruolo attivo nel contrasto alle cosche, offrendo inoltre nuove possibilità di ripresa e inedite vie di uscita a quelle che – magari per errori o inadeguatezze momentanee e correggibili – si ritrovano la mafia in cantiere o in fabbrica. Non è poco, anche se l’esperienza insegna che non è ancora tutto.
L’articolato del gruppo Fiandaca introduce, a esempio, il “controllo giudiziario”, una forma di vigilanza che non sottrae la gestione all’impresa, limitandosi a una forma di “vigilanza prescrittiva”, in sostanza un monitoraggio interno condotto da un commissario nominato dal tribunale. Viene insomma “concessa” la possibilità di correggere un errore, di cambiare uno staff, di rammendare una smagliatura senza che ne venga travolta l’azienda, il suo buon nome, il suo business. La stessa logica, tuttora inesplorata, introduce l’obbligo per il prefetto di ascoltare l’impresa prima di emettere più o meno a sorpresa un micidiale decreto interdittivo con tutto ciò che ne consegue (sigilli ai cantieri, rescissione di contratti, ricorsi da fronteggiare, penali da pagare) fino al blocco sine die delle opere, grandi o piccole, locali o strategiche che siano. Le interdittive sono (talvolta) il misterioso sassolino che inceppa l’ingranaggio, un corpo estraneo di cui l’imprenditore (talvolta) fatica a capire la provenienza e che, soprattutto, nessuno riesce più a togliere, perché una volta lanciato non può essere ritirato, se non dal giudice che può chiedere di dimostrare l’indimostrabile. In pratica, accade oggi che chi ha emesso il decreto non sia più tenuto a occuparsene. I problemi che ne seguono sono solo della ditta, del subappaltante, del general contractor. Il controllo giudiziario servirà anche a questo: non solo può essere ordinato da un Tribunale, ma anche essere richiesto da chi è colpito dal provvedimento interdittivo, come chance per tornare alla normalità.
Le Prefetture stesse, secondo lo schema Fiandaca, sono tenute ad aggiornare le loro interdittive, quando l’interessato lo richieda; e se quest’ultimo ha intanto adottato o aggiornato il proprio modello organizzativo, lo Stato deve tenerne conto, anche effettuando gli accessi e gli accertamenti necessari, “liberando” l’impresa dalle ganasce legali con gli stessi strumenti utilizzati per fissarle.
Non è poco, dicevamo, perché, come ben sanno i protagonisti delle vicende giudiziarie che quasi quotidianamente occupano i media, le questioni affrontate nell’articolato della commissione sono assai serie e in molti casi addirittura vitali.
Non è poco ma non è tutto, perché da ora si può solo sperare che questi segnali di una filosofia antimafia meno punitiva e più confidente verso chi fa impresa, non incontri gli ostacoli lobbistici e le paludi burocratiche che stanno mettendo a dura prova white list e rating di legalità. Meglio saperlo: anche per queste innovazioni il rischio esiste, anche se forse meno incombente, perché il confronto sembra aver convinto i rappresentanti di tutti quei poteri – legislativo, giudiziario, amministrativo, esecutivo – che se ben raccordati risolvono i problemi, ma li aggravano o li congelano quando entrano in conflitto tra loro. E non sempre per nobili motivazioni e alte prospettive.
Per questo, alla fine, l’anello debole è l’impresa, vittima degli effetti collaterali di norme e procedure speciali (quelle contro la mafia), delle sparate propagandistiche non rette da adeguate risorse (come l’Agenzia per i beni sequestrati), del pregiudizio culturale di molti controllori verso tutti i controllati. Non c’è dubbio che tra legislatori, ministeri, burocrazie, investigatori e Procure, chi ha sempre subito danni gravi o letali da “fuoco amico” sono stati gli imprenditori costretti a operare stressati e smarriti tra insidie mafiose, credit crunch, regole trabocchetto, fisco feroce, infrastrutture carenti e, dulcis in fundo, magistrati che usano senza intelligenza né equilibrio le leggi speciali, menandone magari vanto davanti a folle plaudenti.
Le modifiche della commissione Fiandaca, pronte a diventare legge, mostrano finalmente, una maggior “cura” per l’oggetto prezioso che si sta maneggiando – un bel pezzo di economia italiana – e gettano nuove basi per adeguare la strumentazione antimafia alle finalità del bene comune, correggendo la superfetazione fin qui prodotta – sempre sull’onda dell’emotività sociale – che ha finito col creare la vischiosa ragnatela di norme inapplicabili, contraddittorie, talora insensate, sempre costose e che mai hanno garantito la certezza di poter lavorare in pace, nemmeno quando l’imprenditore cerca seriamente di applicare le istruzioni dettate da leggi come la 231. Fino ad avvertire l’antimafia come una delle due ganasce della tenaglia che lo stritola; dove l’altra ganascia è, appunto, la criminalità organizzata.
Non è così, ovviamente. Ma qualcuno deve con onestà riconoscere che il rumore crescente dell’antimafia medagliata è inversamente proporzionale all’impegno posto dallo Stato nel distinguere il grano dal loglio. Dove il grano sono le imprese che finiscono impigliate nella rete delle indagini a causa di modelli inadeguati, di comportamenti opachi o anche solo di disattenzioni. Del loglio nemmeno parliamo: le realtà mafiose, quelle delle teste di legno, quelle che servono a riciclare denaro sporco, vanno solo sequestrate, confiscate e cancellate dal novero delle imprese vere. Che sono la stragrandissima maggioranza e chiedono di lavorare seguendo regole chiare, utili e non nemiche.
Sole 24 Ore 1.2.2014