di Lionello Mancini
di Liolello Mancini
C’è un che di surreale nel rileggere sull’ordinanza di ieri, alcuni nomi che già nel 1994 riempivano le cronache di Tangentopoli. Ma la frustrazione che deriva dal doversi confrontare con le stesse foto segnaletiche, non deve affievolire l’allarme.
L’allarme Lanciato da magistratura e Guardia di finanza a salvaguardia di pezzi importanti dell’economia del Paese: «Noi ci siamo, ma per legge arriviamo sempre dopo». Attenzione a non ridurre il punto focale di questo nuovo blitz alla coazione di pochi, soliti noti, nel perpetuare meccanismi e comportamenti patologici su appalti, nomine, soldi pubblici (sempre utilizzando come sponda un’idea altrettanto deviata della rappresentanza). Il punto vero è piuttosto il contesto politico, economico e burocratico che permette ai faccendieri di agire indisturbati. Finché (e se) scattano le manette.
Il contesto è quello di una pubblica amministrazione che guarda più ai partiti che all’efficienza, di un’idea di concorrenza che non premia il merito ma l’appartenenza lobbistica o politica, della legalità come fiore da esibire all’occhiello, degli allarmismi da mafia che coprono il metodico radicarsi della corruzione. Molti imprenditori vorrebbero solo lavorare onestamente, respingendo le vessazioni tangentizie. Non è facile: il contesto non aiuta; la burocrazia, il fisco e il credito nemmeno; l’intermediazione politica sembra indispensabile anche quando non lo è.
La parola chiave diventa «responsabilità». Fa molto male a questa logica nuova e ancora fragile il costruttore Maltauro che sul sito della sua società sfoggia un puntiglioso codice etico, ma poi è svergognato dalle sue parole intercettate prima che dalle manette. Come fanno molto male i manager pubblici che, per restare ben piazzati fanno il giro delle sette Ville, ovviamente pronti a rendere ogni favore. Vale anche la pena di ripetere che è un’offesa all’intelligenza sostenere che si delinque in stato di necessità e all’insaputa dell’ambiente, dei colleghi, delle associazioni, degli Ordini. Non è così, ma nulla accade.
Nessuno ignora che farsi raccomandare da pregiudicati non sempre è reato, ma è sempre una brutta china. Eppure, la possibile scorciatoia proposta da un faccendiere non spinge nessuno a bussare alla porta della Procura. Occorre domandarsi perché la realizzazione di Expo 2015 è stata pensata per evitare l’infiltrazione della mafia e poi risulta sfregiata dal fenomeno ben più esteso della corruzione. Naturalmente, nessuno chiede a imprenditori, associazioni e Ordini di sostituirsi alla Polizia: quello resterà compito della repressione. Ciò che a vent’anni da Tangentopoli si può invece pretendere è di dare sostanza e di investire senza timori né sconti sulle difese anticorruzione. Senza più distrarre lo sguardo dalle bustarelle che girano, combattendo l’evasione fiscale e le irregolarità di ogni sorta per disinnescare ogni intermediazione impropria.
Nessuno dice che sia facile e nemmeno che sia gratis. Ma dopo un uno-due come quello tirato all’Expo dagli arresti di Rognoni e di Paris, risulta chiaro che una realizzazione strategica per l’Italia va difesa tanto dalla lupara quanto dalle pratiche opache che la repressione riesce a colpire solo a tratti e sempre troppo tardi. Se poi vogliamo perdere un po’ di tempo, possiamo anche lamentarci della perdurante inettitudine (o peggio) della politica.
Sole 24 Ore 9.5.2014