di Luigi Zingales
Cicero è un sobborgo di Chicago come tanti altri. A renderlo famoso fu Al Capone che vi si trasferì negli anni 20 per liberarsi dalle “interferenze” della polizia della metropoli. Impadronitosi del consiglio comunale, Al Capone elesse il sobborgo a sede delle sue attività criminose. È passato quasi un secolo e la composizione etnica di Cicero è cambiata due volte: da italiano negli anni 50 è diventato un sobborgo di immigrati dall’Europa dell’Est. Negli anni 80 e 90, poi, è stato invaso dai latinoamericani. Una cosa sola non è cambiata: la corruzione. Nel 2002 la presidente del consiglio comunale è stata arrestata per aver intascato 12 milioni in tangenti. Cicero rimane la cittadina più corrotta di uno degli stati americani più corrotti.
La storia di Cicero deve esserci di monito. Per eliminare la corruzione non basta rottamare una classe politica. Non basta neppure cambiarne il Dna. Per eliminare la corruzione è necessario sradicare la cultura che la sostiene.
Nei primi anni 80 l’Italia vinse la sua battaglia contro il terrorismo isolandolo culturalmente, prima ancora che militarmente. Sparuti attentati sono continuati anche nei decenni successivi, ma il fenomeno terrorismo fu vinto quando l’area grigia (né con lo Stato né con le Brigate Rosse) fu eliminata. Quando l’intera sinistra si rese conto che non si trattava di “compagni che sbagliano”, ma di nemici del popolo.
Con questo non voglio dire che leggi migliori (a cominciare da finanziamenti politici più trasparenti) non possano aiutare. Ma invocare leggi nuove e punizioni esemplari non basta. Al Capone fu sbattuto in galera, ma la cultura della corruzione gli sopravvisse. E leggi diverse non sono neppure necessarie. Altri sobborghi di Chicago, come Evanston, Wilmette, e Winnetka, sono governati dalle stesse leggi, eppure non sono vittime della stessa corruzione. È la cultura sottostante a fare la differenza: una cultura che tollera o addirittura sostiene la corruzione a Cicero, una cultura che non ne tollera neppure la parvenza nei sobborghi virtuosi.
Ma chi difende la corruzione in Italia? Purtroppo la risposta è tutti noi. Nella misura in cui non la combattiamo attivamente, la tolleriamo, o peggio la giustifichiamo siamo tutti noi corresponsabili. Quante volte abbiamo accettato e spesso condiviso l’idea che le tangenti sono “necessarie”? Che sono il modo di fare business nel nostro Paese? Che altro non sono che “innocenti” contributi elettorali, frequenti in molti Paesi, inclusi gli Stati Uniti? Quante volte abbiamo sorvolato sul modo in cui un politico si è finanziato? Quante volte abbiamo chiuso un occhio di fronte alla corruzione, quando a corrompere erano persone potenti?
Anche concedendo a tutti il beneficio dell’innocenza fino a prova contraria, i rei confessi non mancano. Quello che manca è il riconoscimento dell’errore commesso e la sanzione sociale. Nel 1993 molti ammisero le tangenti pagate e dissero che queste «erano le regole del gioco negli anni 80», senza mai ammettere l’errore commesso. A leggere i resoconti dell’Expo e del Mose, queste sembrano le regole del gioco anche negli anni Dieci del Ventunesimo secolo. Forse che questo rende le tangenti accettabili? Certo che no.
Fino a ieri molti imprenditori sono stati moralmente conniventi con la cultura della corruzione. Se non la condividevano, almeno la tolleravano. Per questo sono molto importanti le parole pronunciate da Giorgio Squinzi in occasione dell’ultima assemblea di Confindustria. «Fuori i corrotti da Confindustria» ha dichiarato senza giri di parole il presidente. È un segnale forte. Quando il presidente della Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello, si schierò apertamente contro il “pizzo” i risultati non mancarono, perché non si trattò solo di una dichiarazione ad effetto, ma dell’annuncio di una rivoluzione culturale. Lo Bello lanciò una battaglia contro la cultura del pizzo ed ottenne importanti risultati. Siamo fiduciosi che Squinzi faccia altrettanto con la cultura della corruzione.
Come ci saranno sempre i ladri, così ci saranno sempre i corruttori. Più di due millenni fa Marco Tullio Cicerone, da cui il sobborgo di Chicago ironicamente prende il nome, divenne famoso per le sue orazioni contro Gaio Licinio Verre, un propretore corrotto. Ma grazie a Cicerone, Verre fu costretto all’esilio da Roma (si rifugiò a Marsiglia, non a Cesano Boscone). Se la pena fu lieve, almeno la sanzione sociale fu elevata. Oggi in Italia non c’è nessuna delle due. Secondo un’indagine dell’Espresso, nel nostro Paese i detenuti per corruzione sono solo 11. Non solo, i corruttori confessi mantengono intatto il loro prestigio sociale. Se del primo fatto, possiamo dare la colpa agli altri (leggi e magistrati), del secondo dobbiamo incolpare solo noi stessi.
La sanzione sociale è la più democratica delle pene, perché viene amministrata da ciascuno di noi. Per essere efficace, però, la sanzione sociale deve essere applicata dalla maggioranza della popolazione. Da qui l’importanza di un leader, che coordini lo sforzo. Squinzi ha preso l’iniziativa. Alle parole, però devono seguire i fatti. D’ora innanzi non solo chi corrompe, ma anche chi giustifica la corruzione deve essere espulso da Confindustria. Parola del presidente.
Sole 24 Ore 16.6.2014