di Lionello Mancini
Come per le violenze in famiglia o gli stupri, il problema è la cifra nera. Cos’è la “cifra nera”? È la differenza tra il numero dei reati commessi e quelli che risultano all’Autorità giudiziaria, cioè quelli su cui si indaga e si tenta di arrivare a un colpevole.
A nessuno verrebbe mai in mente di tener nascosto alle forze dell’ordine il furto dell’auto o uno scippo, perciò la cifra nera di quel tipo di fatti è pressoché nulla: è pacifico che dieci furti d’auto sfocino in altrettante denunce. Invece, come ha spiegato Pier Camillo Davigo all’InsolvenzFest di Ferrara (i dialoghi interdisciplinari organizzati dall’Osservatorio sulle crisi d’impresa), i reati di corruzione, concussione e finanziamento illecito sono fra quelli con la cifra nera più alta. Perché? Intanto perché le forze di polizia «sono in genere strutturate per affrontare forme di criminalità visibili», quelle che la gente corre a denunciare. Ma, quel che è peggio, ha aggiunto Davigo, «le attività corruttive producono situazioni assimilabili all’omertà. Infatti è evidente la convergenza d’interesse tra chi paga e chi incassa, perché solo il silenzio di entrambi evita le conseguenze penali ed extra-penali come l’annullamento di atti amministrativi, la responsabilità civile eccetera». Eppure la corruzione è seriale, chi imbocca questa strada tende a ripetersi ogni volta che ne abbia occasione «con una ragionevole certezza di impunità». Ed è «diffusiva» (un aspetto che interroga il comportamento e le scelte di ciascuno) nel senso che corrotti e corruttori, per evitare di essere scoperti, «tendono a coinvolgere altre persone, fino a che sono gli onesti a essere esclusi dagli ambienti che man mano diventano prevalentemente corrotti».
Per contribuire alla repressione del fenomeno, l’unica via è perciò quella della denuncia, che mette magistratura e forze dell’ordine nella condizione di svolgere il loro lavoro. Ma ciò non accade, o non accade in misura sufficiente, cosicché la “cifra nera” non si assottiglia, l’omertà resta ferrea, le conseguenze pesantissime per l’economia già provata del Paese. Parole inquietanti, quelle del giudice Davigo – tra i protagonisti della prima manche di “Mani pulite” – sia per il loro contenuto intrinseco, sia perché l’analisi non si discosta dal solco risalente ormai a un ventennio fa.
E un aspetto che quattro lustri fa non era (né poteva essere) ancora abbastanza a fuoco è il rapporto tra corruzione e criminalità organizzata. «Da tempo le cosche non agiscono più in un contesto puramente delinquenziale e separato dall’economia – ha spiegato, sempre ai dialoghi dell’Oci, il Procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti -. Inchieste e processi disvelano sempre più articolati intrecci di malaffare nei quali la corruzione fa parte a pieno titolo del sistema mafioso».
Non è, quindi, un caso che il sondaggio condotto nel 2010 dall’Ipsos abbia fotografato tra i manager di multinazionali straniere un’idea assai diffusa del peso della corruzione in Italia: una zavorra solo immaginata da parte dei dirigenti che non avevano ancora operato qui da noi e che si rivelava ancora più grave con l’esperienza sul campo. «Leggevo e mi riferivano che il problema esistesse – ha risposto oltre la metà dei manager -, ma non credevo fosse ai livelli che ho sperimentato».
SOLE 24 ORE 13.10.2014