Esecuzione della pena

 

E’ il tempo che hai impiegato per la tua rosa che rende la tua rosa importante

di Andrea Zoanni – Presidente PSF

Sono molte le domande che germogliano nella mente dopo aver partecipato ad un convegno come quello del 12 maggio nella Casa Circondariale di Pavia. Il titolo: “Esecuzione della pena: destino infausto, libera scelta incauta o persecuzione sociale. La salute mentale come chiave di lettura” lascia il campo aperto a qualunque via si desideri percorrere, per convinzione o per sperimentazione, facendo sorgere la prima quaestio che ci interroga sul maggiore bisogno oggi di profeti, o di testimoni.

Il convegno ha voluto riportare la libertà e la responsabilità sul singolo essere umano autore del gesto, in questi casi cruento e indelebile. E i detenuti, come relatori, coadiuvati dai loro assistenti, hanno assunto in pienezza un ruolo solo apparentemente paradossale di difensori della legalità, indirizzando le loro considerazioni ai cittadini che possono attraversare delicati momenti di vita, come alla cittadinanza tutta. L’auditorium era freddo, complice l’inclemenza del tempo, ma il freddo non si sentiva.

Molti gli studenti delle scuole superiori pavesi, facendomi pensare quale fosse il senso di una comunicazione incredibilmente cruda e soprattutto reale, indirizzata ad un pubblico ancora in adolescenza. Ora dico di avere raramente assistito e con l’anima partecipato ad una lezione formativa su come intendere e vivere la vita. E mi domando fino a quale livello si possa comprendere con efficacia la profondità dell’essere umano e come, questa area indeterminabile, possa considerarsi risorsa.

I relatori sono detenuti con sentenza definitiva e irrevocabile; scontano una pena pluridecennale compreso l’ergastolo. Sono il frutto più maturo della “giustizia riparativa”, un approccio che considera il reato prevalentemente un danno alle persone, da cui ne consegue per l’autore del gesto infame l’obbligo di rimediare alle conseguenze lesive della sua condotta attraverso il coinvolgimento attivo della vittima e della comunità, ricercando soluzioni ai bisogni conseguenti l’azione criminale perpetrata.

Sette testimonianze complesse, sette storie raccapriccianti, sette persone private della libertà e della responsabilità della propria vita, dei gesti e delle azioni che la compongono. Alla base quasi sempre una infanzia con pochi affetti e nessun amore, un periodo adolescenziale senza riferimenti positivi, tratti comuni che si ritrovano in tante altre storie dall’agghiacciante similitudine. Atti commessi in conseguenza di un vissuto che si dispiega infrangendo il limite oltre il quale l’abisso inghiotte il malcapitato e il colpevole.

Non in premessa, non in chiusura, ma all’interno del tema stanno le vittime e le loro famiglie, parte fondamentale da recuperare. C’è chi forse non ne ha bisogno, se penso a ciò che dissero i genitori dell’italiana uccisa al Bataclan. E come loro tanti altri. Ma nella maggioranza dei casi la tragedia non cessa gli effetti nefasti e segna l’esistenza della parte lesa con tratto indelebile. Il contesto sociale e la sfera personale segnano il cammino, di certo la giustizia ripartiva è propedeutica alla possibilità di un loro riscatto.

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– Mi sono trovato di fronte a un duplice omicida, di una madre e del figlio in età di asilo, suoi vicini di casa, in un momento in cui l’alcol prese il controllo della mente, trasformando l’amico in assassino, che commise il delitto di fronte al proprio figlio, amico della piccola vittima. Il racconto è straziante, che ti blocca il respiro, che genera un silenzio assordante e una domanda: com’è stato possibile?

Ti accorgi nella fatica della narrazione che in lui la pace sarà difficile e che nell’accettazione della massima pena “…… giustizia è stata fatta per il mio incomprensibile reato”, cerca nella preghiera l’aiuto per “…… trasformare la mia esperienza in una speranza di fede …… nella consapevolezza di aver perso la mia libertà, la cosa più bella e preziosa che tutti gli uomini hanno”.

E prima di questa terribile storia, quella di un ragazzo che non ha retto all’emozione della lettura e che di fatto era sempre stato senza famiglia, lentamente consumato da false amicizie negative, dalla droga e dall’alcol, con tanti, troppi episodi deleteri verso gli altri e verso se medesimo.

In seguito il buio e nel carcere lo spazio e il tempo necessario per comprendere che “……c’è sempre un punto sulla strada dove se ne può tracciare un’altra e cercare di seguirla, e non sbagliare più …… lottare per se stessi e aver cura della propria vita”.

E dopo ancora uno scavezzacollo, orgoglioso e ribelle sin da piccolo, fino al punto di giungere ad uccidere un proprio compagno durante la detenzione carceraria. Anoressia, desiderio di morire, inizio della rinascita partendo “dall’esistenza dell’altro, soprattutto se l’altro è la vittima”.

E un messaggio ai ragazzi, non per insegnare ma per ricordare: “Mi auguro che voi …… possiate arrivare a capire ciò che state facendo prima di quanto lo abbia fatto io, prima di commettere azioni che difficilmente si possono riparare.”

 

– A seguire un episodio che parte da un abuso subito da un ragazzo undicenne, che diventa adulto pensando di superare da solo l’accaduto, ma che invece cade nella stessa tentazione in modo reiterato, ingigantita dai media fino ad arrivare alla condanna mediatica. Il tentato suicidio, una salvezza definita “… un miracolo …”.

Poi la comprensione degli errori facendo ordine dentro di sé e il messaggio che “Nessuno di noi è solo. Non esiste un problema così grande da non poter essere affrontato”, potendo scegliere se “dire sì o dire no”.

– E via con un’altra persona e una storia che non si può definire a parole, quella di un figlio senza affetti, da bambino e da adulto, con una madre che lo rifiutava e un padre che lo riempiva di botte. E che una volta separati, a turno gli dicevano “tu non fai più parte di questa famiglia, fattene una ragione” oppure “sei solo un problema, meglio che muori”.

Il finale è descritto come “un reato grave, un gesto folle”. Ed è nel carcere che lui trova “umanità”. Per diversi motivi non ha potuto essere presente, ma questa sua esperienza, queste sue riflessioni portano un titolo altamente formativo nella sua semplicità: PER OGNI FINE C’E’ UN NUOVO INIZIO.

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L’animo si fa pesante, non c’è abitudine a simili confessioni, ma credo fatichino a esserci anche per gli addetti ai lavori. E’ la prima volta che entro in un carcere, conosco la materia e le molteplici problematiche solo per sentito dire, al quale non dò molto peso perché come in altri ambiti si tira prevalentemente l’acqua al proprio mulino. Il che sarebbe comprensibile, salvo poi capire che spesso si celano altri interessi ed obiettivi, ben lontani da chi il carcere lo abita, sia come detenuti, sia come lavoratori.

Non so quanto possa valere il mio pensiero, ma ho trovato un carcere costruito da Persone altamente professionali unite da un cuore grande. La popolazione carceraria è vasta, ciò che ho visto è, del reparto protetti, la parte apicale e più avanzata nel recupero della persona e dei suoi famigliari, compresa la parte lesa per quanto possibile.

La Casa circondariale di Pavia e l’Unità operativa di sanità penitenziaria mi hanno ricordato un libro sempre attuale: “RACCONTARSI E’ ASCOLTARSI – Il cortile della cura” di Barbara Fabbroni, laddove “Com-prendere e farsi com-prendere, incontrare e incontrarsi, raccontare e raccontarsi, ascoltare e ascoltarsi, in una reciprocità affettiva, costruisce la base sicura su cui edificare il proprio esser-ci …… contaminati in un evento psicopatologico, che si evidenzia nei sentieri inter-rotti, nelle situazioni limite, negli anfratti psicopatologici dell’esistere umano.

Da un libro all’altro rimbalzano i miei pensieri che sollecitano domande e penso a “CANTIERI DELL’ANIMA – La salute e la cura dei giovani: itinerari filosofici” di Fabio Gabrielli, che ho un grande piacere di conoscere, con cui si vuole “suggerire agli educatori e ai giovani alcune piste di lettura per una efficace educazione alla salute di questi ultimi, intesa nel suo significato più pregnante, cioè come vita buona.

E’ un lavoro nell’officina dell’anima ove i cantieri aperti più che soluzioni forniscono possibili itinerari per abituare lo sguardo degli adolescenti alla meraviglia, alla problematicità, ascoltando domande di senso capaci di ricondurre all’unità il loro frammentato stare al mondo.” Ci si rivolge ai giovani, ma chi è di fronte ad un nuovo inizio e lo deve cogliere non è da considerarsi giovane?

Mancano due persone, due storie, due incontri, cinque sono stati proposti in modo molto sintetico, forse troppo. L’alternativa sarebbe dedicare un articolo ad ogni racconto, maggiore spazio ad ogni persona, ad ogni vittima. Non è possibile, ma forse ne avremmo bisogno, noi che viviamo spesso di apparenze e nelle apparenze. Ognuno di loro ha una terribile storia umana, di certo non uguali, ma tutte sono molto simili nella genesi, sviluppatesi poi secondo un copione che ha generato parti lese in modo quasi sempre irreversibile.

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– Il penultimo racconto ha un contenuto inaspettato. Il contesto si riferisce ad un gruppo di matrice satanista che induceva al suicidio, qualcosa di crudelmente e scientificamente pianificato per causare la morte dell’altro. Preferisco non indicarne il nome, così come anche quello di tutti i carcerati.

Ma non è questo l’inaspettato, l’inaspettato che fa riflettere è la profondità e la sensibilità di un racconto intimistico che stupisce, diametralmente opposto alle motivazioni della condanna. Non riesco a condensare, perché non è possibile, le tante dolci parole e le profonde frasi d’amore verso la fidanzata, la propria famiglia, gli altri, la vita. Frasi scritte con dettagli di bellezza prorompente, che solo nella privazione uno riesce ad esplicitare in modo così intenso.

Verso la fine due parole chiave, sensibilità e valorizzazione. “E’ un sorriso amaro il mio, quello del sentirsi così stupido nell’ammettere che ci voleva una tragedia del genere per rigenerare ciò che avevo sempre desiderato ma per il quale, fuori, avevo così poco combattuto: una famiglia unita …… Questo è stato possibile solo grazie al cuore pulsante delle persone che lavorano in Istituto …… Non perdete l’occasione di dire e dimostrare alle persone care quanto le amate …… Valorizzate il vostro tempo, le vite, a scadenza, lo sono un po’ tutte e il tempo che sprechiamo non ci sarà mai più restituito.” 

Anche l’ultima vicenda è animalesca, considerazione errata poiché solo l’uomo arriva così in basso. Sarà pure stato un regolamento di conti consumato dallo “sgarrista” che punisce severamente chi non rispetta il codice d’onore, ma che dire del sequestro di un uomo e della sua lenta uccisione voluta in quel modo per farlo soffrire, godendo al sentire delle sue suppliche di morte?

Però qualcosa succede proprio nei momenti in cui devi decidere se lasciarlo morire o provare a salvarlo con la certezza di essere poi ucciso tu. Quasi una folgorazione, che lo porta in seguito a denunciarsi e denunciare. Per il colpevole quei momenti sono diventati istanti eterni, ove oleggia l’odore del sangue e della terra che mai cesserà di sentire.

A questo punto il racconto si rivolge in particolare ai ragazzi presenti invitandoli a non girare la testa dall’altra parte, come ha fatto lui, di fronte agli episodi che avvengono tutti i giorni. “Ora vi lascio ai vostri smartphone, ai vostri tablet, ai vostri social, con la speranza che il prossimo video su cui cliccate mi piace non sia quello di un ragazzo umiliato e picchiato dai suoi compagni ma piuttosto quello di una semplice stretta di mano tra due persone completamente diverse.”

E’ una storia per me particolare, avvenuta in due luoghi (il sequestro, la morte) che sono le strade del mio paese e i boschi del paese vicino. Forse la più barbara di tutti, ma non l’unica storia grave. Altre esecuzioni vi sono state, una pure nel bar frequentato centinaia, forse migliaia di volte. Poi racket e vetrine che saltano, incendi, esplosioni di un garden di una azienda d’oltralpe, che nei mesi successivi decise di chiudere tutti gli altri  garden aperti nel nord Italia con centinaia di posti di lavoro in fumo. Questo in Lombardia.

Dalla cronaca: “La catena francese di garden center Botanic abbandona l’Italia dopo circa 12 anni di presenza nel nostro Paese. Botanic Italia ha recentemente inviato una comunicazione ai fornitori annunciando la chiusura dell’attività entro il 31 agosto 2014. La notizia era nota già dalla fine dell’anno scorso e negli ultimi sei mesi è stato un susseguirsi di trattative per la vendita dei negozi.

Il negozio di Vertemate è andato in fiamme il 13 settembre 2013, ormai possiamo dire per “mano di ignoti” visto che la Procura ha chiesto e ottenuto l’archiviazione del caso il 20 giugno scorso.

I punti vendita di Vercelli e di Vigliano Biellese (che aveva già interrotto la sua attività) sono stati rilevati da Fasoli Piante, che ha garantito la piena occupazione del personale e riapriranno, rispettivamente, a settembre e febbraio.

E’ stato concordato l’affitto del punto vendita di Montebello della Battaglia a Viridea, anche in questo caso con il rispetto della piena occupazione e un’apertura prevista per il prossimo ottobre.

Il punto vendita di Rozzano, in provincia di Milano, ha già chiuso i battenti a fine 2013 e non ha trovato garden center interessati a proseguire l’attività, forse anche per la presenza nello stesso centro commerciale di un negozio Leroy Merlin.

Infine il punto vendita di Milano Portello, che non ha ancora trovato una collocazione ed è già stata ufficializzata la sua chiusura.”

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Di solito scrivo di getto, poi un rapido controllo e via. In questo caso non sono riuscito e solo ora comincio a comprendere l’esperienza vissuta. E’ una cosa strana e sfidante, è la bellezza dell’incertezza a far dire che vale la pena di vivere la vita alla ricerca di rapporti umani positivi. Ho voluto però dedicare il giusto tempo, non per dare risposte, ma per porre domande. Domande che sono come ciliegie, una tira l’altra, ricordando il titolo di un bel libro di filosofia per le scuole elementari.

Uscendo dal seminato, o forse no, penso a papa Francesco, che dopo duemila anni di risposte della Chiesa come Istituzione senza mai porre e porsi una domanda, ha dal vertice della stessa iniziato un cammino di domande. Non tanto domande giuste, quanto domande corrette e soprattutto che servono.

Per cui la domanda, a me stesso, se fosse giusto ascoltare e soprattutto avvicinarsi e avvicinare idealmente certe persone e il loro mondo, si è presto trasformata in “serve tutto ciò?” E la cosa più stupefacente è che il Progetto san Francesco, centro studi sociali contro le mafie a questa esperienza è stato chiamato dal carcere, dalle persone che lo abitano e vi lavorano.

Il Progetto San Francesco ha conosciuto uomini che nella loro vita hanno ucciso altri uomini, donne e bambini, che hanno molestato donne e violentato adolescenti, che hanno ucciso famigliari e compagni di cella, che sono stati mafiosi di rango e satanisti incalliti. Abbiamo deciso che ritorneremo per portare alcune nostre riflessioni e testimonianze, per condividere il possibile. Servirebbe in futuro fare conoscenza anche delle parti lese, o di ciò che resta di loro.

Troppo facile pensare al “chi siamo noi per giudicare” del Papa, ma è impossibile non ricordare questo insegnamento. Non so cosa faremo e dove arriveremo, perciò non ci diamo obiettivi ma compiti. E i compiti vanno fatti bene o, meglio, bisogna fare sempre tutto il possibile.

“E’ il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”, dice la volpe al piccolo principe. E’ grazie a questo tempo, a questo stare con l’altro in maniera autentica, che ogni individuo costruisce all’interno di sé la percezione, la sensazione, l’emozione, la consapevolezza del suo e dell’altrui riconoscimento al fine di sentirsi esistere. E in certi casi rinascere nella pace come pienezza di riconciliazione.