(BORSELLINO) Boris Giuliano

da “Il Capo dei Capi” di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo, pag. 148

Sapeva usare la testa. Boris Giuliano aveva capito una cosa essenziale: bisognava cercare i soldi. Una raffineria si poteva aprire e chiudere. Un chilo, venti chili di eroina potevano scomparire, il denaro no. I dollari lasciavano tracce.

Erano le impronte digitali che la mafia non poteva cancellare. I verdoni erano il filo che lo sbirro voleva seguire e stava seguendo. Come poteva, come sapeva. Da solo. Con una Colt cinque colpi infilata sotto l’ascella e con le informazioni che riusciva a strappare ai silenzi di Palermo.

Quei cinquecentomila dollari trovati nelle valigie di Punta Raisi avevano portato Boris Giuliano alla Cassa di risparmio per le province siciliane. 
Un tale Giglio aveva depositato trecentomila dollari in contanti. Chi era Giglio? Il poliziotto lo chiese a Francesco Lo Coco, il direttore dell’istituto di credito. «Non lo so, dottore» rispose. Francesco Lo Coco era cugino di primo grado di Stefano Bontate, ma Boris Giuliano non lo sapeva.
«Tom, ascoltami», disse Boris, «è troppo pericoloso stare dall’altra parte. In questa città anche i muri hanno le orecchie e i muri della questura, poi, hanno occhi, orecchie e bocca».
«Che mi stai dicendo… che hai una spia in questura?» chiese Tom, che cominciava a comprendere l’umore tetro di Boris.
«Non ne sono sicuro, ma mi sembra che abbiano scoperto il gioco. Sanno chi sei. Qualcuno ha parlato».
«Sai chi è?», domandò Tom Tripodi.
Giuliano abbassò la voce: «Non lo so, ma non mi fido di Bruno».
«Contrada? Il capo della squadra mobile? Il tuo capo?». 
«Sì, Contrada, il mio capo…».
«Se sanno di me, sanno anche di te?», Giuliano sorrise amaro: «Questo è certo, ma io sono la guardia, loro sono i ladri e questa è la vita».

 

da “Il Capo dei Capi” di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo, pag. 149

Erano gli ultimi giorni del giugno 1979. I poliziotti di Palermo tenevano d’occhio due mafiosi. Li videro entrare in un palazzone di via Pecori Giraldi, una traversa stretta del lungomare di Romagnolo. La mattina dopo, all’alba, piombarono nell’appartamento. 
Trovarono fucili a canne mozze, Magnum 357 che avrebbero abbattuto un bisonte, chili di munizioni. In un armadio c’erano otto sacchetti d’eroina da mezzo chilo. Intorno c’erano le tracce del proprietario di quel tesoro che – milione più, milione meno – valeva tre miliardi di lire. 
I documenti, gli effetti personali, il guardaroba dicevano che l’eroina apparteneva a Leoluca Bagarella, Luchino, uno dei sicari di Totò Riina. Era la prima volta che prendevano i Corleonesi con le mani nel sacco.
La telefonata arrivò il giorno dopo al centralino del 113.

«Dite a Giuliano che morirà presto».

Boris non prese sottogamba la minaccia e rispedì Tripodi in America. Mandò la famiglia in vacanza a Piazza Armerina.
Tre settimane dopo, lo sceriffo era morto.
Era il 21 luglio. Uscì prima del solito quella mattina e, contrariamente al solito, entrò in un bar a bere un caffè. Al Lux, sotto casa. Forse aveva appuntamento con qualcuno che conosceva. Il killer già lo stava aspettando. Leoluca Bagarella, Luchino, il cognato di Totò Riina, gli sparò alle spalle. Al corleonese tremavano le mani. Dovette premere il grilletto quattro volte.
C’erano molti motivi per uccidere Boris Giuliano.

«La minchia la scassa soltanto lui, gli altri o li abbiamo in mano o fanno i buoni o fanno finta di non capire. Astutamulu» avevano deciso in commissione. Furono tutti d’accordo – i Palermitani di Stefano Bontate e i Corleonesi di Totò Riina – a spegnere il poliziotto che aveva studiato a Quantico. Anche perché non c’era solo l’affare della droga. C’era dell’altro. A Palermo aspettavano visite, visite importanti.