Rocco Chinnici, il magistrato che inventò il pool

 

 

ROCCO CHINNICI  – Nato a Misilmeri il 19 gennaio 1925, Rocco Chinnici frequentò il Liceo Classico a Palermo, dove si iscrisse poi alla Facoltà di Giurisprudenza, conseguendo la laurea il 10 luglio 1947. Nel 1952 vinse il concorso di Magistratura e, per i due anni di uditorato, venne assegnato al Tribunale di Trapani. Dal 1954, data di nascita della sua primogenita Caterina, rimase per 12 anni alla pretura di Partanna. Questa lunga tappa professionale lo portò a diretto contatto con la cittadinanza, segnando profondamente la sua personalità e dandogli la possibilità di esercitare le sue grandi doti umane e professionali. Instaurò infatti con la popolazione locale una eccezionale sintonia, che lo portò – tra l’altro – a ritardare a lungo la partenza per un ufficio giudiziario più prestigioso. In quel felice periodo nacquero gli altri due figli del Magistrato, Elvira (gennaio 1959) e Giovanni (gennaio 1964). Nel maggio del 1966 fu trasferito a Palermo, presso l’Ufficio Istruzione del Tribunale, come Giudice Istruttore: iniziò così ad occuparsi dei casi più delicati. Nel 1970 gli venne assegnato il primo grande processo di mafia, quello per la “strage di viale Lazio”, e nel 1979 fu designato Consigliere Istruttore, iniziando a dirigere da titolare l’ufficio in cui operava da tredici anni. È in questo periodo che le istituzioni italiane cominciano a vacillare sotto i colpi di una mafia ormai diventata talmente potente e sfrontata da sfidare apertamente lo Stato. Fu allora che Chinnici ebbe una grande intuizione, creando, nel suo ufficio, dei veri e propri gruppi di lavoro – scelta per allora rivoluzionaria –, dando quindi una prima forma a quelli che saranno poi definiti “pool antimafia”. Accanto a sé volle – tra gli altri – due giovani magistrati: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, con cui avviò le prime indagini di quelli che si caratterizzeranno come i più grandi processi per mafia degli anni Ottanta. L’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo divenne, sotto la sua guida, un esempio di organizzazione giudiziaria per le altre magistrature d’Italia. Ma Rocco Chinnici non esaurì la sua attività all’interno delle aule. Riprendendo quel contatto diretto con la gente che aveva caratterizzato il suo lavoro di pretore a Partanna tanti anni prima, riprese i panni del magistrato impegnato a sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni. La sua attenzione si rivolse in particolar modo verso i giovani; Chinnici partecipò infatti a numerosi incontri pubblici e nelle scuole, per parlare ai ragazzi della mafia e del pericolo della droga – strumento di potere e di guadagno dei clan. È proprio nel pieno di quest’attività professionale, sociale e culturale che, il 29 luglio 1983, Chinnici rimase vittima di un attentato. Sotto casa sua, infatti, la prima delle tante autobombe che verranno tristemente utilizzate nelle stragi degli anni ‘90 pose fine alla vita del giudice, segnando l’ulteriore e drammatico inasprirsi della strategia mafiosa. Insieme al magistrato persero la vita il portiere dello stabile, Stefano Li Sacchi, e i due carabinieri della scorta, Salvatore Bartolotta e Mario TrapassiROCCO CHINNICI

 

Palermo come Beirut – Video RAI Diario Civile

 

«La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare ROCCO CHINNICI

GIOVANNI PAPARCURI sopravvissuto alla strage oggi curatore del Museo Falcone e Borsellino al Tribunale di Palermo

 

 Il diario segreto di Rocco Chinnici

Dal diario di Rocco Chinnici, appunto del 18 maggio 1982

Ore 12:00 vado da Pizzillo…Mi investe in malo modo dicendomi che all’ufficio istruzione stiamo rovinando l’economia palermitana…mi dice chiaramente che devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che cerchi di scoprire nulla perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche.

 

  • «Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai»  
  • […] in ogni caso sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c’è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani. Il rifiuto della droga costituisce l’arma più potente dei giovani contro la mafia.
  • La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. […] La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio. Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini.
  • Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai.

ROCCO CHINNICI: UN’ALTRA VITTIMA DELLA ” MAFIA DI STATO”…..”aveva chiesto aiuto, rinforzi in ufficio, ma rimase solo, con i suoi fedelissimi, ad affrontare un lavoro improbo e pericoloso. Le misure di protezione restarono invariate. Anzi, alcuni mesi prima, addirittura, gli era stato tolto il presidio notturno dei carabinieri sotto casa. Se ci fosse stato, i killer non avrebbero potuto agire indisturbati, parcheggiare l’auto e piazzare l’esplosivo davanti al nostro portone.Se la Criminalpol e la Questura avessero avvertito papà della soffiata ricevuta sull’organizzazione di una strage, forse lui si sarebbe andato a rinchiudere in un bunker come fece poi il suo successore. Avrebbe adottato misure di sicurezza ancora più rigorose.Invece, nulla. La sua morte non fu improvvisa, imprevista. Fu annunciata. Preceduta da una raffica di velate intimidazioni e poi di pesanti minacce, fuori e dentro il Palazzo di giustizia «sonnolento», come lo definiva lui stesso. Un crescendo, fino alla notizia riservata sull’arrivo dell’esplosivo a Palermo, pochi giorni prima dell’autobomba. Rimase tutto nei cassetti» (Giovanni Chinnici, figlio del magistrato ucciso)

 

ROCCO CHINNICI – Misimeri  (Palermo), 19 gennaio 1925 – Palermo, 29 luglio 1983. Magistrato. Capo ufficio istruzione di Palermo. Padre del pool antimafia.

• «Picciriddi, in Sicilia, terra di mafia, si può morire in tanti modi, oltre che nel proprio letto. Freddati dai colpi di pistola o crivellati da una kalashnikov. Incaprettati nel protabagli di un’auto o stroncati da un’overdose. Talvolta, spariti nel nulla, vittime della lupara bianca. Ma prima che ammazzino me, ne stendo un paio io» (Rocco Chinnici ai suoi figli)
• Nel 1952 entra in magistratura, al Tribunale di Trapani. Pretore a Partanna per 12 anni, giudice istruttore a Palermo dal 1966 fino al 1979 quando viene promosso Consigliere Istruttore.
• «Riprendendo le fila del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia”, e più oltre aggiunge: “La mafia … nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”» (Così nella sua relazione sulla mafia presentata il 3 luglio 1978 in un incontro organizzato dal Csm).
• Chinnici ritiene fondamentale il lavoro di gruppo perché quando un magistrato antimafia viene assassinato le sue conoscenze e il suo lavoro si perdono con la sua morte. Crea gruppi di lavoro. Accanto a sé ha due magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A Falcone affida il processo Rosario Spatola e lo autorizza a svolgere indagini bancarie. Per questo viene spesso minacciato anche da colleghi.
• «C’è bisogno di cittadini responsabili. Il rimedio alla mafia è la mobilitazione delle coscienze».
• Per anni ha richiesto un’incriminazione ad hoc per il solo fatto di far parte di un’associazione mafiosa (quella che poi divenne la legge Rognoni-La Torre approvata dopo l’omicidio di Dalla Chiesa): «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per latri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali». [altrodiritto.unifi.it/]
• «Indaga sui delitti politici, da Pio La Torre a Mattarella, dal giornalista Mauro Francese all’omicidio Dalla Chiesa. Vuole unificare tutte queste indagini, è convinto che la sia la stessa, e sarà la stessa, confida ad un amico, che ordinerà il suo eventuale assassinio. Tiene un diario dove annota riflessioni, giudizi, episodi. Non si fida di alcuni colleghi del Palazzo di giustizia di Palermo, in modo particolare dei vertici giudiziari. È convinto che le pressioni mafiose trovano appoggi nel Palazzo di Giustizia di Palermo. Già quando collaborava con Gaetano Costa sul traffico di droga con le famiglie americane aveva l’abitudine di confrontarsi col collega di nascosto, nell’ascensore di servizio. È stato il primo magistrato a considerare Peppino Impastato vittima della mafia, tanto che riapre le indagini conclusesi troppo sbrigativamente già il 9 maggio del 1978 quando i carabinieri giungono subito alla conclusione che il militante di Democrazia Proletaria è un terrorista morto mentre sta preparando un attentato dinamitardo sulla linea ferroviaria Palermo-Trapani.» (Fernando Scarlata).
• «Una mia eventuale condanna a morte scaturirà dallo stesso cervello criminale che ha già ucciso Terranova, Mattarella, Costa e La Torre».
• «La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare».
• Il 9 luglio 1983 autorizza Giovanni Falcone a spiccare 14 mandati d’arresto per l’omicidio del Generale Dalla Chiesa. Tra loro Riina, Provenzano, i fratelli Greco, Santapaola. Venti giorni dopo viene ucciso. Si dice che stesse preparando altri venti mandati di cattura con le cosche mafiose e che la sua intenzione era quella di arrestare i finanzieri Nino e Ignazio Salvo.
• Il 29 luglio 1983, poco alle 8.05 Rocco Chinnici e due carabinieri di scorta sono rimasti uccisi dall’esplosione di un’auto parcheggiata davanti all’abitazione del magistrato, al 59 di via Federico Pipitone. L’attentato è stato compiuto con una 126 carica di tritolo. L’utilitaria è saltata in aria non appena Chinnici, con la sua scorta hanno varcato la soglia del portone, mentre il magistrato stava scambiando una battuta con il portiere Stefano Sacchi, di 56 anni, sposato e senza figli, morto anche lui assieme al maresciallo Trapassi e all’appuntato Salvatore Bartolotta. Si è salvato invece Giovanni Paparcuri, 27 anni, autista della macchina blindata a bordo della quale Chinnici doveva essere accompagnato, come tutte le mattine, al palazzo di giustizia. Sono rimasti feriti il brigadiere Lo Nigro, il brigadiere Pecoraro, l’appuntato Calvo e il carabiniere Amato.
• La Stampa: «Calvo, Amato, Trapassi e Bartolotta facevano parte della scorta del magistrato. Il brigadiere Lo Nigro e il brigadiere Pecoraro si trovavano a bordo di una macchina del gruppo radiomobile, che aveva il compito di bloccare il traffico nel momento in cui il dottor Chinnici doveva salire sull’auto blindata» [Sta. Se 29/7/1983].
• I sicari avevano parcheggiato una Cinquecento stracolma di esplosivo proprio davanti al 63 di via Pipitone costringendo così agli uomini della scorta di posteggiare in seconda fila, proprio accanto all’autobomba. Lodato: «Personalmente ricordo pietosi lenzuoli bianchi distesi fra via Pipitone e via Prati. Mi colpì il fatto che un’esplosione potesse strappare via i vestiti, mi serrò lo stomaco la vista di una gamba adagiata su un marciapiede
• Chinnici lascia la moglie Tina Passalacqua (sposata nel 1952), insegnante di scienze, che al momento dell’esplosione si trovava a Trapani dove presiedeva la commissione d’esami all’istituto magistrale e tre figli: Caterina, giudice del lavoro a Caltanissetta, Elvira, laureanda inmedicinae Giovanni iscritto al primo anno di giurisprudenza. [Sta. Se 29/7/1983]: «Io ed Elvira eravamo ancora in pigiama. Sentimmo un boato, un’esplosione. Sembrava la fine del mondo. Era successo qualcosa di tremendo a papà. Lo capimmo subito, senza neanche affacciarci al balcone. Scendemmo precipitosamente, dal terzo piano, giù per le scale. C’era fumo, fumo dappertutto. Vedemmo prima il corpo del portiere, a terra, il povero Stefano, ma non riuscivamo a trovare papà. Girammo attorno, con l’angoscia nel cuore. Lo scoprii io. Gridai a Elvira: “Guarda, è lì”. Non auguro a nessun figlio, anzi proprio a nessuno, di vedere con i propri occhi uno strazio simile. Ci chinammo, urlammo di disperazione, ci abbracciammo. Poi rimanemmo ammutoliti».
• «La sera del 29 luglio 1983 si brindò nei quartieri popolari, nel rione del “Capo”, il cuore del centro storico di Palermo. Fu necessaria un’ordinanza pubblica, addirittura, per vietare festeggiamenti, schiamazzi, ai quali idealmente si unironoi detenuti del carcere dell’Ucciardone» [De Pasquele, Iannelli, Così non si può vivere, Castelvecchi 2013].
• Paolo Borsellino: «La mafia ha capito tutto. Avrebbero potuto colpire me o Falcone, ma avrebbero solo reciso la diramazione di un corpo articolato. Uccidere Chinnici, il consigliere istruttore che ha impresso una svolta epocale nelle indagini antimafia, significa troncare la testa di quel corpo, la mente di un ufficio» [Lucentini 2003].
• Amava cucinare («i rigatoni col sugo di carne erano la sua specialità»), ballare il valzer con la moglie, curare le piante del balcone e giocare con Billy, il cane. Da giovane aveva il pallino per la lotta greco-romana e per i lavori di campagna.
• Il processo per l’omicidio ha individuato come mandanti i fratelli Nino e Ignazio Salvo, e si è concluso con 12 condanne all’ergastolo e quattro condanne a 18 anni di reclusione per alcuni fra i più importanti affiliati di Cosa Nostra. GIORGOP DELL’ARTI

 
Quando Rocco Chinnici  diceva agli studenti“Il pericolo maggiore è la rassegnazione”
Un’intervista ritrovata fra i ricordi di università di Franca Imbergamo, oggi sostituto procuratore generale a Caltanissetta. La conversazione fra la studentessa e il magistrato, sui temi della legge La Torre, fu pubblicata sul giornale dei giovani della Fgci, “Mobydick”, quattro mesi prima della strage di via Pipitone Federico. Insieme al giornale è stata ritrovata anche la registrazione dell’intervista. 
La voce di Rocco Chinnici riemerge da una vecchia cassetta audio: “La mafia ha sempre avuto rapporti con il potere. La mafia non è mai stata con chi è all’opposizione. I partiti del potere, in misura più o meno rilevante, sono purtroppo inquinati dalla mafia”. Il consigliere istruttore ha un tono gentile, ma deciso. Risponde alle domande di una giovane studentessa universitaria. “Dal 1970 a oggi — dice — con la potenza economica raggiunta, la mafia condiziona la vita socioeconomica della Sicilia occidentale, evidentemente con riflessi anche nel campo politico”.
Per 28 anni quella cassetta è rimasta dentro una scatola, fra i ricordi di università di una giovane, allora ventunenne, che frequentava il terzo anno della facoltà di Giuri¬sprudenza di Palermo. Accanto alla cassetta è sempre rimasta una copia del giornale dove poi fu pubblicata l’intervista, “Mobydick”, periodico di battaglia dei giovani della Fgci siciliana. La giovane universitaria, Franca Imbergamo, quattro anni dopo entrò in magistratura. Oggi è sostituto procuratore generale a Caltanissetta e ricorda ancora con angoscia il giorno in cui vide in televisione l’auto di Chinnici e quella dei carabinieri Mario Trapassi e Salvatore Bartolottadilaniata dal tritolo di Cosa nostra. Poco distante c’era il corpo di Stefano Li Sacchi, il portiere dello stabile dove abitava il giudice. Era il 29 luglio 1983, quattro mesi dopo l’intervista.
“Guardando in televisione le immagini della strage — dice Franca Imbergamo — mi resi conto di quanto non avessi compreso la gravità delle cose dette da Chinnici quel pomeriggio, nel suo ufficio al palazzo di giustizia. Solo guardando quelle immagini strazianti capì quanta importanza avevano i fascicoli che Rocco Chinnici teneva con grande ordine sulla scrivania. E allora ripercorsi in un attimo tutti i momenti di quell’intervista, ma ripensai anche alle cose che Chinnici ci aveva detto all’università, durante un ciclo di incontri sulla legge La Torre, da poco introdotta dopo l’assassinio del segretario regionale del Pci. L’intervista doveva essere proprio una sintesi dei ragionamenti fatti in facoltà, perché quegli incontri erano stati un’occasione straordinaria: mai prima di allora un magistrato era stato invitato a Giurisprudenza per parlare di lotta alla mafia”. 
Nell’intervista ritrovata Chinnici ribadisce più volte la necessità dell’impegno dei giovani: “Il pericolo maggiore — dice — sta oggi nella rassegnazione, nella tendenza a considerare la mafia quasi come un male inevitabile della nostra epoca. Bisogna reagire, bisogna far comprendere ai giovani in particolare che la mafia, con la produzione e il commercio delle sostanze stupefacenti, ha superato se stessa nella potenza criminale che l’ha sempre contraddistinta”. Sono parole che suonano come profetiche, perché oggi Cosa nostra è tornata a investire nel traffico di droga. Dice Franca Imbergamo: “All’epoca, il movimento studentesco viveva una stagione importante, stava acquisendo consapevolezza del proprio ruolo all’interno della società civile e della lotta alla mafia. Mi chiedo oggi, cosa accada, perché troppo spesso vedo sguardi annoiati fra i ragazzi che incontro a scuola. Non vorrei che gli incontri antimafia, con magistrati ed esperti, siano ormai diventati come l’ora di religione: una monotona routine, giusto un’occasione da non farsi sfuggire per evitare le materie importanti”.
Chinnici diceva nella sua intervista: “C’è bisogno di cittadini responsabili”. È un altro spunto per il ragionamento di Franca Imbergamo sullo stato attuale dell’antimafia: “Vedo un movimento diviso in mille rivoli, in cui si predica tanto, ma poi spesso gli atteggiamenti non sono poi così corrispondenti alle cose dette. Talvolta ho la spiacevole sensazione che manchi trasparenza e che molti abbiano finito per gestire un piccolo potere: così l’antimafia è diventata anche occasione per fare carriera, a tutti i livelli”.
L’intervista a Rocco Chinnici potrebbe essere anche un manifesto per la nuova antimafia, anche per le parole di speranza che arrivano da quei giorni difficili del 1983. “In una città come Palermo, tanto permeata dalla mafia — diceva il consigliere istruttore — è la stragrande maggioranza della gente, quella silenziosa, quella che teme, ad essere veramente col giudice quando questi fa il proprio dovere”. La Imbergamo rilegge questo passaggio e dice: “Mi colpisce ancora oggi la semplicità con cui Chinnici esprimeva concetti di grande importanza. Era un comunicatore di grande fascino, e oggi la magistratura dovrebbe fare proprio una riflessione sul modo in cui si pone all’esterno. Compito dei magistrati dovrebbe essere quello di sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto a certe tematiche, spiegando che non si può delegare affatto alla magistratura la soluzione dei problemi, ma è necessario un impegno diretto dei cittadini, ognuno nel proprio ambito. Invece, oggi, vedo una tendenza da parte di alcuni magistrati a compiacersi del proprio ruolo. È un messaggio sbagliato che arriva alla società”.
Una copia della cassetta con l’intervista ritrovata è stata donata ai figli del magistrato, Caterina Chinnicii e Giovanni. Un’altra copia è arrivata al presidente del centro Pio La Torre, Vito Lo Monaco, che nel prossimo anno scolastico vuole farla ascoltare agli studenti delle scuole di Palermo.
 
ANCORA UN TRISTE ANNIVERSARIO. UNO DEI TANTI ANNIVERSARI CHE NON AVREMMO MAI VOLUTO CELEBRARE UN ALTRO MAGISTRATO EROE LASCIATO PRATICAMENTE SOLO DA UNO STATO…DISTRATTO… Era il 1983. Venerdì 29 luglio, ore 8.05. Il capo dell’ufficio istruzione di Palermo Rocco Chinnici saluta il portinaio del condominio in cui abita. Via Pipitone Federico avvolta dal caldo torrido di fine luglio e dagli odori e rumori palermitani è sempre la solita. Chinnici esce di casa. Un uomo preme un pulsante. Un boato. Un istante lungo un sospiro e la via si trasforma nell’inferno. Sirene spiegate, ambulanze, urla, macerie, vetri e mura frantumate, un immenso cratere profondo e nero ha preso il posto della macchina del giudice. La mafia aveva colpito ancora, e lo aveva fatto nel modo più vigliacco e sensazionale che poteva. Un’ autobomba, la prima di una lunga serie, aveva spazzato via Rocco Chinnici, i due agenti della scorta Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio del condominio Stefano Li Sacchi. Zero probabilità di errore perché questo giudice testardo che aveva intuito troppe cose andava cancellato. Unico superstite Giovanni Paparcuri, che faceva da autista al consigliere istruttore Rocco Chinnici. Solo per un caso non saltò in aria pure lui. Giovanni Paparcuri piu’ di una volta ha ripetutamente sottolineato come, quando si parla delle stragi, si ricordino solo i magistrati e non anche gli agenti di scorta e i sopravvissuti. La grandezza di Chinnici fu anche nel cercare di potenziare e rendere efficaci gli strumenti per la lotta alla mafia. Il giudice aveva capito l’importanza di lavorare in équipe e aveva gettato le basi per il futuro pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto. Chinnici può essere considerato per molti aspetti il precursore della lotta antimafia portata avanti poi dal pool antimafia e da Falcone e Borsellino, fu lui a creare l’embrione del primo maxi processo con il procedimento allora detto “dei 162”. Fu tra i primi a capire che bisognava cercare tutte le interconnessioni tra i grandi delitti compiuti dalla mafia per studiare unitariamente l’intero fenomeno mafioso. Così come era convinto che unitamente, dai vari componenti dello Stato, andava combattuta la criminalità organizzata. Ci sarebbe tanto da dire, ma le parole del figlio del magistrato ucciso, Giovanni, sono … sono certamente eloquenti:  …..”aveva chiesto aiuto, rinforzi in ufficio, ma rimase solo, con i suoi fedelissimi, ad affrontare un lavoro improbo e pericoloso. Le misure di protezione restarono invariate. Anzi, alcuni mesi prima, addirittura, gli era stato tolto il presidio notturno dei carabinieri sotto casa. Se ci fosse stato, i killer non avrebbero potuto agire indisturbati, parcheggiare l’auto e piazzare l’esplosivo davanti al nostro portone. Se la Criminalpol e la Questura avessero avvertito papà della soffiata ricevuta sull’organizzazione di una strage, forse lui si sarebbe andato a rinchiudere in un bunker come fece poi il suo successore. Avrebbe adottato misure di sicurezza ancora più rigorose.Invece, nulla. La sua morte non fu improvvisa, imprevista. Fu annunciata. Preceduta da una raffica di velate intimidazioni e poi di pesanti minacce, fuori e dentro il Palazzo di giustizia «sonnolento», come lo definiva lui stesso. Un crescendo, fino alla notizia riservata sull’arrivo dell’esplosivo a Palermo, pochi giorni prima dell’autobomba. Rimase tutto nei cassetti».  siAmo la Sicilia

Capì che il delitto Impastato non era il gesto di un terrorista. Iniziatore del pool intuì il peso finanziario di Cosa nostra. Di UMBERTO SANTINO -29 Luglio 2014-  Ho cominciato a frequentare Rocco Chinnici dopo l’assassinio di Peppino Impastato. L’inchiesta era stata subito chiusa, in base alla convinzione, diffusa dalle forze dell’ordine e condivisa da gran parte della magistratura, che si fosse trattato di un atto terroristico compiuto da un suicida o da un attentatore inesperto, ma le denunce dei compagni di militanza, dei familiari di Peppino, che rompevano con la parentela mafiosa, di noi del Centro siciliano di documentazione, che aveva cominciato a operare già nel 1977, l’avevano fatta riaprire. E abbiamo trovato subito in Chinnici un magistrato attento alle nostre istanze e impegnato, con intelligente tenacia, nella ricerca della verità. Ma Chinnici non era soltanto un grande magistrato, era anche, naturaliter, un maestro di vita. Non solo nel palazzo di giustizia, ma in un contesto più ampio. Per anni ha partecipato a incontri nelle scuole, a seminari, convegni e dibattiti, aprendo una strada che allora non era molto frequentata. E molto spesso mi sono trovato al suo fianco. Così, nell’aprile del 1982, nell’ambito dei seminari su droga e tossicodipendenza, organizzati all’Università di Palermo dal Centro di documentazione intitolato dal 1980 a Peppino Impastato (una scelta che in molti ambienti produsse più isolamento che approvazione), ha svolto una relazione sullo sviluppo della tossicodipendenza in Italia, e nell’aprile del 1983, nel corso di un seminario sulla legge antimafia, ha parlato del problema della prova nel processo penale. Il suo contributo era sempre lucido e appassionato. E anche quando avevamo vedute diverse, come per esempio sul problema del proibizionismo, il dibattito con lui era all’insegna del rispetto e della volontà di trovare un terreno comune. Per l’inchiesta sull’assassinio di Peppino Impastato il ruolo del consigliere istruttore Chinnici è stato decisivo. Sua è in gran parte la sentenza che riconosceva che si era trattato di un omicidio di mafia, completata e firmata dal suo successore, Antonino Caponnetto, e pubblicata nel maggio del 1984. Senza quella sentenza sarebbe stato difficile, se non impossibile, continuare le indagini, che portarono all’individuazione dei mandanti e alla loro condanna. In quella sentenza c’era anche un accenno al depistaggio delle indagini, che farà da base per la richiesta alla Commissione parlamentare antimafia di accertare le responsabilità delle forze dell’ordine e della magistratura. Negli anni successivi alla strage del 29 luglio 1983 l’immagine di Chinnici è stata spesso posta in ombra, eppure il suo ruolo ha lasciato il segno. Il pool antimafia, che portò al maxiprocesso del 1986, fu formalizzato da Caponnetto, ma era stato avviato da Chinnici. Sua l’idea che le indagini sulla mafia dovessero ripercorrere la catena che salda le singole vicende criminali in un contesto unitario. Sua la rigorosa ricostruzione dell’evoluzione della mafia in quegli anni, con al centro l’impero economico-finanziario dei Salvo e l’interazione con settori delle istituzioni e della politica. A chi sosteneva che questi rapporti ormai facevano parte del passato, in una relazione presentata a un incontro con i magistrati, svoltosi nel giugno del 1982, rispondeva: “Oggi, più di ieri, la mafia, inserita com’è nella vita economica dell’Isola, non può fare a meno di tali rapporti”. E in quella relazione sottolineava il ruolo crescente a livello internazionale della ‘ndrangheta e della camorra, allora e anche dopo ignorate o sottovalutate. Sua la scelta di raccogliere nel pool magistrati che sono entrati nella storia del nostro paese, non solo per la tragica fine ma per il livello di professionalità maturata all’interno di un lavoro collettivo. Grazie alle sue scelte, Giovanni Falcone ha potuto dedicarsi alle indagini finanziarie, con risultati che restano ancor oggi un punto di riferimento a livello internazionale. La memoria di un movimento antimafia maturo, di cittadini consapevoli di vivere una storia di liberazione, che ha senso solo se è corale e condivisa, dovrebbe evitare di erigere altari per alcuni e dimenticare gli altri. Forse a Chinnici non è giovata la grande sobrietà che lo contraddistingueva. Ma in un mondo in cui troppo spesso si fa a gomitate, la sobrietà è un merito e una virtù. Ricordo i colloqui con lui in una stanza a pianterreno del palazzo di giustizia, con una grande vetrata. Mi diceva che quando era stata collocata era a prova di proiettile (ma nel frattempo gli arsenali si erano aggiornati). E alla mia domanda su quanti fossero i magistrati impegnati in inchieste sulla mafia, rispondeva: “Pochi, meno di dieci”. Ora sono di più, ma l’azione di guerra con cui nell’estate del 1983 hanno voluto falciare la vita di Rocco Chinnici, di Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi, di Stefano Li Sacchi, facendo di Palermo una succursale di Beirut, voleva anche sottolineare la solitudine di chi allora si batteva contro la mafia, registrando l’indifferenza e l’avversione di tanti, qualcuno indicato con nome e cognome in un diario, e non arretrando di fronte a pericoli e minacce. Forse l’immagine più efficace di come lavoravano i magistrati in quegli anni è l’ascensore nel palazzo di giustizia in cui Chinnici si incontrava con il procuratore Gaetano Costa, per non far sentire quel che avevano da dirsi a orecchie indiscrete. Costa, isolato dai sostituti che non firmarono un suo provvedimento, doveva cadere su un marciapiedi di via Cavour il 6 agosto del 1980. E se per Chinnici, dopo varie disavventure, si è fatta in qualche modo giustizia, per Costa stiamo ancora ad agitare ombre. 

 a cura di Claudio Ramaccini, Direttore -Resp. Comunicazione Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF