Fantasma Amendolito, 24 anni dopo: sapeva tutto, fu ignorato
Dagli Stati Uniti arrivarono memorandum, avvertimenti, motivazioni dettagliate su ciò che sarebbe accaduto. Ma Amendolito non è mai entrato in alcuna indagine dell’autorità giudiziaria, in alcuno dei processi. Ignorato. E i suoi documenti non hanno mai ottenuto alcuna attenzione. Perché? Il 24 aprile 1991, un anno prima dell’attentato di Capaci, Amendolito scrisse anche al presidente del Consiglio, allora Giulio Andreotti. “L’ipotesi che la mafia si appresti a dare battaglia allo Stato”, sostiene Amendolito, “è legittimata dall’inatteso proliferare di atti di terrorismo veri e simulati, verificatisi in diverse città d’Italia e proprio in coincidenza con la svolta di politica giudiziaria e governativa, ai danni della mafia.
“L’idea che la mafia si prepari a tanto non è nuova – prosegue Amendolito -. Essa si fece strada all’indomani dell’attentato ai danni del giudice Giovanni Falcone (Addaura, 20 giugno 1989), che l’autorità giudiziaria italiana si ostina a considerare autentico. L’atto terroristico che mi ha rievocato quella memoria è la recente simulazione di un attentato ai danni del vecchio Palazzo di Giustizia rivendicato da un non meglio identificato Movimento rivoluzionario. Io credo che quella simulazione sia il messaggio conclusivo inviato dalla mafia alle istituzioni, una specie di definitiva dichiarazione d’intenti…”.
Secondo Amendolito si tratta di segnali inequivocabili: “Siamo in grado di colpire lo Stato quando, dove e come vogliamo: disponiamo della capacità, della penetrazione e dell’efficienza necessarie”
Amendolito ne deduce che “sarebbe logico attendersi che il “Movimento rivoluzionario” si prepari a colpire il Paese con una serie di attentati da essere eseguiti a breve scadenza, posto che la legge interpretativa sulle carcerazioni preventive è già stata promulgata… La mafia potrebbe decidere per un atteggiamento di sfida. In ogni caso a me sembra che lo scopo di questa operazione sia quello di trasformare la Sicilia in una zona “extraterritoriale”.
Infine l’agghiacciante previsione: “…Ora che il Governo ha fatto proprie le tesi del giudice-poliziotto la mafia ha perduto ogni incentivo per pazientare…, la sola ragionevole via d’uscita per la mafia è quella di rendere il sistema giudiziario ingovernabile”.
Nei memorandum di Amendolito si suggerisce di abbandonare le leggi speciali, il trattamento carcerario duro, se si vogliono evitare “rappresaglie”. Un movente che il collaboratore di giustizia illustra con dovizia di particolari nei suoi scritti, inviati anche ad alcuni giornalisti, quasi che voglia accreditare una tesi “restrittiva”, le stragi come strumento per abbattere ila carcerazione speciale dei boss.
L’attivismo di Amendolito da New York, al di là dei contenuti, è inspiegabile, a meno che il collaboratore di giustizia agisca per conto di terzi. Chi?
Trattativa/2. Stragi, l’uomo di Washington che previde tutto
Salvatore Amendolito si assunse il compito di diffondere la dichiarazione di guerra di Cosa nostra contro lo Stato italiano. Una scelta inconciliabile con la trattativa, da condurre con la necessaria riservatezza.
Il 21 aprile 1991 in un rapporto inviato al Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, e per conoscenza al prefetto antimafia Domenico Sica, Amendolito sostiene “l’ipotesi che la mafia si appresta a dare battaglia allo Stato”.Questa ipotesi sarebbe “legittimata dall’inatteso proliferare di atti di terrorismo veri e simulati, verificatesi in diverse città d’Italia, e proprio in coincidenza con la recente svolta di politica giudiziaria governativa ai danni della mafia”.
Amendolito giudica il fallito attentato all’Addaura, ai danni di Giovanni Falcone, solo un avvertimento e la rivendicazione del “Movimento rivoluzionario” di un attentato ai danni del palazzo di Giustizia, una simulazione. Dietro il Movimento sospetta Amendolito, c’è Cosa nostra. Il messaggio è inequivocabile, spiega Amendolito: “Siamo in grado di colpire lo Stato quando, dove e come vogliamo; disponiamo della capacità, della penetrazione e dell’efficienza necessarie”.
“Ove le mie ipotesi siano fondate, ne deduce, sarebbe logico attendersi che il Movimento rivoluzionario si prepari a colpire il Paese con una serie di attentati da essere eseguiti a breve scadenza…”.
Amendolito, dunque, anticipa la stagione delle stragi. Il 23 marzo 1992, la vigilia dell’attentato di Capaci, invia altri “rapporti”. Uno dei destinatari è Bettino Craxi. “Io credo che già nell’estate del 1989 – la famosa estate dei veleni – la mafia fosse sul punto di dare fuoco alle polveri”, scrive l’ex collaboratore dell’FBI. “, ma poi il progetto fu rinviato per essere rispolverato con l’arrivo del giudice Giovanni Falcone alla direzione degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia”.
Amendolito sollecita da Washington un cambio di atteggiamento del governo. “Il conflitto della mafia può essere brevemente riassunto nel seguenti termini: lo Stato di diritto ci persegue con metodi rivoluzionari e noi rispondiamo facendo la rivoluzione. A me sembra, continua, che i più recenti messaggi terroristici inviati dalla mafia alle istituzioni, ed in particolare l’assassinio dell’onorevole Salvo Lima, abbiano un significato univoco e convergente: o la smettete di fare demagogia giudiziaria o getteremo il Paese nel caos…”.
Infine una inquietante previsione: “…sono convinto che anche questa volta i giochi siano ancora aperti. E’ difficile che la mafia intenda davvero portare un attacco al cuore dello Stato prima del 5 aprile, io credo che il solo modo per prevenire una simile iniziativa consista nel mandare alla Direzione Nazionale Antimafia un giudice delle mani pulite, e subito”.
Amendolito suggerisce, dunque, una “gabinetto” di guerra, l’ unificazione delle due “rivoluzioni” in atto, quella che sta cancellando i vecchi partiti della prima repubblica, e l’altra, che fa pulizia della legislazione antimafia e della vecchia classe dirigente Dc, che ha “tradito” gli amici.
Il 27 maggio 1992, quattro giorni dopo la strage di Capaci, in una coversazione telefonica Roma-Washington con un giornalista dell’Europeo Salvatore Amendolito assume di fatto il ruolo di portavoce di Cosa nostra.“La mafia vuole rendere il sistema giudiziario ingovernabile, spiega, è da un anno che sta organizzando quella che io chiamo una guerra civile. E le guerre civili si fanno con due strumenti: i mezzi militari e lo spionaggio. Per i primi non c’è problema, in quanto allo spionaggio la mafia ha infiltrato le istituzioni italiane a tutti i livelli”.
A che livello colpirà la mafia? chiede il giornalista dell’Europeo. “Vedremo cadere Borsellino e poi un sacco di uomini in Sicilia”. E lo Stato come dovrebbe reagire? incalza il giornalista. “Ha due possibilità: o l’assedio dell’intera Sicilia e poi dell’intero Sud, cosa assolutamente impossibile, o trattare, scendere a patti con la mafia”.
La strategia di Cosa nostra, illustrata da Amendolito, il ricatto affidato agli organi di informazione, non ha alcuna possibilità di successo, nuoce sicuramente alle ambasciate affidate a Massimo Ciancimino dal padre, Don Vito. E’ una strategia che pretende l’impossibile dallo Stato, una marcia indietro “pubblica” sul carcere duro. Non solo dovrebbe calare le braghe, ma farlo coram populo. Un depistaggio, dunque: la trattativa, sbandierata, fa parte della strategia della tensione messa in atto. Il ricatto pubblico, la richiesta di trattare, indebolisce lo Stato, lo destabilizza, oltre che offrire una copertura al reale movente (o moventi) dell’attacco al sistema.
Qual è l’obiettivo che si vuole raggiungere?
In quei giorni – lo spiegheranno i boss – circolano voci strane, bollono in pentola iniziative politiche, la nascita di un partito siciliano o meridionale, e si cercano nuovi garanti per Cosa nostra, “mollata” dagli amici, vicini e lontani, Roma e oltreoceano.
Nel mese di giugno del 1992, pochi giorni dopo l’uccisione di Giovanni Falcone e l’avvio delle indagini da parte della Procura di Caltanissetta, il Ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, manifesta sul settimanale “il Sabato”, notevoli perplessità sull’attività investigativa. “Non ci si può aspettare che la procura di Caltanissetta possa indagare sull’omicidio di Falcone quando già dalle prime battute la dimensione internazionale è così chiara”.
Se Scotti ha visto giusto, perché mai si è scelto, con il passare degli anni, un profilo basso, il declassamento di un piano di destabilizzazione in un ricatto sul 41 bis?
L’ipotesi che “la trattativa”, vera o simulata, vada considerata come un’azione di depistaggio, merita considerazione. L’inchiesta su via d’Amelio, non va dimenticato, fu inquinata da un depistaggio, per diciassette anni gli inquirenti si affidarono alle alterne verità di un balordo.
Trattativa e stragi, per svelare i rebus si va alla testa dell’acqua
Era stato subodorato il pericolo, ma non ne avevano individuato la provenienza. Da dove venisse e quale causa stesse scatenando la guerra di Cosa nostra e la stagione delle stragi. Il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, Antonio Viesti, nella sua nota al Sismi, infatti, scrive che Paolo Borsellino potrebbe essere un possibile bersaglio dei boss “a causa delle ultime inchieste sulla mafia trapanese che, fortemente colpita dai recenti successi investigativi, ha di molto ridotto la propria credibilità in seno ai vertici dell’organizzazione”.
Viesti non menziona la trattativa, non affaccia il sospetto che la scelta del bersaglio sia dovuta al fatto che Paolo Borsellino si sia messo di traverso. Avuta notizia di un “dialogo” fra lo Stato e i capi bastone di Cosa nostra, questa l’ipotesi più gettonata, il magistrato avrebbe espresso chiaramente la sua contrarietà. E la “cupola” avrebbe perciò deciso di toglierlo di mezzo per raggiungere lo scopo, il tavolo della trattativa ed il patto sul 41 bis, il carcere duro.
Ma ci sono altri moventi. Per esempio, l’inchiesta sugli appalti (mafia, politica e “commesse”), che rischiava di fare saltare mezza Regione siciliana, se perseguita fino in fondo. L’inchiesta non ebbe fortuna, Paolo Borsellino non ne fu contento e cercò di evitare che finisse nel porto delle nebbie. Riguardava anche Trapani. E’ possibile perciò che Viesti abbia visto giusto, che le sue fonti indirizzassero le indagini su questa direzione.
Resta senza risposto il quesito principale: possibile che i boss non abbiano preventivato, decidendo l’attacco allo Stato, che le stragi avrebbero provocato una forte reazione di contrasto dello Stato, un effetto boomerang ineludibile?
Moventi multipli, dunque, ignoti probabilmente anche agli esecutori dei crimini.
La lettera del comandante generale dell’Arma, questo è uno degli aspetti più inquietanti, arriva trenta giorni dopo la strage di Capaci e una ventina di giorni prima dell’attentato di via D’Amelio. Viesti è venuto a conoscenza che Borsellino corre seri pericoli per la sua incolumità. Ma è uno dei bersagli di Cosa nostra,nel mirino delle famiglie siciliane in quei giorni ci sono autorevoli esponenti del mondo politico ed istituzionale, Giovanni Spadolini, Giorgio Napolitano, Presidenti del senato e della camera, e i siciliani Calogero Mannino e Salvo Lima.
Un pressing di Cosa nostra o una strategia utile a confondere le cose?
“Nel quadro dell’attività informativa finalizzata a chiarificare le attuali direttrici operative di Cosa Nostra – scrive Viesti – sono state acquisite da più fonti fiduciarie, notizie circa l’intendimento dei vertici dell’organizzazione criminale di opporsi con determinazione all’attuale azione di contrasto dello Stato, agendo contemporaneamente su due fronti: indurre un clima di grave intimidazione nei confronti di politici, per flemmatizzare l’impegno contro la criminalità, ed eliminare fisicamente alcuni inquirenti evidenziatisi nella recente, proficua attività di repressione”.
Il Comandante generale dell’arma non sa niente della trattativa ma sospetta, sulla base delle informazioni ottenute, che Cosa nostra voglia “opporsi con determinazione all’attuale azione di contrasto dello Stato”, spaventando uomini delle istituzioni al fine di “flemmatizzare” il loro impegno contro a criminalità. Insomma, datevi una calmata altrimenti sono guai. Il carcere duro non guadagna la scena del crimine come movente principale, ma potrebbe stare dentro i piani di Cosa nostra.
L’informativa di Viesti merita qualche considerazione. Flemmatizzare, termine del gergo militare, significa letteralmente “aggiungere a un esplosivo sostanze in grado di ridurne la sensibilità agli urti”. I boss, secondo Viesti, pretendono di mitigare l’azione di contrasto usando le maniere forti. Forse fanno perfino conoscere le loro intenzioni, deliberatamente, per raggiungere lo scopo. C’è una testimonianza inoppugnabile di questa volontà, i memorandum di Salvatore Amendolito, deus ex machina di “pizza connection”, che da Washington conduce la sua campagna di “flemmatizzazione”, inviando documenti alle maggiori autorità dello Stato e ad alcuni giornalisti.
E’ il termine scelto da Viesti a suscitare dubbi: flemmatizzare significa certamente “desensibilizzare” gli ordigni esplosivi attraverso l’uso di apposite sostanze, ma non spegnerne gli effetti devastanti. L’obiettivo rimane invariato, anzi l’espediente – aggiunta di sostanze desensibilizzanti – aumenta le probabilità di successo dell’attentato.
Forse bisogna rileggere la nota di Antonio Viesti.
Chi evitò l’ultimo miglio a Napolitano? Il fantasma di Amendolito
Il fascicolo del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia si arricchisce di nuovi episodi. Si scava fra le carte dimenticate, la memoria perduta, le amnesie, le omissioni. E dopo più di venti, come per incanto, vengono alla luce due episodi inediti: nei piani di Cosa nostra, e con la chiara intenzione di spaventare i governanti del tempo (e non solo), c’erano anche due attentati a personaggi importanti: il presidente della Camera e del Senato. Non solo Calogero Mannino, il bus affollato di carabinieri, e le stragi consumate, ma anche Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano nel mirino.
I fatti sono venuti fuori rastrellando nei documenti dei servizi segreti militari, il Sismi, che si mobilitò al pari del servizio segreto civile. Ricevettero la soffiata e consegnarono una relazione nel luglio del ‘93 ad un magistrato. Ma la cosa davvero sorprendente è che questa vicenda, sotterrata per venti anni, è stata raccontata da un quotidiano, la Stampa, e mai presa in considerazione.
Ma non si tratta di un’eccezione. C’è un convitato di pietra negli anni delle stragi, di cui sappiamo poco o niente: Salvatore Amendolito, colletto bianco al servizio di Cosa nostra, protagonista di pizza connection, collaboratore di giustizia. Inviò memorandum, avvertimenti, relazioni a Giovanni Falcone ed alle autorità del tempo per avvertirli della necessità che si rispettassero le “regole” di guardie e ladri: i boss non avrebbero dovuto essere trattati come delinquenti speciali e privati dei diritti che spettano agli altri detenuti.
Tutte le sue iniziative partivano da New York, città in cui aveva patteggiato la collaborazione. Da lì inviò plichi, documenti, messaggi. E da lì telefonò a giornalisti e personaggi importanti perché facessero capire a chi di dovere che bisognava cambiare strada. Nessun accorgimento, nessuna remora. Una campagna d’informazione ed una strategia della persuasione alla luce del sole, perché tutti sapessero quel che sarebbe potuto accadere se i boss avessero subito un trattamento speciale.
Possibile che questa frenetica attività si svolgesse all’oscuro dei servizi d’oltreoceano? Che Amendolito non temesse le conseguenze della sua iniziativa? Le stragi confermarono, che la parte di Cassandra calava a pennello. E regalò agli inquirenti, da subito, un movente agli attentati e le stragi, il carcere duro. E da quel carteggio fitto di Amendolito che parte la pista della trattativa, e non dal cosiddetto papello Ciancimino. Riina, successivo alla campagna del “pentito” di pizza connection.
Quelle telefonate da New York non se le ricorda più nessuno. E i memorandum, indirizzati anche a Giovanni Falcone, non li hanno mai presi in considerazione. Come se si fosse temuto di sporgersi dal balcone che guarda fuori dall’Isola. Eppure la dinamite fece saltare trattati internazionali, spaventò l’Europa, contribuì a cambiare il corso delle istituzioni e cancellare partiti.
2 febbraio 1993 Resoconto Commissione Senato
LE SETTE PISTE PER ARRIVARE AI KILLER
PALERMO – Un fascicolo di intercettazioni telefoniche entra di colpo nel “caso Falcone”. Un dossier che era conservato nel baule della Croma blindata di colore bianco dove viaggiava il giudice, carte top secret che sono state consegnate al procuratore che indaga sul massacro dell’ autostrada. E’ lì dentro il mistero dell’ uccisione di Giovanni Falcone? E’ in quelle trascrizioni di telefonate una delle cause della strage? L’ inchiesta ha adesso un punto di partenza preciso, il dossier, un rapporto del quale non si conosce almeno per ora il contenuto. Il sesto giorno di indagine apre tanti altri fronti sugli ultimi 78 minuti che hanno preceduto la grande esplosione. C’ è un accertamento ordinato dal ministro Scotti sulle “talpe” all’ aeroporto di Punta Raisi, ci sono le istruttorie sulla morte del consigliere Chinnici e sull’ attentato al giudice Palermo che sono state ripescate, c’ è un filo che lega la dinamite piazzata nell’ 89 all’ Addaura davanti alla villa del magistrato e il tritolo sistemato sotto le corsie dell’ A 29. Le investigazioni si sviluppano in sei o sette direzioni, la caccia grossa è aperta. In questa febbrile ricerca di qualcosa “radio carcere” diffonde nella città di Palermo la voce dei boss. Dentro l’ Ucciardone sabato sera il silenzio dei sette bracci della casa circondariale è stato squarciato da un lunghissimo applauso, la festa della mafia per Falcone morto. Lugubri segnali che si incrociano con le ultimissime indiscrezioni sull’ inchiesta. Abbiamo detto ieri che il procuratore capo di Caltanissetta parte solo da “dati concreti” e dal “luogo della strage”. Ecco i primi dati concreti che emergono. Innanzitutto l’ ora in cui i mafiosi hanno innescato l’ esplosivo. Sulla base di una serie di indagini, gli investigatori hanno stabilito che la carica è stata attivata subito dopo il decollo del Falcon 50 da Ciampino, subito dopo la segnalazione che il giudice era già in volo per Palermo. Il detonatore è stato azionato fra le 16,40 e le 17,43, non c’ era un timer, nessun congegno a tempo ma solo un’ antennina ricevente per captare il segnale di un radiocomando. Un black-out a Capaci Un altro dato concreto riguarda il black out che c’ è stato in tutta la zona fra Capaci, Isola delle Femmine, Punta Raisi. I cellulari sono andati in tilt per più di mezz’ ora, come i telefoni nelle case private. Il silenzio sulle linee c’ è stato sicuramente dopo l’ esplosione ma in alcune abitazioni anche prima, si sta cercando di capire cosa è accaduto realmente, si sta cercando di scoprire se tutta quella fascia costiera è stata “coperta” con qualche sistema dai mafiosi. Ma a proposito di telefoni cellulari è diventato reperto per le indagini anche quello personale del giudice Falcone. E’ stato trovato sotto i sedili della Croma, spento, intatto. La polizia e i carabinieri hanno controllato un tabulato dove sono registrate tutte le conversazioni fatte dal giudice nella giornata di sabato, naturalmente non sono filtrati i nomi delle persone che ha contattato. Ma s’ indaga a fondo anche su questo. Altri due elementi entrati nell’ inchiesta: le sigarette (Merit lunghe a basso contenuto di nicotina) raccolte sulla collinetta dove erano appostati i mafiosi con il radiocomando in mano e il tipo di esplosivo utilizzato: è tritolo, tritolo miscelato a gelatina, materiale facilmente reperibile in tutte le cave di pietra. Si punta molto sull’ esplosivo, si punta su questo per decifrare la “firma” del massacro. E proprio ieri sera s’ è diffusa la notizia che il procuratore di Caltanissetta avrebbe convocato in mattinata tutti e nove i capi delle squadre mobili siciliane più i due dirigenti della Criminalpol di stanza nell’ isola. Una riunione operativa per parlare esclusivamente di esplosivo. In verità il summit s’ è tenuto lunedì pomeriggio, chiarissima l’ indicazione del procuratore Celesti: “La prima cosa da fare è setacciare tutte le cave che ci sono in Sicilia, perquisirle millimetro dopo millimetro, trovare ad ogni costo tutti gli ‘ artificieri’ della mafia schedati…”. E da qui, proprio dal tipo di esplosivo e dalla tecnica scelta dai boss per uccidere Falcone, l’ inchiesta si allarga, l’ inchiesta affonda in altre inchieste. Un mese e mezzo fa il giudice istruttore di Caltanissetta Sebastiano Bongiorno aveva archiviato come “ad opera di ignoti” l’ indagine sul fallito attentato dell’ Addaura, quei 50 chili di dinamite fatti trovare la mattina del 21 giugno dell’ 89 sulla scogliera davanti alla villa di Falcone. L’ indagine si era arenata dopo quasi tre anni di accertamenti, si era scontrata con troppi misteri (primi fra tutti la morte di un agente di polizia e la scomparsa di un collaboratore dei servizi segreti), si era alla fine avvolta su stessa. Ma quell’ inchiesta archiviata sarà riaperta. Per almeno due ragioni. L’ innesco del detonatore La prima è molto tecnica e riguarda il tipo di esplosivo, bisogna confrontare la qualità e pure i sistemi di innesco del detonatore. La seconda ragione è ben più consistente. Nei primi giorni di luglio del 1989, due settimane dopo il fallito attentato, Giovanni Falcone è stato ascoltato dal procuratore Salvatore Celesti come testimone. E ha indicato al magistrato quali potevano essere secondo lui le piste che si dovevano battere. “Più che piste erano suggerimenti”, precisano alcuni giudici di Caltanissetta. Cosa ha raccontato Falcone tre anni fa al procuratore? “Gli atti sono segreti”, spiegano i magistrati, “quando si archivia un’ inchiesta ad opera di ignoti tutto rimane coperto perché c’ è sempre la possibilità di poterla riaprire”. Ed è proprio ciò che sta accadendo. Anche perché ai margini di questa inchiesta ci sono troppe cose strane. A parte la morte dell’ agente di polizia e la scomparsa del collaboratore del Sisde di cui abbiamo già parlato, parallela all’ indagine vera e propria sull’ attentato dell’ Addaura s’ è trascinata a Caltanissetta per un paio di anni anche un’ inchiesta per calunnia che vede come parte lesa il giudice Carla Del Ponte. Il magistrato svizzero quel 21 giugno dell’ 89 era qui a Palermo e stava andando proprio all’ Addaura a trovare Falcone. C’ è un uomo, Salvatore Amendolito, un pentito che non viene ritenuto assolutamente attendibile, che ha accusato in qualche modo la Del Ponte di sapere qualcosa sull’ attentato contro Falcone. Amendolito, che si trova negli Usa, un mese fa è stato rinviato a giudizio per calunnia. Solo farneticazioni? Qualcuno dice che è manovrato, il primo ad esserne certo era Falcone. E, ultimamente, il giudice aveva manifestato alcune perplessità su certe notizie provenienti proprio dal pentito. Uno che non molla mai, Amendolito: giovedì scorso ha inviato alla procura di Caltanissetta diversi fax e una videocassetta dove appariva lui mentre ricostruiva ancora una volta la “vera” storia dell’ attentato all’ Addaura. L’ ultimo tentativo di depistaggio, a due soli giorni dal massacro sull’ autostrada Punta Raisi-Palermo. Il primo atto ufficiale che ricostruisce la strage è una lunga “informativa” (una volta con il vecchio codice si chiamava rapporto preliminare), che è stata consegnata lunedì mattina al procuratore Celesti dai carabinieri e dalla polizia. Dentro c’ è ben poco, solo il racconto scarno di quello che è accaduto allo svincolo per Capaci. Il primo vero rapporto il procuratore capo lo aspetta per la settimana prossima.