La famiglia nel racconto di sua moglie

 

 

LA TESTIMONIANZA DI AGNESE BORSELLINO AL PROCESSO PER LA STRAGE DI VIA D’AMELIO AUDIO 

 

La lettera di Agnese a suo marito Paolo Borsellino in occasione del ventesimo anniversario della strage di via d’Amelio 

 “Caro Paolo, da venti lunghi anni hai lasciato questa terra per raggiungere il Regno dei cieli, un periodo in cui ho versato lacrime amare; mentre la bocca sorrideva, il cuore piangeva, senza capire, stupita, smarrita, cercando di sapere. Mi conforta oggi possedere tre preziosi gioielli: Lucia, Manfredi, Fiammetta; simboli di saggezza, purezza, amore, posseggono quell’amore che tu hai saputo spargere attorno a te, caro Paolo, diventando immortale. Hai lasciato una bella eredità, oggi raccolta dai ragazzi di tutta Italia; ho idealmente adottato tanti altri figli, uniti nel tuo ricordo dal nord al sud – non siamo soli. Desidero ricordare: sei stato un padre ed un marito meraviglioso, sei stato un fedele, sì un fedelissimo servitore dello Stato, un modello esemplare di cittadino italiano, resti per noi un grande uomo perché dinnanzi alla morte annunciata hai donato senza proteggerti ed essere protetto il bene più grande, “la vita”, sicuro di redimere con la tua morte chi aveva perduto la dignità di uomo e di scuotere le coscienze. Quanta gente hai convertito!!! Non dimentico: hai chiesto la comunione presso il palazzo di giustizia la vigilia del viaggio verso l’eternità, viaggio intrapreso con celestiale serenità, portando con te gli occhi intrisi di limpidezza, uno sguardo col sorriso da fanciullo che noi non dimenticheremo mai. In questo ventesimo anniversario ti prego di proteggere ed aiutare tutti i giovani sui quali hai sempre riversato tutte le tue speranze e meritevoli di trovare una degna collocazione nel mondo del lavoro. Dicevi: ‘Siete il nostro futuro, dovete utilizzare i talenti che possedete, non arrendetevi di fronte alle difficoltà’. Sento ancora la tua voce con queste espressioni che trasmettono coraggio, gioia di vivere, ottimismo. Hai posseduto la volontà di dare sempre il meglio di te stesso. Con questi ricordi tutti ti diciamo ‘grazie Paolo'”.

IL TESTAMENTO DI AGNESE BORSELLINOdi Giorgio BongiovanniAgnese Piraino Leto in Borsellino non ha mai smesso di parlare e chiedere verità. Da quando quella bomba, vent’anni prima, le aveva portato via il marito con il quale aveva condiviso una vita blindata e perennemente sotto scorta, non si è mai tirata indietro quando c’era da puntare il dito contro chi aveva voltato le spalle allo Stato e a Paolo Borsellino. Uno Stato defraudato della sua accezione più profonda proprio dai suoi rappresentanti, che non hanno disdegnato di sedersi al tavolo della trattativa insieme ai vertici di Cosa nostra. Per chi ha nascosto le proprie responsabilità dietro ipocrite dichiarazioni di amicizia e sostegno, non poteva esserci perdono. “L’uccisione di mio marito è una dichiarazione di guerra contro la mia città. Se è guerra, guerra sia: inviate i militari per presidiare il territorio e difendere gli obiettivi a rischio” aveva infatti replicato all’indirizzo dell’ex ministro Mancino, quando subito dopo il funerale di Paolo aveva messo le forze dello Stato a sua disposizione. Agnese era insieme silenzio nel dolore e grido di giustizia, grido di accusa contro chi, all’indomani della strage di Capaci, abbandonò ulteriormente suo marito, rimasto a combattere una battaglia che da solo non poteva vincere: “Falcone rappresentava per lui come uno scudo. Senza il quale la sua esposizione è aumentata. Da qui probabilmente nasce l’esigenza di mio marito in quei 57 giorni di annotare scrupolosamente spunti di indagine, valutazioni, memorie personali di cui si riprometteva di parlare con i PM allora in servizio alla Procura di Caltanissetta, titolari dell’inchiesta su Capaci. Nessuno però in quei lunghi 57 giorni lo chiamò mai. E’ possibile che nelle pagine dell’agenda rossa, usata per i progetti di lavoro e per annotare i fatti più significativi, avesse scritto cose che non voleva confidare a noi familiari. Quell’agenda è stata recuperata sul luogo della strage ma, come si sa, è scomparsa. Se esistesse ancora e se fosse nelle mani di qualcuno potrebbe essere usata come un formidabile strumento di ricatto”. La famiglia Borsellino aveva segnalato l’esistenza di quell’agenda ad Arnaldo La Barbera (morto nel 2002, ndr) che aveva guidato il gruppo investigativo all’indomani della strage di via d’Amelio, ma lui si limitò a replicare “che questa agenda era il frutto della nostra farneticazione”. Dagli ultimi sviluppi delle indagini risultò poi che La Barbera, negli anni precedenti alla nomina di Capo della Squadra Mobile a Palermo, era stato per un periodo al soldo dei servizi segreti con il nome in codice “Catullo”. Non solo. Nell’ambito dell’inchiesta su via d’Amelio La Barbera aveva studiato il teorema investigativo a tavolino, trovando in seguito quei ‘pentiti’ che avrebbero portato in dibattimento una falsa verità. ”Forse qualcuno – rifletteva la ‘vedova di guerra’, come lei stessa si definiva – aveva l’ansia di arrivare celermente a un risultato. Ma mi chiedo come mai anche ai magistrati, nei tanti filoni processuali e nei vari gradi di giudizio, siano sfuggite le incongruenze del racconto di Scarantino”. “Posso solo dire, per esserne stata testimone oculare, che mio marito si adirò molto quando apprese per caso dall’allora ministro Salvo Andò, incontrato all’aeroporto, che un pentito aveva rivelato: è arrivato il tritolo per Borsellino. Il procuratore Pietro Giammanco, acquisita la notizia, non lo aveva informato sostenendo che il suo dovere era solo quello di trasmettere per competenza gli atti a Caltanissetta”. “Quella volta – ricordava in una nota dell’Ansa la signora Agnese – ebbe la percezione di un isolamento pesante e pericoloso. Non escludo che proprio da quel momento si sia convinto che Cosa nostra l’avrebbe ucciso solo dopo che altri glielo avessero consentito”. Parole difficili da dimenticare: “Mio marito non era amato assolutamente in Procura. Paolo mi disse ‘la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno’, queste sono parole che sono scolpite nella mia testa, e sino a quando sono in vita non potrò dimenticare”.In un cerchio che, in piena trattativa Stato-mafia, si stringeva sempre di più sul giudice Borsellino: “Ci furono due trattative Stato-mafia. E mio marito fu ucciso per la seconda. Quella che doveva cambiare la scena politica italiana” diceva nella sua ultima intervista al Corriere della Sera. In un susseguirsi di tasselli che la moglie di Paolo prova a far combaciare per conoscere finalmente la verità: “Dopo la strage di Capaci mio marito disse che c’era un dialogo in corso già da molto tempo tra mafia e pezzi deviati dello Stato” affermava in un suo intervento alla trasmissione Servizio Pubblico, per poi aggiungere: “Paolo mi disse che materialmente lo avrebbe ucciso la mafia ma i mandanti sarebbero stati altri”. E ancora: “Mio marito mi disse testualmente che c’era un colloquio tra la mafia e parti infedeli dello stato’. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992. In quello stesso periodo mi disse che aveva visto la ‘mafia in diretta’, parlandomi anche in quel caso di contiguità tra la mafia e pezzi di apparati dello Stato italiano”. “Mi disse che il gen. Subranni era ‘punciuto’ – (punto in un rito di affiliazione a Cosa Nostra, ndr) – Mi ricordo che quando me lo disse era sbalordito, ma aggiungo che me lo disse con tono assolutamente certo. Non mi disse chi glielo aveva detto. Mi disse, comunque, che quando glielo avevano detto era stato tanto male da aver avuto conati di vomito. Per lui, infatti, l’Arma dei Carabinieri era intoccabile”. Uno stillicidio che si trascinò fino al giorno della strage: “Quel caldo pomeriggio del 19 luglio 1992, quando è stato eliminato un servitore scomodo dello Stato e i suoi angeli custodi ho avuto la sensazione di subire impotente una guerra combattuta da un nemico senza una precisa identità”. Le cui indagini hanno subito un pesante depistaggio “perchè sono venduti e comprati tutti. – diceva in un’intervista a Left – Quando succedono queste cose sono coinvolti tutti.

 

Agnese Borsellino, una vita aspettando Verità e Giustizia – 5 maggio 2013 – Agnese Piraino Leto  Borsellino se ne è andata, nella discrezione e nel silenzio che le era congeniale;  lei vedova di uno dei più grandi magistrati che ha avuto questo paese, ucciso per non farlo indagare e non solo su cosa nostra; lei donna nobile d’animo e donna “gentile” di educazione palermitana che incarnava  la forza d’animo ed anche  la ferma volontà dei palermitani e siciliani  onesti di arrivare alla Verità sulla morte del marito e della sua scorta in quel torrido 19 luglio 1992. Agnese Borsellino non amava né le interviste, nè le apparizioni pubbliche. Subito dopo la strage di Via D’Amelio  si era chiusa nel suo dolore  con i figli ed i familiari più vicini, aspettando con la sua grande forza d’animo, che si facesse luce su quell’auto bomba devastante che ,per altro, il marito Paolo, pochi giorni prima gli aveva anche anticipato, confessandole d’aver saputo che era arrivato in Sicilia il tritolo che avrebbero usato per lui. Non aveva paura Paolo: ma temeva per  i suoi familiari,per la scorta che pure doveva avere,: e per lei,Agnese ed i loro figli. Ma Agnese lo aveva rincuorato: capiva i timori del marito, ma  lei e la sua famiglia, sarebbero stati sempre con lui, vicino a lui ed ai suoi ideali. Così fu,una promessa mai mancata. Non era possibile; perché Agense, Paolo ed i loro figli erano una cosa sola.È morta all’età di 71 anni Agnese Piraino Leto Borsellino. A dare la notizia il fratello del magistrato, Salvatore, con un post su Facebook: “E’ morta Agnese. E’ andata a raggiungere Paolo. Adesso saprà la verità sulla sua morte”. Agnese, figlia del presidente del tribunale di Palermo Angelo, si era sposata con Paolo Borsellino, allora giovane magistrato, il 23 dicembre 1968. Dal loro matrimonio sono nati tre figli: Lucia, 44 anni, che oggi ricopre l’incarico di assessore regionale alla Sanità, Manfredi, 41 anni, attuale dirigente del commissariato di polizia di Cefalù, e Fiammetta, di 40. Una vita felice la loro, segnata anche dall’impegno di Paolo Borsellino come magistrato, dalla sua  battaglia giudiziaria contro la mafia, dal suo impegno come magistrato che ha sempre fatto,innanzitutto, il proprio dovere; sino a quel maxi processo che istruì con Giovanni Falcone, aprendo finalmente  gli scenari nascosti di cosa nostra, ma segnando la rottura  di quel patto tra mafia e politica che aveva governato per anni in Italia. Lì l’Italia della società civile si schierò con i magistrati palermitani, la politica dei poteri forti, si incagliò  in quella rottura del patto. Borsellino e Falcone da eroi della lotta contro la mafia, diventarono quasi imputati, rei d’aver rotto gli equilibri: il corvo, i trasferimenti, la chiusura dell’esperienza del pool antimafia di Palermo, segnarono quegli anni a cavallo della caduta del muro di Berlino. E che non dovevano concludersi con la sentenza definitiva della Cassazione che sancì l’ottimo lavoro di Borsellino e Falcone con la condanna definitiva alla cupola di cosa nostra. Con quella sentenza e con  l’assassinio di Salvo Lima, la mafia sancì anche la morte di Falcone a Capaci, il 23 maggio del 1992. Borsellino sopravvisse a quel dolore perche voleva scoprire chi era stato,  doveva capire se  dietro quella strage c’erano apparati dello Stato,  se c’era un altro patto scellerato: lo capì presto e chi di noi , la sera del giugno 1992 era alla Casa Professa di Palermo a sentire la sua ricostruzione dei fatti davanti a centinaia di studenti, capì che quell’uomo sapeva, aveva capito ed aveva fretta di arrivare alle sue conclusioni giudiziarie. E che  impersonava  la speranza di una mondo che voleva finalmente chiudere con la mafia. Ma proprio ad Agnese, la sua Agnese che l’aveva seguito sempre,anche  all’Asinara  con la famiglia  quando Giovanni e Paolo dovevano redigere il rinvio a giudizio che avrebbe poi portato  al maxi processo; alla sua Agnese, Paolo aveva confidato i propri timori, i suoi sospetti,  il perché di quelle  notti insonni e di quegli appunti sull’agenda rossa dalla quale non si separava mai ( e che infatti sparì con lui a Via D’Amelio). Agnese  era rimasta con i suoi segreti e dubbi, evitando al massimo le sue apparizioni ed interviste, limitandosi a presenziare a poche cerimonie pubbliche in ricordo del marito. Ma nonostante questo, aveva sempre detto con chiarezza il suo pensiero nell’impegno antimafia, nella vicinanza ai giovani  che si schieravano, in nome di Paolo e Giovanni, contro  le mafie e per la rinascita della sua Sicilia.La sua riservatezza non le aveva mai impedito di chiedere la verità sulle stragi e la giustizia vera,volendo arrivare sino in fondo per capire chi fossero i mandanti veri di quella stagione di bombe italiane,  quel 1992-1993 che aveva segnato la vita sua e della sua famiglia.  Non avrebbe mai potuto stare sempre in silenzio, perché di Paolo,suo marito, fu veramente compagna e partecipe in ogni decisione ed in ogni momento,soprattutto in quelli più difficili: e con gli anni che avanzavano e mentre  sui motivi di quelle stragi si aprivano scenari di trattative tra stato e mafia,volle finalmente parlare.  Solo nelle sedi opportune,però.  Solo in occasione delle udienze del processo per la strage di via D’Amelio aveva riferito le confidenze e le preoccupazioni del marito alla vigilia dell’attentato del 19 luglio 1992. Proprio in questi giorni è iniziato a Caltanissetta il quarto filone processuale sull’attentato. Agnese era stata sentita durante la fase istruttoria, era indicata fra i testimoni principali del dibattimento. Aveva tra l’altro riferito sulle inquietudini del coniuge che si erano moltiplicate dopo la strage di Capaci nella quale vennero uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta. Aveva parlato di quell’agenda scomparsa,dei tanti perché che si erano accavallati dopo Via D’Amelio, domande sinora senza risposta. Ma aveva  sempre riportato nelle sedi giudiziarie la fiducia che si potesse  arrivare, alla fine, a far luce su quei misteri. Non ce l’ha fatta: ma altri, a partire dai figli, porteranno avanti la sua ricerca di Verità e  Giustizia. 

 

AGNESE BORSELLINO, DONNA CORAGGIO DEL NOSTRO TEMPO – 5 maggio 2014– “Nel corso dell’ultimo incontro con Agnese, nel quale si preparava alla morte, mi ha comunicato il suo desiderio che emergesse la verità sulla morte di Paolo. Agnese ha dato tutta se stessa nella sua vita. E’ stata una roccia salda. Sperava di riuscire a veder nascere il bambino di Fiammetta ma non ce l’ha fatta. Lo vedrà dall’alto”. Le parole che padre Scordato pronunciò durante l’omelia, ai funerali di Agnese Piraino Leto in Borsellino, riecheggiano ancora ad un anno di distanza nella chiesa di Santa Luisa di Marillac, a Palermo.E cos’altro vedrà ancora, la signora Agnese, guardando dall’alto questa Italia che tanta sofferenza le ha causato in vita? Con profonda amarezza possiamo dire che il suo più profondo desiderio non è stato ancora avverato.“Voglio sapere la verità, perchè è stato ucciso, chi ha voluto la sua morte e perchè lo hanno fatto e non voglio nient’altro”. Agnese non chiedeva la verità solo per se stessa e per Paolo, ma anche per gli altri martiri di mafia e soprattutto per le giovani generazioni che non hanno avuto la possibilità di conoscerlo. Su iniziativa del procuratore aggiunto Domenico Gozzo, era stato creato un gruppo a lei dedicato, “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”, a seguito dell’intervista rilasciata dal generale Antonio Subranni nella quale sosteneva che la moglie di Borsellino soffrirebbe di Alzheimer, in quanto era stato da lei definito come “l’amico traditore” di cui parlava il marito. Molti ragazzi che le si sono avvicinati, delle stragi del ’92 e ’93 a volte non conservano nemmeno il ricordo. La moglie del giudice Borsellino aveva imparato ad amarli, quei giovani che le inviavano così tanti messaggi affettuosi, e anche quando la malattia l’ha poi costretta a restare a casa su una sedia a rotelle, Agnese non smetteva mai di leggere e rispondere alle lettere che arrivavano dalla parte più pulita dell’Italia. Per loro, per i suoi figli e nipoti, continuava a dare voce e fiato alla sua richiesta di giustizia.

Parole inascoltate Chi, però, ha davvero ascoltato le parole di Agnese? Non certo gli uomini delle istituzioni, nei confronti dei quali la moglie di Paolo aveva le idee chiare: “A loro non voglio rivolgere un appello. Sarebbe tempo perso” diceva. Nell’ultimo anno il livello di tensione attorno ai magistrati che in Sicilia si occupano di indagini di mafia, e in particolare ai pm di Caltanissetta e Palermo, è salito ulteriormente. Di questo già se ne angosciava, Agnese Borsellino, quando nell’ultimo periodo della sua vita apprese di una lettera minatoria indirizzata ai pubblici ministeri Nino Di Matteo, Domenico Gozzo e Sergio Lari: “Mi sembra di rivivere un incubo… Non c’è solo la mafia dietro queste parole minacciose, ne sono sicura. Perchè quei magistrati hanno toccato con le loro indagini alcuni nervi scoperti dello Stato”. Oggi Di Matteo, pm di punta del processo trattativa Stato-mafia e condannato a morte da Totò Riina, è nella lista dei magistrati in questo momento più a rischio. Nonostante ciò, per lui non è stato ancora predisposto il bomb jammer (come era stato invece annunciato, ndr) il dispositivo che intercetta i segnali radio impedendo così l’esplosione di una bomba collegata a un telecomando. Lo stesso dispositivo che, se fosse stato predisposto per Falcone e Borsellino, avrebbe bloccato lo scoppio del tritolo a Capaci e in via D’Amelio. Sul processo che si occupa dei dialoghi tra Stato e mafia – quella trattativa per la quale Borsellino si era messo di traverso, consapevole del grave rischio che correva e poi pagato con la vita – è stato detto di tutto. Proprio recentemente i legali degli imputati Mori, De Donno e Subranni hanno avanzato la richiesta di spostare il dibattimento ad altra sede (facendolo così ripartire da zero) richiesta che la Cassazione ha rispedito al mittente. La trattativa è stata considerata (nel libro scritto a quattro mani da Fiandaca e Lupo) non solo “presunta”, ma condotta addirittura “a fin di bene” per far cessare le stragi piuttosto che cedere alle richieste dei boss mafiosi, nonostante la tragica sequenza di eventi di quei primi anni ’90 ci dica palesemente il contrario. Un muro di ovattato silenzio è ancora presente attorno alla morte di Paolo e ai misteri del ’92, che da una certa parte si è rinsaldato ulteriormente. Proprio alcuni giorni fa l’ex ministro Nicola Mancino (imputato al processo trattativa Stato-mafia per falsa testimonianza) è comparso davanti ai pm di Caltanissetta del Borsellino quater avvalendosi della facoltà di non rispondere (legittima, per carità, ma certamente discutibile). D’altronde, è coinciso che a seguito del conflitto di attribuzione sollevato da Napolitano in merito alle conversazioni con Mancino, non un esponente degli ambienti politici (di oggi e di allora) si è fatto avanti per contribuire alle indagini con nuove verità. Un vero e proprio silenzio di tomba è calato sui palazzi del potere.

Il coraggio di cambiare “Dobbiamo chiedere perdono al Signore per le cose che non siamo riusciti a portare alla luce, per le cose che ancora non sappiamo. Dobbiamo lavorare per costruire una società degna di essere vissuta” continuava l’omelia di padre Scordato il giorno 6 maggio 2013. Da allora molto è stato fatto, e da diverse città d’Italia una parte della società civile ha dato vita a iniziative, cortei, sit in e movimenti per sostenere le battaglie in cui Agnese Borsellino credeva. Agnese, che da “signorina dei pizzi e merletti” – il nome con cui era conosciuta da giovane, come racconta nel libro “Ti racconterò tutte le storie che potrò” (editore Feltrinelli Fuochi) scritto prima di lasciare questo mondo insieme al giornalista Salvo Palazzolo – era diventata la donna forte che ha accompagnato Paolo per tutta una vita. La sua voce ha fatto rivivere una storia d’amore che, rileggendo quelle pagine, sembra non abbia mai avuto fine. Agnese è l’esempio di vita di una donna che, guardando in faccia un Paese colpevole e vigliacco, con profondo amore e bruciante indignazione – anche se “Io, di certo, non vivrò abbastanza per conoscere la verità” – ha saputo infondere la speranza e la fiducia che un giorno le cose cambieranno. Una parte di questo Paese ha risposto al suo richiamo d’amore e, lo ripetiamo, da allora molto è stato fatto. Non è poco, ma non è neanche tutto. Perchè le cose cambieranno davvero solo se la morte di Paolo e delle altre vittime di mafia saranno considerate delitti perpetrati ai danni di ogni singolo cittadino, al quale ognuno è chiamato a rispondere con coraggio “per costruire una società degna di essere vissuta”. E per non cancellare il ricordo di Agnese, che oggi ci piace ricordare ancora una volta al fianco del suo Paolo, più viva che mai.

 

I VERTICI DELLO STATO SAPEVANO. “PAOLO AVEVA CAPITO TUTTO” di Sandra Amurri – Il Fatto Quotidiano del 17 giugno 2012

Agnese Piraino Borsellino non è donna dalla parola leggera. È abituata a pesarle le parole prima di pronunciarle, ma non a calcolarne la convenienza. È una donna attraversata dal dolore che il dolore non ha avvizzito. I suoi occhi brillano ancora. E ancora hanno la forza per guardare in faccia una verità aberrante che non sfiora la politica e le istituzioni. Una donna che trascorre il suo tempo con i tre figli e i nipotini, uno dei quali si chiama Paolo Borsellino. Le siamo grati di aver accettato di incontrarci all’indomani delle ultime notizie sulla trattativa Stato-mafia iniziata nel 1992, che ha portato alla strage di via D’Amelio, di cui ricorre il ventennale il 19 luglio, e alle altre bombe. In un’intervista al Fatto l’11 ottobre 2009, Agnese disse: “Sono una vedova di guerra e non una vedova di mafia” e alla domanda: “Una guerra terminata con la strage di via D’Amelio?”, rispose: “No. Non è finita . Si è trasformata in guerra fredda che finirà quando sarà scritta la verità”. A distanza di tre anni quella verità, al di là degli esiti processuali, è divenuta patrimonio collettivo: la trattativa Stato-mafia c’è stata. Sono indagati, a vario titolo, ex ministri come Conso e Mancino, deputati in carica come Mannino e Dell’Utri. Lei che ha vissuto accanto a un uomo animato da un senso dello Stato così profondo da anteporlo alla sua stessa vita, cosa prova oggi? Le rispondo cosa non provo: non provo meraviglia in quanto moglie di chi, da sempre, metteva in guardia dal rischio di una contiguità tra poteri criminali e pezzi dello Stato, contiguità della quale Cosa Nostra, ieri come oggi, non poteva fare a meno per esistere. Non la meraviglia neppure che probabilmente anche alte cariche dello Stato sapessero della trattativa Stato-mafia, come si evince dalla telefonata di Nicola Mancino al consigliere giuridico del presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, in cui chiede di parlare con Giorgio Napolitano e dice: “Non lasciatemi solo, possono uscire altri nomi” (tra cui Scalfaro)? Come dire: le persone sole parlano di altre persone? Questo mi addolora profondamente, perché uno Stato popolato da ricattatori e ricattati non potrà mai avere e dare né pace né libertà ai suoi figli. Ma ripeto, non provo meraviglia: mio marito aveva capito tutto. Lei descrive i cosiddetti smemorati istituzionali, coloro che hanno taciuto o che hanno ricordato a metà, come “uomini che tacciono perché la loro vita scorre ancora tutta dentro le maglie di un potere senza il quale sarebbero nudi” e disse di provare per loro “una certa tenerezza”. La prova ancora, o ritiene che abbiano responsabilità così grandi da non poter essere né compianti né perdonati? Non perdono quei rappresentanti delle istituzioni che non hanno il senso della vergogna, ma sanno solo difendersi professandosi innocenti come normalmente si professa il criminale che si è macchiato di orrendi crimini. Alcuni cosiddetti “potenti”, ritenuti in passato intoccabili, hanno secondo me perso in questa storia un’occasione importante per salvare almeno la loro dignità e non mi meraviglierei se qualche comico li ridicolizzasse. Paolo Borsellino ai figli ripeteva spesso: imparate a fare la differenza umanamente, non è il ruolo che fa grandi gli uomini, è la grandezza degli uomini che fa grande il ruolo. Mai parole appaiono più vere alla luce dell’oggi. Il posto, il ruolo, non è importante, lo diventa secondo l’autorevolezza di chi lo ricopre. Oggi mio marito ripeterebbe la stessa espressione con il sorriso ironico che lo caratterizzava. Signora, perché ha raccontato ai magistrati di Caltanissetta solo nel 2010, dopo 18 anni, che suo marito le aveva confidato che l’ex comandante del Ros, il generale Antonio Subranni, era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato “punciutu”? Potrebbe apparire un silenzio anomalo, ma non lo è. I tempi sono maturati successivamente e gli attuali magistrati di Caltanissetta, cui ancora una volta desidero manifestare la mia stima e il mio affetto, sanno le ragioni per le quali ho riferito alcune confidenze di mio marito a loro e soltanto a loro. Sta dicendo che ha ritenuto di non poter affidare quella confidenza così sconvolgente alla Procura di Caltanissetta fino a che è stata diretta da Giovanni Tinebra? Il primo problema che mi sono posta all’indomani della strage è stato di proteggere i miei figli, le mie condotte e le mie decisioni sono state prevalentemente dettate, in tutti questi lunghi anni, da questa preoccupazione. Il pm Nico Gozzo all’indomani della dichiarazione del generale Subranni, che l’ha definita non credibile con parole che per pudore non riportiamo, ha fondato su Facebook il gruppo: ”Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino”. Un fiume di adesioni, lettere commoventi , fotografie, dediche struggenti. Come lo racconterebbe a suo marito in un dialogo ideale? Caro Paolo, l’amore che hai sparso si è tradotto anche in tantissime lettere affettuose, prive di retorica e grondanti di profondi sentimenti, che ho avuto l’onore di ricevere perché moglie di un grande uomo buono. Dove trova la forza una donna che ha toccato il dolore per la perdita del suo più grande amore e ora deve sopportare anche il dolore per una verità che fa rabbrividire? Nel far convivere i sentimenti emotivi e la ragione, ho fatto prevalere quest’ultima in quanto mi ha dato la forza di sopportare il dolore per la perdita di un marito meraviglioso ed esemplare e per accettare una verità complessa, frutto di una società e di una politica in pieno degrado etico e istituzionale.

 

AGNESE BORSELLINO:

 

  • Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare. Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque.
  • Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta, niente altro. Non è mai cambiato in questo. Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.
  • Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. “Forse ci fu cosa?”. “Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu. Amore mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo, telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.” Un giorno fummo invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si vantavano: «Mio padre, il senatore»; «Mio padre, il principe»; «Mio padre, il professore di università». Vedevo che Paolo era insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno». E fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla battuta di Paolo. «Perché l’hai fatto?” gli chiesi. «Li conosco quei ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università». Erano quegli stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o le scarpe bucate.
  • Tante vite ho vissuto. Prima e dopo Paolo Borsellino, mio marito, il padre dei miei figli. Me l’hanno portato via una domenica di luglio di vent’anni fa, me è come se fosse ieri. Lo sento ancora avvicinarsi: mi sorride, mi fa una carezza, mi dà un bacio, poi esce accompagnato dagli agenti di scorta. E non c’è più, inghiottito da una nuvola di fumo che vorrebbe ingoiare tutta la città.
  • Ma non si può vivere solo di ricordi, e il mio amore per Paolo è diventato amore per questo Paese, per i giovani. E’ un amore che si rinnova ogni giorno, come lui mi ha insegnato.
    Mi piaceva sentirglielo ripetere. E allora gli chiedevo come fosse la prima volta: “Come si mantiene sempre fresco l’amore?” Lui sorrideva e mi diceva: “Ogni giorno con una novità, che non è solo un fiore o un regalo. Perchè tutto passa. Io ogni giorno devo farti innamorare di me. E tu devi fare la stessa cosa. Tutti e due dobbiamo inventarci sempre qualcosa di diverso”. Era ormai diventato un delizioso rituale quel dialogo sull’amore.
    Gioia mia anche adesso che non ci sei continuo ad inventarmi qualcosa di diverso ogni giorno. Come se tu fossi qui, come se non ti avessero mai portato via da me… 
  • E allora, tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Come non mai.
    Voglio ritrovarle tutte le parole di Paolo. Parole di amore, di verità, di rabbia, di indignazione. Voglio ritrovare anche le sue parole di paura, di amarezza, di tristezza, che poi erano accompagnate sempre da altre parole: di coraggio, di speranza, di gioia, di ironia, di forza. Lo so che non sarà facile ritrovare le parole del mio amato Paolo, ma ci voglio provare, ripercorrendo dentro di me tutte le vite che ho vissuto. Prima e dopo di lui. Perché le mie vite sono state scandite dalle parole di Paolo. Scandite, accarezzate, sostenute..
  • Ricordo le parole di Paolo: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Anche questa era una buona novella che mio marito mi annunciava ogni giorno. Perché a differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare. La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è viscido.
  • L’ultima occasione in cui ho visto veramente sorridere Paolo è stato il Capodanno 1991, ad Andalo. Era particolarmente felice perché ci aveva raggiunto suo fratello Salvatore con la moglie e i figli. Fu una festa, l’ultima per la nostra famiglia. In quelle piacevoli serate, Paolo non si limitava a intrattenere la sua famiglia, ogni tanto si allontanava per una sigaretta. E scompariva. Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo in mezzo a una comitiva di giovani sciatori mentre raccontava di Palermo e delle gesta del pool antimafia.
  • Nel fine settimana organizzavamo delle occasioni conviviali con qualche altra giovane coppia. Le mogli dei colleghi di Paolo si pavoneggiavano: «L’altro giorno mio marito mi ha regalato delle rose bellissime». Oppure: Mio marito mi ha regalato una collana splendida. Guardate. Qualcuna, con un tono ancora più accorato, mostrava il suo abito: Questo me lo ha regalato lui. Ovvero, ancora una volta, il marito. Io, invece, non potevo esibire niente. E neanche potevo aspettarmi qualche gesto galante da Paolo. Almeno non nel senso inteso generalmente. Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. Allora mi faceva finire di parlare, poi mi chiedeva: «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata». Faceva una pausa e mi diceva ancora: «Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella».La prima volta che me lo disse rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. Erano lacrime di felicità. Mentre lui continuava: «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò».Paolo adorava raccontare la lieta novella, i fatterelli umani. E i protagonisti erano i più diversi, anche mafiosi incalliti, che però nel racconto assumevano una luce davvero particolare e unica. Era un racconto sempre affascinante il suo. Aveva una storia sempre diversa da narrarti.Mi diceva: «La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore». Faceva una pausa e sussurrava: «Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco». Mi guardava, con il suo solito sorriso sornione, e con aria severa mi chiedeva: «Agnese, tu lo sai come si mantiene fresco l’amore?» Non provavo neanche a indovinare la risposta, perché mi piaceva troppo sentirlo parlare. «L’amore si mantiene fresco con una novità ogni giorno. Che non è il fiore, o un regalo qualsiasi. Perché tutto passa. Io ogni giorno mi devo reinnamorare di te. E tu di me. Inventandoci qualcosa di diverso».Questa è stata la mia vita con Paolo, una lieta novella. Nonostante le difficoltà immani che abbiamo dovuto affrontare per la scelta che aveva fatto. Ma io ho condiviso tutto con lui. E non gli ho chiesto mai niente. Perché la lieta novella che mi raccontava ogni giorno era già tutto per me. E anche le giornate pesanti diventavano allegre con le sue parole.
  • Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima volta che me lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno.
  • Mentre sorgeva il sole, lui si accorgeva di un nuovo germoglio nelle piante sistemate con cura sul balcone della nostra casa di via Cilea. Sorrideva, rideva anche di gusto. Quante volte l’ho guardato strano in quelle mattine. Gli chiedevo: “Paolo a chi sorridi”? Mi diceva: “Sorrido a fratello sole, perché oggi ci donerà un’altra bella giornata”. E accarezzava i nuovi germogli: “Sai Agnese, sono un uomo fortunato, perché alla mia età riesco ancora ad emozionarmi” 
  • Spesso o quasi sempre alla stessa ora, mio marito usciva da solo per comprare le sigarette o il giornale, come se volesse mandare un messaggio ai suoi carnefici, perché lo uccidessero quando lui era da solo e non quando si trovava con i suoi angeli custodi. Lui diceva sempre: il mio scudo è Giovanni Falcone quando non avrò più questo scudo, avverrà la mia fine. Io ritengo che mio marito sia stato abbandonato al suo destino di morte.
  • Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler essere baciato né da me né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio, mi disse: “Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta”. Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. << Per me è finita. Agnese non facciamo programmi. Viviamo alla giornata>>. Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi, e altri a permettere che ciò potesse accadere. Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima avevi chiamato al palazzo di giustizia Padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, Sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.
  • La storia di via D’Amelio mi ha distrutto la vita. È una situazione apocalittica, mio figlio non vuole più che legga i giornali, che senta queste cose perché giustamente mi dice mamma, gli ultimi giorni che ti restano ti avveleni la vita più di quanto te la sia avvelenata. A me resta solo piangere, anche dopo vent’anni. Perché per me è come fosse stato ieri». Fonte: Io non dimentico
  • A Palermo, ma non solo a Palermo, bisogna avere, si deve avere il coraggio di evitare o troncare amicizie, frequentazioni o semplici contatti con persone importanti o altolocate chiacchierate da cui si possono trarre favori più o meno leciti; si deve avere la forza di rinunciare a coltivare rapporti con persone che nel tempo hanno intrapreso un’altra strada, la strada della contiguità e della complicità con il malaffare e la delinquenza in genere.” Questo Paolo ha insegnato ai figli. La sua stessa vita è stata una continua rinuncia: una rinuncia ai divertimenti, alla vita mondana, ad amicizie risalenti ai tempi della scuola o dell’università con persone che egli stesso si era ritrovato a indagare e perseguire, anche per fatti molto gravi. Da “Ti racconterò tutte le storie che potrò”
  • Se mi dicono perché l’hanno fatto, se confessano, se collaborano con la giustizia, perché si arrivi ad una verità vera, io li perdono. Devono avere il coraggio di dire chi glielo ha fatto fare, perché l’hanno fatto, se sono stati loro o altri, dirmi la verità, quello che sanno, con coraggio, con lo stesso coraggio con cui mio marito è andato a morire, di fronte al coraggio io mi inchino, da buona cristiana dire perdono, ma a chi? Io perdono coloro che mi dicono la verità ed allora avrò il massimo rispetto verso di loro, perché sono sicura che nella vita gli uomini si redimono, con il tempo, non tutti, ma alcuni si possono redimere è questo quello che mi ha insegnato mio marito».
  • Io non cerco vendetta, voglio sapere perché è morto Paolo. Non importa quanto ci vorrà, fosse anche un’eternità. Io, di certo, non vivrò abbastanza per conoscere la verità. Non importa. E’ importante, invece, che la conoscano i cittadini italiani. Tutti dovrebbero pretenderla a gran voce. Perché non basta il grande impegno della magistratura. No. Ci vuole molto altro per arrivare alla verità, ne sono convinta, adesso più che mai. Innanzitutto, bisognerebbe aprire gli archivi di stato. E guardarci dentro. Perché, purtroppo, tante verità sono ancora dentro i palazzi delle istituzioni.
  • Poi, la verità bisognerebbe chiederla a tanti uomini delle istituzioni, che sanno, ma non parlano. Lo dovrebbe fare tutta la società civile. Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo. Sono sicura che esiste ancora quell’agenda. Non è andata dispersa nell’inferno di via D’Amelio, perché era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e soldi. Quell’uomo sappia che io non gli darò tregua. Nessun italiano deve dargli tregua. Ecco perché è importante che la gente partecipi alla vita civile e non si giri dall’altra parte. Perchè le domande di ognuno sono fondamentali per trovare la verità. Agnese Borsellino – dal libro Ti racconterò tutte le storie che potrò di Salvo Palazzolo
  • C’è il segreto di Stato, cose atipiche per cui trovare la verità non è facile. Via D’Amelio non solo ha distrutto l’immagine dell’Italia, ma ha distrutto la mia vita. Io sono tra la vita e la morte. Questo è bene che sappiano le persone. Perchè non sono una vedova come le altre, che si sono ricostruite bene o male una vita. Io ci soffro da vent’anni e in silenzio. Io e tutta la mia famiglia. Che parole vuole che ci siano? Piango anche se di lacrime ne ho versate tante. Mi vergogno di essere italiana, spero che queste notizie facciano il giro del mondo”. E nella sua ultima intervista al Corriere della sera: “Bisogna cambiare questa Italia di corrotti e corruttori, di ricattati e ricattatori, tutti che si tengono per mano come bambini in girotondo. Al centro schiacciano l’Italia. Si tengono fra loro stritolando un Paese. Ecco perché non ne posso più di sentire parlare di antimafia e di legalità in bocca a troppi che non potrebbero fiatare. La gogna ci vorrebbe, anche per chi riceve una comunicazione giudiziaria. Parlo della gogna del ridicolo, delle vignette, insomma un metterli a nudo invece di ritrovarceli protagonisti della vita pubblica. Non ho il titolo nè la competenza per commentare conflitti di attribuzioni sorti tra poteri dello Stato, ma sento di avere il diritto, forse anche il dovere di manifestare tutto il mio sdegno per un ex ministro, presidente della Camera e vice presidente del Csm, che a più riprese nel corso di indagini giudiziarie, che pure lo riguardavano, non ha avuto scrupoli nel telefonare alla più alta carica dello Stato, cui oggi io ribadisco tutta la mia stima, per mere beghe personali. “Non sorprende che l’attenzione dei media si sia riversata sul Quirinale, ma il protagonista di questa triste storia è solo il signor Mancino, abile a distrarre l’attenzione dalla sua persona e spregiudicato nel coinvolgere la Presidenza della Repubblica in una vicenda giudiziaria, da cui la più alta carica dello Stato doveva essere tenuta estranea”. Oggi io, moglie di Paolo Borsellino, mi chiedo: chi era e quale ruolo rivestiva l’allora ministro dell’Interno Nicola Mancino, quando il pomeriggio del primo luglio del ’92 incontrò mio marito? Perchè Paolo rientrato la sera di quello stesso giorno da Roma, mi disse che aveva respirato aria di morte?. Mancino, se proprio voleva, doveva telefonare a Loris D’Ambrosio a casa, incontrarlo al bar, ma non chiamarlo al Quirinale mettendo nel mezzo quel galantuomo di Napolitano. È gravissimo il comportamento di Mancino. Non mi fido di lui. Perché ricordo cosa mi disse mio marito: ‘Al Viminale ho respirato aria di morte’. E Mancino non ricorda di averlo visto nei suoi uffici nel luglio ’92”. Tanta rabbia ma anche una forte determinazione: “Ho fiducia nel tempo. Non voglio vendetta, voglio sapere la verità, perchè è stato ucciso, chi ha voluto la sua morte e perchè lo hanno fatto e non voglio nient’altro. Ho tanta pazienza e tanta fiducia. Magari subito no, ma con il tempo la verità si saprà, perchè gli italiani come me vogliono sapere perchè è stato ucciso un uomo che era il simbolo della bontà.
  • Sono convinta che fin da quei primi anni ottanta Paolo avesse capito chi erano i suoi veri nemici. Non i mafiosi assassini, ma quegli insospettabili che i magistrati del pool avevano individuato in certi ambienti altolocati di Palermo. Sono convinta che anche oggi i magistrati di Palermo e Caltanissetta sanno, sanno chi vorrebbe ostacolare per sempre il loro lavoro. Non è solo la mafia, è anche qualcuno dentro lo stato. Ecco allora bisogna cercare senza sosta la verità sulle stragi, non mi stancherò mai di ripeterlo. Lo ripeterò finché mi resterà un filo di voce. E anche quando non ci sarò più, questa mia richiesta di verità dovrà risuonare sempre viva. Sono sicura che tanti giovani la ribadiranno al mio posto, con tutto il fiato che hanno in gola. Perché questa è una battaglia difficile, difficilissima. Tanti, troppi rappresentanti delle istituzioni fanno finta di non sentire”. Da “Ti racconterò tutte le storie che potrò.
  • Chissà, forse un uomo delle istituzioni ha in mano l’agenda rossa di Paolo. Sono sicura che esiste ancora quell’agenda. Non è andata dispersa nell’inferno di via d’Amelio, ma era nella borsa di mio marito, borsa che è stata recuperata integra, con diverse altre cose dentro. Sono sicura che qualcuno la conserva ancora l’agenda rossa, per acquisire potere e soldi. 
  • Innanzitutto, bisognerebbe aprire gli archivi di Stato. E guardarci dentro. Perché, purtroppo, tante verità sono ancora dentro i palazzi delle istituzioni”.
  • In quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano altro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano. Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora.
  • Paolo era sempre il primo ad arrivare in ufficio, di buon mattino, e prendeva una delle adorate papere della collezione di Falcone. Poi aspettava che Giovanni se ne accorgesse. Magari, Paolo si divertiva pure a fargli sorgere il dubbio: «Ma ci sono proprio tutte le tue paperelle? Ne sei sicuro?». Quegli scherzi erano un modo per allentare la tensione. A un certo punto, Paolo lasciava di nascosto un biglietto nella stanza di Giovanni: “Se vuoi riavere la tua papera cinquemila lire mi devi portare”
  • Mi ricordo come fosse oggi quando il primo luglio tornò da Roma e mi disse: «Ho respirato aria di morte». Il pomeriggio era stato al Viminale, per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Quel giorno aveva anche ascoltato il nuovo pentito Gaspare Mutolo, che gli aveva parlato dei rapporti intrattenuti da alcuni uomini delle istituzioni con Cosa nostra. Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler essere baciato né da me, né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio. Mi disse: «Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta». Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. «Per me è finita. Agnese, non facciamo programmi. Viviamo alla giornata». Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere. Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima, avevi chiamato al palazzo di giustizia padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.
  • “Una volta mi accorsi che Paolo dava soldi ad alcune persone bisognose che evidentemente aveva conosciuto nel corso della sua attività professionale. Anche cifre elevate. Gli chiesi un po’ seccata” Ma che fai?” E lui mi rispose,senza troppi giri di parole,quasi sussurrando :”L’importante è che alla mia famiglia non manchi l’indispensabile..” Tratto da ”Ti racconterò tutte le storie che potrò”
  • «Lui amava le strade ed i palazzi che raccontavano la storia. Era un uomo che cercava la verità. Una volta mi disse: “Dove non c’è verità non c’è giustizia”. E poi aggiunse:” La giustizia lenta è un’ingiustizia per la società. Ecco perché non posso concedermi molti spazi per me, tanta gente aspetta una mia decisione. Ed oggi è una giornata preziosa, unica.»
  • “Erano persone che facevano parte della nostra famiglia. Condividevamo le loro ansie e i loro progetti. Era un rapporto, oltre che di umanità e di amicizia, di rispetto per il loro servizio. Mio marito mi disse ‘quando decideranno di uccidermi i primi a morire saranno loro’, per evitare che ciò accadesse, spesso usciva da solo a comprare il giornale e le sigarette quasi a mandare un messaggio ai suoi carnefici perché lo uccidessero quando lui era solo e non in compagnia dei suoi angeli custodi”.
  • “Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. “Ciao Agnese “, mi sussurrò. “Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci? “. Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare.
  • Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta, niente altro. Non è mai cambiato in questo.
    Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. “ Forse ci fu cosa?”. Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu”.
    [….]
    Amore mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo, telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.
    [….]
    Alle feste guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». “
  • “Amore mio, eri rassegnato in quei giorni. Eri rassegnato a dover morire. Qualche giorno prima, avevi chiamato al palazzo di giustizia padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più. Voglio sapere la verità. La chiedo con tutte le forze che mi restano. Forse, nel passato, qualcuno ha anche tentato di distogliermi da questo importante impegno. Ma non c’è riuscito. “
  • «Lui amava le strade ed i palazzi che raccontavano la storia. Era un uomo che cercava la verità. Una volta mi disse: “Dove non c’è verità non c’è giustizia”. E poi aggiunse:” La giustizia lenta è un’ingiustizia per la società. Ecco perché non posso concedermi molti spazi per me, tanta gente aspetta una mia decisione. Ed oggi è una giornata preziosa, unica.»
  • Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito,. Al punto da non voler essere baciato né da me né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio, mi disse: <<Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta>> . Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un’amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. << Per me è finita. Agnese non facciamo programmi. Viviamo alla giornata>>. Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi, e altri a permettere che ciò potesse accadere. Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima avevi chiamato al palazzo di giustizia Padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, Sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più“.
  •  «La tragedia della morte di mio marito? Ho sempre pensato, come tutti in famiglia, che una disgrazia o ti annienta o ti fa diventare più forte. Chi ha fede, un equilibrio interiore coltivato negli anni, non deve mai dire: il Signore mi ha castigato. Paolo era il primo a mettere in pratica questa convinzione. E noi, i suoi familiari, siamo forti dentro anche perché sappiamo di dover onorare la sua memoria, di doverci impegnare ancora di più rispetto a quando Paolo era in vita, per non rendere vani i suoi insegnamenti. Lo dico in tutta umiltà, senza ipocrisia: il dolore, lo strazio per la perdita di Paolo, non ci ha incattiviti. Porteremo con noi, per tutta la vita, il bagaglio etico e morale che mio marito ci ha lasciato. Cerchiamo ogni giorno, con le nostre piccole possibilità, di trasmettere agli altri questo patrimonio che abbiamo avuto in eredità».
  • “Non crederai cosa ho fatto oggi. Sono stata a Villagrazia. Si proprio a Villagrazia. Amore mio, lì è rimasto tutto come è sempre stato, come l’abbiamo costruito io e te. Nel nostro rifugio, nessuno ha potuto stravolgere niente. Mi sembrava quasi di sentire le tue risate, stamattina. Poi anche il ticchettio della tua macchina da scrivere sistemata nello studio di mio padre Angelo; stavi ore e ore a scrivere, ti ricordi? Un giorno ti venne anche un callo tu stesso ti prendevi in giro.  Continuo a cercarti per casa, ma non ci sei. Allora, apro una finestra. E aspetto. Aspetto di vederti spuntare da un momento all’altro, con la tua bicicletta, il pane nel cestino e il braccio destro in alto mentre fai il segno di vittoria con la mano.”
  • «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò. La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore. Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco»