Lettera a Sara del Liceo Alvise Cornaro di Padova

Paolo Borsellino, l’ultima lettera a una studentessa di Padova: «Era il giorno della morte, la lasciò a metà»

Sara Caon studiava al liceo e aveva scritto al magistrato lamentandosi di una mancata risposta: «Iniziò a scriverla ma quel 19 luglio 1992 uscì per andare dalla madre»

Il giorno in cui Paolo Borsellino è stato assassinato, il 19 luglio 1992, la mattina presto aveva preso carta e penna per rispondere ad una piccata lettera di un studentessa di un liceo padovano, Sara Caon, che si era lamentata con lui. Una risposta lasciata a metà per passare una giornata, la prima dopo tanto tempo, al mare con la famiglia. E questo è uno stralcio: «Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perché frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perché dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande». Quello stesso pomeriggio Borsellino è stato ucciso. Una piccola storia, quella della lettera, all’interno della grande storia di un magistrato che, assieme all’amico d’infanzia e collega Giovanni Falcone, è stato ucciso dalla mafia. Un dettaglio che, per macabra coincidenza, offre ragioni per esser curiosi su cosa contenevano quelle missive. A raccontarlo, quasi 30 anni esatti dopo, è la stessa Sara Caon, che all’epoca finiva la quarta liceo scientifico all’Alvise Cornaro di Padova e che oggi, dopo una laurea in giurisprudenza, è impiegata come funzionario amministrativo all’università di Padova.

Perché aveva scritto a Borsellino?
«Presiedevo un comitato promotore delle assemblee per by-passare il consiglio d’istituto. Volevamo invitare Borsellino e Ayala (Giuseppe Ayala, anche lui magistrato siciliano) per il ruolo avuto nel maxiprocesso e perché erano un po’ meno in vista di Falcone. Volevamo una lezione sulla mafia senza le polemiche che in quel momento purtroppo colpivano il dottor Falcone, non volevamo venisse deviato il dibattito».

Quanto ha atteso prima di scrivergli nuovamente poiché non otteneva risposta?
«Qualche mese dopo la lettera d’invito mi sono decisa. Gli avevo però telefonato più volte sia a Palermo, sia a Marsala, ma il centralino continuava a rispondere che non era né da una parte né dall’altra. A quel punto gli ho scritto una lettera piuttosto seccata nella quale gli ricordavo le buone maniere aggiungendo nove domande sul suo lavoro e sulla mafia».

Come ha scoperto che il giorno della morte Borsellino le stava rispondendo?
«La figlia primogenita Lucia ha raccontato più volte che il padre quel giorno si era svegliato molto presto per telefonare alla sorella più piccola che era in vacanza in Thailandia e poi si era messo a rispondere alla mia lettera, interrotto alle 7 del mattino da una telefonata dell’allora procuratore Giammanco ed era furibondo con lui. La telefonata finì a male parole. Borsellino sospese la risposta alla nostra lettera al terzo quesito che gli avevamo posto, andò al mare con la famiglia e il pomeriggio saltò per aria».

E la lettera che storia ha avuto da quel momento?
«Era rimasta incompiuta sulla scrivania ma il figlio Manfredi Borsellino ne consegnò una copia ad Antonino Caponnetto (magistrato che ha guidato il pool antimafia dall’84 al 1990) che la lesse ormai trent’anni fa agli studenti del liceo Tito Livio di Padova».

15 aprile 2022  CORRIERE DEL VENETO


La lettera a PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA 2018 – Mostra Io qui sottoscritto TESTAMENTI DI GRANDI ITALIANI

 

PALERMO, 19 LUGLIO 1992   Nell’ultima giornata della sua vita, Paolo Borsellino, come ogni mattina, è già in piedi alle cinque. Si rintana nel suo studio per rispondere ad una lettera di una professoressa del Liceo Alvise Cornaro di Padova (si scoprì poi che l’autrice in realtà fu una studentessa), che tre mesi prima lo aveva invitato ad un incontro con gli studenti del  liceo. Quell’invito perlò non  a Borsellino non arrivò mai.  In assenza di risposta la ragazza protesta duramente: “essere un giudice famoso e stracarico di lavoro, non deve far dimenticare le buone maniere. C’è anche un questionario, con nove domande: come e perché è diventato giudice? Cosa sono la Dia e la Dna? Quali le differenze tra mafia, camorra, ’ndrangheta e sacra corona unita? Quali i rapporti tra la mafia italiana e statunitense?” Borsellino, con una pazienza davvero infinita, inizia a rispondere ai quesiti con una lunga lettera a quella che lui crede essere una docente.  Una lettera che oggi sembra quasi un testamento spirituale.

 

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Da LA VOCE DI NEW YORK   (…) non riuscì a terminarla, si fermò al punto 4,  probabilmente si era ripromesso di proseguirla nel pomeriggio tardi di quella domenica al rientro dalla visita cardiaca che avrebbe dovuto far fare alla madre.   Poi, purtroppo, le cose andarono diversamente…  Il contenuto della risposta che stava approntando il giudice fu reso pubblico per la prima volta il 24 novembre 1992. Quel giorno all’Università La Sapienza di Roma, nella facoltà di Giurisprudenza, venne intitolata l’aula 1 ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  E, un emozionatissimo e commosso, Manfredi Borsellino ne lesse il contenuto.  Noi abbiamo voluto ricostruire anche il fatto, e capire come, e perché, si arrivò a quella  lettera di risposta del Giudice.

La storia  Nel gennaio 1992 il Liceo Alvise Cornaro di Padova aveva contattato il dottor Pietro Vento, direttore del “Pungolo” di Trapani.  Il Pungolo era un periodico di giovani siciliani fondato dallo stesso direttore negli anni Ottanta; e si era distinto, con centinaia di collaboratori, quale punto di riferimento nell’analisi delle contraddizioni sociali del territorio e nella denuncia del potere mafioso e di ogni forma di corruzione in Sicilia e nel Mezzogiorno. L’elenco delle personalità del mondo della cultura e delle istituzioni che collaborarono con “Il Pungolo” era lunghissimo; fra i tanti: i magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, i Presidenti Sandro Pertini e Sergio Mattarella, gli scrittori Alberto Moravia e Leonardo Sciascia. Pietro Vento chiamò Paolo Borsellino preannunciandogli che sarebbe stato contattato da un Liceo di Padova, cosa che poi, per vari disguidi, non avvenne. L’evento, che si tenne comunque, fu organizzato come assemblea straordinaria studentesca presso il Supercinema della città veneta. Vi parteciparono, come relatori: il responsabile del Pungolo, Pietro Vento, i giornalisti Francesca Severi, Beppe Spada e Rino Cavasino, il Giudice Ayala e il direttore de “Il Mattino di Padova”, Maurizio De Luca. Quel venerdì di gennaio, quei liceali di Padova posero – inconsapevolmente – le basi per “ l’ultimo scritto” del Giudice Paolo Borsellino. Una lettera che al suo interno conteneva la testimonianza umana e professionale  di una vita.  Frasi importanti che facevano trapelare l’umanità, l’umiltà e gli alti valori morali di tutta la sua esistenza. Righe memorabili che ancora oggi ci fanno riflettere. Era un periodo terribile. A 57 giorni dalla strage di Capaci, uno dei suoi  pensieri costanti era la famiglia.  Un legame sempre  più forte e doloroso. La volontà di stare il più possibile con i figli era divenuta più preminente  del solito benché -come aveva raccontato lui stesso ad un amico sacerdote- cercasse di allontanarli da se quasi a predisporre un distacco. 


   Foto di Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino

La lettera della studentessa

MANOSCRITTO ORIGINALE della risposta del Dr. Borsellino


“Gentilissima” Professoressa,
 uso le virgolette perchè le ha usato lei nello scrivermi, non so se per sottolineare qualcosa e “pentito” mi dichiaro dispiaciutissimo per il disappunto che ho causato agli studenti del suo liceo per la mia mancata presenza all’incontro di Venerdì 24 gennaio.
Intanto vorrei assicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico (suppongo quello della Procura di Marsala) non foss’altro perchè a quell’epoca ero stato già applicato per quasi tutta la settimana alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, ove poi da pochi giorni mi sono definitivamente insediato come Procuratore Aggiunto.
Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente.
Se ben ricordo, inoltre, in quei giorni mi sono recato per ben due volte a Roma nella stessa settimana e, nell’intervallo, mi sono trattenuto ad Agrigento per le indagini conseguenti alla faida mafiosa di Palma di Montechiaro.

Ricordo sicuramente che nel gennaio scorso il dr. Vento del Pungolo di Trapani mi parlò della vostra iniziativa per assicurarsi la mia disponibilità, che diedi in linea di massima, pur rappresentandogli le tragiche condizioni di lavoro che mi affliggevano. Mi preannunciò che sarei stato contattato da un Preside del quale mi fece anche il nome, che non ricordo, e da allora non ho più sentito nessuno.

Il 24 gennaio poi, essendo ritornato ad Agrigento, colà qualcuno mi disse di aver sentito alla radio che quel giorno ero a Padova e mi domandò quale mezzo avessi usato per rientrare in Sicilia tanto repentinamente. Capii che era stato “comunque” preannunciata la mia presenza al Vostro convegno, ma mi creda non ebbi proprio il tempo di dolermene perchè i miei impegni sono tanti e così incalzanti che raramente ci si può occupare di altro.
Spero che la prossima volta Lei sarà così gentile da contattarmi personalmente e non affidarsi ad intermediari di sorta o a telefoni sbagliati..
Oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perchè frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perchè dormono quando esco da casa ed al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati.
Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande.

1) Sono diventato giudice perchè nutrivo grandissima passione per il diritto civile ed entrai in magistratura con l’idea di diventare un civilista, dedito alle ricerche giuridiche e sollevato dalle necessità di inseguire i compensi dei clienti. La magistratura mi appariva la carriera per me più percorribile per dar sfogo al mio desiderio di ricerca giuridica, non appagabile con la carriera universitaria per la quale occorrevano tempo e santi in paradiso.
Fui fortunato e divenni magistrato nove mesi dopo la laurea (1964) e fino al 1980 mi occupai soprattutto di cause civili, cui dedicavo il meglio di me stesso. E’ vero che nel 1975 per rientrare a Palermo, ove ha sempre vissuto la mia famiglia, ero approdato all’Ufficio Istruzione Processi Penali, ma ottenni l’applicazione, anche se saltuaria, ad una sezione civile e continuai a dedicarmi soprattutto alle problematiche dei diritti reali, delle dispute legali, delle divisioni ereditarie etc.Il 4 maggio 1980 uccisero il Capitano Emanuele Basile ed il Comm. Chinnici volle che mi occupassi io dell’istruzione del relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio frattanto era approdato, provenendo anche egli dal civile, il mio amico di infanzia Giovani Falcone e sin dall’ora capii che il mio lavoro doveva essere un altro.
Avevo scelto di rimanere in Sicilia ed a questa scelta dovevo dare un senso. I nostri problemi erano quelli dei quali avevo preso ad occuparmi quasi casualmente, ma se amavo questa terra di essi dovevo esclusivamente occuparmi.
Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressocchè esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perchè vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta.

2) La DIA è un organismo investigativo formato da elementi dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza e la sua istituzione si propone di realizzare il coordinamento fra queste tre strutture investigative, che fino ad ora, con lodevoli ma scarse eccezioni, hanno agito senza assicurare un reciproco scambio di informazioni ed una auspicabile, razionale divisione dei compiti loro istituzionalmente affidati in modo promiscuo e non codificato.
La DNA invece è una nuova struttura giuridica che tende ad assicurare soprattutto una circolazione delle informazioni fra i vari organi del Pubblico Ministero distribuiti tra le numerose circoscrizioni territoriali.
Sino ad ora questi organi hanno agito in assoluta indipendenza ed autonomia l’uno dall’altro (indipendenza ed autonomia che rimangono nonostante la nuova figura del Superprocuratore) ma anche in condizioni di piena separazione, ignorando nella maggior parte dei casi il lavoro e le risultanze investigative e processuali degli altri organi anche confinanti, e senza che vi fosse una struttura sovrapposta delegata ad assicurare il necessario coordinamento e ad intervenire tempestivamente con propri mezzi e proprio personale giudiziario nel caso in cui se ne ravvisi la necessità.
3) La mafia (Cosa Nostra) è una organizzazione criminale, unitaria e verticisticamente strutturata, che si contraddistingue da ogni altra per la sua caratteristica di “territorialità”. Essa e suddivisa in “famiglie”, collegate tra loro per la comune dipendenza da una direzione comune (Cupola), che tendono ad esercitare sul territorio la stessa sovranità che su esso esercita, deve esercitare, legittimamente, lo Stato.
Ciò comporta che Cosa Nostra tende ad appropriarsi delle ricchezze che si producono o affluiscono sul territorio principalmente con l’imposizione di tangenti (paragonabili alle esazioni fiscali dello Stato) e con l’accaparramento degli appalti pubblici, fornendo nel contempo una serie di servizi apparenti rassembrabili a quelli di giustizia, ordine pubblico, lavoro etc, che dovrebbero essere forniti esclusivamente dallo Stato.
E’ naturalmente una fornitura apparente perchè a somma algebrica zero, nel senso che ogni esigenza di giustizia è soddisfatta dalla mafia mediante una corrispondente ingiustizia. Nel senso che la tutela dalle altre forme di criminalità (storicamente soprattutto dal terrorismo) è fornita attraverso l’imposizione di altra e più grave forma di criminalità. Nel senso che il lavoro è assicurato a taluni (pochi) togliendolo ad altri (molti).

La produzione ed il commercio della droga, che pur hanno fornito Cosa Nostra di mezzi economici prima impensabili, sono accidenti di questo sistema criminale e non necessari alla sua perpetuazione.
Il conflitto inevitabile con lo Stato, con cui Cosa Nostra è in sostanziale concorrenza (hanno lo stesso territorio e si attribuiscono le stesse funzioni) è risolto condizionando lo Stato dall’interno, cioè con le infiltrazioni negli organi pubblici che tendono a condizionare la volontà di questi perchè venga indirizzata verso il soddisfacimento degli interessi mafiosi e non di quelli di tutta la comunità sociale.
Alle altre organizzazioni criminali di tipo mafioso (camorra, “ndrangheta”, Sacra Corona Unita etc.) difetta la caratteristica della unitarietà ed esclusività.

Sono organizzazioni criminali che agiscono con le stesse caratteristiche di sopraffazione e violenza di Cosa Nostra. ma non hanno l’organizzazione verticistica ed unitaria. Usufruiscono inoltre in forma minore del “consenso” di cui Cosa Nostra si avvale per accreditarsi come istituzione alternativa allo Stato, che tuttavia con gli organi di questo tende a confondersi.

4) ————————————–


SERGIO MATTARELLA   “Paolo Borsellino ha combattuto la mafia con la determinazione di chi sa che la mafia non è un male ineluttabile, ma un fenomeno criminale che può essere sconfitto. Sapeva bene che per raggiungere questo obiettivo non è sufficiente la repressione penale ma è indispensabile diffondere, particolarmente tra i giovani, la cultura della legalità. Appunto per questo era impegnato molto anche nel dialogo coi giovani, convinto che la testimonianza di valori positivi, promuove una società sana e virtuosa in grado di emarginare la criminalità.Il 19 luglio di 25 anni fa, alle 5 del mattino, stava proprio scrivendo la risposta a una lettera inviatagli dalla preside di un liceo di Padova. La missiva è rimasta incompiuta ma costituisce una testimonianza di grande forza dell’importanza della formazione delle nuove generazioni.” – Sergio Mattarella – Presidente della Repubblica italiana e Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura   Dall’intervento di Sergio Mattarella in occasione della commemorazione presso il CSM il 19 Luglio 2017


Rassegna stampa 

29.3.2021 – “Borsellino, l’ultima lettera quel giorno la srisse a me”

8.12.2018 – “Ma io oggi non la riscriverei…” Borsellino, la lettera, il testamento  – “Ma io oggi non la riscriverei…” La lettera, la risposta scritta all’alba di quel tremendo giorno. Le ultime parole di Paolo Borsellino.

Immaginiamolo quest’uomo, nell’ultimo giorno della sua vita. Si è alzato all’alba, come fa sempre, perché ‘vuole fottere il mondo’ con qualche ora di anticipo. I figli dormono. Chissà se si prepara il caffè. Forse sì. Dopo mesi di lavoro intenso ha deciso di riposarsi almeno quella domenica, il 19 luglio 1992. Va verso la scrivania. Si ricorda, chissà se in quel momento, chissà se l’aveva preparata in anticipo, di una lettera che attende una risposta. Gliel’ha mandata qualche mese prima una ragazza di Padova, Sara Caon. Una missiva dai toni fiammeggianti che comincia così: “Gentile dottore Borsellino, le scrivo per manifestarle il disappunto degli studenti del liceo ‘Cornaro’, e mio personale, per la sua mancata partecipazione all’assemblea da noi organizzata”.

Sara è una ragazza di diciassette anni, vivace, informata e piena di passione civile. Un sentimento che trabocca e che diventa espressione di uno sfogo con il giudice da lei tanto ammirato. In quella missiva traspare la genuinità di un’anima che sboccia, che si è sentita ‘tradita’ da un silenzio. Aveva scritto a Paolo Borsellino, invitandolo a presenziare a un incontro in istituto. Che cosa è accaduto? E’ possibile che l’invito non sia mai giunto a destinazione, da qui la mancata replica. Il magistrato che morirà poche ore dopo in via D’Amelio prova a chiarire, punto per punto. Spiega che può esserci stato un disguido. Ci sono nove domande sollecitate dalla curiosità degli studenti di Padova. Nove caselle da riempire.

Paolo Borsellino inizia: “Oggi non è il giorno più adatto a risponderle perché frattanto la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata e io non ho più tempo da dedicare neanche ai miei figli che vedo raramente perché dormono quando esco di casa e al mio rientro in ora quasi sempre notturna li trovo addormentati ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare”.

E’ stanco, il giudice. La sua vita è un blocco di granito senza fessure. Ogni tanto, se gli riesce, scappa da Paolino, il barbiere, e si bea delle attese dei comuni di mortali, tra una rasatura e un taglio. E quando Paolino si mette a disposizione. “Dottore, la faccio passare…”, la replica è quasi una supplica. “Lasciami stare, non farmi fretta…”. Era proprio dal barbiere, il dottore Borsellino, quando seppe che Giovanni Falcone era stato ucciso, con moglie e scorta, sull’autostrada. E schizzò via dalla poltrona, con il sapone sul viso. Altre volte, sempre di domenica, Paolo Borsellino passeggia sul marciapiede davanti al suo palazzo. Cammina piano, osservando, come tutti, la sua ombra. Ha già smesso di accarezzare i figli, perché vuole abituarli a un distacco che avverte certo.

Quella mattina, un altro morso di normalità. Una lettera a cui rispondere. Proprio come succede ai comuni mortali. Il giudice scrive: “Entrai in magistratura con l’idea di diventare civilista. Fui fortunato divenni magistrato nove mesi dopo la laurea. Il 4 maggio 1980 uccisero il capitano Emanuele Basile e il consigliere Chinnici volle che mi occupassi dell’istruttoria nel relativo procedimento. Nel mio stesso ufficio era arrivato il mio amico di infanzia Giovanni Falcone e fin da allora capii che il mio lavoro doveva essere altro..”.

Scrive ancora il giudice: “Non ho più lasciato questo lavoro e da quel giorno mi occupo pressoché esclusivamente di criminalità mafiosa. E sono ottimista perché vedo che verso di essa i giovani, siciliani e no, hanno oggi una attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino ai quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”. Ma si è fatto tardi ormai. Paolo Borsellino abbandona la replica a metà. Si ferma al punto quattro. Ci sarà tempo per completarla.

Sara Caon, la ragazza di allora, oggi donna, racconta: “Non sono mai stata fiera della mia letterina. Era abbastanza screanzata e adesso non la riscriverei più. Non sono io – aggiunge con una modestia che le rende onore – la parte importante della vicenda. Lo è senz’altro il giudice Paolo Borsellino che, pure in quella occasione come nel resto, dimostrò di essere un grande uomo, nella corrispondenza a un interlocutore che gli aveva scritto con tanta petulanza. Non ho mai cercato visibilità e non ne voglio”. Eppure, fu grazie a quella ‘ragazzina screanzata’ che quel profondo lascito venne redatto. “Ritrovammo la lettera sulla scrivania di papà – racconta Manfredi Borsellino – la consideriamo un po’ il suo umanissimo testamento spirituale”.

Di quella lettera si è già narrato, ma è tornata all’attenzione, soprattutto social, quando Giovanni Paparcuri, che fu stretto e fidato collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha pubblicato un post sul suo profilo facebook: “Manfredi Borsellino, che qui ringrazio pubblicamente, ci ha fatto pervenire, per esporla al bunkerino (lo spazio della memoria a Palazzo di giustizia, ndr), la copia della lettera originale che scrisse il 3 febbraio 1992 la studentessa, Sara Caon, al dottore Borsellino. Quest’ultimo cominciò a scrivere la risposta la mattina del 19 luglio 1992, poche ore prima della strage di via D’Amelio”. Ed è giusto rimettere ancora, una volta di più, insieme i pezzi della storia e di memorie che tanti, nel corso degli anni, hanno custodito con dedizione.

Immaginiamolo Paolo Borsellino, all’alba del suo ultimo giorno, mentre afferra la giacca e si appresta a uscire da casa. Ha risposto a tre punti su nove. Deve affrontare il quarto, quando ritornerà. Sul foglio, il segno che rimane è proprio un ‘quattro’ circondato da una parentesi, come in attesa. Sotto si stende l’immensità di una pagina in bianco. Tutta la vita che non c’è mai stata. di ROBERTO PUGLIESE LIVE SICILIA



Pietro Grasso racconta la lettera agli studenti di Borsellino

All’alba di domenica 19 luglio 1992, dodici ore prima di essere ucciso in Via d’Amelio, il Procuratore Aggiunto della Repubblica di Palermo Paolo Borsellino iniziò a scrivere una risposta agli studenti di una scuola di Padova, dopo avere ricevuto una missiva della professoressa che rimproverava il magistrato di avere disertato un’affollata Assemblea organizzata dai giovani sul tema dell’antimafia e di non averli mai avvertiti della sua assenza. Questa lettera mai terminata è contenuta nel libro “Paolo Borsellino parla ai ragazzi”, edito da Feltrinelli e scritto dal senatore Pietro Grasso, in passato Presidente del Senato, Procuratore Nazionale Antimafia e Giudice a latere del Maxi-Processo di Palermo. Proprio per celebrare l’anniversario della morte di Paolo Borsellino e in occasione dell’uscita del volume, un’esclusiva intervista a Pietro Grasso è presente anche sul settimanale Famiglia Cristiana in edicola giovedì prossimo.

All’alba di domenica 19 luglio 1992, dodici ore prima di essere ucciso in Via d’Amelio, il Procuratore Aggiunto della Repubblica di Palermo Paolo Borsellino iniziò a scrivere una lettera di risposta agli studenti di una scuola di Padova, dopo avere ricevuto una missiva della professoressa che rimproverava il magistrato di avere disertato un’affollata Assemblea organizzata dai giovani sul tema dell’antimafia e di non averli mai avvertiti della sua assenza. 

La lettera mai conclusa è contenuta nel volume “Paolo Borsellino parla ai ragazzi”, edito da Feltrinelli e scritto dal senatore Pietro Grasso, in passato Presidente del Senato, Procuratore Nazionale Antimafia e Giudice a latere del Maxi-Processo di Palermo.    

Nella lettera, Paolo Borsellino innanzitutto rispose che non aveva mai ricevuto le telefonate della professoressa (che aveva composto il numero dell’ufficio della Procura di Marsala dove da tempo non esercitava più le funzioni di Procuratore Capo, in quanto era tornato a Palermo, dove era diventato Procuratore Aggiunto). Borsellino, poi, iniziò a rispondere alle domande degli studenti del liceo scientifico Cornaro di Padova. Scrisse che era diventato magistrato nel 1964, un anno dopo la strage di Ciaculli. Raccontò la sua prima istruttoria di mafia (sull’assassinio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile nel 1980). Descrisse la sua amicizia sin dall’infanzia con il collega Giovanni Falcone, nato nello stesso quartiere palermitano della Kalsa e ucciso a Capaci il 23 maggio del 1992 insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta. Si soffermò sulle differenze tra “Cosa Nostra”, Ndrangheta e Camorra. Esternò il suo dispiacere per l’equivoco della mancata partecipazione all’assemblea di Padova, ma nello stesso tempo espresse il suo ottimismo sull’attenzione dei giovani per la questione morale.

Nei giorni precedenti, Paolo Borsellino aveva chiesto ad un parroco di confessarsi urgentemente e aveva confidato ad un altro parroco di allontanare i suoi figli per “farli abituare alla sua assenza”. Secondo Pietro Grasso, “lo stato d’animo di Borsellino era inquieto, quando alle cinque di mattina di domenica 19 Luglio 1992, si sedette davanti alla sua scrivania per scrivere le risposte alle domande degli studenti di Padova. In quei giorni aveva poco tempo libero, ma decise di usare quelle ore dell’alba, in uno dei rarissimi momenti di pausa dal lavoro, per mandare un messaggio a  studentesse  e  studenti  che non aveva mai incontrato. Alle sette di mattina parlò al telefono con la figlia più piccola, Fiammetta, in quei giorni in vacanza in Thailandia, poi ricevette la chiamata dell’allora Procuratore capo di Palermo che, finalmente, dopo tante  insistenze,  lo  autorizzava  a  occuparsi delle indagini relative alla mafia palermitana. Una telefonata inusuale, sia per l’orario che per la giornata festiva, che lo turbò molto. Lasciò, dunque, a metà la  lettera  per  recarsi  a  Villagrazia  di  Carini, dove lo avrebbero raggiunto poco dopo la moglie Agnese  e  il  figlio  Manfredi”. 

Pertanto, Borsellino interruppe la lettera prima di rispondere alla quarta domanda, riguardante i rapporti tra mafia italiana e mafia americana. Ma Paolo Borsellino non concluse più la missiva, perché alle 1658 del 19 luglio del 1992, sotto casa della madre in Via D’Amelio, a Palermo, fu assassinato con un’autobomba, insieme a 5 agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. 

La strage di Via d’Amelio fu uno dei gialli più inquietanti della storia d’Italia, come confermato da Pietro Grasso, all’epoca collega oltre che amico di Falcone e Borsellino. 

Un primo mistero riguardò la scomparsa dell’Agenda rossa, dove il magistrato assassinato scriveva appunti importanti e delicati. Come evidenziato da Grasso, “in quei cinquantasette giorni di distanza tra la strage di Capaci e la strage di Via D’Amelio successero numerosi fatti ancora avvolti dal mistero. Tra i molti dubbi che circondarono quella vicenda spiccò la scomparsa dell’agenda rossa, un quaderno pieno di appunti presi da Paolo nelle  ultime settimane. I figli Lucia e Manfredi confermarono che l’agenda rossa fu presa dal padre e fu riposta nella sua borsa, sia la mattina nella casa di Palermo, sia il pomeriggio quando dalla villetta di Villagrazia di Carini si spostò verso via D’Amelio. Dopo l’attentato, la borsa di Paolo passò di mano in mano e venne riconsegnata ai familiari solo dopo mesi: dentro c’erano tutti i suoi effetti personali, compreso un pacchetto di sigarette, ma mancava l’agenda rossa”. 

Come spiegato da Grasso “le indagini e i processi sono ancora in corso, la ricerca della verità non si è mai fermata, pur fra mille ostacoli e un bieco depistaggio durato oltre sedici anni, e che solo grazie alla collaborazione del vero autore del furto dell’automobile  126,  il pentito Gaspare Spatuzza, si è potuto smascherare. Questa ricerca non dovrà fermarsi finché non vi sarà piena luce sui moventi e sui mandanti che hanno armato le mani degli assassini”. 

Un altro mistero indirettamente collegato alla strage di Via D’Amelio fu il suicidio di Rita Atria, avvenuto il 26 luglio del 1992 a Roma. “Era una ragazza giovanissima, di appena diciassette anni.  Si chiamava Rita, ma Paolo la soprannominava la “picciridda”, la bambina in dialetto siciliano. Il padre e il fratello erano affiliati a Cosa nostra e furono uccisi per contrasti interni alla mafia. Lei ne soffrì moltissimo e decise di testimoniare, di collaborare con la giustizia per raccontare a Borsellino ciò di cui era a conoscenza. Analoga scelta intraprese la moglie di suo fratello, Piera Aiello (testimone di giustizia e oggi deputata nazionale, n.d.r.) Il rapporto tra Rita Atria, Piera Aiello e Paolo Borsellino era tale che entrambe chiamavano il magistrato “zio Paolo” in senso affettuoso. La famiglia, a partire dalla madre, ripudiò Rita, che si legò ancor di più a Paolo, che divenne il suo sostegno. Rita Atria non riuscì a sopportare quell’ulteriore perdita e si tolse la vita una settimana dopo la strage di Via D’Amelio”.

Trent’anni prima di Rita Atria, un’altra donna siciliana aveva denunciato gli assassini di alcuni suoi congiunti e aveva collaborato con la giustizia in qualità di testimone. Si chiamava Serafina Battaglia. La copertina del quotidiano L’ORA dei primi anni Sessanta (contenente la fotografia in bianco e nero che ritraeva il magistrato inquirente e quella donna vestita di nero sul luogo dell’omicidio di suo figlio) spinse l’allora studente Piero Grasso a intraprendere la carriera giudiziaria “per difendere i deboli”. 

Grasso frequentava la stessa scuola di Paolo Borsellino: il Liceo Classico Meli di Palermo. Borsellino scriveva articoli di fuoco contro il sistema scolastico dell’epoca nel giornale studentesco Agorà. Dopo la laurea nella Facoltà di Giurisprudenza e dopo il concorso in magistratura, Pietro Grasso divenne Pretore a Barrafranca nell’ottobre del 1969. La sua carriera giudiziaria durò per 44 anni, prima di diventare Presidente del Senato. Tra le sue tappe anche la guida della Procura della Repubblica di Palermo e la direzione della Procura Nazionale Antimafia. Dopo che nel 2013 andò in pensione, Piero Grasso decise di tornare al cinema. L’ultimo film visto in una sala cinematografica era stato “Crimini e Misfatti”, di Woody Allen, nel 1990, nell’anno dell’uccisione del giudice Rosario Livatino. 

 “Quella sera – racconta Grasso – entrando in un cinema con mia moglie, naturalmente circondato dalla scorta, sia pure molto discreta, provai una sensazione di emarginazione quando ascoltai che una signora sussurrò al  marito:  “Stiamo attenti, c’è il  giudice  Grasso,  sediamoci  lontano, è pericoloso, non  si  sa  mai cosa può succedere”.  Mi sembrò di essere alla stregua di una mina vagante, pronta a esplodere da un momento all’altro. Non andai più al cinema per quasi trent’anni, accontentandomi dei film in videocassetta per non infastidire e spaventare la gente”.

Nel 2013 Pietro Grasso e la moglie (la professoressa Maria Fedele) decisero di tornare al cinema per assistere all’anteprima del film “La mafia uccide solo d’estate”, con regia di Pierfrancesco Diliberto, in arte PIF e sceneggiatura di Pif, Michele Astori e Marco Martani. 

“Il film raccontava, in modo ironico e profondo, le vicende di mafia viste attraverso gli occhi di un bambino ignaro che pian piano, crescendo, acquistava consapevolezza di quanto avveniva intorno a lui. Il commento mio e di mia moglie Maria fu spontaneo quando scorrevano i titoli di coda e confessammo a Pif che era il  più  bel film sulla mafia da noi mai visto”. 

Come raccontato da Pif nella Prefazione al libro “Paolo Borsellino parla ai ragazzi”, “L’ultimo film che il dottor Grasso era andato a vedere era quello di Woody Allen (un collega regista americano).  Ripartire con Pif dopo tutti questi anni forse sarebbe stato un po’ traumatico.  Seduto accanto al dottor Grasso durante la proiezione, cercavo di cogliere le sue reazioni con la coda dell’occhio. Provavo a darmi un tono e non volevo mostrarmi preoccupato, ma ovviamente lo ero. Nel film raccontavo cose che lui conosceva  meglio di  me,  poiché  erano  storie  di  gente che lui conobbe e con cui lavorò. Persone che si ostinavano a pensare che con la mafia non si dovesse convivere. Che la mafia doveva solo essere combattuta e vinta. E continuarono a pensarlo nonostante le difficoltà: gli insulti, gli sgambetti, la paura quotidiana di essere uccisi e non necessariamente dalla mafia.  Non indietreggiarono di un centimetro”.

Il film “La mafia uccide solo d’estate” era una commedia drammatica, che alternava momenti di comicità esilarante alle scene tragiche di alcuni delitti eccellenti di Palermo commessi in estate, come se i mandanti volessero approfittare di una città distratta dalle vacanze, dal caldo e dal mare. 

In effetti Grasso, assistendo all’anteprima del film, notò che molti omicidi eccellenti –  vissuti negli anni in cui era magistrato – avvennero proprio in estate: dalla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre del 1970) all’uccisione di Padre Pino Puglisi (15 settembre del 1993), passando per le uccisioni dei magistrati Borsellino, Chinnici, Costa, Scopelliti e di tante altre vittime. Alcuni delitti eccellenti, invece, avvennero nei giorni dell’Epifania, in un clima di festa, come ad esempio le uccisioni del presidente della Regione Piersanti Mattarella, del sindacalista Accursio Miraglia, dei giornalisti Beppe Alfano e Pippo Fava. Senza dimenticare la strage di Portella della Ginestra, avvenuta il Primo Maggio del 1947, nella giornata dedicata alla Festa del Lavoro, con undici lavoratori uccisi. 

Come nel film di Pif, sembrava che ci fosse una volontà di colpire confidando nella distrazione festiva per popolazione, mass media e istituzioni. 

Tra le vittime eccellenti di quella stagione di sangue e misteri, anche numerosi giornalisti. Secondo Grasso, “in Italia ci sono regioni in cui un giornalista che descriva senza veli la realtà del potere rischia la vita, intimidazioni, minacce di morte. Ogni anno il rapporto di «Ossigeno per l’informazione», l’osservatorio per i giornalisti minacciati, elenca sempre nuovi episodi di minacce e intimidazioni ai giornalisti, con un crescendo che non può non suscitare allarme sull’esercizio della libertà di cronaca e sul diritto dei cittadini a essere informati”.

Ma, nonostante la scia di sangue, misteri, corruzione e collusioni, Paolo Borsellino era ottimista sulla sensibilità dei giovani e sulla rivolta popolare. Un ottimismo confermato prima dal “tifo della gente” per il Pool di Caponnetto, Falcone, Borsellino e degli altri magistrati, poi dalle manifestazioni oceaniche del popolo di Palermo dopo il 23 maggio.  FAMIGLIA CRISTIANA 18.7.2020


 

a cura di Claudio Ramaccini  Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – Progetto San Francesco