Bruno Contrada, ex funzionario, agente segreto è stato dirigente generale della Polizia di Stato, numero tre del Sisde, capo della Mobile di Palermo, e capo della sezione siciliana della Criminalpol. l suo nome è associato ai presunti rapporti tra servizi segreti italiani e criminalità, culminati nella strage di via d’Amelio dove morì in un attentato il giudice Paolo Borsellino che in quel periodo indagava sui collegamenti tra mafia e Stato, e alla cosiddetta “zona grigia” tra legalità e illegalità. Contrada si è dichiarato collaboratore e amico di Borsellino, ma i familiari del magistrato assassinato hanno smentito fermamente. Anche Giovanni Falcone pareva non si fidasse di lui da tempo. In gioventù fu amico e collaboratore di Boris Giuliano, la cui moglie ha espresso invece perplessità sulla colpevolezza di Contrada. Arrestato il 24 dicembre 1992, Contrada, che si è dichiarato estraneo al reato, è stato condannato in via definitiva nel 2007 a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Nel 2011-12 venne respinta la richiesta di revisione del processo e sempre nel 2012 finì di scontare la pena. L’11 febbraio 2014 la Corte Europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha condannato lo Stato italiano poiché ha ritenuto che la ripetuta mancata concessione degli arresti domiciliari a Contrada, sino al luglio 2008, pur se gravemente malato e malgrado la palese incompatibilità del suo stato di salute col regime carcerario, fosse una violazione dell’art. 3 Cedu (divieto di trattamenti inumani o degradanti). Il 13 aprile 2015 la stessa Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano stabilendo un risarcimento per danni morali da parte dello Stato italiano perché non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa dato che, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non era ancora previsto dall’ordinamento giuridico italiano (principio di nulla poena sine lege), e nella sentenza viene affermato che «l’accusa di concorso esterno non era sufficientemente chiara». In seguito a ciò, nel giugno 2015 è iniziata la revisione del processo di Contrada, poi respinta il 18 novembre. Gli avvocati di Contrada hanno presentato istanza di revoca della condanna, respinta dalla corte d’appello di Palermo, e infine accolta nel 2017 dalla corte di Cassazione, che ha dichiarato “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna”.
26.3.2024 Depistaggio via D’Amelio, CONTRADA sentito come teste in violazione delle norme: il suo legale rinuncia al mandato in quanto venuta meno la fiducia con il cliente
11.6.2023 Caso Bruno Contrada, parla l’avvocato: “Ecco chi erano i suoi nemici”
Intervista del QdS all’avvocato Stefano Giordano, legale di Bruno Contrada nella lunga battaglia che ha portato alla conferma della riparazione per ingiusta detenzione.
La IV° sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione nell”udienza del 06 giugno 2023 ha rigettato i ricorsi della Procura Generale di Palermo e del Ministero dell’Economia e delle Finanze, confermando così la riparazione per ingiusta detenzione nei confronti del dottor Bruno Contrada, così come statuito dalla I° sezione della Corte di Appello di Palermo.
Ora il Ministero dell’Economia e delle Finanze dovrà corrispondergli la somma di complessivi 285.342,2 euro. QdS ha intervistato l’avvocato Stefano Giordano, legale del dottor Bruno Contrada che ha condotto questa lunga battaglia per l’ottenimento dei diritti che la CEDU ha ritenuto violati.
Il caso di Bruno Contrada, l’intervista all’avvocato Stefano Giordano
Avvocato, nel suo caso non si è trattato tanto di difendere un cliente da accuse che gli venivano mosse ma, e soprattutto, di condurre una battaglia per ottenere il rispetto di diritti civili…
“È necessario chiarire un paio di aspetti. Il primo è il compito del giudice italiano, che in questo caso pensavo, in astratto, fosse relativamente semplice. Si trattava di dare esecuzione al giudicato della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo; in particolare a due sentenze, la n. 2/2014 e la n. 3/2015 Contrada conto Italia, che accertavano quest’ultima la violazione del principio di legalità di cui all’art. 7 della CEDU (su cui tornerò più oltre) e la prima la violazione dell’art.3 della CEDU per “trattamenti inumani e degradanti”. Il ‘pericoloso’ Predetto Bruno Contrada, infatti, è stato tenuto recluso (prima a S. Maria Capua Vetere e poi a Palermo, nel carcere militare riaperto esclusivamente per lui, senza consentirgli di trascorrere la custodia cautelare perlomeno agli arresti domiciliari, sebbene quella in carcere fosse una forma di detenzione incompatibile con i suoi problemi di salute, come attestato da diverse perizie. Peraltro la condanna dell’Italia per la violazione dell’art.3 non trova attuazione nella riparazione per ingiusta detenzione oggi definitivamente riconosciuta, perché da questa riparazione resta escluso non solo il periodo della fase cautelare, ma anche il risarcimento del danno morale, esistenziale e biologico. È ovvio che ci porremo in seguito il problema concernente il mantenimento della custodia cautelare in carcere malgrado i problemi di salute”.
Soddisfazione parziale, quindi?
“La cosa più importante è stata l’esecuzione integrale che ha avuto la sentenza n.3. Mi spiego meglio. L’Italia è stata condannata due volte dalla Corte Europea per la violazione di articoli inderogabili della Convenzione: ossia il divieto di trattamenti inumani e degradanti e il principio di legalità, cardini su cui si basano tutti i sistemi occidentali, ma forse non quello italiano. Secondo la sentenza n. 3/2015 della Corte Europea, il dottor Contrada non poteva essere processato e quindi nemmeno condannato. Ogni atto processuale compiuto contro di lui era illegittimo. E non ci venga raccontato, come sostenne il dottor Caselli, che quello convenzionale è un ‘diritto straniero’: evidentemente il dottor Caselli non ha particolare dimestichezza con il sistema convenzionale e neppure ricorda che la Convenzione europea appartiene all’ordinamento italiano, dal momento che è stata ratificata da un’apposita legge. Possiamo ritenere che il suo comportamento, e quello del suo ufficio, è stato illegittimo ai sensi della Convenzione dei Diritti dell’Uomo: questo lo scrive la sentenza della Corte Europea. La violazione del principio di legalità è una delle violazioni più gravi che esiste in uno Stato di diritto. Non è compito della Procura della Repubblica né del Giudice penale valutare i comportamenti eventualmente rilevanti sul piano disciplinare o su quello etico che avrebbe tenuto il dottor Contrada. Il compito del Giudice penale è esclusivamente quello di individuare condotte penalmente rilevanti, non di riscrivere la storia (e qui penso anche al cosiddetto ‘processo trattativa’). Questo è compito appunto degli storici, sperando che non siano di parte o politicamente orientati”.
Reazioni della stampa e dei media?
“Ancora una volta alcune testate non hanno dato la notizia e ci aspettiamo, da loro e da parte dei diversi sedicenti programmi informativi, la solita iniezione di veleno. Voglio ricordare che, nel tempo, proprio loro hanno continuamente depistato; faccio riferimento, ad esempio, alla presenza del dottor Contrada nel luogo della strage di via d’Amelio, presenza smentita dagli accertamenti giudiziari. Cui prodest? A chi è servito come capro espiatorio Contrada? Cosa è stato nascosto? Chi ha manovrato coloro che l’hanno posizionato in via d’Amelio? Per chi lavorano, visto che non lavorano sicuramente per la ricerca della verità? Che senso ha ricordare Falcone e Borsellino con manifestazioni che sembrano operazioni di merchandising e non operazioni che mirino alla ricerca storica della verità? Non basta il pregevole lavoro di lotta culturale all’illegalità della Fondazione Falcone quando poi si sembra poco interessati alla verità sulle stragi”.
Ritiene che sia convenuto a qualcuno l’arresto del dottor Contrada?
“Quando incontrai, per la prima volta, il dottor Contrada non ero esperto di questioni mafiologiche. Devo dire che gli anni del maxi processo presieduto da mio padre, che vissi indirettamente, mi avevano generato una sorta di repulsione. Accettai, quindi, il compito di far eseguire le sentenze della Corte Europea. In realtà pensavo si trattasse di un’operazione più semplice, ma ho avuto contezza che spesso i giudici non sono propensi ad eseguire il giudicato europeo. Di fatto è, o meglio avrebbe dovuto essere, molto semplice: se sei condannato vai in carcere e sei dichiarato innocente devi essere liberato. Si è confusa l’esecuzione del giudicato con una critica alla sentenza, che deve essere eseguita anche se non la si condivide. Devo dire che, inizialmente, avevo alcuni dubbi ma, nel tempo, dopo aver studiato le carte e approfondito la vicenda, posso ritenermi sicuro della innocenza del mio assistito. Il 24 dicembre 1992 il dottor Contrada fu arrestato sulla base di una richiesta della Procura della Repubblica. Primo elemento oggettivo è la data, la vigilia di Natale, giornata come minimo irrituale. Secondo elemento è il magistrato che era di turno quel giorno, il dottor Sergio La Commare che ha avuto l’impudicizia di copiare integralmente la richiesta di custodia cautelare, tanto che si legge ‘questo ufficio ha condotto le indagini’, facendo riferimento in realtà all’ufficio del pubblico ministero. Questo evidenzia la mancanza di terzietà del Gip”.
L’ordinanza, però, fu sopportata da accuse che furono mosse nei confronti di Contrada…
“Questo è l’ulteriore elemento critico, gli accusatori del dottor Contrada. Si trattava di mafiosi che Contrada aveva arrestato, a partire da Gaspare Mutolo e finendo a Buscetta, che Contrada aveva arrestato agli inizi degli anni ’70 con il capitano Basile. Senza dubbio Contrada aveva molti nemici tra i mafiosi e, probabilmente, anche tra i magistrati. Sicuramente la sua capacità investigativa, la sua profonda conoscenza del fenomeno e della fenomenologia mafiosa, il suo spregiudicato modus operandi l’hanno reso inviso a molti e averlo fuori dai giochi durante la fase investigativa sulle stragi, ha forse favorito le suggestioni che il dottor Caselli e il dottor Scarpinato hanno poi dispensato da quel momento e negli anni a venire, ossia che lo Stato era colluso con la mafia. Si badi bene, non che rappresentanti dello Stato fossero singolarmente collusi ma che lo Stato nel suo insieme fosse colluso; dimenticando, innanzitutto, la grande lezione di Falcone che sosteneva che non esisteva il ‘terzo livello’, quindi lo Stato colluso in toto. Questi i pilastri su cui si è retta l’operazione socio-politica della Procura di Palermo. Penso al processo Andreotti, a quello relativo alla mancata perquisizione del covo, che covo non era, di Totò Riina. In realtà abbiamo vissuto una stagione in cui i nostri migliori investigatori, e parlo di Contrada, Subranni, Mori e De Donno, sono stati processati e regolarmente assolti. Quanto tempo abbiamo perso? Chi ne ha tratto giovamento? Questo è il servizio che alcuni magistrati, fortunatamente oggi non più in ruolo, in nome di suggestioni e non prove, hanno reso allo Stato italiano e hanno punito quanti, invece, a testa bassa lavoravano per la ricerca della verità”.
17.2.2023 Contrada, accolta domanda riparazione ingiusta detenzione
Nel gennaio 2021 la Cassazione aveva annullato con rinvio l’ordinanza di risarcimento della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto all’ex 007 la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro. Dopo il no dei giudici di Appello, dunque, lo scorso 15 dicembre la questione è stata affrontata nuovamente dai giudici d’Appello, che hanno rivalutato il ricorso presentato dall’avvocato Giordano. Dopo la prima bocciatura, il legale aveva contestato violazione “per ben due volte il giudicato della Corte Europea, su cui il giudice interno non ha alcun margine di discrezione”. A dicembre ci furono dei momenti di tensione in aula, nel corso dell’udienza per la domanda di riparazione di ingiusta detenzione per Bruno Contrada. Al termine dell’intervento del sostituto procuratore generale Carlo Marzella, che aveva ripercorso i momenti salienti della sua vicenda giudiziaria leggendo stralci della sentenza, Bruno Contrada, si era alzato, non senza difficoltà in quanto affetto da grossi problemi di deambulazione, mostrando il suo certificato penale. E rivolgendosi direttamente al pg Marzella, Contrada aveva esclamato: “Ecco a lei il mio certificato penale: E’ nullo! io sono stato assolto. Io sono incensurato come risulta dal certificato. Ha capito? Lei mi accusa di cose non vere”. A quel punto era intervenuta la Presidente della corte Adriana Piras, che aveva detto: “Lei non si può mettere a tu per tu con il procuratore, lei può fare tutte le sue dichiarazioni, ma non le è consentito in maniera assoluta di mettersi in interlocuzione diretta con il procuratore generale”. E Contrada di rimando: ” Non posso ammettere che si dicano cose non vere”. Gli animi si erano poi calmati, Contrada, raggiunto dal figlio Guido – che è legale – si è riseduto e l’udienza è ripresa con l’intervento del legale di Contrada, Stefano Giordano. Oggi la decisione della Corte d’appello. ADNKRONOS
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per 15 anni “presunto innocente”
CONTRADA: L’”INFILTRATO” CHE SUSSURAVA ALLA MAFIA
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intervista a Bruno Contrada
CONTRADA DIFFAMATO DAL FILM DI FERRARA
OTTIENE UN RISARCIMENTO
SENTENZE
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COMMISSIONE ANTIMAFIA REGIONE SICILIA
I “servizi” di Bruno Contrada e quella chiamata il giorno dopo la strage Bruno Contrada afferma: «La mattina del 20 luglio ricevo una telefonata del dottor Sergio Costa, genero del capo della Polizia di allora, il Prefetto Vincenzo Parisi, ed era anche lui un commissario di pubblica sicurezza, aggregato al Sisde. Costa mi dice: “Don Vincenzo”, non disse il capo, non disse il prefetto Parisi, “Don Vincenzo desidera che lei prenda contatti con il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra, per la strage che è accaduta, per la strage Borsellino”».
Convitato di pietra in questa relazione e nella ricostruzione dei fatti di quella estate è il Sisde, il nostro servizio di intelligence interno (oggi si chiama Aisi). Al ruolo del Sisde nelle indagini su via D’Amelio abbiamo dedicato parti significative della nostra precedente relazione. Qui torniamo sul tema per spostare l’asse geografica della nostra indagine (dalla Sicilia a Roma) e per comprendere quali consapevolezze vi fossero – ai diversi livelli istituzionali – sull’accelerazione che Tinebra e Contrada imprimono alla pista Scarantino. E lo facciamo usando come nostra fonte il protagonista di quelle settimane: Bruno Contrada, a lungo audito da questa Commissione. Cominciamo a ricostruire ciò che accade la mattina successiva alla strage.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. La mattina del 20 luglio ricevo una telefonata del dottor Sergio Costa, genero del capo della Polizia di allora, il Prefetto Vincenzo Parisi, ed era anche lui un commissario di pubblica sicurezza, aggregato al Sisde. Costa mi dice: «Don Vincenzo», non disse il capo, non disse il prefetto Parisi, «Don Vincenzo desidera che lei prenda contatti con il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, dottor Giovanni Tinebra, per la strage che è accaduta, per la strage Borsellino», e io in quel momento seppi che il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta si chiamava Giovanni Tinebra, non lo sapevo…
- FAVA, presidente della Commissione. Non le disse se questa richiesta arrivava dal Procuratore o se era una richiesta del capo della Polizia?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Lui mi disse che era desiderio, volontà, del suocero (il capo della polizia Parisi, ndr.)… Credo che mi abbia accompagnato poi lo stesso dottor Costa che nell’occasione mi disse che lui conosceva bene il procuratore Tinebra da quando era Procuratore della Repubblica a Nicosia.
- FAVA, presidente della Commissione. Costa le disse anche perché conosceva Tinebra?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Sì. No, non mi disse perché lo conosceva.
- FAVA, presidente della Commissione. Chi partecipò all’incontro quella sera col dottor Tinebra?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io solo. Io solo.
- FAVA, presidente della Commissione. Non ci fu il dottor Costa? L’accompagnò e basta?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Mi ha accompagnato e mi ha aspettato fuori, ma all’incontro c’ero io soltanto e in quella occasione conobbi il dottor Tinebra, il quale mi disse: «mi trovo in grosse difficoltà, perché io di mafia, specialmente palermitana, sono completamente all’oscuro, sono a zero, non so niente… mi è stato detto dal suo capo della Polizia “che lei è uno dei funzionari più preparati in materia di mafia palermitana o della Sicilia occidentale… Può darci una mano in questa indagine?».
- FAVA, presidente della Commissione. Cosa rispose?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io gli dico: «signor Procuratore, io sono a disposizione per tutto quello che può essere utile, però tenga presente che io non posso svolgere indagini, perché non sono più ufficiale di polizia giudiziaria, sono un funzionario dei Servizi…». Fare indagini significava interrogare le persone, fare perquisizioni, ordinare pedinamenti, intercettazioni e tutta l’attività di polizia giudiziaria, interrogare testimoni, familiari delle vittime. «Tutta questa attività non la posso più svolgere, i nostri compiti sono a livello informativo e non più operativo, il nostro è un servizio di informazione», e questo era il primo punto; secondo punto: «io non ho più nessuna competenza, per quanto riguarda la Sicilia, perché il mio incarico è quello di coordinatore dei centri Sisde nella capitale e delle province del Lazio e quindi la mia sede di servizio è a Roma e lì è il mio ufficio»; terzo punto: «un mio eventuale intervento deve essere svolto in piena intesa, oltre naturalmente con l’autorità giudiziaria deputata a questa indagine, cioè con lei, anche con gli organi di polizia giudiziaria di Palermo»…
IL SISDE E LA PROCURA DI CALTANISSETTA
Tre riserve. Che – come sappiamo – vengono rapidamente superate. Il Sisde scende in pista nell’inchiesta su via D’Amelio accanto alla Procura di Caltanissetta. Anzi, per conto di quella Procura. Vediamo come.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Ecco perché poi ebbi contatti con il capo della squadra mobile di allora di Palermo, Arnaldo La Barbera, lo invitai a venire nell’ufficio del Sisde a Palermo, credo due o tre giorni dopo. Poi telefonai al generale Antonio Subranni, che era il comandante del Ros dei Carabinieri e che conoscevo benissimo, eravamo anche amici perché avevamo passato tanti anni di servizio insieme a Palermo… Lui mi disse che a Palermo della strage se ne occupava anche il Ros, nella persona del maggiore Obinu. Contattai Obinu e lo invitai anche a venire al centro del Sisde di Palermo per riferire qual era stato il mio colloquio con il Procuratore della Repubblica…
- FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, ma contattò anche i suoi superiori gerarchici, all’interno del Sisde, per far sapere di questa proposta e per essere autorizzato alla collaborazione?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Lo dissi pure al Procuratore della Repubblica, tra le varie obiezioni che avevo fatto, che avrei dovuto avere il beneplacito, il placet, dei miei superiori diretti. Erano tre: il direttore del Servizio, Prefetto Alessandro Voci; il vicedirettore operativo, Prefetto Fausto Gianni; il capo del terzo reparto da cui dipendeva il mio ufficio, dirigente generale della Polizia di Stato, Franco Di Biasi… Questo glielo dissi al Procuratore ed insistetti principalmente non con il prefetto Voci, il direttore generale del Sisde, ma con il suo vice con cui avevo maggiori rapporti, il prefetto Fausto Gianni, perché una volta avuto il beneplacito del direttore venisse a Palermo e parlasse anche lui con il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta.
- FAVA, presidente della Commissione. Le dissero i suoi superiori se di questa proposta di collaborazione era stato informato anche l’esecutivo, cioè il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’Interno?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Assolutamente no, non me lo dissero né si è parlato di questo argomento. L’unica cosa che il Prefetto Gianni non era molto entusiasta di venire giù a Palermo…
- FAVA, presidente della Commissione. Quando ci fu questo incontro con il Procuratore Tinebra?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Glielo dico subito, anche l’orario, perché ho la mia agenda… Il 24 luglio, ore 9.30, aeroporto Punta Raisi, arrivo Prefetto Gianni, dottor Sirleo, dottor Sergio Costa da Roma… Poi Caltanissetta, dal Procuratore della Repubblica Tinebra, presenti anche il dottor Antonio De Luca, il dottor Ruggeri, il dottor Narracci. Ruggeri è il capo centro (della Sicilia, ndr.), Narracci era il vice e De Luca era un vecchio funzionario della Squadra mobile ed era il capo centro di Catania. Venne anche lui.
- FAVA, presidente della Commissione. Sulla sua agenda, poi acquisita agli atti del processo che la vide imputato, c’è scritto “colloquio su indagini, stragi Falcone e Borsellino”.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Questo argomento di questo termine, ‘indagini’, è stato oggetto di una lunga disquisizione, come dire: «ma allora tu hai fatto indagini?». È un termine inappropriato parlando dell’attività informativa del servizio, dipende anche dalla mia deformazione professionale, ogni attività in questo campo per me è un’indagine.
- FAVA, presidente della Commissione. I suoi colleghi del Sisde. C’erano altri PM della Procura assieme al Procuratore Tinebra a quell’incontro?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Sì, ce n’erano perlomeno due, però non so indicare, uno sicuramente doveva essere il dottor Petralia, l’altro non lo so chi era… Invece poi nella colazione di lavoro lo stesso giorno, all’hotel San Michele… io pretesi che i miei vertici fossero presenti… Non volevo farla apparire come una mia, come dire…
- FAVA, presidente della Commissione. Una sua iniziativa.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Una cosa personale, non avendone nessun titolo…. Dissi al Procuratore della Repubblica: «noi in aderenza a quelli che sono i compiti del Servizio possiamo svolgere attività informativa. Io ritengo che allo stato sia opportuno attingere quante più notizie, informazioni sui gruppi di mafia che possono avere avuto una parte in queste azioni efferate di criminalità…».
- FAVA, presidente della Commissione. Mi scusi, dottor Contrada, ma questo tipo di attività anche informativa di ricostruzione del contesto mafioso e delle famiglie palermitane che potevano essere coinvolte nelle stragi non sarebbe stato più naturale che fosse una delega investigativa per la polizia giudiziaria? Per quale ragione il Procuratore di Caltanissetta doveva chiedere al Sisde un’attività che avrebbe potuto svolgere, forse con più strumenti, la polizia giudiziaria?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Non è stato il Procuratore della Repubblica che ha chiesto di svolgere questa attività informativa, è stata una mia idea che ho prospettato al Procuratore… Io non credo che avrei potuto dire al Procuratore di Caltanissetta, che in quel momento iniziava la sua opera per questi fatti così gravi, “per avere informazioni rivolgiti ad altri”! Non me la sentivo di dire, in quel momento, “sono affari che non mi riguardano”.
L’OPINIONE DI MARTELLI, MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
Paolo Emanuele Borsellino (Palermo, 19 gennaio 1940 – Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano. Assassinato da cosa nostra assieme a cinque agenti della sua scorta nella strage di via d’Amelio, è considerato uno dei personaggi più importanti e prestigiosi nella lotta contro la mafia in Italia, insieme al collega ed amico Giovanni Falcone. nella foto: omicidio di Paolo Borsellino Photo LaPresse Turin/Archives historical Hystory 19/07/1992 Palermo Paolo Borsellino in the photo: Paolo Borsellino
In realtà esistevano “altri” corpi di polizia giudiziaria, perfettamente attrezzati per esperienza e cultura investigativa, per indagare su Capaci e via D’Amelio. Certamente lo era la Direzione Investigativa Antimafia, di recentissima costituzione, che fu messa inopinatamente da parte dalla procura di Caltanissetta. E che invece avrebbe ben potuto svolgere il lavoro di raccolta d’informazioni e di profiling criminale che si intestò il Sisde. Com’è potuto accadere? Lo abbiamo chiesto all’allora ministro della Giustizia Martelli, all’allora ministro degli Esteri Scotti (ministro dell’Interno fino a qualche settimana prima) e al dottor Ingroia, stretto collaboratore di Paolo Borsellino.
- MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Beh, che sia stato possibile lo apprendo da lei adesso… Era stata già istituita la DIA e l’Agenzia aveva riunificato dentro di sé, in posizioni paritarie per evitare di suscitare gelosie, i reparti di intelligence dei carabinieri, della polizia di Stato, della guardia di finanza… e dunque semmai era alla DIA che il dottore Tinebra avrebbe dovuto rivolgersi per averne collaborazione… Da quel che io mi ricordo non abbiamo mai avuto notizia di simili iniziative, di un simile coinvolgimento contra legem di servizi di intelligence nelle indagini. Anche qui, se si guarda a quello che è successo dopo, e che non sorprende, siamo sempre in quella catena di omissioni, di responsabilità e forse di peggio che comincia con la mancata protezione di Borsellino.
- SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io sono stato contrario, nettamente, a tutte queste forme particolari di indagine e di investigazione, cioè devono esserci i corpi dello Stato e la DIA era stata pensata come un corpo dello Stato, non come un corpo di “emergenza”. C’è uno scritto di Falcone su questo, quando lui dice che ad ogni uccisione, strage o azione, viene subito riproposto di costituire un organismo ad hoc, lui dice che questa non è una cosa corretta e funzionale alla lotta alla mafia. Ne discutemmo con Falcone ed io aderii alla sua posizione: ho una diffidenza ed una ostilità a queste strutture speciali perché non consentono mai di avere chiarezza necessaria per controllare quello che si fa e a chi si risponde.
- FAVA, presidente della Commissione. Lei era Ministro degli Esteri il 19 luglio. Ci fu un momento in cui in Consiglio dei Ministri, vista la gravità e l’atrocità di quello che era accaduto, alcune scelte vennero discusse insieme? Penso, ad esempio, alla decisione di creare questo corpo speciale di investigazione: se ne parlò mai all’interno del Consiglio dei Ministri?
- SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io non ricordo se ci fu una discussione specifica in Consiglio dei Ministri, può darsi… Tra l’altro io ero a Bruxelles quella domenica sera perché lunedì mattina avevo una riunione con i Ministri degli Esteri. Fui raggiunto in ambasciata dalla troupe della Rai.. ed io dissi che quello era il segno che non potevamo più giocare nella lotta alla mafia: o c’era una strada o non c’era. Ebbi una telefonata cui mi si chiedeva di non interferire in quanto non più Ministro dell’Interno.
- FAVA, presidente della Commissione. Chi la chiamò?
- SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Il mio capo di Gabinetto, il quale era stato incaricato di dirmi questo.
- FAVA, presidente della Commissione. Era stato incaricato da chi?
- SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Non lo so.
- FAVA, presidente della Commissione. Non chiese al suo Capo di Gabinetto chi lo aveva sollecitato a farle quella telefonata?
- SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Misi il telefono giù.
- FAVA, presidente della Commissione. Ma qual è, secondo lei, la ragione di questa sollecitazione, cioè “fai il Ministro degli Esteri, non sei più Ministro dell’Interno”? Cos’è che preoccupava di ciò che lei aveva dichiarato?
- SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Io l’ho presa in termini buoni, cioè non volevano confusioni.
- FAVA, presidente della Commissione. Lei ebbe modo di confrontarsi col nuovo Ministro dell’Interno, Mancino, sulle scelte investigative?
- SCOTTI, già Ministro dell’Interno. Mai.
- FAVA, presidente della Commissione. Esistevano sul campo altre strutture investigative, diciamo, “normali” che avrebbero potuto lavorare al fianco della Procura di Caltanissetta su quelle indagini?
- ***
- INGROIA, già magistrato. Ovviamente. Innanzitutto, la DIA, la Direzione investigativa antimafia.
- FAVA, presidente della Commissione. Che invece venne esclusa.
- INGROIA, già magistrato. Venne esclusa da Caltanissetta. All’epoca il capo della DIA era Gianni De Gennaro che aveva un ruolo di stretta collaborazione in passato sia con Falcone, sia con Borsellino. E che poi, come vedremo nelle indagini successive, percepì alcuni temi che, evidentemente, a Tinebra non interessava coltivare, compreso quello della cosiddetta trattativa Stato-mafia. DOMANI 12.11.2021
Bruno Contrada, l’indagato per mafia che indaga sulle stragi
COMMISSIONE ANTIMAFIA ARS
Tinebra sa che su Contrada stanno indagando a Palermo, sa che Mutolo ha fatto il suo nome, lo sa ancor prima di incontrarlo per la prima volta. Eppure il procuratore di Caltanissetta non esita a dargli fiducia e ad appaltare al Sisde gli spunti investigativi più immediati. Il cui risultato, ricordiamolo, sarà proprio la relazione su Scarantino. La collaborazione tra il Sisde e la Procura di Caltanissetta ha vita breve. Alla vigilia del natale 1992 Bruno Contrada viene tratto in arresto ed accusato di concorso esterno in associazione mafiosa È l’epilogo di un’indagine dei magistrati di Palermo, costruita a partire dalle informazioni del pentito Mutolo.
Fino all’arresto, per mesi Contrada si trova a interpretare un duplice ruolo: punto di riferimento (lui e il Sisde) della Procura di Caltanissetta per le indagini sulle stragi di Capaci e via D’Amelio; a Palermo, indagato per reati di mafia dalla procura di Palermo. Possibile che Tinebra nulla abbia saputo dai colleghi di Palermo? Che abbia continuato ad affidarsi così ciecamente ad un funzionario che altri magistrati ritenevano corrotto? Lo abbiamo chiesto anzitutto allo stesso Contrada.
- FAVA, presidente della Commissione. Il dottor Tinebra sapeva che Mutolo stava parlando e avrebbe fatto anche il suo nome, dottor Contrada? Ebbe mai la sensazione che di questo il procuratore di Caltanissetta fosse stato informato dai colleghi palermitani?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io non solo non ho mai parlato con il dottor Tinebra di questa mia vicenda… né lui mi ha mai dato l’impressione che fosse al corrente di questo. Perché io sono sicuro che se il dottor Tinebra fosse stato messo al corrente dai suoi colleghi di Palermo delle investigazioni, delle indagini che venivano fatte sul mio conto, non avrebbe avuto più rapporti con me.
- FAVA, presidente della Commissione. Come è possibile che la Procura di Palermo non abbia avvertito Caltanissetta nel momento in cui c’era in corso un’indagine su di lei, sapendo che lei collaborava con il dottor Tinebra?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Può darsi che non lo sapesse neppure la magistratura di Palermo che io collaboravo.
- FAVA, Presidente della Commissione. Beh, insomma, avevate costruito una squadra di lavoro, c’erano stati più incontri a Caltanissetta, non era un lavoro del tutto sottotraccia, il vostro coinvolgimento non sarà sfuggito a molti.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. L’inchiesta giudiziaria sul mio conto in sostanza ha avuto un momento di evidenza solo il 7 dicembre del ’92 quando, su segnalazione della Procura della Repubblica di Palermo, il Ministro dell’interno richiede la cessazione del distacco al Sisde e il rientro nel dipartimento della Polizia di Stato.
IL RAPPORTO TRA CONTRADA, TINEBRA E LA BARBERA
In realtà Tinebra sa. Sa che su Contrada stanno indagando a Palermo, sa che Mutolo ha fatto il suo nome, lo sa ancor prima di incontrarlo per la prima volta. Eppure il procuratore di Caltanissetta non esita a dargli fiducia e ad appaltare al Sisde gli spunti investigativi più immediati. Il cui risultato, ricordiamolo, sarà proprio la relazione su Scarantino.
- INGROIA, già magistrato. Dissi a Tinebra che Borsellino ci aveva riferito le cose che Mutolo gli aveva detto fuori verbale sul conto di Contrada. Questo glielo dissi l’indomani, il 20 o il 21 luglio… Me lo ricordo ancora, me lo ricordo molto bene, Tinebra in quell’accaldato mese di luglio, informale, in maniche di camicia, con perfino le maniche arrotolate, che mi accolse e mi disse “eh, so che tu sei…”
- FAVA, presidente della Commissione. A Palermo?
- INGROIA, già magistrato. A Palermo. Mi disse: “So che sei uno dei più stretti collaboratori di Borsellino, avremo tempo per raccogliere a verbale le tue dichiarazioni, ma vorrei sapere intanto se ci puoi fornire elementi che possono essere utili per le prime indagini”. Mi colpì un po’ che un Procuratore della Repubblica…
- FAVA, presidente della Commissione. La modalità…
- INGROIA, già magistrato. Esatto! Che un Procuratore di Repubblica decidesse di sentirmi a braccio, però, vabbè, io avevo trent’anni, non è che mi impuntai col Procuratore di Caltanissetta… per cui raccontai subito quello che mi era stato raccontato da Teresa Principato e Ignazio De Franscisci, i due sostituti ai quali sabato 18 luglio Paolo aveva raccontato questo incontro con Mutolo. Incontro in cui Mutolo gli aveva parlato del dottor Signorino (sostituto alla Procura di Palermo, morto suicida) e del dottor Contrada, e che lui aveva capito che c’erano delle pesanti collusioni… Quindi, io dissi a Tinebra questa cosa. Tinebra prese atto, non ha mai verbalizzato, io la verbalizzai due anni dopo, quando mi sentirono Boccassini e Fausto Cardella ma intanto abbiamo scoperto che Tinebra dopo la mia dichiarazione aveva affidato proprio a Contrada, in qualche modo, un compito investigativo diretto. Poi, a distanza di tempo, abbiamo scoperto che quel gruppo investigativo che aveva costituito Contrada su richiesta di Tinebra, e che collaborava, tra virgolette, alle indagini, era quello che aveva fatto un’informativa che fu chiave per ricostruire il presunto peso mafioso di Scarrantino… Certo, Contrada sapeva, qualcuno gli avrà detto che aveva il fiato sul collo dalla Procura di Palermo.
- FAVA, presidente della Commissione. Com’è possibile che due Procure, a distanza di 70 chilometri, entrambe fortemente coinvolte sul piano personale, professionale e giudiziario su questa indagine, anche se la titolarità diretta riguardava Caltanissetta, potessero dare questa valutazione opposta su un dirigente del Sisde e soprattutto non comunicare tra loro? E l’Alto Commissariato non avrebbe dovuto avere una funzione di coordinamento? Insomma, come poteva accadere che Caltanissetta e Palermo si muovessero in direzioni opposte sulle stesse vicende e rispetto alle stesse persone?
- MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Presidente io attribuisco, come dire alla sua eccezionale buona fede questa domanda, ma la storia della magistratura inquirente, soprattutto degli ultimi trenta, forse potremmo anche allargarci negli ultimi cinquant’anni, è talmente piena di episodi analoghi, di contrasti, contraddizioni, reciproche smentite, quando non reciproche guerre tra magistrati che francamente… La gravità dell’episodio non è nel comportamento della magistratura, è nella vittima: è Borsellino.
- FAVA, presidente della Commissione. Lei dice che non possiamo stupirci.
- MARTELLI, già Ministro della Giustizia. No.
- FAVA, presidente della Commissione. Quando arrestano Scarantino, il 29 settembre del ’92, lei ebbe una interlocuzione con la Procura di Caltanissetta per commentare l’operazione?
- MARTELLI, già Ministro della Giustizia. Ma sì, nell’immediato ci fu soddisfazione come è naturale, insomma, se il Procuratore di Caltanissetta, che è stato appena nominato, in così breve tempo, arriva ad individuare il responsabile in una strage efferata ed è reo confesso, va bene.
- Resta nell’ombra, di quei sei mesi, il rapporto operativo fra Contrada e La Barbera, formalmente a capo del gruppo investigativo costituito ad hoc per le due stragi. E qui il ricordo offerto da Contrada in Commissione – su quella collaborazione e su La Barbera – si fa particolarmente puntuale. Anche su un punto controverso: la collaborazione – sotto copertura e retribuito – di La Barbera con i servizi segreti.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io sono stato dieci anni al Sisde, dal marzo del 1982 al dicembre del ’92, dieci anni. Ho ricoperto incarichi anche di un certo rilievo. Sono stato il coordinatore dei centri Sisde della Sicilia e della Sardegna, sono stato il coordinatore dei centri del Lazio, il Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario e così via. Non ho mai sentito dire, né mai qualcuno mi ha confidato, mi ha sussurrato, oppure ho capito io che il capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera sia stato un collaboratore del Sisde, un agente del Sisde. Di converso mi risulta, e questo lo posso testimoniare, che il Sisde e principalmente per volontà del suo direttore, veniva incontro ad esigenze economiche di funzionari di Polizia o che ricoprivano altri incarichi di notevole rilievo, Prefetti anche… Per il Prefetto di Palermo mi risulta personalmente.
- FAVA, presidente della Commissione. Il prefetto di Palermo di quale epoca?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Il prefetto di Palermo nel periodo della strage Borsellino, parlo del prefetto Mario Iovine.
- FAVA, Presidente della Commissione. E in che senso il Sisde aiutava economicamente il prefetto di Palermo?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Venivano destinate delle somme a chi era particolarmente impegnato in particolari settori, che non erano soltanto quelli della criminalità organizzata… dei contributi, non so come definirli, delle prebende, degli aiuti economici… del tipo come l’avevo io stesso. Quando veniva da Roma a Palermo l’Alto Commissario, prefetto De Francesco, mi portava una busta con un assegno della Banca nazionale del Lavoro di cinquecentomila lire, duecentocinquanta euro di oggi. Era un di più oltre il mio stipendio per l’incarico che ricoprivo di suo Capo di Gabinetto, ecco… E per La Barbera che alloggiava in albergo…
- FAVA, presidente della Commissione. Stiamo parlando del prefetto di Palermo. Perché il Sisde avrebbe dovuto dare, diciamo, degli emolumenti al prefetto Iovine? A che titolo?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …non so, c’è tutta la questione dei fondi neri del Sisde, no? Tutta l’indagine che è stata fatta a Roma, dove si è parlato anche di questi fondi che venivano erogati così, addirittura si parlava di una somma mensile per il Ministro dell’interno, per i suoi fondi, le sue spese riservate, diciamo.
- FAVA, presidente della Commissione. Ma che spese riservate avrebbe potuto avere il Prefetto di Palermo nell’estate del ’92? Questo non riusciamo a capire.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Dico spese riservate per il Ministro dell’interno, non per il Prefetto di Palermo. Era un contributo che il servizio dava tramite l’Ufficio, c’era proprio una segreteria particolare di fondi riservati… che non ne rende conto la Corte dei Conti, no?
- FAVA, presidente della Commissione. Sono fondi non registrati.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …sono stati dati dieci milioni ad un confidente, per esempio…
- FAVA, presidente della Commissione. Ma il Prefetto di Palermo, non avendo funzioni investigative o giudiziarie, non avendo bisogno di risorse in nero per pagare collaboratori o confidenti a che titolo doveva essere pagato?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Magari era particolarmente esposto, lontano dalla famiglia…
- FAVA, presidente della Commissione. E perché era il Sisdea pagare e non l’amministrazione dell’Interno?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …è che normalmente non portavano le famiglie…
- FAVA, presidente della Commissione. Ma quindi possiamo dire che il Prefetto di Palermo aveva un rapporto di collaborazione col Sisde?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Che collaborazione poteva dare al Sisde il Prefetto di Palermo?
- FAVA, presidente della Commissione. Se il Sisde lo pagava dobbiamo immaginare che ci fosse una contropartita.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Guardi, io mi sono convinto che anche questa storia di…
- FAVA, presidente della Commissione. …La Barbera?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …della retribuzione, chiamata retribuzione, ma non saprei…
- FAVA, presidente della Commissione. C’era anche un nome in codice assegnato a La Barbera: “Rutilius”.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Si davano questi nomi in codice come si davano ai confidenti, no? Per dare una spiegazione dell’erogazione di queste somme e quindi a lui si vede che gli avevano dato il nome “Rutilius”.
- FAVA, presidente della Commissione. Questo tipo, diciamo, di sostegno economico nel caso di La Barbera, nel caso di Iovine, da chi era gestito? Dal direttore del servizio? Era informata l’amministrazione dell’Interno? La Presidenza del Consiglio?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Ma si faceva per tante occasioni. Adesso, per esempio, io so perché avevo allora rapporti, il Sisde pagava lo stipendio al Segretario particolare del Prefetto di Palermo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, lui si era portato questo Segretario particolare che era un vecchio Maresciallo dei Carabinieri in pensione che veniva retribuito dal Centro Sisde di Palermo.
- FAVA, presidente della Commissione. Ma perché l’aiuto economico l’avrebbe dovuto dare il Sisde e non, per esempio, il Ministero dell’Interno o la Presidenza del Consiglio? A che titolo il Sisde aveva questa funzione di sostegno economico di fronte ad altre amministrazioni dello Stato che avevano più titolo per intervenire? La risposta è perché probabilmente c’era anche la possibilità di avere da queste persone delle informazioni.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. È il Sisde che deve dare le informazioni agli organi di Polizia, non è che la Polizia deve dare le informazioni al Sisde.
- FAVA, presidente della Commissione. E La Barbera?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io sono convinto che il dottor La Barbera, per un periodo di tempo, quando era Capo della Squadra Mobile di Palermo aveva un contributo, un aiuto economico mensile dal Sisde tramite l’intervento di un suo carissimo amico che è stato il suo, come dire, tutor…
- FAVA, presidente della Commissione. Il suo tutore, diciamo, istituzionale.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. …quello che era intervenuto per farlo mandare a Palermo come Capo della Squadra Mobile, il dottor Luigi De Sena, che era un alto funzionario del Sisde, era il capo dell’Uci, dell’Unione Centrale Informativa… Siccome al dottor La Barbera piaceva soggiornare in albergo, quindi, per venire incontro alle sue esigenze economiche gli faceva avere mensilmente il denaro.
L’IDEA DI CONTRADA SU SCARANTINO
Infine Scarantino. L’informativa del Sisde, abbiamo detto, è la pietra miliare su cui si costruisce ‘impianto del depistaggio. Ma che opinione aveva realmente Contrada di Scarantino?
- SCHILLACI, componente della Commissione. Ma non ebbe la sensazione che Scarantino fosse una persona, diciamo, che viveva di espedienti, non era una persona di spicco che avrebbe potuto organizzare la strage di via D’Amelio?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io ho fatto polizia giudiziaria per più di venti anni a Palermo, nella mia attività professionale ho conosciuto decine, centinaia di mafiosi. Ho studiato la mafia e gli uomini di mafia, la mentalità mafiosa, il comportamento, l’atteggiamento, il gergo della mafia… Io posso dire soltanto una cosa, che se avessi trattato io Vincenzo Scarantino, trattato nel senso di colloqui e d’indagini su di lui, dopo ventiquattro ore mi sarei accorto che era un cialtrone e che raccontava cose non vere.
- FAVA, presidente della Commissione. E come mai non se n’è accorto il dottor La Barbera che era uomo di grande esperienza anche in Sicilia?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Io non ho mai avuto a che fare con Scarantino, non l’ho mai visto, non ho mai fatto un minimo accenno d’indagini su di lui. L’unica cosa che son venuto a sapere è che questo Vincenzo Scarantino era un parente di un mafioso della zona sua…
- FAVA, presidente della Commissione. Dottor Contrada, proprio perché lei avrebbe avuto, conoscendolo, questa immediata impressione sulla pochezza criminale di Scarantino, le chiedevo come mai, secondo lei, un poliziotto di antica e collaudata esperienza come La Barbera dopo decine di colloqui investigativi e rapporti personali con Scarantino ha continuato fino alla fine a credere che fosse un attendibile efficace collaboratore di giustizia.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Signor Presidente, io non voglio apparire come quello che parla di persone che non possono più difendersi o contraddirmi… però è necessario che io le dica una cosa: che ci sono degli organismi di polizia giudiziaria, in primo piano quello di Palermo, ma poi anche quello di Catania, di Reggio Calabria e di Napoli, che non possono essere affidati a funzionari, anche dotati di buona cultura, di intelligenza, di acume, di perspicacia, ma che non hanno un’esperienza di anni e anni di lavoro, di conoscenza, di frequentazione con i criminali della ‘ndrangheta, della mafia, della camorra. A Firenze si può mandare a fare il capo della Squadra Mobile uno che non ha mai fatto Polizia giudiziaria a Firenze. A Palermo, no.
- FAVA, presidente della Commissione. Al dottor La Barbera hanno affidato la direzione del gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Quando io ho letto, negli anni successivi, i nomi dei 25 componenti del gruppo “Falcone-Borsellino”… Dico, ma questi qua che esperienza avevano? Non li avevo mai sentiti questi nomi. Come si fa ad affidare a loro un’indagine su un delitto come la strage di via D’Amelio dove vengono ucciso un Procuratore aggiunto e cinque agenti di polizia?
- FAVA, presidente della Commissione. Che risposta si è dato?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Il dottor La Barbera sarà stato un ottimo funzionario di Polizia, un ottimo investigatore, un ottimo poliziotto, ma ha fatto servizio sempre nel nord… è venuto a Palermo che non sapeva neppure dov’era di casa la mafia e forse ne sapeva di mafia meno di mia madre!
- FAVA, presidente della Commissione. Però, mi faccia dire, siamo di fronte alle due più clamorose stragi terroristico-mafiose che abbiamo conosciuto, Capaci e via D’Amelio, e ci troviamo con un Procuratore della Repubblica a Caltanissetta che dichiara candidamente “io non capisco nulla di mafia”, con un gruppo di investigazione affidato ad un funzionario che lei mi dice di mafia ne capisce meno di sua madre… È soltanto un problema di superficialità o c’è altro?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Ma secondo lei io non ho pensato questo? Anche se non l’ho mai detto a nessuno e non vorrei dirlo, anche perché il dottor Giovanni Tinebra, purtroppo, non c’è più… però io uscendo da quell’incontro con lui dissi: «ma come fa questo qua a condurre un’inchiesta giudiziaria su fatti di questo genere?» Qua c’era un’impreparazione generale e ci metto anche il Sisde dove io facevo servizio perché tranne la mia modestissima persona e qualche vecchio sottoufficiale, i miei superiori non conoscevano la Sicilia neppure per motivi turistici.
- FAVA, presidente della Commissione. Allora, dottor Contrada, può darsi che non ci fosse soltanto ingenuità… Voglio dire: strumenti investigativi, professionalità, capacità, competenza esistevano a Palermo, la polizia giudiziaria aveva affrontato e risolto indagini molto complesse. Quando si decide di estromettere di fatto tutta l’esperienza investigativa siciliana per affidarsi ad un gruppo costruito sulla carta, affidato ad un funzionario che – almeno per ciò che dice lei – non ne capisce nulla di mafia, c’è anche il sospetto che forse non si voleva davvero un’investigazione professionale su quello che aveva determinato la strage di via D’Amelio. E forse il depistaggio e i 17 anni senza verità ne sono anche una conferma.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Non è soltanto questo. Poi ci sta l’ambizione esasperata, perché l’ambizione di carriera è umana, di volere andare avanti nella carriera. Anch’io non volevo rimanere sempre Commissario, volevo diventare Commissario Capo e poi Vicequestore aggiunto e poi primo dirigente… ma non in maniera esasperata passando su tutto e su tutti, “vestendo i pupi”, come nel gergo si dice, cioè sostenendo delle tesi che sono manifestamente infondate, assurde, piste investigative impercorribili perché manifestamente non conducenti, e tutto solo per la bramosia della carriera, di avere un grado in più insomma.
SOLO UNA VENDETTA DI MAFIA?
Bramosie di carriere, suggerisce Bruno Contrada. Forse. Ma probabilmente non solo questo. Il ruolo giocato dal Sisde in quell’estate del ‘92, assieme ad altri protagonisti e comprimari, qualunque sia stata la molla iniziale, determina un arretramento traumatico della soglia della verità giudiziaria e processuale. Per diciassette anni quel depistaggio – voluto, protetto, subito da molti corpi dello Stato – blinda la strage di via D’Amelio dentro una formula assolutoria: fu solo una vendetta mafiosa.
Il contesto, suggeriva il procuratore generale Scarpinato, come abbiamo scritto nelle prime pagine di questa relazione. E in quel contesto è difficile immaginare per i servizi d’intelligence che forzature e reticenze, fondi neri e agenti coperti, siano stati solo il prodotto d’un legittimo desiderio di carriera.
C’era altro, dice Scarpinato: anzi, c’è altro.
- SCARPINATO, Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo. Quando parliamo di Servizi, secondo me dobbiamo avere la mente a quello che hanno fatto i Servizi fino alla caduta del muro di Berlino. C’è stata una parte dei servizi che ha avuto una fedeltà atlantica superiore alla Costituzione e che obbediva più a interessi esterni, sull’altare dell’anticomunismo, con la necessità, quindi, per questa finalità di fare anche operazioni sigillate e coperte che prevedevano omicidi e stragi… Stiamo parlando di apparati dello Stato che si sono mossi nell’ambito di interessi, non solo nazionali ma internazionali. È questo il punto.
Quanto cade il Muro di Berlino, tutte le protezioni che avevano garantito sino ad allora questi personaggi, improvvisamente vengono meno… Non c’era solo l’esigenza di coprire un funzionario corrotto, si trattava di coprire settori dei Servizi che avevano fatto una guerra sporca, perché questo era accaduto, e che non ci stavano a essere sacrificati perché erano cambiati gli equilibri internazionali. Quali siano state le tappe di questa “guerra sporca” va oltre le intenzioni di questa relazione e ci porterebbe fuori tema. Ma forse è tempo che su questo tema si apra una riflessione che non può essere confinata solo nelle aule parlamentari né delegata alle iniziative della magistratura. In fondo, attraverso quelle tappe e quella guerra sporca passa l’anima profonda della nostra storia repubblicana.
Quell’informativa su un picciotto qualunque con parentele molto “pericolose”
La legge all’epoca vigente così come l’attuale era chiara nel vietare qualunque rapporto diretto fra servizi segreti e magistratura inquirente. Eppure, dopo la strage di via D’Amelio a Caltanissetta quel divieto si aggira sfacciatamente
Torniamo al dottor Contrada. E alle indagini del Sisde su procura di Tinebra.
- FAVA, presidente della Commissione. Poi che accadde dopo gli incontri con Tinebra?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Misi al corrente il dottor Arnaldo La Barbera.
- FAVA, presidente della Commissione. Era presente anche il dottor La Barbera a quell’incontro?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. No, non c’era. La Barbera non aveva ancora costituito il gruppo investigativo “Falcone e Borsellino”, era solo il capo della Squadra mobile di Palermo. Io avevo detto al dottor Tinebra che avrei informato di questa nostra attività i due organi di Polizia giudiziaria, la PS e i Carabinieri, cioè il dottor La Barbera e il maggiore Obinu per l’Arma dei Carabinieri.
- FAVA, presidente della Commissione. E quando parlò con La Barbera di questa ipotesi di vostra collaborazione?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Qualche giorno dopo. Una volta costituito il mio gruppo di lavoro… perché per fare questa attività informativa dovevo costituire un gruppo di lavoro. Da tenere presente che il Sisde si occupava quasi esclusivamente di terrorismo politico, Brigate rosse… tranne qualche ufficiale dei Carabinieri non c’era alcun funzionario di grande esperienza di lotta alla mafia…
- FAVA, presidente della Commissione. Nel Sisde non c’era. Quindi come fa ad organizzare questo gruppo di lavoro? Con chi lo organizza?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Scegliendo due o tre elementi del Centro Sisde di Palermo e poi siccome occorreva qualcuno che avesse conoscenza delle famiglie di mafia che si ha sul campo o sulle carte, sulle carte c’era un ottimo funzionario di Polizia, Carmelo Emanuele, che era il responsabile dirigente dell’ufficio “misure di prevenzione”.
- FAVA, presidente della Commissione. Quindi non era aggregato al Sisde?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. No, lui era sempre dipendente come funzionario di Pubblica sicurezza della Questura di Palermo, però faceva servizio al Gabinetto dell’Alto commissario.
- FAVA, presidente della Commissione. Diciamo quindi questo gruppo di lavoro che si costituisce attorno a lei non è formato solo da funzionari del Sisde, ma anche personale di Polizia giudiziaria in qualche modo aggregato.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Ha sede all’ufficio del centro Sisde di Palermo. D’accordo col colonnello Ruggeri, che non volevo esautorare, si costituisce questo gruppo, con alcuni dipendenti del Centro Sisde di Palermo, con la supervisione del capo centro e del vice che era Lorenzo Narracci. In più ritengo di far venire due funzionari del servizio, uno che faceva servizio a Padova e un altro a Firenze, quello di Padova era il dottor Paolo Splendore, anche lui ufficiale di complemento dei Carabinieri che aveva lavorato con me nell’ufficio dell’Alto commissario, e un altro di Firenze, Carlo Colmone, che era un consigliere di Prefettura passato al Sisde.
- FAVA, presidente della Commissione. Ci può raccontare come si definisce il vostro accordo di lavoro col dottor La Barbera quando vi incontrate?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Fu l’unico incontro che ho avuto col dottor La Barbera. Se altri hanno avuto incontri con lui io non lo so e non ne sono stato messo al corrente, né io ho cercato di avere incontri con lui dopo questo giorno. Quindi quello fu l’unico incontro da cui io capii che questo mio intervento, in un settore che lui riteneva di sua esclusiva competenza di polizia giudiziaria, non gli andasse troppo per il verso giusto.
- FAVA, presidente della Commissione. Quanti altri incontri ci furono col dottor Tinebra in quelle settimane, in quei mesi?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Tre. La prima il 20 luglio al Palazzo di Giustizia di Palermo, la seconda il 24 luglio all’hotel San Michele…
- FAVA, presidente della Commissione. Ce n’è stata un’altra, molti mesi dopo.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Il 19 ottobre. A Caltanissetta, con Ruggeri, per questioni di indagini.
- FAVA, presidente della Commissione. Chi c’era a questo terzo incontro? Dei magistrati dico.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Tinebra, Petralia… i sostituti credo che fossero più di due perché a tavola eravamo per lo meno una quindicina di persone.
IL DIVIETO PREVISTO DALLA LEGGE
La legge all’epoca vigente (la n. 801 del 24 ottobre 1977), così come l’attuale (la n. 124 del 3 agosto 2007), era estremamente chiara nel vietare qualunque rapporto diretto fra servizi segreti e magistratura inquirente. Eppure dopo la strage di via D’Amelio, come abbiamo avuto modo di approfondire dettagliatamente nella nostra prima relazione, a Caltanissetta quel divieto si aggira sfacciatamente.
Avremmo voluto chiedere al professor Giuliano Amato, all’epoca Presidente del Consiglio, e dunque l’autorità a cui rispondevano funzionalmente i nostri servizi di intelligence, se ebbe mai sentore di questa collaborazione così impropria. Il professor Amato ha ritenuto di declinare l’invito di questa Commissione.
«Caro Presidente Fava, nell’esprimerle il mio apprezzamento per il lavoro che sta svolgendo con la Sua Commissione allo scopo di approfondire ed estendere le nostre conoscenze sulla strage di via d’Amelio, desidero anche ringraziarla per aver pensato a me come persona utile a un tale lavoro. Temo tuttavia di non essere in grado di corrispondere alla Sua aspettativa. Del contesto politico istituzionale di quei mesi ho detto tutto quello che ero in grado di dire nelle testimonianze che ho reso nel processo di primo grado a Palermo sulla c.d. trattativa Stato-mafia, interrogato prima dal Pubblico Ministero Dr. Ingroia, poi dal Pubblico Ministero Dr. Di Matteo. Quanto alla catena delle comunicazioni e delle decisioni istituzionali riguardanti il Sisde, so quanto conseguiva dall’allora vigente legge n. 801, che poneva il Presidente del Consiglio in rapporto costante con il Segretario Generale del Cesis, allora l’ambasciatore Fulci. Nel clima di rafforzato impegno contro la mafia prodotto dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio, del Sisde ci occupammo per portare alla sua direzione, nell’agosto 1992, il prefetto Angelo Finocchiaro, che era stato l’ultimo Commissario antimafia. Non essendo in grado di fornire altri elementi utili oltre a quelli qui menzionati e citati, non ravviso le condizioni per accogliere il Suo invito».
E il CoPaCo? Se ne accorse l’allora comitato di controllo parlamentare sui servizi segreti? Lo abbiamo chiesto al professor Brutti, che del Comitato è stato presidente dal settembre 1994 al maggio 1996.
- BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. Il ruolo svolto dal Sisde nelle indagini sulla strage di Via D’Amelio non c’era noto. Tra l’altro i poteri del Comitato Parlamentare di allora erano abbastanza ristretti… Divenuto presidente del Comitato, abbiamo individuato per lo meno due rilevanti tipologie di comportamenti che io reputavo e reputo illegittimo. In primo luogo, una certa tendenza del Sisde ad avere delle persone di fiducia che riferiscono alla linea di comando del Sisde pur lavorando dentro altre amministrazioni, e questa era una cosa singolare, rivendicata dall’allora capo del Sisde Malpica che dice: «come direttore del servizio avevo necessità di essere informato su tutto ed avere centinaia di occhi, visto che i miei non erano sufficienti, avevo quindi la necessità di avere delle persone che potessero, all’occorrenza, consentirmi di contattare altre persone che io non avevo materiale possibilità di annoverare tra i miei amici». Questo concetto di “amici” è singolare perché si tratta in realtà di collaboratori o dipendenti dei Servizi… Il dipendente di una Pubblica Amministrazione si può spostare presso il Servizio informazione e sicurezza, ma il fatto che egli diventi collaboratore o fonte del Servizio…
- FAVA, presidente della Commissione. …come era accaduto con La Barbera.
- BRUTTI, già presidente del Comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti. Ecco, volevo arrivare a questo: ha dei profili di illegittimità, tanto più se viene retribuito.
IL SISDE E IL PUPO SCARANTINO
Torniamo al Sisde. Il frutto avvelenato di quella collaborazione è il profiling criminale di Scarantino, il primo tassello per accreditare i suoi quarti di nobiltà mafiosa e dunque la bontà delle sue rivelazioni. Quel rapporto è il primo passo concreto per avviare il depistaggio su via D’Amelio.
- FAVA, presidente della Commissione. Una delle tre note che furono oggetto di questa collaborazione, e che fu mandata a Tinebra il 10 ottobre del 1992, riguarda il profilo criminale di Scarantino. Questo profiling di Scarantino è una vostra iniziativa? È una richiesta che vi arrivò da Tinebra? Come viene fuori?
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Fu una richiesta addirittura scritta della Procura della Repubblica di Caltanissetta. Loro volevano avere tutte le notizie possibili sugli agganci, sui rapporti, sulle relazioni di tale Scarantino Vincenzo che allora non era ancora un pentito, era un indiziato, sotto le investigazioni di La Barbera e dei componenti del suo staff… Il capocentro, il colonnello Ruggeri, chiese alla direzione come doveva comportarsi. Ecco perché questa passeggiata a Caltanissetta del 19 ottobre in cui vado con il colonnello Ruggeri per parlare con il Procuratore della Repubblica e dissi ancora una volta che noi non potevamo avere questi rapporti diretti, sia pure epistolari, li avremmo potuti avere tramite la Polizia giudiziaria, difatti ci sta uno dei miei viaggi a Caltanissetta dove, dopo aver parlato con il Procuratore Tinebra, io vado in Questura a parlare con il Questore, che era il dottore Vasquez… Che poi su questo Scarantino c’erano due cose da riferire: una che era parente di un mafioso, che era Profeta. E poi un lontanissimo, ma quasi inesistente, labilissimo rapporto di parentela acquisito con i Madonia…
- Raccontata così, quello del Sisde sembrerebbe un contributo davvero marginale: Scarantino è parente di un mafioso (Profeta) e lontanamente legato ai Madonia. Punto. Eppure, è proprio a partire da questa scheda che la caratura criminale di Scarantino e la sua attendibilità come testimone diretto della strage crescono rapidamente: nonostante ancora oggi il dottor Contrada cerchi di minimizzare quel contributo.
- FAVA, presidente della Commissione. Sul contributo del Sisde, leggo dalla sentenza di primo grado del processo che la riguarda, ci sono due letture differenti. Dice la sentenza “L’imputato – in questo caso lei – ha tentato di evidenziare l’importanza, se non addirittura la decisività, del suo contributo offerto all’autorità giudiziaria per quelle indagini”. Versione seccamente smentita dal dottor La Barbera che ha parlato di un “mero scambio di opinioni”.
- CONTRADA, già dirigente della Polizia di Stato e del Sisde. Quando La Barbera dice che non ho dato nessun contributo essenziale per le indagini, dice la verità. Io nella mia qualità, nella mia posizione, che contributo potevo dare se non potevo fare indagini? Il contributo lo può dare chi può fare indagini, non chi non le può fare. Commissione Antimafia Regione Sicilia DOMANI 13.11.2021
9.6.2021 Contrada,Scarantino un cialtrone si capiva subito “Ho studiato la mafia, gli uomini di mafia e la loro mentalità, ho cercato di documentarmi. Se io avessi trattato Vincenzo Scarantino dopo 24 ore mi sarei accorto che era un cialtrone e che raccontava cose false. E questo non perchè io sia più bravo di altri, ma per la mia conoscenza di quegli argomenti. Io però non ho mai indagato su di lui, sono solo venuto a sapere che, quando non era pentito, era parente di un mafioso”. Lo ha detto Bruno Contrada, ex numero due del Sisde intervenendo davanti all’Antimafia regionale che indaga sui depistaggi delle indagini sulla strage di Via d’Amelio. Alla domanda del presidente della commissione Claudio Fava sul perchè l’allora capo della Mobile di Palermo La Barbera non abbia capito che Scarantino, poi rivelatosi un falso collaboratore di giustizia, stesse mentendo, Contrada ha risposto: “Ci sono organismi di polizia giudiziaria che non possono essere affidati, specie in luoghi come Palermo, a funzionari pur dotati di acume ma privi di esperienza di anni di lavoro e ‘frequentazione’ con la criminalità organizzata”. “Quando lessi anni dopo – ha proseguito – i nomi dei componenti del gruppo investigativo che indagava sulle stragi del ’92, mi chiesi: ‘ma questi che esperienza hanno?'” “Come si fa ad affidare una inchiesta come quella su Via d’Amelio a persone così? – ha spiegato – La Barbera sarà stato un ottimo poliziotto, ma ha fatto servizio al nord. Quando è arrivato a Palermo nemmeno sapeva cosa fosse la mafia”. (ANSA 9.6.2021).
Ingiusta detenzione di Contrada, la Cassazione annulla la sentenza di risarcimento Il risarcimento per ingiusta detenzione era stato disposto dalla Corte d’appello di Palermo alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che aveva riconosciuto la ineseguibilità della sua condanna a 10 anni La quarta sezione penale della Cassazione ha annullato con rinvio l’ordinanza della Corte d’appello di Palermo che aveva riconosciuto a Bruno Contrada la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667mila euro. La decisione della Corte è giunta oggi dopo una camera di consiglio svolta ieri, in cui sono stati esaminati i ricorsi della procura generale di Palermo e dell’Avvocatura dello Stato (per conto del ministero dell’Economia) contro la pronuncia dei giudici palermitani depositata lo scorso aprile. La Corte d’appello di Palermo, dopo che saranno depositate le motivazioni della sentenza della Cassazione, dovrà quindi riesaminare la questione. Il risarcimento per ingiusta detenzione era stato disposto dalla Corte d’appello di Palermo a Contrada alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che aveva riconosciuto la ineseguibilita’ della sua condanna a 10 anni per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, che all’epoca dei fatti non era sufficientemente definito con chiarezza dalla giurisprudenza. “Aspettiamo di leggere le motivazioni per un esame più approfondito, ma è evidente fin d’ora che la corte di legittimità non ha dato esecuzione alla sentenza di Strasburgo, secondo cui il dottor Contrada non andava nè processato, nè condannato. Ora la palla passa nuovamente alla Corte d’Appello palermitana. Ma comunque andrà a finire la vicenda, è probabile che il mio assistito non vedrà mai un centesimo di quanto gli spetta, considerate la sua età e le sue condizioni di salute e la lunghezza dei tempi processuali”, afferma il legale di Bruno Contrada, l’avvocato Stefano Giordano. I giudici della Suprema Corte hanno accolto il ricorso firmato dal procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato e dai sostituti Carlo Marzella e Umberto De Giglio, che avevano sostenuto come a Contrada, ex dirigente del Sisde, non spettasse il risarcimento perchè il carcere non sarebbe stato “ingiusto”. L’ex poliziotto, oggi quasi novantenne, era stato condannato e aveva scontato 10 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte europea dei diritti dell’uomo aveva però riconosciuto la ineseguibilità della condanna perchè il reato, quando lui lo aveva commesso, non era sufficientemente definito. La Cassazione prima e la Corte d’Appello di Palermo dopo avevano recepito il principio, dichiarando la condanna appunto non eseguibile, anche se già era stata scontata. Per tale ragione un’altra sezione della Corte d’Appello aveva disposto il risarcimento, poi impugnato dal Pg di Palermo, che aveva sostenuto come la pena fosse stata espiata in base a una sentenza in quel momento pienamente legittima.LA REPUBBLICA 21.1.2021
Quella di Bruno Contrada è una storia emblematica. Soprattutto dello stato comatoso in cui si trova la Giustizia in Italia. Per processarlo e condannarlo sono occorsi 15 anni. Innocente o colpevole che sia quello che gli è stato riservato è un trattamento indegno di un Paese che si vuole civile. Anche perché la sua lunga vicenda giudiziaria è stata contrassegnata da un’ambiguità di fondo: la straordinaria credibilità attribuita allo stuolo di “pentiti” che lo accusava, moltissimi dei quali già ritenuti inattendibili in altre sentenze. E poi l’assoluta mancanza di riscontri oggettivi. Un processo, quello a Contrada, che riporta alla mente un altro processo, del tutto diverso, quello che ha condannato Sofri, Pietrostefani e Bompressi per l’omicidio del commissario Calabresi: i “pentiti” usati come oracoli. I fatti? Di nessun rilievo. Ma la storia di Bruno Contrada è una storia diversa. E’ la storia di un “servitore dello Stato” seppellito dall’accusa infamante di essere un uomo contiguo alle cosche mafiose. Con un’anomalia che deve far riflettere. E solo un caso che Contrada fosse tra i pochi poliziotti fuori dai giochi politici di quelli che Leonardo Sciascia chiamava i “professionisti dell’antimafia”?
Bruno Contrada viene arrestato il giorno dell’antivigilia di Natale del 1992, l’anno delle stragi in cui hanno perso la vita, con le loro scorte, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ad accusarlo diversi “pentiti” di mafia. Lo fanno quasi sempre de relato, cioè avendo appreso l’oggetto alla base delle accuse da qualcun altro. Il fatto che abbiano quasi tutti lo stesso legale dovrebbe impensierire investigatore e magistrati. E invece nulla accade.
Della vicenda giudiziaria di Bruno Contrada potete leggere qui sotto. Così come del fondamento o meno delle accuse che lo hanno portato a subire una condanna a dieci anni. Resta il fatto che il caso Contrada è tutt’altro che ammantato di certezze e limpidezza. E questo ci sembra incontestabile. MISTERI D’ITALIA
21 maggio 2020 Mafia, il giornalista Saverio Lodato accusa Bruno Contrada: “Falcone mi fece il suo nome” L’ex dirigente del Sisde Bruno Contrada Bagarre in diretta a La7, dove il cronista rivela particolari inediti sulle “menti raffinatissime” coinvolte nel fallito attentato dell’Addaura (1989) contro il giudice, ucciso tre anni dopo nella Strage di Capaci Bagarre in diretta ieri sera su La7 nel corso del programma Atlantide condotto da Andrea Purgatori, dedicato alla Strage di Capaci (23 maggio 1992) della quale sabato ricorre l’anniversario. Purgatori dapprima intervista Alfredo Morvillo, magistrato e cognato di Giovanni Falcone, sul fallito attentato all’Addaura avvenuto il 21 giugno 1989 nei pressi della villa che il giudice aveva affittato per il periodo estivo.”Falcone mi parlò esplicitamente di menti raffinatissime – spiega Morvillo -. Un attentato organizzato da qualche uomo delle istituzioni che ha tradito. Nessuno poteva sapere che sarebbe andato a fare il bagno sugli scogli. Qualcuno ha tradito Giovanni”.
Ma il colpo di scena avviene quando a parlare è il giornalista Saverio Lodato, un passato nel quotidiano L’Ora e oltre 30 anni a L’Unità come corrispondente da Palermo. Lodato, infatti, rivela un particolare inedito e punta il dito contro Bruno Contrada, ex dirigente del Sisde (accusato di concorso esterno in associazione mafiosa e condannato in Cassazione a 10 anni di carcere), indicato come il sospetto “traditore” tra le forze dello Stato: “Chiesi a Falcone chi fossero le ‘menti raffinatissime’ che avevano guidato la mafia e a cui lui aveva fatto riferimento dopo il fallito attentato dell’Addaura – raconta il cronista -. Fui molto insistente. Il nome era quello del dottor Bruno Contrada. Ma mi diffidò dallo scriverlo pena più nessun rapporto”.
Mafia, il giornalista Saverio Lodato: ”Giovanni Falcone mi fece il nome di Bruno Contrada” Le accuse di Lodato scatenano le proteste dell’avvocato di Contrada Stefano Giordano, che telefona in diretta e pretende scuse formali: “Il mio cliente è incensurato, si deve chiedere scusa al mio assistito”. Giordano, sostenendo l’innocenza del suo assistito, ricorda anche il provvedimento della Corte Europea. Nel 2015 infatti la Corte europea dei Diritti dell’uomo aveva emesso una sentenza secondo cui Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Con ordinanza depositata il 6 aprile 2020, la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato a favore dell’ex 007 Bruno Contrada la somma di 667mila euro a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione patita nel procedimento penale. DI SALVO PALAZZOLO Lodato, in chiusura di puntata, replica al legale ribadendo che “quando Giovanni Falcone mi disse quelle cose era il 1989. Bruno Contrada non era neanche sotto inchiesta per mafia. Non era arrivata a sentenza definitiva di Cassazione la sentenza di sua colpevolezza. Non c’era neanche la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che recepisce le indicazione della Corte Europea. Io prendo atto di quello che dice l’avvocato Giordano. Afferma che il suo cliente è innocente, ma devo dirgli che il giudizio di Giovanni Falcone nei confronti di Bruno Contrada non era lusinghiero. Tutt’altro. Questo mi ricorreva l’obbligo di dire e confermare”.
L’incredibile vicenda giudiziaria di Bruno Contrada, l’uomo dei servizi segreti che favoriva Cosa Nostra All’interno di questa rubrica abbiamo più volte fatto riferimento alla figura di Bruno Contrada, l’ex numero tre del SISDE (servizio segreto per le informazioni e la sicurezza democratica). E’ arrivato il momento di analizzare, in maniera chiara, la complessa vicenda giudiziaria di cui è stato protagonista, che rappresenta un vero e proprio unicum nella storia italiana. Arrestato il 24 Dicembre 1992, Bruno Contrada venne condannato dal Tribunale di Palermo a 10 anni di reclusione e a 3 di libertà vigilata per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte d’Appello di Palermo, nel 2001, ribaltò il verdetto dei giudici di primo grado e assolse l’imputato. Un anno dopo, la Cassazione decise di annullare la sentenza di assoluzione e dunque di riaprire il caso: venne disposto un nuovo giudizio (il processo d’appello-bis) davanti alla Corte d’Assise di Palermo che, come sarà poi confermato in Cassazione, infliggerà una condanna a 10 anni di reclusione a Contrada per concorso esterno. Ma in cosa consiste la forma del concorso esterno in associazione mafiosa? Stando al dettato della sentenza n. 16 della Cassazione del 5 ottobre 1994, “è configurabile il concorso esterno nel reato di associazione mafiosa per quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano – sia pure mediante un solo intervento – un contributo all’ente delittuoso tale da consentire all’associazione di mantenersi in vita, anche limitatamente ad un determinato settore, onde poter perseguire i propri scopi”. Secondo gli organi di giustizia italiana, Contrada fu responsabile di una serie di specifici favori a importanti boss, con molti dei quali intratteneva rapporti privilegiati, e di gravi fatti di costante supporto a Cosa Nostra, avendo tra l’altro fornito ai suoi membri una serie di informazioni riservate riguardo ad indagini ed operazioni di polizia in cui essi stessi erano implicati. Un caso chiuso, si direbbe. E invece no. Nel 2015, con una (discutibilissima) sentenza, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato lo Stato Italiano a risarcire Bruno Contrada per i danni morali e le spese processuali da lui sostenute poiché, secondo i giudici europei, egli non poteva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, dal momento che, all’epoca dei fatti, il reato non era “codificato”: essendo infatti nella interpretazione della Corte il concorso esterno un reato di creazione giurisprudenziale, anziché, come inteso dal giudice italiano, il frutto del combinato disposto degli artt. 10 e 416 bis cp, all’epoca dei fatti esso non sarebbe ancora stato contemplato dall’ordinamento giuridico (questa pronuncia porterà la Cassazione italiana a dichiarare “ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza di condanna”). Eppure, come abbiamo ricordato in precedenza e come anche confermano illustri giuristi come Gian Carlo Caselli e Guido Lo Forte ne La verità sul processo Andreotti, “Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa altro non è che il risultato della previsione congiunta degli articoli 110 e 416 bis del codice penale. Quindi non un reato inventato dalla giurisprudenza (cosa che sarebbe affatto impossibile per l’ordinamento italiano), ma un reato come tutti gli altri, scritto nel codice penale. Peccato che questa chiarezza sia mancata alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel trattare la vicenda Contrada”. Secondo i due giudici, infatti, “Il formalismo astratto produce giustizia da laboratorio, avulsa dal mondo concreto della mafia. Una corazzata contro cui non si può essere costretti a lottare con una misera fionda. A meno che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non voglia richiamarsi al don Ferrante manzoniano: che negava la peste mentre ne stava morendo…”. Occorre però ribadire un elemento di estrema importanza: la pronuncia della CEDU non ha in alcun modo intaccato l’accertamento dei fatti gravissimi che avevano portato Contrada alla condanna in via definitiva, tra i quali la concessione della patente ai boss Stefano Bontate e Giuseppe Greco, l’avere agevolato la latitanza di Totò Riina e la fuga di Salvatore Inzerillo o la rivelazione di segreti di indagine ai mafiosi in cambio di regali e favori. Stiamo parlando dello stesso Bruno Contrada dei cui legami con Cosa Nostra si stava occupando lo stesso Paolo Borsellino, che ne era stato informato dal pentito Gaspare Mutolo nel corso di un interrogatorio, nei giorni subito precedenti alla sua morte; stiamo parlando dello stesso Bruno Contrada che, dopo che la Procura di Caltanissetta non trovò il tempo di ascoltare Paolo Borsellino nei 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, si vide chiedere dal Procuratore Giovanni Tinebra di collaborare alle indagini sulla morte del giudice che proprio su di lui stava indagando. I legami tra Bruno Contrada e gli uomini di Cosa Nostra sono stati oggetto delle dichiarazioni di moltissimi pentiti di mafia (oltre a Mutolo ricordiamo, in particolare, Tommaso Buscetta, Salvatore Cancemi e Vito Galatolo) nonché delle rivelazioni di Luigi Ilardo, il confidente del ROS ucciso dalla mafia a seguito di una “soffiata istituzionale” pochi giorni prima di entrare ufficialmente nel programma di protezione: di fronte al Colonnello Michele Riccio, il quale stava raccogliendo le sue rivelazioni, Ilardo definì infatti Bruno Contrada «l’anello di congiunzione tra mafia e istituzioni, l’uomo dei misteri». Il 6 Aprile 2020, a titolo di riparazione per la “ingiusta detenzione” patita da Contrada nel procedimento penale, la Corte d’Appello di Palermo ha liquidato in suo favore la somma di 667 mila euro. È lecito, perlomeno, storcere il naso di fronte a tutto questo. Stefano Baudino 07 Dicembre 2020 Antimafia Duemila
La vicenda di Bruno Contrada raccontata da Indro Montanelli
Pubblichiamo un brano tratto dal capitolo diciottesimo di “L’Italia di Berlusconi – 1993-1995: La storia d’Italia” di Indro Montanelli e Mario Cervi edito da Rizzoli
Bruno Contrada – che ha passato i sessanta – era considerato, una ventina d’anni or sono, uno dei più brillanti poliziotti italiani. Bell’uomo dal piglio guascone, elegante, donnaiolo secondo le malelingue, mondano, furbo. Tale era la stima in cui veniva tenuto che fu messo a capo della Squadra mobile di Palermo: posto di estrema delicatezza e responsabilità. Lo lasciò nel 1977 per assumere la direzione della Criminalpol della Sicilia occidentale – queste duplicazioni e sovrapposizioni d’uffici e di competenze non danno in generale buoni frutti, ma lasciamo perdere – e alla Squadra mobile palermitana tornò nel 1979, dopo che il suo successore Boris Giuliano era stato assassinato. Un atto di grande coraggio, il suo, se immune da cedimenti. I cedimenti invece ci furono, secondo alcuni pentiti e secondo la procura di Palermo. Gaspare Mutolo (appunto un «pentito») ha sostenuto che proprio nel 1979 Bruno Contrada fu assoggettato a Cosa nostra. Da allora in poi la carriera di Contrada può essere letta in due modi diversi, anzi opposti: o in chiaro, come il progredire d’un funzionario stimato e capace (capo di gabinetto dell’Alto commissariato antimafia, uomo di punta del SISDE in Sicilia) o in controluce come il doppiogioco d’un colluso con le cosche che ostentava zelo inquisitorio per buttare fumo negli occhi: e sotto sotto si dava da fare per favorire i boss. Alla vigilia di Natale del 1992 Contrada fu arrestato per associazione mafiosa e portato prima nel carcere militare romano di Forte Boccea, quindi in quello militare palermitano, riaperto apposta per lui: e del quale rimase unico ospite.
Su Contrada pesavano le dichiarazioni d’una pattuglia di quattro pentiti, poi rimpolpata da altri sei: tra loro il pentito massimo Tommaso Buscetta. L’inchiesta, che fu laboriosa e ammassò la solita montagna di fascicoli, sfociò in un processo di tribunale, presieduto da Francesco Ingargiola (lo stesso magistrato che avrebbe poi presieduto il processo contro Andreotti). Nell’aula si presentò – come detenuto – un Contrada quasi irriconoscibile: smunto, avvilito, dimagrito d’una ventina di chili almeno: molto fermo però nel respingere le accuse. Ridotto in quello stato – si disse –da due anni e passa di pena ipotetica scontata preventivamente. La procura di Palermo dimostrava, Codice alla mano, che tutto s’era svolto nel più scrupoloso rispetto della legge, e che Contrada veniva tenuto in cella perché, ammanicato com’era, avrebbe potuto inquinare le prove. Questi timori caddero tuttavia il 31 luglio 1995, dopo che l’ex funzionario era stato colto da malore in aula, e dopo che una commissione medica, chiamata a pronunciarsi sulle sue condizioni, aveva con grotteschi bizantinismi pseudo-scientifici affermato che la galera gli faceva bene, e che se fosse stato liberato il suo equilibrio psicofisico ne avrebbe risentito. Bruno Contrada tornò a casa. Quello stesso giorno la procura di Palermo e il prefetto Serra convocarono i giornalisti per dar loro notizia d’un attentato in preparazione contro Giancarlo Caselli [procuratore della Repubblica a Palermo] e contro uno dei suoi vice, Scarpinato. Qualcuno insinuò che le segnalazioni sull’attentato, piuttosto vaghe, fossero state con opportuna scelta di tempo enfatizzate per bilanciare l’impatto emotivo che l’odissea di Contrada aveva avuto sull’opinione pubblica.
Sulle testimonianze e sulle prove esibite a carico di Contrada non vogliamo pronunciarci: le une e le altre appartengono alla logica dei processi per associazione mafiosa. Uno aveva saputo da un altro che un altro aveva detto, Falcone non poteva soffrire Contrada e aveva promesso «gli metterò i ferri» (ma riferito di seconda mano), il commissario Cassarà lo disistimava (dichiarato dalla vedova), alcuni dirigenti della polizia non lo potevano vedere e altri avevano invece per lui incondizionata stima: insomma un copione che in quelle aule, e con quel genere d’imputati, si ripete con triste monotonia. Non vorremmo trovarci nei panni di chi deve giudicare, e ancor meno in quelli d’un accusato.
Ma per Contrada, e anche per Antonino Lombardo – ammesso e non concesso che qualche trasgressione l’abbiano commessa – valgono due considerazioni. La prima è questa: si possono applicare agli uomini della polizia e dei carabinieri, e a maggior ragione a quelli dei servizi segreti, le stesse regole morali che valgono per i comuni cittadini? il campo d’azione di questi uomini sono le fogne. C’è qualcuno capace di rimestare nelle fogne senza sporcarsi le mani e contrarne il fetore? Chi indaga sulla malavita, in tutte le sue espressioni, deve penetrare nei suoi ambienti, dove non si trovano malleverie e protezioni se non a patto di offrirne. È vero che in questo giuoco è facile perdere il senso del limite fino a diventare talvolta il complice, per farselo amico, del nemico: e non escludiamo che questo sia stato il caso di Contrada. Ciò di cui dubitiamo è che il purismo giuridico sia un metro ragionevole per valutare, senza che si commetta un’iniquità in nome della legge, gli uomini cui chiediamo di tuffarsi nel fango per farvi pesca di malavitosi: e i nostri dubbi crescono se il purismo giuridico è avallato non da prove inconfutabili o dalla parola di specchiati galantuomini, ma dalla parola d’altri malavitosi della peggiore specie che possono avere mille e una ragione per incolpare a torto.
Sui Contrada devono pronunciarsi, promuovendoli o bocciandoli o cacciandoli o denunciandoli, i loro capi. Se i capi sono incapaci, vengano anche loro cacciati. I Contrada non sono al disopra della legge, ne sono ai margini: quando la legge agisce contro di loro con i suoi strumenti e i suoi criteri, li porta su un terreno che non è quello in cui s’erano dovuti avventurare, magari smarrendo la retta via. La seconda considerazione è semplice: una carcerazione preventiva che duri quanto quella inflitta a Contrada è una barbarie indegna d’un paese che pretende d’essere la culla del diritto, e che sembra avere una gran voglia d’esserne la
BRUNO CONTRADA – CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA:
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