Gioacchino Genchi

 

 

28 maggio 2023

 

 

15.11.2018 – Strage di Via D’Amelio, Genchi: “La Barbera cercava solo l’appiglio per rendere credibile Scarantino”

 

La deposizione a Palermo – Genchi: “Mi disse: basta un elemento minimale”. E il falso pentito diventò il teste-chiave

Chiudere le indagini con Vincenzo Scarantino, addebitare tutto alla Cupola di Cosa Nostra e risolvere l’inchiesta sulla strage di via D’Amelio.
“Così poi io divento questore, tu vieni promosso per meriti straordinari e poi tra 3 o 4 anni diventi questore pure tu”. Più o meno con queste parole Arnaldo La Barbera, secondo l’ex funzionario di polizia Gioacchino Genchi, gli spiegò di aver deciso a tavolino i colpevoli dell’omicidio di Paolo Borsellino e dei cinque agenti di scorta.
I colpevoli sbagliati.
Lo ha raccontato lo stesso Genchi alla commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana presieduta da Cludio Fava che sta svolgendo un’indagine sulla strage del 19 luglio 1992.
Una serie di audizioni convocate dopo le motivazioni del processo Borsellino Quater. Pagine in cui la Corte d’assise considera le prime indagini come “il più grande depistaggio della storia italiana”. Gli stessi giudici indicano in La Barbera il regista della “costruzione delle false collaborazioni”, che deviarono le indagini.
La Barbera, tuttavia, non c’è più: lo ha ucciso un tumore nel 2002. Oggi alla sbarra ci sono tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunniare in concorso per aver indottrinato, secondo la tesi dei pm, il falso pentito Scarantino.
I tre lavoravano nel gruppo investigativo “Falcone e Borsellino” creato per indagare su via D’Amelio e guidato da La Barbera.
Lì lavorava anche Genchi, allora giovane poliziotto agli ordini di quello che era considerato il numero uno degli investigatori antimafia.
Genchi, però, a un certo punto, uscì dal gruppo. Il motivo?
L’intenzione del suo superiore di “vestire il pupo”, cioè indirizzare le indagini tutte su Scarantino, un balordodella Guadagna fatto passare per un mafioso di rango.
La notte tra il 4 e il 5 maggio 1993 Genchi ha un lungo confronto con La Barbera: “Dalle 19 fino alle 5 e 45 del mattino.
Non siamo andati neanche a cena. Alla fine sono uscito sbattendo la porta mentre La Barbera piangeva”.
Il superpoliziotto che affrontava i rapinatori da solo piangeva? “Per la prima volta in vita mia l’ho visto piangere”, racconta Genchi il 17 ottobre. 
Ma cosa si sono detti i due: “In quei giorni erano uscite le motivazioni del maxi-processo”. Si parla della sentenza della Cassazione che confermava gli ergastoli per i boss di Cosa Nostra inflitti nel 1992. Da quel momento Totò Riina decise di “pulirsi i piedi” e di vendicarsi dei politici che non avevano mantenuto i patti assicurando l’impunità ai Corleonesi.
Con quella sentenza, inoltre, la Corte sancì la validità del metodo Buscetta, secondo il quale i membri della Cupola sono sempre colpevoli per ogni delitto importante non deciso dalle famiglie a livello locale. È un passaggio fondamentale.
La Barbera e i suoi fedelissimi, che Genchi chiama “il sinedrio”, “l’avevano letta e senza di me avevano chiuso le indagini”. L’ex poliziotto spiega nel dettaglio come venne deciso il depistaggio: “Ormai è fatta, due più due fa quattro.
La strage non può che essere responsabilità di Cosa nostra – le parole di La Barbera secondo Genchi –. Noi qui dobbiamo trovare qualche elemento minimale, addebitiamo tutto alla Cupola.
Così poi io divento questore, tu vieni promosso per meriti straordinari e poi tra 3 o 4 anni diventi questore pure tu”.
Col senno di poi si può dire che quella notte “l’elemento minimale” per addebitare tutto alla Cupola gli investigatori lo avessero già: è una nota del 10 ottobre 1992 del Sisde guidato all’epoca da Bruno Contrada. I servizi – per i quali lo stesso La Barbera aveva lavorato con nome in codice “Rutilius” – collaboravano alle indagini su via D’Amelio con la Procura di Caltanissetta in modo quantomeno irrituale: pranzavano con i magistrati, venivano citati in via ufficiale nei fascicoli. “Si era andato oltre”, ha anche raccontato alla stessa Antimafia il pm Carmelo Petralia.
Anche quella nota del Sisde va oltre: è una dettagliata radiografia con tutto ciò che, al tempo, risultava su Scarantino e i suoi familiari, con tanto di precedenti penali, compresi i rapporti di parentela con esponenti delle famiglie mafiose palermitane. 
Quella nota è un atto fondamentale del depistaggio, perché comincia a costruire il curriculum mafioso di Scarantino, che in realtà era solo un malavitoso di periferia, seppur con parentele in Cosa nostra. È “l’elemento minimale” di cui parla La Barbera per collegare Scarantino ai piani alti della mafia e addebitare la strage alla Cupola.
La notte dell’ultimo colloquio con Genchi, in pratica, si era già compiuto tutto.
È il 5 maggio 1993, il 14 esplode la bomba in via Fauro a Roma mentre passa la macchina con a bordo Maurizio Costanzo.
Nella stessa via abitava Lorenzo Narracci, vice di Contrada, che era stato arrestato nel Natale del 1992. Due settimane dopo, il 27 maggio, tocca a Firenze essere colpita dall’esplosione di via dei Georgofili. Quindi, a luglio, la strage di via Palestro a Milano.
Nel 1994 succedono due cose: Scarantino si pente raccontando la sua verità su via D’Amelio. La Barbera viene promosso questore di Palermo. Secondo Genchi, però, oggi quello non è l’unico motivo per cui le indagini deragliano su Scarantino: “Hanno individuato falsi colpevoli – dice all’Antimafia – non per fare carriera o chiudere le indagini, ma per evitare di incastrare i veri autori della strage di via D’Amelio. I veri mandanti”. Il 1994 è anche l’anno in cui si chiude la Trattativa: i fratelli Graviano vengono arrestati a Milano, Silvio Berlusconi diventa presidente del Consiglio. E secondo la Corte d’assise di Palermo anche da Palazzo Chigi continua a pagare gli uomini di Cosa Nostra. Questa, però, è un’altra storia.  IL FATTO QUOTIDIANO

Speciale Borsellino NON SOLO LA BARBERA DIETRO I BUCHI NERI. La Sicilia di Davide Guarcello 19 Luglio 2020

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ESCLUSIVO. Speciale Borsellino, Genchi: “Non solo La Barbera dietro il depistaggio. Ecco i nomi”  La versione integrale dell’intervista esclusiva all’Avvocato Gioacchino Genchi, relativa invece ai misteri di via D’Amelio.

Genchi ha rivelato dettagli inediti di quelle indagini e i buchi neri che la contraddistinguono.

L’INTERVISTA. Avvocato Genchi, lei è andato via dal gruppo investigativo Falcone-Borsellino, scontrandosi duramente col suo capo ARNALDO LA BARBERA, a libro paga Sisde con nome in codice “RUTILIUS”, definito dalle sentenze come il “protagonista assoluto dell’intera attività di depistaggio” e addirittura “intensamente coinvolto nell’attività di sparizione” dell’agenda rossa. Lei che è stato a lungo accanto a lui, pensa sia davvero così?

«Conobbi La Barbera la vigilia di Ferragosto dell’88; io ero molto impegnato e non riuscii a parlare con lui subito. Lui ebbe il tempo di andare a lamentarsi a Roma col Capo della Polizia Parisi, il quale poi mi convocò dicendomi di andarlo a trovare. Il primo incontro non fu felice perché io avvertii risentimento nei miei confronti; non gli avevano riferito che lo avevo cercato per ben tre volte… Chiarito questo, poi nacque un rapporto di intensa collaborazione che durò fino al 1993.  La Barbera venne perfino a casa mia, a San Nicola L’Arena, dove installammo una base operativa. Nacque un rapporto familiare, data la frequentazione assidua. Vivevamo sostanzialmente blindati.

Quando iniziai le mie indagini sui mandanti esterni, su Capaci, sui databank di Falcone, viene fuori che il Dott. Falcone aveva incontrato il pentito Gaspare Mutolo in carcere; e di questo non avevano detto nulla i protagonisti che erano con lui (Gianni De Gennaro e il Dott. Sinisi) che peraltro non so a che titolo erano entrati in carcere con lui. Sapevano di questo incontro, ma prima che io lo decodificassi nei databank che delle “manine di Stato” avevano cancellato, nessuno se lo ricordava.

Avevamo un aeroplano a nostra disposizione a Punta Raisi… dei voli di Stato per contrastare al massimo la criminalità organizzata. A un certo punto io e La Barbera veniamo rimossi; quindi i magistrati Ilda Boccassini e Fausto Cardella ci fanno le deleghe ad personam per proseguire le indagini. Al ministero dell’Interno nel frattempo era subentrato Mancino al posto di Scotti. Era cambiato tutto. Anche per Parisi. E aveva preso tutto in mano il prefetto Rossi; ma i magistrati di Caltanissetta – al processo sul depistaggio che vede indagati 3 poliziotti – non gli chiesero il motivo della nomina. In quegli anni La Barbera taroccava le indagini sulle stragi, con lo scopo non solo di fare condannare degli innocenti, ma con l’obiettivo di non perseguire i veri colpevoli della strage di via D’Amelio. È questo forse l’aspetto più inquietante ed eversivo di questa vicenda, per il quale io sono stato destituito dalla Polizia. Dissi queste cose di La Barbera in un convegno pubblico, ho detto cose che oggi sono in sentenze di revisione definitive; ma i depistaggi non li ha fatti La Barbera da solo… Loro hanno chiuso tutto perché La Barbera è morto… e io sono stato destituito dalla Polizia! Questa è la realtà su cui nemmeno si è aperto un fascicolo per capire cosa fosse successo dietro la mia destituzione… per un intervento in un convegno e un post su Facebook. Queste sono delle cose scandalose che sono avvenute in Italia da persone che sono state nominate ai vertici della Polizia di Stato e dei Servizi di sicurezza. Nessuno gli ha chiesto conto di queste cose».

L’Avvocato ROSALBA DI GREGORIO nel suo libro scrive: «Facile oggi attribuire la colpa al solo La Barbera che è morto. Ma dietro, chi c’era? L’esplosivo lo porta Spatuzza, ma il Semtex chi lo porta?»,«L’avv. Di Gregorio ha fatto un lavoro egregio in quel processo. Anche se, per la verità, è un difensore che ha avuto grosse difficoltà a fare il suo lavoro dato che difendeva dei mafiosi conclamati; mafiosi che però non avevano fatto quella strage. E questa non è una differenza da poco: perché per una strage si dà l’ergastolo. E non si può darlo così, come se fosse una multa per divieto di sosta… Quindi l’avv. Di Gregorio ha fatto un lavoro egregio nel processo, per il quale bisogna darle atto: come avvocato, come donna, come persona di grande intelligenza e grande coraggio. Ha studiato a menadito gli atti e le intercettazioni.  Sul problema dell’esplosivo, Spatuzza ha smentito clamorosamente ciò che avevano costruito con quel pentito farlocco di Scarantino, che diceva di essere presente a Villa Calascibetta durante il vertice del gotha di Cosa nostra. Una cosa assurda: i mafiosi come Totò Riina ed altri probabilmente a Scarantino, se avesse fatto il posteggiatore abusivo, parcheggiavano in divieto di sosta e non gli lasciavano nemmeno la macchina in custodia perché c’era il rischio che gliela rubasse… quindi, figurarsi se uno come Bagarella o Riina si potevano fidare di un farlocco come Scarantino, con tutto il rispetto! Solo La Barbera si poteva fidare e ha utilizzato Scarantino, che si è fatto usare per costruire un processo. E i pm e i giudici che si sono bevuti le farloccate di Scarantino, e che poi hanno fatto carriera pure loro! Facciamo il processo a La Barbera e ai poliziotti, ma i magistrati sembrano come se fossero stati delle controfigure, come se fossero stati assenti, come se c’erano delle sagome di cartone, ma non è così. L’ergastolo agli innocenti non l’ha chiesto La Barbera, Mario Bo e gli altri poliziotti… L’ergastolo l’hanno chiesto i pubblici ministeri e gliel’hanno dato dei magistrati. Quindi, probabilmente sono in molti quelli che dovrebbero riflettere».
Tra gli scarcerati dopo la ritrattazione di Scarantino c’è GAETANO SCOTTO, il boss dei misteri, poi riarrestato a febbraio all’Arenella. I pentiti lo indicano come il trait d’union fra i vertici di Cosa nostra e servizi segreti deviati. Lei cosa scoprì sul suo traffico telefonico?
«Ho trovato i rapporti con gli apparati: i contatti con Castello Utveggio, che era una scuola di eccellenza (ex sede del Cerisdi e presunta base del Sisde, ndr). Queste telefonate qualcuno le deve spiegare… Su Scotto io ero assolutamente contrario al fermo, ma non perché fossi convinto che fosse innocente, ma perché Scotto libero era importante per vedere dove ci portava. 

Quando lui ci stava portando ai Servizi, agli apparati, agli uomini dell’Alto Commissariato (con Contrada e gli altri) e che rientravano in questo circuito di soggetti che gravitavano intorno alla zona del Monte Pellegrino e di via D’Amelio, dove poi è scoppiata una bomba… Vedi-caso l’attentato è stato fatto in via D’Amelio e non in via Cilea dove Borsellino abitava, né a Villagrazia dove lo si sarebbe potuto uccidere facilmente, dato che il Dott. Borsellino andava al mare tranquillamente in barca, faceva il bagno…  
Avevamo le prove, quindi volevamo vedere questo soggetto libero dove ci portava; e quando sento dire che bisognava fermarlo, io mi metto di traverso. Dico: “Ma come?! Arrestiamo il nostro cavallo di Troia?! Quello che ci deve portare a destinazione?”. L’ordine che arrivò a La Barbera da Roma era questo: bisognava chiudere, bisognava formattare col dictum del Maxiprocesso che aveva stabilito la Cupola; per cui tutto ciò che succede è colpa della mafia. “Io divento così Questore e tu – mi dice La Barbera – hai una promozione per merito speciale e una carriera assicurata in Polizia”. A quel punto io dopo una lunga discussione che si è protratta fino alle 5 del mattino, in cui dissi a La Barbera tutto quello che pensavo (lui si mise pure a piangere) andai via, sbattendo la porta. Da quel momento non lo vidi più, e tornai al reparto mobile… e lì finì la mia carriera in Polizia. Gli altri la carriera l’hanno fatta con i depistaggi delle stragi».

La pista sul CASTELLO UTVEGGIO E I SERVIZI SEGRETI fu archiviata anni fa. Alla luce della conferma del depistaggio, e del ruolo di La Barbera, oggi è stata ripresa questa pista?
«L’ipotesi suggestiva del Castello Utveggio era una delle tante. Certo, nella sua magnificenza e monumentalità esso aveva un alone di mistero. Ma c’è pure un dato obiettivo: per l’esecuzione della strage di via D’Amelio, oltre all’esplosivo piazzato sulla Fiat 126, c’era il dato informativo, ovvero che Borsellino andava là; fu una scelta strategica, di un’organizzazione criminale che sicuramente da quelle parti aveva una base operativa.
E per poter azionare il telecomando era necessario avere la visuale diretta, per vedere quando Borsellino si avvicinava al citofono. È chiaro che la visuale non può che essere da un’altura: se non è Castello Utveggio, sarà stato qualche tornante sul Monte Pellegrino o un sentiero. Sicuramente un punto alto. Non potevano di certo essere a Piazza Politeama quelli che hanno premuto il telecomando (di cui ancora non si sa con certezza chi e dove fu premuto).
Quindi fu scartata l’ipotesi suggestiva del Castello Utveggio e di tutto quello che ne consegue (i Servizi). Cancellare tutto perché faceva comodo… c’era Scarantino a cui addossare le colpe. Le dichiarazione equivoche di un altro pentito – Ferrante  – andavano probabilmente lette e approfondite meglio, anche sulla base dei suoi contatti telefonici. Si toccava con mano che in quella strage c’erano presenze ed entità sicuramente diverse che volevano fermare Paolo Borsellino. Le ragioni? Le grandi indagini sulla mafia?? Il rapporto mafia-appalti che era lì a stagionare da tempo?? No, Borsellino in quel periodo stava sentendo il pentito Gaspare Mutolo che gli stava raccontando come stavano tentando di taroccare il Maxiprocesso: gli aveva parlato di Signorino e Contrada, e degli apparati collusi dello Stato».
La Procura di Messina sta indagando sui pm Palma e Petralia. Per loro l’accusa è pesantissima: concorso in calunnia, aggravata dall’aver favorito Cosa nostra. Di recente però ha presentato richiesta di archiviazione
Lei tempo fa ha accusato proprio ANNAMARIA PALMA. Quali elementi ha raccolto contro di lei? Ha fornito nuovi dettagli ai magistrati che stanno indagando?

«Io sono un garantista e credo veramente nella presunzione di innocenza. Bisognerà dimostrare la colpevolezza dei Dott. Palma e Petralia. Ci sono però delle cose che non è necessario dimostrare, perché sono evidenti e che ritengo più scandalose: che la Dott.ssa Palma (e non da sola) abbia istruito dei processi farlocchi a Caltanissetta che hanno portato alla condanna di innocenti e che non hanno fatto individuare i veri colpevoli della strage di via D’Amelio, è una dato assodato, processuale. Non occorre fare indagini perché le sentenze già ci sono. Nel momento in cui un magistrato ha sbagliato – nella migliore delle ipotesi – a fare il suo lavoro, non dovrebbe essere promosso.

Annamaria Palma

Dopo essere stata per anni al fianco della seconda carica dello Stato (Schifani al Senato, con tutto ciò che ne consegue su Schifani che è un personaggio politico siciliano e palermitano un po’ ingombrante, uomo forte di Forza Italia) non la si manda a fare l’Avvocato generale a Palermo a fare il n.2 dopo il procuratore generale, con possibilità di fare le indagini disciplinari sui magistrati, di avocare i procedimenti della Procura della Repubblica, ecc..
Il CSM – quello che sta uscendo dalle chat di Palamara – ha nominato la Dott.ssa Palma all’unanimità Avvocato generale a Palermo! Io me lo auguro che la Palma riesca a dimostrare la sua innocenza, per quelle intercettazioni che sono fortemente inquietanti a sentirle, che la riguardano. Ma non mi sento di assolvere un CSM che in maniera scandalosa l’ha nominata e la mantiene nonostante quelle vicende e quei fatti in un ruolo così apicale».
«Nel 2001 testimoniai a Caltanissetta – prosegue Genchi – puntando il dito contro la Procura nissena, accusandola per le iniziative assunte, come il fermo di Scotto.
All’epoca ancora non c’era Spatuzza, le mie erano solo delle intuizioni, delle logiche deduzioni sulla base di quelle che erano le evidenze, che io ho sempre sostenuto. Io sono stato l’unico dal 1993 (quindi dall’indomani delle stragi) a sostenere che c’erano dei mandanti occulti e che non era quella l’apparenza, come i fatti hanno dimostrato. E – a parte lo scontro nell’udienza che è agli atti – ci sono due interviste al Giornale di Sicilia uscite in giorni consecutivi: una della Dott.ssa Palma e una del Dott. Di Matteo (che erano i pm in quel processo) che mi attaccano duramente con un articolo scritto da un giornalista che non ritiene nemmeno di interpellarmi…».

Ci sono poi dei TABULATI SCOMPARSI: quelli del cellulare di Borsellino (delle chiamate in entrata). Chi poteva aver telefonato a Borsellino quel 19 luglio? E chi secondo lei fece sparire quei tabulati?

«Questa è una cosa che io segnalai subito quando mi portarono i tabulati. Io dico: “Qui manca il traffico in entrata”; “No quello non serve” mi rispondono. Come non serve? Io non avevo mai visto che nell’acquisire i tabulati si acquisissero solo quelli in uscita e non quelli in entrata. Cioè, era importante stabilire a chi avesse chiamato Borsellino e non chi lo avesse chiamato?

L’agenda rossa di Borsellino

Una cosa è certa: quando Borsellino, interrogando Mutolo, sente il nome di Contrada, cercano di intervenire su di lui. Agnese Borsellino riferirà – non solo al processo, ma anche a me – che suo marito quando è tornato da Roma (dopo l’incontro al Viminale con Mancino, Parisi e Contrada e l’interrogatorio di Mutolo, ndr) ha vomitato, per quello che era accaduto! Quindi chi lo avesse chiamato al cellulare, se mi consente, diventa una cosa importante, determinante. Io lo segnalo alla procura di Caltanissetta: i tabulati si potevano ancora acquisire perché erano disponibili, ma non mi autorizzarono ad acquisire quelli in entrata di Borsellino. Nessuno ha chiesto il motivo a questi signori che non mi autorizzarono. Voglio precisare: non è che non c’erano o sono spariti: i tabulati c’erano! E poi perché dopo Capaci mi autorizzano per quelli dei cellulari di Falcone, mentre per Borsellino mi danno l’ok solo per quelli in uscita?

Che cosa c’era nei tabulati in entrata di Borsellino? C’era la verità di chi lo aveva chiamato, di chi lo stava cercando di fermare; c’erano quelle verità inconfessabili che erano scritte in quell’agenda rossa che, vedi-caso, viene fatta sparire e che era nella borsa! La borsa in pelle di Borsellino è rimasta intonsa: all’interno – mi ricordo – ci abbiamo trovato un costume blu di materiale sintetico, e la batteria di un cellulare Motorola, che era tutta affumicata ma funzionava ancora. La batteria non esplode e non va a fuoco, la borsa non va a fuoco, il costume non va a fuoco, l’agenda rossa che era dentro la borsa non si trova, è sparita! Cosa c’era in quell’agenda? Cosa c’era nel traffico in entrata di Borsellino? E se l’agenda può essere sparita, c’è una mano ignota. Ma per il traffico telefonico di Borsellino non acquisito, non c’è una mano ignota».

Il mistero dei misteri resta l’AGENDA ROSSA. Fiammetta Borsellino ha considerato “contraddittorie” le numerose versioni del pm AYALA che avrebbe maneggiato la borsa e arrivò tra i primi in via D’Amelio…

«C’era anche un capitano dei Carabinieri che viene fotografato con quella borsa in mano (Giovanni Arcangioli che è stato assolto, ndr). Certo, per condannare ci vogliono le prove… Io ho fornito un dato evidente: che c’era sicuramente un’agenda che è stata fatta sparire; c’era un tabulato in entrata che non è stato acquisito nonostante la segnalazione; le conclusioni le traggano i vostri lettori che vedono questo intervista… posto che tutti questi signori di cui abbiamo parlato hanno fatto carriera. Uno scempio di giustizia che si sta consumando da quasi 30 anni.
Ayala – racconta Genchi – era amico di Falcone, io me lo ricordo perfettamente. Però ricordo pure che ci fu un momento in cui le loro strade si divisero. Ayala sostiene che poi si riappacificarono. Io analizzai i tabulati di Falcone: c’erano i contatti telefonici con Pietro Grasso, con Francesco Lo Voi, con Geri Seminara, qualche rapporto con i magistrati di Palermo, c’erano i rapporti col Dott. Almerighi del CSM… i rapporti con Ayala non mi risultava che ci fossero più. Questa è l’unica cosa che posso dire. Le carriere di Ayala sono pubbliche, però io ritengo che ci vogliano gli elementi per potere sostenere le accuse o le ipotesi di accuse quando si ha a che fare con persone che hanno avuto un ruolo nelle Istituzioni. Quindi, anche lì, c’è un deficit nelle indagini, che ancora più grave di ciò che può aver fatto o meno Ayala».
In termini di intercettazioni: cosa non è stato fatto, e cosa si sarebbe potuto fare per scoprire prima il depistaggio ed evitare questo macroscopico errore giudiziario?
«Per esempio sarebbe bastato che quando io lascio il gruppo di indagini, la procura di Caltanissetta si chiedesse il perché. Io ipoteticamente potevo anche essere stato corrotto e pagato per non continuare; o potevo essere stato minacciato. Il ministero dell’Interno mi ha pure negato la macchina dove caricare i computer presi al ministero della Giustizia (nella stanza di Falcone, ndr) per portarli a Milano per farli analizzare, con il databank. E io ho dovuto noleggiare una Fiat Croma alla Hertz, con la mia carta di credito. Questo i magistrati – compreso il Dott. Petralia che era con me in macchina – lo hanno visto. Si sarebbero dovuti chiedere un perché. E invece hanno preferito non farlo, continuando quelle indagini che hanno portato ai depistaggi».

ILDA BOCCASSINI ha puntato il dito contro di lei, definendola “un soggetto pericoloso per le Istituzioni” che “vedeva complotti e depistaggi ovunque”…  «Beh, insomma… i depistaggi io li ho intuiti, e li dimostrano le sentenze. Quindi i depistaggi che ho visto io sono l’effetto delle sentenze. Quindi probabilmente io non è che vedessi male… La Dott.ssa Boccassini ha un suo modo di vedere le cose che è leggermente differente dal mio».
Lei è finito nella rete degli “spiati” da ANTONELLO MONTANTE ed è parte civile al processo…

«Oggi Montante paga di tutto ciò che ha fatto: compreso gli accessi abusivi allo SDI, compreso il dossieraggio e tutta una congerie di malaffare che ha fatto. Ma se Montante ha fatto tutto questo, non lo ha fatto da solo o con quei quattro poliziotti, che sono nel banco degli imputati insieme a lui. Montante ha potuto fare le sue “Montant-ate” perché ha avuto tanti appoggi nelle istituzioni, nella politica, nella magistratura, che sono rimasti fuori da quel processo. E questo ritengo che sia l’aspetto più grave della vicenda, più delle stesse condotte che vengono contestate a Montante.

Il giudizio di appello si dovrà concludere… ma su quella condanna così esemplare ho qualche dubbio in termini di calcolo della pena. È un processo che risente di una enfasi eccessiva, con la quale si cerca di gonfiare Montante per non cercare i complici; quindi si vuol far pagare a Montante anche le colpe che non sono sue».

Il caso MONTANTE sembrerebbe intrecciarsi in qualche modo con la vicenda TRATTATIVA. I magistrati che indagano su di lui sospettano che possa avere una COPIA DELLE INTERCETTAZIONI MANCINO-NAPOLITANO.

«Ci sono poche regole nell’informatica: una di questa è che un file può essere duplicato tantissime volte senza lasciare traccia. Posto che il file duplicato diventa identico all’originale, quindi il concetto di originalità che c’è nell’atto notarile nell’informatica non esiste. Un file infatti, si può mandare in tanti modi: con un Whatsapp, con una mail, con un cd, con una chiavetta usb, ecc… Poi c’è un altro aspetto: le intercettazioni (a prescindere dai protagonisti intercettati) prevedono: una copia su server della sala ascolto, una copia “AG” (per l’autorità giudiziaria), una copia “PG” (polizia giudiziaria), e una sui computer che effettuano l’intercettazione. Questa è la prassi.
Quindi, non è improbabile che Montante non abbia avuto qualche chiavetta… quindi quelle intercettazioni probabilmente sono custodite da qualche parte. E gli unici che non le hanno ascoltate (e che avrebbero il diritto di ascoltarle) sono gli italiani, perché probabilmente si farebbero un’idea…».

 

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