processo a Messina Denaro

                                             MATTEO MESSINA DENARO, U SICCU



‘La condanna emessa dalla corte d’assise di Caltanissetta presieduta da Roberta Serio, è quella che chiedeva il procuratore aggiunto Gabriele Paci.  Un processo voluto da lui stesso, dopo aver raccolto tutti i tasselli di un quadro complesso. Sì, perché molto si è fatto nell’ambito della complessa attività di ricostruzione della strage di Capaci e via D’Amelio grazie al lavoro investigativo condotto dalla DDA di Caltanissetta incessantemente volto alla ricerca di tasselli da inserire nel quadro di sangue che ha tragicamente segnato la coscienza di tutti. In tale contesto la Procura di Caltanissetta è giunta ad attenzionare la figura di Matteo Messina Denaro rimasto fino a poco tempo fa estraneo ai processi nei confronti di mandanti ed esecutori delle stragi siciliane del ’92. Da ricordare che il latitante è stato già figura centrale nel processo svoltosi avanti la Corte d’Assise di Firenze ed avente ad oggetto gli attentati stragisti commessi da Cosa nostra “nel continente” tra il ’93 ed il ’94, all’esito del quale venne condannato all’ergastolo per i reati di strage, devastazione ed altro.

La partecipazione di Matteo Messina Denaro alle stragi.

La Procura di Caltanissetta, procedendo ad una attenta rilettura degli atti processuali, ha rielaborato il complessivo materiale probatorio stratificatosi nel corso dei vari giudizi celebratisi a carico degli attori degli eventi delittuosi riconducibili alla strategia stragista attuata da Cosa nostra tra il ’92 ed i primi mesi del ’94 e, all’esito di tale approfondimento, è giunta a formulare l’accusa che l’ha portato a processo. Si è così potuta ricostruire la vicenda. In rappresentanza della provincia di Trapani, l’attuale super latitante è stato designato da Totò Riina – a seguito del progressivo aggravarsi delle condizioni di salute del padre, Francesco Messina Denaro, storico uomo d’onore trapanese, rappresentante della provincia di Trapani oltre che del mandamento di Castelvetrano – a svolgere le funzioni di “reggente” della provincia sin dai tempi della guerra di mafia di Partanna deflagrata nell’87 e conclusasi nel ’91, e dunque ben prima della consumazione degli eventi stragisti del ’92. Denaro ha quindi partecipato alla decisione di “dichiarare guerra” allo Stato, assunta tra la fine del ’91 e l’inizio del ’92 dalla Commissione Regionale di Cosa Nostra, organo deliberativo di vertice dell’organizzazione. Ha aderito, fin dall’inizio, all’attuazione del piano inziale tramite un gruppo “riservato” creato da Riina ed alle sue dirette dipendenze incaricato di uccidere Falcone e Borsellino in altri territori. Sì, perché inizialmente volevano uccidere Falcone a Roma ( e Matteo Messina Denaro aveva il suo uomo di fiducia nell’operazione, tale Antonio Scarano), così come volevano uccidere Borsellino quando già era procuratore di Marsala, territorio dove appunto operava Matteo Messina Denaro. Un attentato, quest’ultimo, mai eseguito perché si rifiutarono i due marsalesi poi uccisi da Riina proprio perché si erano opposti all’ordine.

La decisione di uccidere Paolo Borsellino.  Matteo Messina Denaro era un referente importante di Totò Riina anche per la gestione degli appalti, tutto ciò è riscontrato anche dalle deposizioni del pentito Vincenzo Sinacori dove ha fatto i nomi delle aziende coinvolte, compreso i nomi come Angelo Siino, il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici” di Totò Riina, e Giuseppe Lipari, colui che curava gli appalti per conto di Provenzano. E proprio secondo l’impostazione accusatoria, il progetto di uccidere Borsellino è stato prospettato da Riina a Matteo Messina Denaro sulla base degli stessi presupposti già evidenziati in relazione alla strage di Capaci. Trova la sua matrice principale nell’indubbia carica simbolica che la figura del magistrato rivestiva al tempo per Cosa nostra avendo quest’ultimo già dalla fine dell’86, anno in cui prestava servizio presso la Procura di Marsala, dimostrato la tempra di magistrato che con ostinazione continuava ad applicare gli stessi penetranti metodi investigativi già sperimentati ai tempi in cui, insieme a Falcone , era stato componente del pool dell’Ufficio Istruzione di Palermo. Ma il punto cruciale è che nella sua sede giudiziaria di Marsala, aveva condotto indagini importanti sulle connessioni tra interessi criminali, appalti e politica. Come già evidenziato nell’ordinanza cautelare emessa nel procedimento Borsellino quater, i due sostituti che ebbero a lavorare con lui a Trapani, la dottoressa Camassa ed il dottor Russo, incontrarono Borsellino a Palermo nel giugno del 1992, dunque dopo pochissimi mesi dal suo arrivo alla Procura di Palermo, e lo trovarono particolarmente turbato. Come ha sottolineato anche l’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Matteo Messina Denaro, nello stesso periodo Borsellino aveva sollecitato un incontro con i vertici del Ros per discutere del rapporto mafia appalti. Non solo, viene ricordato che il collaboratore Antonino Giuffrè ha riferito che i timori di “cosa nostra” erano legati non solo alla possibilità che Borsellino venisse ad assumere la Direzione Nazionale Antimafia, ma soprattutto alla pericolosità delle indagini che avrebbe potuto svolgere in materia di mafia appalti. A ciò si aggiunge il fatto – come ha sottolineato il Gip che ha accolto la richiesta dell’accusa nei confronti di Matteo Messina Denaro- che Borsellino aveva manifestato, non solo con dichiarazioni pubbliche, ma anche e soprattutto con concrete attività requirenti, di avere acquisito una più chiara visione delle connessioni tra gli ambienti mafiosi di livello militare e la più vasta rete di interessi politici e affaristici, sino ad allora sapientemente mimetizzati nella pieghe della società civile. Con i suoi comportamenti e le sue pubbliche dichiarazioni, Borsellino – come si legge nell’ordinanza – «aveva chiaramente espresso la sua volontà dì investigare, scoprire e colpire questi interessi ed i soggetti che se ne facevano portatori e che egli riteneva corresponsabili della strage di Capaci, in cui perse la vita fra gli altri l’amico Giovanni Falcone». Come detto, era stato progettato di uccidere Borsellino già a Marsala, territorio di Matteo Messina Denaro. Fallito però per il diniego dei due boss Vincenzo D’ Amico e Francesco Caprarotta e, come detto, ciò comportò la loro eliminazione grazie al benestare di Matteo Messina Denaro. Il protagonismo nel progetto dell’eliminazione del giudice a Marsala rende evidente, anche alla luce della sua totale adesione al piano ideato da Riina, il suo coinvolgimento nella rinnovata volontà di uccidere Borsellino. Da ricordare che quest’ultimo riteneva importanti le indagini marsalesi sugli appalti, tanto da chiedere del perché – come si evince dalle audizioni al Csm pubblicate da Il Dubbio – tali indagini non fossero confluite nel procedimento mafia appalti curato dalla procura di Palermo. Ci riferiamo alla riunione del 14 luglio 1992. L’ultima alla quale partecipò Paolo Borsellino.”  “Quella di ieri è una pietra miliare nella ricostruzione della storia della mafia stragista di Totò Riina, nell’eliminazione di vertici dissidenti della consorteria mafiosa e della genesi stessa delle stragi. Una genesi che riporta all’indagine mafia-appalti, voluta da Falcone e successivamente da Borsellino, come movente degli attentati.

Matteo Messina Denaro e Vincenzo Calcara. Nel corso della sua requisitoria Paci ha anche ricostruito il ruolo dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, che avrebbe “inquinato l’acqua nei pozzi”, portando le indagini su piste diverse da quella di Matteo Messina Denaro del quale non fece mai il nome. Calcara, un pentito “eterodiretto” – usando le parole del pm – fino a poco giorni prima che venisse emessa la condanna del latitante, avrebbe voluto essere sentito nel corso del processo ribadendo la tesi che all’epoca a capo di “cosa nostra” del trapanese si trovava Mariano Agate e non Francesco Messina Denaro e che in ogni caso non vi era suo figlio Matteo. Una teoria smentita dalle nuove testimonianze dei collaboratori di giustizia e dagli elementi emersi nel corso del processo. Le accuse mosse dalla procura nissena hanno dunque trovato conforto nella sentenza emessa ieri sera, con la condanna della primula rossa castelvetranese, aprendo a nuovi scenari e ipotesi investigative. Un processo che ha portato una serie di elementi nuovi di conoscenza che devono essere approfonditi in modo accurato – ha dichiarato il pm Gabriele Paci – C’è una base di elementi importanti su cui lavorare per definire meglio i contorni, le responsabilità delle stragi, e questo lavoro va fatto unitamente alla Procura Nazionale insieme alle altre procure che hanno svolto questa attività di approfondimento.”” GABRIELLA TASSONE Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino

 

Stragi di Capaci e via D’Amelio – Condannato Matteo Messina Denaro. Ora i mandanti esterni  Condannato all’ergastolo il latitante Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti delle stragi di Capaci e via D’Amelio nelle quali persero la vita i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino, e gli uomini delle rispettive scorte.La Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, ha accolto la richiesta di condanna avanzata dal pm Gabriele Paci, riconoscendo il ruolo che ebbe il latitante il quale partecipò agli incontri nel corso dei quali vennero determinate le stragi, dandone il pieno e consapevole consenso, avallando dunque la strategia stragista di Totò Riina.

A distanza di quasi trent’anni dalle stragi, la sentenza emessa ieri permette di fare chiarezza su molti punti oscuri di quel periodo. L’attività della procura nissena, rappresentata in giudizio dal Pm Paci, grazie a nuove testimonianze ed elementi emersi nel corso dei processi, ha ricostruito il periodo antecedente le stragi, i ruoli degli esponenti mafiosi e in particolare quello dell’allora boss rampante Matteo Messina Denaro che aveva già preso il posto del padre Francesco sostituendolo nelle riunioni con i vertici di “cosa nostra” e avallandone la follia criminale, così come l’ha definita il pm Gabriele Paci. Dal processo emerge l’importanza delle riunioni tenutesi a Enna e Castelvetrano, nel corso delle quali venne pianificata la strategia stragista di Riina alla quale Matteo Messina Denaro diede il proprio assenso, rafforzandone il ruolo all’intero di Cosa Nostra. “La decisione di uccidere i due giudici – ha affermato Paci nel corso della sua requisitoria – non fu un fatto isolato, ma ben piazzato al centro di una strategia stragista a cui Matteo Messina Denaro ha partecipato con consapevolezza” Un lavoro immane quello condotto dalla procura nissena che a distanza di trent’anni ha dovuto ricostruire il periodo in cui l’attuale boss latitante si sostituì. Un’istruttoria lunga e difficile nel corso della quale, a distanza di oltre venti anni, sono stati sentiti testi ai quali nessuno in precedenza aveva posto le stesse domande. Quella di ieri è una pietra miliare nella ricostruzione della storia della mafia stragista di Totò Riina, nell’eliminazione di vertici dissidenti della consorteria mafiosa e della genesi stessa delle stragi. Una genesi che riporta all’indagine mafia-appalti, voluta da Falcone e successivamente da Borsellino, come movente degli attentati.

Nel corso della sua requisitoria Paci ha anche ricostruito il ruolo dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, che avrebbe “inquinato l’acqua nei pozzi”, portando le indagini su piste diverse da quella di Matteo Messina Denaro del quale non fece mai il nome. Calcara, un pentito “eterodiretto” – usando le parole del pm – fino a poco giorni prima che venisse emessa la condanna del latitante, avrebbe voluto essere sentito nel corso del processo ribadendo la tesi che all’epoca a capo di “cosa nostra” del trapanese si trovava Mariano Agate e non Francesco Messina Denaro e che in ogni caso non vi era suo figlio Matteo. Una teoria smentita dalle nuove testimonianze dei collaboratori di giustizia e dagli elementi emersi nel corso del processo. Le accuse mosse dalla procura nissena hanno dunque trovato conforto nella sentenza emessa ieri sera, con la condanna della primula rossa castelvetranese, aprendo a nuovi scenari e ipotesi investigative. “Un processo che ha portato una serie di elementi nuovi di conoscenza che devono essere approfonditi in modo accurato – ha dichiarato il pm Gabriele Paci – C’è una base di elementi importanti su cui lavorare per definire meglio i contorni, le responsabilità delle stragi, e questo lavoro va fatto unitamente alla Procura Nazionale insieme alle altre procure che hanno svolto questa attività di approfondimento.”  21 ottobre 2020  LA VALLE DEI TEMPLI

 

Totò e Matteo, i boss legati dalle stragi.A Caltanissetta scritta una nuova pagina giudiziaria sulle stragi mafiose del 1992. Ergastolo per il latitante Messina Denaro, sostenne e fece propria la decisione stragista di Riina

Non era una sentenza scontata nè una sentenza sprecata perchè imputato un super boss della mafia, Matteo Messina Denaro, 58 anni, ricercato da 27 anni. È una sentenza che sicuramente nelle motivazioni collocherà buona parte di quei tasselli che mancano nel puzzle giudiziario che ricostruisce le stragi mafiose del 1992, quelle di Capaci e Via D’Amelio.

Ci sono volute oltre tredici ore di Camera di consiglio per la Corte di Assise di Caltanissetta, presidente giudice Roberta Serio, per arrivare a pronunciare quasi alla mezzanotte di martedì scorso la sentenza di ergastolo per il capo mafia di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. I giudici hanno accolto la richiesta di carcere a vita pronunciata dal procuratore aggiunto nisseno Gabriele Paci, al termine di una lunga requisitoria durata otto udienze.

La ricostruzione del magistrato nella sua requisitoria è stata dettagliata: Matteo Messina Denaro partecipò con Totò Riina a pianificare all’inizio degli anni ’90 l’azione stragista contro le Istituzioni: «era rimasto fuori dai processi per le stragi del ’92 anche a causa di alcuni pentiti che avevano inquinato il pozzo delle indagini». La ricostruzione processuale ha svelato l’azione di Cosa nostra, la mafia si è mossa pianificando l’azione stragista, prolungatasi fino al 1993, come se stesse pensando ad un golpe, dopo essersi resa conto che niente poteva accadere per annullare la sentenza del maxi processo di Palermo.

Matteo Messina Denaro, conferma la sentenza di stanotte, ebbe un ruolo nelle stragi di Capaci e Via D’Amelio dove in una mattanza di sangue vennero uccisi i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino e otto poliziotti che facevano parte delle loro scorte, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.

«L’istruttoria di questo processo è stata difficile perché abbiamo fatto delle domande vent’anni dopo a persone a cui non avevano mai fatto domande del genere». Nuove testimonianze e una rilettura di vecchi verbali, hanno consentito alla Procura nissena di aggiornare la leadership all’interno della cupola mafiosa siciliana e della mafia trapanese. Totò Riina e Matteo Messina Denaro, uno a fianco dell’altro, il secondo un frutto marcio, tale e quale a ciò che era già il primo.

Ma Messina Denaro prima di pensare alle bombe si occupò di eliminare gli avversari interni a Cosa nostra che potevano indebolire la scelta stragista del boss di Corleone. Addirittura nella ricostruzione giudiziaria si sospetta che contrario fosse proprio don Ciccio Messina Denaro, che preferì farsi da parte lasciando al figlio Matteo il bastone del comando della mafia trapanese. I pentiti hanno raccontato di come Riina parlava di Matteo Messina Denaro «la luce dei suoi occhi». Il padre, don Ciccio Messina Denaro, il patriarca mafioso del Belice, lo mise nelle mani di Riina «e io l’ho fatto buono – diceva il capo dei capi corleonese – ricordando che il giovane Matteo Messina Denaro gli era cresciuto sulle ginocchia».

Il boss di Castelvetrano è l’ultimo mafioso custode dei segreti delle stragi ancora libero: l’ex boss Giovanni Brusca fornisce una indicazione fondamentale, alla fine del ’92 Riina gli fece una confidenza: «Guarda che se mi succede qualcosa i picciotti, Giuseppe (Graviano ndr) e Matteo (Messina Denaro ndr), sanno tutto». Matteo Messina Denaro è, per esempio, a conoscenza che all’inizio degli anni ’90 il capo dei capi Totò Riina formò un gruppo di persone fidate, la «supercosa», gruppo che dopo l’arresto di Riina passò sotto il controllo del capo mafia castelvetranese, «un gruppo di persone pronto ad uccidere». Messina Denaro custodirebbe l’archivio segreto che era nascoso nella villa-covo di Riina a Palermo, Bagarella lo prelevò dopo la cattura del boss per passarlo al mafioso trapanese.

Le stragi mafiose del 1992 vennero decise in riunioni a Castelvetrano ed Enna, quando i boss acquisiscono consapevolezza che non ci sarà mai alcun annullamento in Cassazione della sentenza del maxi processo di Palermo.

«Il protagonismo di Matteo Messina Denaro lo troviamo nell’intera stagione stragista – aveva detto il Paci oggi reggente della Procura antimafia di Caltanissetta e tra i dieci candidati in corsa per l’incarico di capo della Procura di Trapani – e il suo nome è il collante tra diversi ambienti che si coagularono in quel periodo».

Messina Denaro voleva colpire i magistrati ma in particolare Paolo Borsellino. «Borsellino da tempo era nel mirino di Matteo Messina Denaro – aveva ancora sottolineato nella requisitoria il pm Paci – perché poco prima delle stragi aveva chiesto l’arresto del padre e per aver patrocinato la collaborazione di alcuni pentiti». «Per Matteo Messina Denaro, il magistrato Borsellino era colui che aveva scritto l’ordine di cattura nei confronti del padre, Francesco Messina Denaro, a cui viene sostanzialmente imposta la latitanza». Ma non solo.

Il processo ha evidenziato una circostanza clamorosa: Borsellino nel 1990 aveva chiesto la sorveglianza speciale contro Francesco Messina Denaro, ma quella richiesta venne bocciata dall’allora collegio dei giudici del Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani (collegio composto dall’odierno procuratore di Enna, Massimo Palmeri e dai giudici Barracco e Miranda), mentre già don Ciccio, che intanto nel 1988 aveva dato ordine di uccidere il giornalista Mauro Rostagno, si era dato latitante, senza essere ancora colpito da un ordine di cattura.

Matteo Messina Denaro nel giugno 1986 firmò una lettera diretta ai Carabinieri, che avevano convocato don Ciccio in caserma, scrivendo che il padre si era allontanato per motivi di lavoro senza lasciare detto dove cercarlo. Ma don Ciccio, patriarca mafioso del Belice, era già alle prese con gli intrecci criminali tra mafia, politica e massoneria, crocevia che per anni aveva permesso ai latitanti di restare nascosti nel trapanese, continuando a gestire i loro guadagni ottenuti dai traffici internazionali di droga.

Fu Matteo Messina Denaro che alla vigilia della strage del 19 luglio 1992, dove vennero massacrati Borsellino e gli agenti della scorta, a mandare i suoi sgherri a Trapani a prelevare dalle mani del capo mafia Vincenzo Virga il tritolo rimasto non usato per la strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985, esplosivo di marca militare, destinato a uccidere l’allora pm Carlo Palermo e che fece strazio di tre vittime, Barbara Rizzo di 30 anni e dei suoi gemellini di 6, Giuseppe e Salvatore Asta.

Lo stesso tipo di esplosivo che era spuntato sulla scena dell’attentato al Treno Rapido 904, nel 1984 e nel tentativo di strage sugli scogli dell’Addaura davanti la casa di Giovanni Falcone, nel 1989. La sentenza di martedì lo conferma.

Matteo Messina Denaro latitante dal giugno del 1993 «è ben piazzato al centro di una strategia stragista alla quale ha partecipato con consapevolezza – sottolinea ancora oggi il procuratore aggiunto Gabriele Paci – dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa nostra di continuare nel proprio intento: anzi, più che di consenso parlerei di totale dedizione alla causa corleonese.

Matteo Messina Denaro è già stato condannato all’ergastolo per le Stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano in cui morirono dieci persone, tra le quali due bambine Nadia e Caterina Nencioni, rispettivamente avevano 9 anni e appena due mesi di vitaRino Giacalone 21 Ottobre 2020 LIBERA INFORMAZIONE


Durante la requisitoria il pm Paci ha scandagliato i giorni precedenti all’attentato di via d’Amelio, riconoscendo una ‘accelerazione’ nelle fasi di organizzazione dell’omicidio. “L’accelerazione c’è stata e ce lo dice chiaramente Giovanni Brusca. C’è qualcosa di straordinariamente importante tra l’incarico di uccidere Mannino, a Brusca dato i primi giorni di giugno e ritirato da Riina il 20 di quel mese: in quel periodo va cercata la ragione reale dell’accelerazione”, aggiunge l’avvocato dei familiari del giudice ucciso il 19 luglio 1992. “Secondo la nostra analisi, abbiamo individuato un particolare interesse del giudice Borsellino nei confronti dell’intreccio mafia e appalti – conclude Trizzino – e l’ipotesi che questa abbia determinato la sua morte”. “Questa sentenza aggiunge un ulteriore tassello, restano da ricostruire le convergenze d’interessi che causarono la stagione stragista del 1992”. Lo dice all’AGI l’avvocato Fabio Trizzino che, assieme al collega Vincenzo Greco, ha rappresentato i familiari del giudice Paolo Borsellino nel processo in cui la corte d’Assise di Caltanissetta ieri, poco prima id mezzanotte, ha condannato all’ergastolo il latitante Matteo Messina Denaro con l’accusa di essere tra i mandanti anche delle stragi di Capaci e via d’Amelio del ’92. “Messina Denaro era l’ultimo dei grandi soggetti di Cosa nostra che finora era sfuggito alle sue responsabilità – dice il legale all’indomani della sentenza, nel rappresentare il pensiero della famiglia – sicuramente in quel momento storico vi sono state delle situazioni in qualche modo di convergenza rispetto a questa strategia politica di Cosa nostra: adesso bisogna ricercare gli eventuali mandanti esterni”. Nel corso del processo la Corte ha ascoltato decine di collaboratori di giustizia, ma anche investigatori dell’epoca, nel tentativo di ricostruire il contesto criminale e politico di quegli anni. (AGI)


CONDANNA MESSINA DENARO, PACI: ”FARE LUCE SU RAPPORTI CON MASSONERIA E SERVIZI” Il pm commenta la sentenza: “Ergastolo solo ora? Colpa dei troppi depistaggi” “Ci sono stati troppi depistaggi, troppe false informazioni fornite da falsi collaboratori di giustizia o pseudo collaboratori, ecco perché ci sono voluti 28 anni per arrivare a una sentenza per il boss latitante Matteo Messina Denaro, coinvolto nelle stragi mafiose del 1992″. A distanza di meno di 24 ore dalla sentenza il pubblico ministero Gabriele Paci ha commentato così all’AdnKronos la condanna all’ergastolo del super latitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, ritenuto dai giudici uno dei mandanti delle stragi del 1992. Un verdetto arrivato ieri intorno alla mezzanotte dopo ben 13 ore di camera di consiglio. “Alcuni collaboratori – ha affermato Paci dall’aula della corte d’Assise di Caltanissetta dove rappresenta l’accusa nel processo sul depistaggio della strae di via d’Amelio – sono stati messi nelle condizioni di dire stupidaggini perché sentivano cose de relato oppure hanno enfatizzato la figura di Mariano Agate che qualcuno ha indicato come capo di Cosa nostra”. Paci, che ieri notte era presente in aula per seguire la sentenza, si è detto “soddisfatto” per l’esito del processo. Perché, ha spiegato, “la condanna all’ergastolo è una rampa di lancio per una serie di indagini che adesso si possono fare con l’avallo di una sentenza”. Il Procuratore reggente di Caltanissetta Gabriele Paci, ha affermato anche che “serve adesso mettere insieme tutto il patrimonio raccolto dalle Procure che hanno indagato” su Cosa nostra e sulle stragi mafiose. “Fino ad oggi – ha spiegato – siamo andati ognuno per conto proprio. Ma ognuno di noi è il custode di un patrimonio che difficilmente diventa comune”. Ecco perché bisogna “capitalizzare le conoscenze” messe insieme. “Abbiamo un patrimonio enorme – ha affermato – e dobbiamo mettere in comune delle conoscenze che sono negli archivi di ciascuno di noi”. “Appena dieci anni fa – ha detto ancora il magistrato – abbiamo messo il dito su una serie di depistaggi. E non è stato un solo depistaggio, è stato un continuo depistare”. Anche su Matteo Messina Denaro. “Era un uomo di vertice di Cosa nostra in quegli anni lui e Graviano sono gli uomini su cui Totò Riina fonda la campagna della stagione stragista”. Eppure gli inquirenti “sono andati a cercare altre presenze”. E a quel tempo “venne indicato falsamente come rappresentante provinciale di Cosa nostra di Trapani e quindi responsabile delle stragi Mariano Agate – ha detto Paci – Che era un autorevolissimo uomo d’onore, fedelissimo di Riina, però non è mai stato il capo di Cosa nostra trapanese. Era invece il padre di Matteo Messina Denaro, Francesco”. Ecco perché “tutte le indagini e i processi da Capaci a Borsellino vengono fatti indirizzandosi sulla persona di Mariano Agate e tralasciando completamente sia la figura del padre di Messina Denaro che dello stesso Matteo Messina Denaro”, detto il pm. In questi due anni e mezzo di processo a Caltanissetta “si è passato al setaccio tutta la vicenda di preparazione alle stragi, dopo che sono emersi una serie di atti nuovi importantissimi”. Secondo il magistrato “oggi bisogna fare un’azione che allora non fu fatta”, ecco perché serve fare nuove indagini, più compiute, più unitarie. “Non si può recuperare la memoria del tempo ma oggi la mia capacità di lettura di certi avvenimenti nel tempo è certamente diversa”, ha detto Paci. “Se tutti ci mettessimo davanti al tavolo con la voglia di essere propositivi su questi temi, potremmo ottenere importanti risultati”. Insomma, per quanto riguarda Messina Denaro e il ruolo che ha svolto nelle stragi mafiose, “c’è una parte nota di Cosa nostra e poi c’è una parte cha ancora ci manca, e mi riferisco ai suoi rapporti con la massoneria ad esempio”. “Sappiamo che ci sono stati legami con la massoneria e i servizi ma non sappiamo dare una declinazione. Bisogna dunque incrociare i dati, fare un lavoro di intelligence”, ha concluso il magistrato. AMDuemila 21 Ottobre 2020

21.10.2020 – “Questa sentenza aggiunge un ulteriore tassello, restano da ricostruire le convergenze d’interessi che causarono la stagione stragista del 1992”. Lo dice all’AGI l’avvocato Fabio Trizzino che, assieme al collega Vincenzo Greco, ha rappresentato i familiari del giudice Paolo Borsellino nel processo in cui la corte d’Assise di Caltanissetta ieri, poco prima id mezzanotte, ha condannato all’ergastolo il latitante Matteo Messina Denaro con l’accusa di essere tra i mandanti anche delle stragi di Capaci e via d’Amelio del ’92. “Messina Denaro era l’ultimo dei grandi soggetti di Cosa nostra che finora era sfuggito alle sue responsabilità – dice il legale all’indomani della sentenza, nel rappresentare il pensiero della famiglia – sicuramente in quel momento storico vi sono state delle situazioni in qualche modo di convergenza rispetto a questa strategia politica di Cosa nostra: adesso bisogna ricercare gli eventuali mandanti esterni”. Nel corso del processo la Corte ha ascoltato decine di collaboratori di giustizia, ma anche investigatori dell’epoca, nel tentativo di ricostruire il contesto criminale e politico di quegli anni.  “Nel corso della requisitoria, nella definizione dello scenario, vari elementi convergono in una cointeressenza di vari ambienti per la destabilizzazione del Paese – continua l’avvocato Trizzino parlando con l’AGI – e da operatori del diritto dovremmo cercare le prove di coinvolgimenti esterni”. Oltre alle nuove prove – tra cui le intercettazioni in carcere di Totò Riina e le dichiarazioni dei pentiti Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina – il processo si è basato su una rilettura di alcuni episodi, incrociando elementi emersi nelle sentenze passate in giudicato. “Questo processo dimostra che la valorizzazione di elementi già agli atti può portare alla ricostruzione di quei fatti da sottoporre al giudizio di un giudice, io credo che ci siano disseminati qua e là – anche a dimostrazione dei vari processi svolti in 28 anni – elementi il cui approfondimento può portare alla rivalutazione di alcuni episodi che sono stati sottovalutati”.Durante la requisitoria il pm Paci ha scandagliato i giorni precedenti all’attentato di via d’Amelio, riconoscendo una ‘accelerazione’ nelle fasi di organizzazione dell’omicidio. “L’accelerazione c’è stata e ce lo dice chiaramente Giovanni Brusca. C’è qualcosa di straordinariamente importante tra l’incarico di uccidere Mannino, a Brusca dato i primi giorni di giugno e ritirato da Riina il 20 di quel mese: in quel periodo va cercata la ragione reale dell’accelerazione”, aggiunge l’avvocato dei familiari del giudice ucciso il 19 luglio 1992. “Secondo la nostra analisi, abbiamo individuato un particolare interesse del giudice Borsellino nei confronti dell’intreccio mafia e appalti – conclude Trizzino – e l’ipotesi che questa abbia determinato la sua morte”. (AGI)


Stragi del ’92, ergastolo per boss latitante Messina Denaro  Il boss latitante Matteo Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo per le stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. Lo ha deciso la Corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, dopo una camera di consiglio fiume iniziata poco dopo le 10 di questa mattina. Il latitante è accusato di essere tra i mandanti delle stragi del 1992. Il collegio si è riunito oggi dopo una breve udienza, durante la quale l’avvocato d’ufficio dell’imputato, Salvatore Baglio, ha replicato al contenuto di una memoria depositata dal pm Gabriele Paci in una delle ultime udienze. Al termine della lunga requisitoria durata otto udienze, il Procuratore aggiunto Gabriele Paci ha chiesto la condanna all’ergastolo per la ‘primula rossa’ di Cosa nostra. La difesa del boss ha chiesto invece l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Tra le parti civili del processo, iniziato nel 2017, ci sono i familiari degli agenti di scorta dei due giudici ma anche i figli del giudice Paolo Borsellino e il fratello Salvatore. Parte civile anche l’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza della Presidenza del consiglio e del ministero dell’Interno. Le parti civili sono rappresentate dagli avvocati Vincenzo Greco, Santi Centineo, Roberto Avellone, Giuseppe Crescimanno. Durante la lunga requisitoria il Procuratore aggiunto, presenta alla lettura del dispositivo, aveva parlato di “unanimità dei consensi al progetto sulle stragi di Totò Riina collegiale”. “Totò Riina – aveva detto Gabriele Paci un requisitoria- può contare su un gruppo di persone fidate che chiama “supercosa”, ai quali affida il compito di organizzare la missione romana. Questo rafforza Riina non soltanto perché ha un gruppo segreto che fa capo a lui ma perché questo gruppo gli consentirà tra le varie opzioni operative di optare per quella che era più funzionale alla realizzazione dei suoi interessi. Scartata la missione romana sceglie quella di Capaci. Indipendente dall’esito la supercosa rafforzò i propositi di Totò Riina, con un gruppo di persone pronto ad uccidere. Nell’ottobre del ’91, con l’appoggio di Messina Denaro, Totò Riina, seppe che aveva questa disponibilità di uomini e mezzi”. “Borsellino da tempo era nel mirino di Matteo Messina Denaro, perché poco prima delle Stragi aveva chiesto l’arresto del padre e per aver patrocinato la collaborazione di alcuni pentiti”, aveva ancora detto il procuratore aggiunto Gabriele Paci, ricostruendo davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta gli anni precedenti agli attentati di Capaci e via d’Amelio, nel processo in cui il latitante e’ accusato di essere uno dei mandanti. Per Matteo Messina Denaro, il magistrato era colui che aveva scritto l’ordine di cattura nei confronti del padre, Francesco Messina Denaro, a cui viene sostanzialmente imposta la latitanza”, aveva aggiunto il pm Paci.

Nel gennaio 1990 Borsellino aveva chiesto la sorveglianza speciale e il divieto di dimora per don Ciccio, ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta, ma sulla base delle stesse accuse nell’ottobre dello stesso anno venne emesso un ordine di cattura nei confronti del capomafia”. “Avere il consenso di Matteo Messina Denaro – aveva detto ancora il Pm Paci, Che oggi è reggente della Procura – gli consentiva di avere delle spie in ogni anfratto di Cosa Nostra che potevano portare alla luce quelli che erano i dissensi interni. Matteo Messina Denaro serve proprio a questo, a stanare e uccidere i riottosi”. Quando nel 1991 comincia la guerra di mafia Paolo Borsellino opera nel trapanese, nel territorio gestito da Matteo Messina Denaro. Abbiamo ripercorso quegli anni maledetti – aveva continuato il Pm Paci – Totò Riina, per iniziare la stagione stragista dovette veramente convincere i rappresentati provinciali della bontà del suo progetto, riuscire a costruire il consenso. Non è sostenibile che Totò Riina avrebbe comunque intrapreso a prescindere quella strada senza avere il consenso di Cosa Nostra, perché se ci fosse stato il dissenso di una delle province ci sarebbe stata una guerra. La storia di quegli anni non sarebbe stata la stessa. Messina Denaro non può aver prestato consenso con riserva. Fu lui più di tutti l’uomo che aiutò Riina a stroncare sul nascere le voci del dissenso interno”. Oggi è arrivata la sentenza, con la condanna a vita per il boss latitante. 21/10/2020di Elvira Terranova ADNKRONOS  


 

Processo Messina Denaro, il pm Paci: ”Dopo 20 anni domande mai fatte”.  “L’istruttoria di questo processo è stata difficile perché abbiamo fatto delle domande vent’anni dopo a persone a cui non avevano mai fatto domande del genere”. A dirlo è il Procuratore aggiunto Gabriele Paci nel corso delle repliche all’arringa sostenuta dai legali d’ufficio del latitante Matteo Messina Denaro, imputato davanti ai giudici della Corte d’Assise di Caltanissetta con l’accusa di essere il mandante delle stragi del ’92. Rispetto ai processi, definiti con sentenze passate in giudicato, “qui si aggiungono nuovi temi d’indagine mai esplorati in passato, perché non funzionali alle imputazioni precedenti”, ha detto il magistrato, riferendosi anche ai procedimenti istruiti negli anni novanta, quando da sostituto procuratore era in servizio a Trapani.  Nel corso della loro arringa, gli avvocati d’ufficio del latitante originario di Castelvetrano (Salvatore Pace e Salvatore Baglio), avevano affrontato singolarmente le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, evidenziandone alcune incongruenze. Un metodo secondo Paci scorretto in quanto “se si perde di vista il concetto unitario di questa vicenda complessa si ha gioco facile a prendere i singoli elementi e farli a pezzi, parcellizzandoli”.  Secondo l’accusa il boss di Castelvetrano ereditò il ruolo di vertice della mafia trapanese nell’autunno del ’91.  A chiarire il profilo del latitante a ridosso delle due stragi, “non ci sono soltanto i nuovi pentiti del trapanese, ma anche le dichiarazioni di Spatuzza e Tranchina”, ha riferito il pm, oltre che “le intercettazioni di Totò Riina in carcere, chiarissime nell’indicare chi era Matteo Messina Denaro, anche nel riferimento per l’omicidio di Paolo Borsellino a Marsala”. In alcune sentenze passate in giudicato (tra cui quella sull’attentato di Capaci, ndr) la leadership viene riconosciuta a Mariano Agate, che invece, nel corso della requisitoria dei mesi scorsi, è stato in qualche maniera “declassato” da capo del mandamento di Mazara del Vallo. “Nella sentenza d’appello – ha ricostruito Paci – si dice che Agate e Matteo Messina Denaro erano i capi di fatto, però Agate era stato alla riunione di Enna e per quello venne condannato”.  Tuttavia, ha aggiunto il magistrato, “qui non si è subordinato il ruolo di Matteo Messina Denaro alla sua presenza a riunioni di qualsiasi natura, il 90% dei condannati per quelle Stragi è stato condannato per questo”. Per quanto riguarda Mariano Agate il magistrato ha ribadito che lo stesso è deceduto, “ma se non fosse così, non avremmo minimamente pensato di avanzare una revisione di quella sentenza, che è perfettamente sovrapponibile al ruolo del nostro imputato”.  

Ad inizio udienza si è discusso della documentazione giunta all’attenzione della Corte d’Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, dal collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara. Il carteggio, composto da due lettere ed un esposto scritto, saranno trasmesse per competenza al Tribunale di Catania in quanto vi sono riferimenti contro il pm Paci. A quanto è dato sapere il contenuto delle tre missive si riferisce alla requisitoria condotta dal procuratore aggiunto Paci, nel corso della quale definì Calcara come “uno di quelli che inquinava i pozzi”, riferendosi ad alcune omissioni che sarebbero riscontrate nei suoi verbali. “Le dichiarazioni del Calcara, in questo processo, sono già state valutate nel corso della requisitoria”, ha detto il pm che, dopo aver preso visione delle tre lettere, ha chiesto la trasmissione degli atti al Tribunale di Catania, competente per i fatti che riguardano i magistrati in servizio nel distretto di Caltanissetta. Nel carteggio, tra l’altro, l’ex pentito ricorda di aver iniziato la sua collaborazione con il magistrato Paolo Borsellino, confessando di essersi rifiutato di eseguire un attentato contro il giudice, ordinato da don Ciccio Messina Denaro.AMDuemila 17.9.2020


UDIENZA 16 SETTEMBRE 2020   <GABRIELE PACI Pubblico Ministero RISPETTO ALL’INVIO ALLA CORTE DI DOCUMENTAZIONE DA VINCENZO CALCARA“  Rilevo che nello scritto si fa pesante allusione alla mia persona, gettando ombre sulla condotta sull’ufficio della procura nella persona di chi lo ha rappresentato in questo processo, siccome non è mia abitudine lasciare che si allunghino ombre sul mio operato giacchè non ho intenzione di prendere lezioni di morale da nessuno, laddove si adombra che l’attività istruttoria svolta da questo ufficio sia stata in qualche modo indirizzata da un’avversione dello scrivente nei confronti del signor Calcara al punto che sarei stato, diciamo, protagonista di un episodio, il giorno prima dell’inizio della requisitoria, che riguardava il signor Vaccarino nei confronti del quale il signor Calcara diciamo ha un rapporto personale evidentemente non particolarmente esaltante; ma questo non è un problema mio, il problema è che questo esposto viene inviato alla corte. Quindi viene lasciata una traccia alla corte, agli avvocati, a tutti coloro che hanno titolo ad avere accesso a questi atti. Quindi, non avendo nessun problema, e soprattutto nessuna ragione di temere nulla su quello che è stato l’operato della procura, e mio in questo processo , quindi le chiedo signor presidente di trasmettere gli atti alla procura di Catania, competente a valutare se nelle condotte descritte dal signor Calcara possano ravvisarsi elementi a carico dello scrivente.”
Dopo la camera di consiglio prende la parola l’ Avvocato Trizzino, legale dei figli del dr Borsellino “Signor presidente volevo fare una specificazione sulla lettera che è stata inviata dal Calcara, volevo semplicemente, Avvocato Trizzino per i figli del giudice, volevo semplicemente che si mettesse a verbale che io personalmente e le persone che rappresento prendiamo le distanze da qualunque riferimento che il Calcara fa a membri della famiglia Borsellino che io rappresento e anzi colgo l’occasione per diffidarlo dal continuare su questa strada giacchè la famiglia Borsellino in questi anni ha potuto soltanto constatare personalmente la serietà, l’abnegazione, lo sforzo immane che i pubblici ministeri, procuratori, che si sono avvicendati in questi anni, e in particolare proprio il dottor Gabriele Paci, una persona animata da un profondo spirito di ricerca della verità ma con gli strumenti consentiti dal codice e non facendo sociologia o storia, e quindi vorrei ribadire proprio la totale fiducia nell’operato di questa procura della Repubblica. E se siamo a questo punto lo dobbiamo soprattutto al loro lavoro.”


Intervento del legale della famiglia Borsellino avv. Trizzino  ”come legale dei figli del giudice Borsellino in questo processo, e io personalmente esprimo totale solidarietà alla procura della Repubblica di Caltanissetta in particolare al dottor Paci rispetto alla prospettazione offensiva contenuta nel documento cui noi oggi abbiamo preso visione. Noi della famiglia Borsellino intesi appunto Lucia Fiammetta Manfredi, e mi permetto anche la signora Agnese, hanno avuto totale fiducia nel lavoro di questa procura che dal 2008 sta faticosamente cercando di mettere insieme i pezzi di una verità che è stata fondamentalmente allontanata dall’operato dell’altra procura della Repubblica all’interno del quale c’era anche un componente. Quindi questi attacchi strumentali alla procura di Caltanissetta e soprattutto al dottor Gabriele Paci, di cui veramente mi onoro di essere anche amico, mi sembrano veramente un modo ulteriore per sovvertire ancora una volta la realtà di questa tragedia immane che è una lunga vicenda processuale che non si è ancora conclusa dopo 28 anni perché qualcuno nella procura di allora non ha fatto il proprio dovere. Ed è veramente inaccettabile che si muovano accuse gratuite a chi ha solo cercato, con gli strumenti del codice, e non facendo storia o sociologia, perché i processi si fanno con le prove, di aiutarci a capire cosa in realtà è successo in quella stagione terribile.
Quindi diffido il signor Calcara dall’utilizzare, anche in ragione di pregressi rapporti che nessuno nega con la famiglia Borsellino, di utilizzare i nomi dei figli del giudice o della signora Agnese per sostenere delle iniziative che noi non condividiamo assolutamente. Quindi questo deve rimanere solennemente a verbale; proprio perché” melius re perpensa”e guardando meglio all’interno di questa documentazione, tutto ciò è veramente paradossale. È veramente inaccettabile, grazie.
Presidente  ”vorrei che in ordine al contenuto delle dichiarazioni a prescindere dai riferimenti al dottor Paci vorrei una sua valutazione, argomentazione, circa la rilevanza delle dichiarazioni e l’attendibilità del collaboratore perché la corte non è a conoscenza”

Trizzino ”questa difesa ha fatto le sue valutazioni, abbiamo sostenuto che il giudizio di inattendibilità che la procura a monte ha ha fatto corrispondesse perfettamente si sovrapponesse perfettamente al medesimo giudizio di inattendibilità, che questa difesa, che poteva benissimo citare il Calcara, non lo abbiamo fatto nel corso del processo proprio perché consideravamo le dichiarazioni del Calcara inattendibili. Che poi questa valutazione corrispondesse a quella del pubblico ministero è un accidente.”>> Fonte: FB Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino 16.9.2020

AUDIO UDIENZE TRIBUNALE DI CALTANISETTA PROCESSO A MESSINA DENARO


Messina Denaro; pm, partecipò a sequestro Di Matteo “Anche Matteo Messina Denaro partecipa alle barbarie cui fu sottoposto il piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per tre anni per poi ucciso e sciolto nell’acido, autorizzando che il bambino, nel corso della lunga prigionia, resti per tre occasioni ristretto in un immobile vicino Castellamare e in uno vicino Custonaci”. Così il pm Gabriele Paci che, nel corso della requisitoria per il processo a Mattia Messina Denaro, ha ricostruito la carriera criminale del latitante, imputato, dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio.  “Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino – ha continuato Paci – fu sequestrato per tentare di bloccare la collaborazione del padre con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre a organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il piccolo Di Matteo viene tenuto segregato”. Dopo 779 giorni di prigionia il piccolo di Matteo, l’11 gennaio del 1996, venne strangolato e sciolto nell’acido. (ANSA).


Processo a Matteo Messina Denaro – Procuratore Paci a Vincenzo Calcara: Forse sarebbe il momento di dire la verità   Nel corso dell’udienza del “Processo a Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio”, tenutasi a Caltanissetta venerdì 12 giugno, il Procuratore aggiunto Gabriele Paci, dopo aver ricostruito i rapporti tra “cosa nostra” palermitana e quella trapanese, con particolare riferimento a quelli tra Riina e altri mafiosi di primo piano dell’ala corleonese e i boss storici della provincia trapanese e i Messina Denaro, ha fornito uno spaccato raggelante della realtà castelvetranese, ricordando uomini come l’ex questore Germanà, e altri appartenenti alle forze dell’ordine, che furono tra i primi a individuare nei Messina Denaro elementi di spicco della consorteria mafiosa, furono esposti al rischio di essere uccisi o attaccati al fine di impedirne le indagini, mentre appartenenti all’organizzazione criminale risultavano essere in possesso di regolare porto d’armi. Il Procuratore ha ricostruito quanto emerso nel corso dei numerosi processi sulle stragi, ricordando come diversi collaboratori di giustizia con le loro propalazioni nel corso di tutti questi anni avrebbero dato un notevole contributo alle indagini. Secondo Paci, la causa di così tanti processi fu dovuta a chi allontanò gli inquirenti dalla verità. La si deve all’errore marchiano di aver ritenuto Mariano Agate a capo della mafia della provincia di Trapani, focalizzando quindi l’attenzione su di lui che, nella qualità di capo della provincia, e quindi componente della commissione regionale di “cosa nostra”, fu chiamato a rispondere per Capaci e per la cupola del Borsellino, riportandone condanne. “Al tempo l’attenzione si focalizza su Agate Mariano. Si focalizza su di lui perché viene indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, in particolare da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara – afferma il Procuratore Paci – Ma è un errore marchiano, la fragilità di questa impostazione è emersa nel corso del processo, ma era emersa anche nel Capaci”. Secondo i giudici fu un errore al quale si rimediò in corso d’opera, perché alla fine effettivamente erano sorti dei contrasti e non era affatto sicuro che fosse lui, anzi probabilmente non lo era, il capo di “cosa nostra” trapanese,  però diede comunque un contributo sostanziale rafforzando la volontà di compiere la strage di Capaci. Nel corso dell’udienza il Procuratore Paci ha citato l’ex pentito Vincenzo Calcara che da tempo aveva chiesto di essere escusso nel corso di questo procedimento penale. Lex pentito che aveva indicato in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra” a Trapani, anziché indicarlo in Francesco Messina Denaro, del quale si definiva “uomo d’onore riservato”, Calcara aveva anche più volte scritto alla Corte d’Assise di Caltanissetta, sollecitando una sua escussione nel corso del processo chiedendo di essere sentito perché aveva indicazioni da dare su Matteo Messina Denaro. Calcara non è stato sentito. Perché? Il motivo lo spiega il Procuratore: “Perché Calcara è il signore che tace per anni il nome di Matteo Messina Denaro. È un collaboratore che nasce 91 come collaboratore come collaboratore di Borsellino. Spiega, dà tante indicazioni, ma non fa mai il nome di Matteo Messina Denaro al tempo in cui Matteo Messina Denaro uccideva e poi faceva le stragi. Sarebbe stato utile, se egli fosse effettivamente a conoscenza delle  gesta di Matteo Messina Denaro, sarebbe stato molto utile se ne avesse parlato nel 92 anziché  dire che il capo di “cosa nostra” era, neanche il padre Francesco , ma Agate Mariano.” A tal proposito, chi scrive, ricorda come durante telefonate intercorse con Vincenzo Calcara, ebbe a chiedere per quale motivo non disse subito che a “capo di cosa nostra” nella provincia di Trapani c’era Francesco Messina Denaro e per quale altra ragione non volle mai fare il nome di Matteo Messina Denaro, che pure ben conosceva essendo quasi coetanei e abitando nello stesso quartiere e avendo narrato dei loro rapporti fin da ragazzi nel libro dal titolo “Dai memoriali di Vincenzo Calcara – Le cinque entità rivelate a Paolo Borsellino”, scritto dalla giornalista Simona Mazza, che raccolse le testimonianze dell’ex pentito (analoghe testimonianze, sono pubblicate sul sito 19luglio1992). Alle domande in merito al ruolo di Francesco Messina Denaro e del perché non parlò di suo figlio Matteo, l’ex pentito affermò che Francesco Messina Denaro non poteva essere a capo di “cosa nostra” in quanto latitante (Riina, Provenzano e altri, non lo erano?) mentre di Matteo avrebbe spiegato successivamente perché non ne aveva parlato. I quasi trent’anni trascorsi dagli inizi della sua collaborazione, evidentemente, non permettevano ancora a Calcara di parlare di colui che se solo lo avesse indicato in quel lontano 1991, forse avrebbe impedito l’uccisione del Giudice Borsellino. “Forse sarebbe il momento di dire la verità, lui e tanti altri – continua il Procuratore riferendosi a Calcara – proprio su questi punti oscuri che ancora impediscono di fare luce sulle ambiguità, sui misteri che ancora permangono nonostante i tanti processi celebrati nella ricostruzione di queste vicende”. Paci sottolinea che Calcara dovrebbe  chiarire per quale motivo, a quel tempo, lui, anziché parlare di Matteo Messina Denaro, cioè nasce l’astro nascente, indicò in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra”. “Agate Mariano, che certamente non era un uomo  secondo a nessuno per l’esperienza, è un  uomo che  è stato  imputato e condannato nel primo  maxi; è uno che dagli anni settanta fa traffico internazionale di stupefacenti ad altissimo livello. Cioè, qui  non parliamo di Agate Mariano come fosse un uomo  di secondo ordine, Agate Mariano è un uomo di  primo ordine, di prima grandezza nel panorama mafioso, ma non aveva la qualifica di  capo, di rappresentante della Provincia di Trapani. Qualifica che apparteneva a Messina Denaro  Francesco,  che cede in successione, con l’avallo di Totò Riina,  al figlio”. Già, perché Calcara indicò in Agate Mariano il capo di “cosa nostra” della provincia di Trapani e non Francesco Messina Denaro? Perché non fece il nome di Matteo, che durante quel periodo organizzava le stragi? “Perché – continua il Procuratore – il signor Calcara  abbia voluto indirizzarci verso qualcosa che non era  storicamente preciso e perché non abbia voluto riferire del signor  Matteo Messina Denaro quando era il momento di riferire,  questo forse potrebbe essere la spiegazione di tante vicende e anche un punto d’ interesse per le future indagini”. Sì, forse partendo proprio da Calcara si potrebbe iniziare a far chiarezza su molti aspetti oscuri delle stragi e su possibili connivenze tra appartenenti alle istituzioni e uomini di “cosa nostra”, tra intrecci politico-affaristici-mafiosi e quel qualcosa che oggi ancora stentiamo a credere e a nominare. Quel che più addolora chi scrive, sotto il profilo umano, è stata l’ignobile capacità del falso pentito Vincenzo Calcara di non aver fatto nulla per salvare la vita del compianto Giudice Borsellino rivelando chi realmente era a capo della consorteria mafiosa della provincia di Trapani, e aver ingannato i famigliari del Giudice, anch’essi traditi, come tradito da un amico fu Paolo Borsellino. Ingannati anche gli investigatori, i magistrati e i giornalisti, con la stessa facilità contenuta nelle sue parole, raccontate da un suo compagno di cella: “Per prender per fessi i Giudici e i Carabinieri, basta solo un po’ di fantasia”. Gian. LA VALLE DEI TEMPLI 19.6.20


IL PADRE BOSS DEL BOSS  Francesco Messina Denaro, soprannominato Don Ciccio (Castelvetrano20 gennaio 1928[1] – Castelvetrano30 novembre 1998), è stato un criminale italiano, legato a Cosa NostraÈ stato il capo della cosca di Castelvetrano e del relativo mandamento, a partire dai primi anni ottanta. Era il padre del super latitante Matteo Messina DenaroFrancesco Messina Denaro, padre di Matteo Messina Denaro e di Patrizia Messina Denaro, con il figlio Matteo svolgeva l’occupazioni di fattore presso le tenute agricole della famiglia D’Alì, proprietari della Banca Sicula di Trapani (in quegli anni il più importante istituto bancario privato siciliano) e delle saline di Trapani e Marsala. In realtà era a capo del mandamento di Castelvetrano dopo la seconda guerra di mafia dei primi anni ’80, quando con il mazarese Mariano Agate fu alleato dei corleonesi, contro le famiglie palermitane e quelle alcamesi dei Rimi e trapanesi dei Minore. [4] Condannato a dieci anni dal tribunale di Trapani nel 1989 si rese latitanteNel 1992 il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara accusò Antonino Vaccarino, ex sindaco di Castelvetrano, di essere affiliato alla locale cosca in cui ricopriva la carica di “consigliere” del capo Francesco Messina Denaro. Vaccarino querelò Calcara per calunnia ma i giudici prosciolsero il collaboratore di giustizia perché specificarono nelle sentenza del processo che erano «accertati e significativi rapporti tra il Vaccarino e altri esponenti dell’articolazione locale di Cosa Nostra, quali Francesco Messina Denaro […]» con cui l’ex sindaco aveva costituito una cooperativa agricola[8]; tuttavia nei processi in cui era imputato, Vaccarino venne condannato in via definitiva soltanto per traffico di stupefacenti ma assolto dall’accusa di associazione mafiosa Nel 1994 fu tra i 74 mandati di custodia cautelare dell’operazione Petrov. Ricercato da più di 8 anni, Francesco Messina Denaro è stato ritrovato morto il 30 novembre 1998 nelle campagne di Castelvetrano, stroncato da un infarto Nell’ambito del processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, i pentiti Angelo Siino e Vincenzo Sinacori hanno dichiarato che l’omicidio è stato voluto da Francesco Messina Denaro, il quale aveva dato incarico al boss Vincenzo Virga perché provvedesse all’uccisione di Rostagno. 

Mafia: Messina Denaro; pm, partecipò a sequestro Di Matteo “Anche Matteo Messina Denaro partecipa alle barbarie cui fu sottoposto il piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e tenuto prigioniero per tre anni per poi ucciso e sciolto nell’acido, autorizzando che il bambino, nel corso della lunga prigionia, resti per tre occasioni ristretto in un immobile vicino Castellamare e in uno vicino Custonaci”. Così il pm Gabriele Paci che, nel corso della requisitoria per il processo a Mattia Messina Denaro, ha ricostruito la carriera criminale del latitante, imputato, dinanzi alla Corte d’Assise di Caltanissetta di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio. “Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino – ha continuato Paci – fu sequestrato per tentare di bloccare la collaborazione del padre con la giustizia. Matteo Messina Denaro oltre a organizzare e deliberare il sequestro mette a disposizione, nel trapanese, i covi in cui il piccolo Di Matteo viene tenuto segregato”. Dopo 779 giorni di prigionia il piccolo di Matteo, l’11 gennaio del 1996, venne strangolato e sciolto nell’acido. (ANSA).

 

Processo a Matteo Messina Denaro – Procuratore Paci a Vincenzo Calcara: Forse sarebbe il momento di dire la verità   Nel corso dell’udienza del “Processo a Matteo Messina Denaro accusato di essere uno dei mandanti degli attentati di Capaci e Via D’Amelio”, tenutasi a Caltanissetta venerdì 12 giugno, il Procuratore aggiunto Gabriele Paci, dopo aver ricostruito i rapporti tra “cosa nostra” palermitana e quella trapanese, con particolare riferimento a quelli tra Riina e altri mafiosi di primo piano dell’ala corleonese e i boss storici della provincia trapanese e i Messina Denaro, ha fornito uno spaccato raggelante della realtà castelvetranese, ricordando uomini come l’ex questore Germanà, e altri appartenenti alle forze dell’ordine, che furono tra i primi a individuare nei Messina Denaro elementi di spicco della consorteria mafiosa, furono esposti al rischio di essere uccisi o attaccati al fine di impedirne le indagini, mentre appartenenti all’organizzazione criminale risultavano essere in possesso di regolare porto d’armi. Il Procuratore ha ricostruito quanto emerso nel corso dei numerosi processi sulle stragi, ricordando come diversi collaboratori di giustizia con le loro propalazioni nel corso di tutti questi anni avrebbero dato un notevole contributo alle indagini. Secondo Paci, la causa di così tanti processi fu dovuta a chi allontanò gli inquirenti dalla verità. La si deve all’errore marchiano di aver ritenuto Mariano Agate a capo della mafia della provincia di Trapani, focalizzando quindi l’attenzione su di lui che, nella qualità di capo della provincia, e quindi componente della commissione regionale di “cosa nostra”, fu chiamato a rispondere per Capaci e per la cupola del Borsellino, riportandone condanne. “Al tempo l’attenzione si focalizza su Agate Mariano. Si focalizza su di lui perché viene indicato erroneamente come capo della provincia di Trapani, in particolare da Leonardo Messina e Vincenzo Calcara – afferma il Procuratore Paci – Ma è un errore marchiano, la fragilità di questa impostazione è emersa nel corso del processo, ma era emersa anche nel Capaci”. Secondo i giudici fu un errore al quale si rimediò in corso d’opera, perché alla fine effettivamente erano sorti dei contrasti e non era affatto sicuro che fosse lui, anzi probabilmente non lo era, il capo di “cosa nostra” trapanese,  però diede comunque un contributo sostanziale rafforzando la volontà di compiere la strage di Capaci. Nel corso dell’udienza il Procuratore Paci ha citato l’ex pentito Vincenzo Calcara che da tempo aveva chiesto di essere escusso nel corso di questo procedimento penale. Lex pentito che aveva indicato in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra” a Trapani, anziché indicarlo in Francesco Messina Denaro, del quale si definiva “uomo d’onore riservato”, Calcara aveva anche più volte scritto alla Corte d’Assise di Caltanissetta, sollecitando una sua escussione nel corso del processo chiedendo di essere sentito perché aveva indicazioni da dare su Matteo Messina Denaro. Calcara non è stato sentito. Perché? Il motivo lo spiega il Procuratore: “Perché Calcara è il signore che tace per anni il nome di Matteo Messina Denaro. È un collaboratore che nasce 91 come collaboratore come collaboratore di Borsellino. Spiega, dà tante indicazioni, ma non fa mai il nome di Matteo Messina Denaro al tempo in cui Matteo Messina Denaro uccideva e poi faceva le stragi. Sarebbe stato utile, se egli fosse effettivamente a conoscenza delle  gesta di Matteo Messina Denaro, sarebbe stato molto utile se ne avesse parlato nel 92 anziché  dire che il capo di “cosa nostra” era, neanche il padre Francesco , ma Agate Mariano.” A tal proposito, chi scrive, ricorda come durante telefonate intercorse con Vincenzo Calcara, ebbe a chiedere per quale motivo non disse subito che a “capo di cosa nostra” nella provincia di Trapani c’era Francesco Messina Denaro e per quale altra ragione non volle mai fare il nome di Matteo Messina Denaro, che pure ben conosceva essendo quasi coetanei e abitando nello stesso quartiere e avendo narrato dei loro rapporti fin da ragazzi nel libro dal titolo “Dai memoriali di Vincenzo Calcara – Le cinque entità rivelate a Paolo Borsellino”, scritto dalla giornalista Simona Mazza, che raccolse le testimonianze dell’ex pentito (analoghe testimonianze, sono pubblicate sul sito 19luglio1992). Alle domande in merito al ruolo di Francesco Messina Denaro e del perché non parlò di suo figlio Matteo, l’ex pentito affermò che Francesco Messina Denaro non poteva essere a capo di “cosa nostra” in quanto latitante (Riina, Provenzano e altri, non lo erano?) mentre di Matteo avrebbe spiegato successivamente perché non ne aveva parlato. I quasi trent’anni trascorsi dagli inizi della sua collaborazione, evidentemente, non permettevano ancora a Calcara di parlare di colui che se solo lo avesse indicato in quel lontano 1991, forse avrebbe impedito l’uccisione del Giudice Borsellino. “Forse sarebbe il momento di dire la verità, lui e tanti altri – continua il Procuratore riferendosi a Calcara – proprio su questi punti oscuri che ancora impediscono di fare luce sulle ambiguità, sui misteri che ancora permangono nonostante i tanti processi celebrati nella ricostruzione di queste vicende”. Paci sottolinea che Calcara dovrebbe  chiarire per quale motivo, a quel tempo, lui, anziché parlare di Matteo Messina Denaro, cioè nasce l’astro nascente, indicò in Mariano Agate il capo provinciale di “cosa nostra”. “Agate Mariano, che certamente non era un uomo  secondo a nessuno per l’esperienza, è un  uomo che  è stato  imputato e condannato nel primo  maxi; è uno che dagli anni settanta fa traffico internazionale di stupefacenti ad altissimo livello. Cioè, qui  non parliamo di Agate Mariano come fosse un uomo  di secondo ordine, Agate Mariano è un uomo di  primo ordine, di prima grandezza nel panorama mafioso, ma non aveva la qualifica di  capo, di rappresentante della Provincia di Trapani. Qualifica che apparteneva a Messina Denaro  Francesco,  che cede in successione, con l’avallo di Totò Riina,  al figlio”. Già, perché Calcara indicò in Agate Mariano il capo di “cosa nostra” della provincia di Trapani e non Francesco Messina Denaro? Perché non fece il nome di Matteo, che durante quel periodo organizzava le stragi? “Perché – continua il Procuratore – il signor Calcara  abbia voluto indirizzarci verso qualcosa che non era  storicamente preciso e perché non abbia voluto riferire del signor  Matteo Messina Denaro quando era il momento di riferire,  questo forse potrebbe essere la spiegazione di tante vicende e anche un punto d’ interesse per le future indagini”. Sì, forse partendo proprio da Calcara si potrebbe iniziare a far chiarezza su molti aspetti oscuri delle stragi e su possibili connivenze tra appartenenti alle istituzioni e uomini di “cosa nostra”, tra intrecci politico-affaristici-mafiosi e quel qualcosa che oggi ancora stentiamo a credere e a nominare. Quel che più addolora chi scrive, sotto il profilo umano, è stata l’ignobile capacità del falso pentito Vincenzo Calcara di non aver fatto nulla per salvare la vita del compianto Giudice Borsellino rivelando chi realmente era a capo della consorteria mafiosa della provincia di Trapani, e aver ingannato i famigliari del Giudice, anch’essi traditi, come tradito da un amico fu Paolo Borsellino. Ingannati anche gli investigatori, i magistrati e i giornalisti, con la stessa facilità contenuta nelle sue parole, raccontate da un suo compagno di cella: “Per prender per fessi i Giudici e i Carabinieri, basta solo un po’ di fantasia”.   Gian. LA VALLE DEI TEMPLI 19.6.20


a cura di Caudio Ramaccini Direttore Centro Studi Sociali contro le mafie Progetto San Francesco