Era l’autista di Giovanni Falcone, il 29 luglio del 1983 andò a prendere sotto casa Rocco Chinnici. Volevano riformarlo a 27 anni, ma non si è arreso. Ecco perché. La sua testimonianza sabato su RaiUno, nel programma A sua immagine. Un uomo diritto nell’ anima e nel corpo, ferito ma non piegato. Lo senti parlare, lo guardi puntare quello sguardo intelligente e franco che non scappa mai e capisci che è stata la dirittura dell’ anima di Giovanni Paparcuri a tenere diritto il resto. Il misto di sana rabbia (ma lui direbbe un’ altra parola più colorita, più siciliana) e di ironia che sdrammatizza hanno tenuto e tengono a bada un dolore che non se ne va mai del tutto: perché sopravvivere è un po’ morire e non ci si fa mai pace. La prima vita di Giovanni Paparcuri è finita il 29 luglio del 1983. Anni prima aveva lasciato il lavoro in ferrovia, rimettendoci qualche soldo (non pochi) per seguire un desiderio: «Mi piaceva guidare veloce, in situazioni difficili». Vinse il concorso per autista giudiziario, il suo compito era guidare le blindate con i vetri da 4 centimetri su cui viaggiavano i magistrati a rischio di Palermo. Era stato a lungo autista di Giovanni Falcone, nell’ estate del 1983 accompagnava Rocco Chinnici Consigliere istruttore di Palermo. 29 luglio 1983 – Alle 8 di mattina del 29 luglio Paparcuri arrivò in via Pipitone Federico per prelevare il giudice sotto casa, sistemò l’ auto accanto a una 126. Con lui c’ erano il maresciallo Mario Trapassi e l’ appuntato Salvatore Bartolotta. «Bartolotta quel giorno era contrariato perché doveva essere altrove, aveva coperto il turno di un collega, a un certo punto mi chiese di andare io a sistemare la ricetrasmittente nella blindata. Stavo fissandola quando vidi che mi faceva il segnale consueto che indicava che il Consigliere era per le scale. Mi fermai nell’ auto ad aspettare». Quel gesto gli salvò la vita, se fosse sceso dall’ auto sarebbe morto come gli altri quattro: i carabinieri, il consigliere e il portiere del palazzo Stefano Li Sacchi: «È morto per un atto di stima: attendeva il consigliere ogni mattina, la stretta di mano era il suo gesto di riconoscenza non al magistrato – niente a che vedere con il servilismo di certi docili al potere – ma all’ uomo, all’ immenso cuore di Rocco Chinnici che non si tirava mai indietro davanti alle persone». Giovanni Paparcuri accenna a una foto appesa nella prima stanza delle tre del bunkerino dentro il palazzo di Giustizia di Palermo, che “Papa” – come lo chiamava Giovanni Falcone – oggi custodisce come un luogo dell’ anima, non come un museo, anche se il suo nome ufficiale ora è: Museo Falcone-Borsellino: «È una parola che non mi piace proprio: mi evoca oggetti inanimati e polvere. Per me questo luogo è vivo: c’ è dentro la vita che ho condiviso con le persone che non ci sono più». La foto ritrae via Pipitone dopo la devastazione del primo attentato commesso con autobomba, la 126, azionata con un telecomando. Per le modalità la strage è gemella di via d’ Amelio. Paparcuri indica le chiazze sull’ asfalto. È sangue: il suo. La deflagrazione gli ha danneggiato i timpani e il cristallino di un occhio; gli ha quasi staccato due dita della mano destra e gli ha lasciato in testa, in un gomito e in un ginocchio una collezione di schegge che ci sono ancora e nell’ anima macerie difficili da quantificare. Per anni è andato in via Pipitone a rendere omaggio di nascosto: «C’ è una domanda che mi porto dentro: Bartolotta e Tirabassi avevanno nove figli in due, io ancora nessuno, perché mi sono salvato io?». La seconda vita Quando dopo un anno di convalescenza Paparcuri provò a tornare a lavorare, ben sapendo che l’ idoneità per guidare una blindata sarebbe venuta meno, l’ ospedale militare gli propose un congedo, volevano riformarlo: in pensione a 27 anni. Rifiutò: «Firmare mi sarebbe sembrata una resa, un tradimento verso me stesso, lo Stato e soprattutto le persone che erano morte nella strage che aveva ucciso anche qualcosa di me». Oggi Paparcuri chiama quella voglia di resistere con una metafora siciliana: «corna dure», che non gli hanno impedito di sentirsi un tantinello “cornuto e mazziato” quando lo Stato, prendendo atto che non voleva arrendersi al corpo segnato, – per ringraziarlo di non aver disertato né prima né dopo la strage, benché Chinnici li avesse avvisati dei rischi aggiungendo: «Se chiedete il trasferimento io non vi giudico» – non trovò di meglio che declassarlo di due livelli: dal quarto dell’ autista giudiziario, al secondo del commesso. Anche se nel frattempo la sua seconda vita era cominciata, in un altro posto dove si rischiavano le corna: negli uffici in cui si istruiva quella che sarebbe diventata la prima indagine informatizzata della storia italiana, sfociata nel Maxiprocesso di Palermo. L’ aveva voluto lì Paolo Borsellino perché sapeva che Paparcuri, appassionato di diavolerie elettroniche, avrebbe tenuto testa al “casciabanco” che ancora oggi abita a beneficio dei visitatori la prima stanza del bunkerino: un computer formato comò. Il gergo del Palazzo di Giustizia chiamava bunkerino le stanze, con citofono e porta blindata, in cui lavoravano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, confinati lì per prudenza dentro i meandri della Corte d’ appello, dopo che un attentato all’ ufficio postale adiacente aveva mostrato la potenziale penetrabilità dell’ ufficio istruzione. Si fidavano di “Papa” come uno dei loro e, alla fine dell’ immane lavoro che produsse una stanza di carte processuali e centinaia di mafiosi imputati poi condannati, Giovanni Falcone volle rendergli merito del suo lavoro, ringraziandolo accanto al capo dell’ ufficio istruzione Antonino Caponnetto nell’ introduzione all’ ordinanza sentenza del Maxiprocesso: in quel documento la qualifica “commesso giudiziario” è compresa tra le virgolette, sono il segno di protesta di Falcone nei confronti di quel declassamento. Giovanni Paparcuri è andato in pensione nel 2009 dopo 29 anni di servizio. Ma i ricordi non riposano, non se ne vanno come non se ne vanno le persone uccise che hanno segnato per prossimità la sua vicenda umana. Di nuovo nel “bunkerino” Quando nel 2016, pochi mesi prima che scattasse il 25° anniversario delle stragi di Capaci e Via D’ Amelio, ha preso forma l’ idea di un museo nel bunkerino – aperto nel 2016 per volere della giunta distrettuale di Palermo dell’ Associazione nazionale magistrati -, è diventato chiaro che quelle tre stanze vuote avrebbero potuto tornare a riempirsi in un solo modo: affidandole alle cure e alle parole di Giovanni Paparcuri che in dieci anni lì dentro ha visto vivere ogni oggetto, ogni muro, ogni riga d’ inchiostro, pieni della vita e delle voci delle persone che ci lavoravano e della sua. È cominciata così la terza vita di Paparcuri. E se oggi quelle stanze si rianimano, e in qualche modo anche i giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Francesca Morvillo, massacrati nel 1992, ci tornano a vivere, ogni volta che Giovanni Paparcuri apre la porta per accogliere un nuovo visitatore che vuole sapere, è perché le sue parole a volte dure, a volte ironiche, a volte amare ma sempre profondamente oneste tornano a iniettarvi il flusso della vita vissuta. Giovanni, che ci infonde tanto tempo e non solo, replica a chi si meraviglia: «Si sorprendono perché non voglio “vendere” i miei ricordi, io mi sorprendo perché pensano che i miei ricordi abbiano un prezzo». In realtà un prezzo minuscolo (e salutare) da pagare c’ è e ne vale la pena: è il piccolo viaggio autoanalitico che ciascuno deve compiere per compilare uno dei campi obbligatori del formulario di prenotazione, il meno scontato. Occorre scrivere il motivo della visita e conviene non barare. Ne ha bisogno Giovanni per essere sicuro che i suoi ricordi, che probabilmente gli costano più di quanto lasci trapelare, non finiscano al vento, sprecati da un uditorio indifferente. FAMIGLIA CRISTIANA di Elisa Chiari26/10/2018