di Paolo Borsellino
Ricordo che, quando ero io un ragazzo, invidiavo un compagno di scuola che asseriva di avere il padre o il nonno “ntisu” (leggi letteralmente: “ascoltato”, ma intendi: “riverito”, “obbedito”. Si tratta di una forma di obbedienza assoluta ad ordini non ostentati, appena pronunciati sia pure sotto forma di consigli o di desideri, ma la cui esecuzione non poteva essere impunemente ignorata). Evidentemente ignoravo che in quegli anni già Cosa Nostra agiva con inaudita ferocia, uccidendo senza pietà anche miei coetanei (ricordo per tutti Paolino Riccobono). Occorre che i giovani sappiano cos’è la mafia perché non accettino mai di vivere con essa. Rispetto al passato, ora si è registrato un passo avanti, in Sicilia, come nel resto del paese, per quanto riguarda la maggiore consapevolezza dell’esistenza e della pericolosità del fenomeno mafioso. Basti pensare che sino a qualche anno fa non era raro trovare chi addirittura negasse l’esistenza della mafia. Non vi è però una corrispondente diminuzione allo stato della pericolosità di Cosa Nostra, che nonostante gli indubbi successi conseguiti dall’apparato repressivo condiziona ancora l’ordinato svolgersi della vita sociale e grava pesantemente sull’economia, non solo isolana. Per fare un rapido excursus va ricordato che già le indagini della prima Commissione antimafia avevano dimostrato l’inconsistenza delle riduttive e spesso interessate opinioni, secondo cui la “mafia” sarebbe soltanto un modello subculturale e “mafioso”, un particolare atteggiarsi di certi soggetti non necessariamente inseriti a pieno titolo nel mondo della criminalità organizzata. Quelle indagini infatti avevano messo in luce l’esistenza di una vera e propria organizzazione criminale, con struttura verticistica e unitaria, pur articolata in numerose “famiglie” mafiose operanti su determinati territori dai quali prendevano nome. Queste conoscenze si dispersero nel decennio 1970-1980 e, scemata del tutto l’attenzione al fenomeno, si consentì all’organizzazione di assumere le pericolosissime proporzioni attuali. Oggi, anche a seguito della ponderosa indagine istruttoria condotta a Palermo, peraltro contestuale a nuova attenzione al fenomeno da parte del legislatore, anche a causa dell’impressionante numero di delitti di sangue verificatisi a Palermo nel biennio 1981-1982, non è più seriamente dubitabile, innanzitutto, che “mafia” in senso stretto null’altro è che l’associazione criminosa “Cosa Nostra” articolata in varie famiglie palermitane, siciliane e campane, che, avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle particolari condizioni di assoggettamento ed omertà che ne deriva, commette delitti, principalmente contro la persona ed il patrimonio, ha acquisito il monopolio del grande traffico internazionale di stupefacenti, gestisce e controlla, riciclando il “denaro sporco”, attività economiche cosiddette paralecite.
Altre similari associazioni, operanti in altre zone del territorio statuale ed anche all’estero, aventi analoghe caratteristiche, possono dirsi di “tipo mafioso” ed assumono varie denominazioni, quali principalmente “ndrangheta” e “camorra”. Essendo la mafia organizzazione criminale, come ho precedentemente detto, cresce attorno ad essa, come l’acqua attorno al pesce, una miriade di persone, coinvolte comunque negli interessi dell’organizzazione pur non facendone istituzionalmente parte; costoro, che nella migliore delle ipotesi sono coloro che alimentano la convinzione delle possibilità di “convivenza” con la mafia, costituiscono la vera forza dell’organizzazione. Qualcuno, certamente sprovveduto e certamente in buona fede, fino a poco tempo fa continuava a vagheggiare romanticamente una vecchia mafia che dispensava giustizia quando lo Stato era assente e nessuno difendeva il debole dal sopruso del forte. Per non continuare a far vivere suggestive immagini destituite di verità, va detto con la massima forza e chiarezza che, in ordine alle caratteristiche criminali-associative, non vi è alcuna differenza tra la cosiddetta vecchia mafia e la nuova. Vi è stato invece un enorme dilatarsi degli interessi e dei profitti (soprattutto a causa della monopolizzazione del grande traffico di droga) e, quindi, un maggior uso della violenza per assicurarne il conseguimento; violenza che si è più frequentemente rivolta anche contro i rappresentanti delle pubbliche istituzioni, che hanno tentato di affrontare più radicalmente il fenomeno. Io stesso ho sperimentato la forza arrogante del potere mafioso, assistendo per lunghi anni ad una vera e propria strage di colleghi, collaboratori ed amici, proditoriamente uccisi dal piombo mafioso. La subdola e sottile capacità di penetrazione della mafia l’ho accertata da un canto attraverso le indagini che ho condotte. Ne ho sentito personalmente gli effetti nei tentativi anche inconsci fatti da persone conoscenti appartenenti agli ambienti più vari per infondermi sfiducia sulla reale utilità del mio lavoro. Non sono in pochi a sostenere che lo Stato è colpevole, sia pure per mera assenza o disattenzione grave. La vera colpa principale dello Stato è stata quella di aver visto sempre la “mafia”, salvo per brevissimi periodi storici e con accentuati quanto rapidi riflussi, come un problema regionale, non avente come tale gravità sufficiente da sollecitare uno sforzo sia preventivo che repressivo. Altra colpa è quella di aver pensato che essa era un problema della sola magistratura e che, una volta assicurato a questa mezzi e strutture, il problema era da considerarsi chiuso. I fatti hanno dimostrato che non è così. Attualmente infatti (e stiamo, a mio parere, proprio attraversando un’altra perniciosa fase di riflusso) vi è la tendenza degli organi statuali centrali e di certa opinione pubblica ad identificare il problema della lotta alla mafia con quello concernente lo svolgimento del cosiddetto “maxiprocesso”, dimenticando, intanto, che il momento giudiziario non è l’unico né il più importante (perché ha la limitata funzione di scoprire e punire delitti già commessi) e che, per altro, certamente non tutta la mafia è dentro l’aula-bunker e va sostenuta e incoraggiata con sforzi continui e costanti (senza emergenze o normalizzazioni) l’attività di indagine e quella di controllo del territorio ove opera Cosa Nostra. A chi da sempre sostiene che la mafia è attecchita e prospera solamente in Sicilia per la grande presenza di una forte disoccupazione quindi dalla facilità di reperire manovalanza criminale, può obiettarsi – dati alla mano – che non vi è un rapporto costante tra il prosperare degli affari di Cosa Nostra e l’espandersi o il permanere di larghe fasce di emarginazione sociale. Ne è prova l’attecchire delle “famiglie” mafiose (o della loro attività) in centri di grossa concentrazione di ricchezza, quali ad esempio la Lombardia ed il Piemonte. E’ vero comunque che la manovalanza impiegata nelle azioni omicide, nelle estorsioni, nel traffico di droga, etc., viene più facilmente reperita nelle fasce più emarginate della popolazione ed una azione di profondi interventi sociali non può non avere in questo campo che risultati positivi. La vera terra bruciata però può farsi soltanto attaccando il cuore di Cosa Nostra, cioè le sue attività economiche e gli illeciti profitti conseguiti. E’ questo lo spirito della legge Rognoni-La Torre per il cui funzionamento tuttavia occorre trovare modi e sistemi per rendere indagini bancarie e patrimoniali più sollecite e penetranti. In Sicilia, pur con le remore dovute a fattori storici anche estranei all’attività di Cosa Nostra, esiste certamente anche ora un’attività economica onesta che non si riallaccia ad interessi mafiosi. Non c’è dubbio tuttavia che la presenza massiccia di capitali provenienti da attività illecite e gestiti dalle famiglie mafiose, tendenzialmente operanti anche in attività paralecite, in regime di monopolio, finisce per condizionare gran parte delle attività economiche, sia per il più facile reperimento di capitali da parte del mafioso-imprenditore, che già di per sé provoca una marginalizzazione dell’impresa non mafiosa, sia perché anche nelle attività apparentemente lecite il mafioso è portatore di una carica di violenza, utilizzata anche per l’emarginazione della concorrenza. Un passo in avanti compiuto dalle forze sane dello Stato va individuato nella già dimostrata tangibilità del mito dell’omertà: è decisamente già un fattore positivo. Occorre però liberarsi del tutto da certi atteggiamenti subculturali e dalla filosofia del “farsi i fatti propri”. Ma occorre anche qualcosa di più: sostenere con movimenti di opinione e con le più opportune iniziative l’opera dell’apparato repressivo dello Stato e vigilare perché il “riflusso” non riassorba ciò che di positivo si è ottenuto. Occorre aver chiaro il concetto che compito della magistratura e finalità, quindi, dei processi è quello di accertare la consumazione di reati ed applicare le relative pene. Dalle indagini, comunque, emergono spesso episodi di “contiguità” tra personaggi politici, potentati economici e sociali e ambienti mafiosi. Tali episodi raramente integrano gli estremi di reato e danno quindi luogo ad incriminazioni. Tuttavia in presenza di essi è dovere della classe politica o degli ambienti sociali ed economici fare pulizia al loro interno, non trincerandosi dietro la mancata iniziativa giudiziaria. Non credo comunque nelle misure eccezionali o addirittura extralegalitarie assunte dallo Stato sia pure a fin di bene. Lo sforzo statuale, ripeto, deve essere continuo e costante, ma nell’ambito delle leggi generali e nel rispetto delle garanzie del cittadino