TRATTATIVA STATO MAFIA

 

La TRATTATIVA e i PROCESSI

 


LA TRATTATIVA STATO-MAFIA di A.BOLZONI, S.PALAZZOLO e F.TROTTA

E’ il processo che negli ultimi anni in Italia ha sollevato più polemiche e che ha spaccato anche la magistratura. Tutti ne parlano (o ne straparlano) ma pochi conoscono le pagine di questa colossale inchiesta che trae origine dai patti inconfessabili stretti prima, durante e dopo le stragi siciliane del 1992.

In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo un’ampia sintesi delle motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, processo che si è chiuso nell’aprile del 2018 dopo 5 anni e mezzo di udienze con un verdetto eclatante della Corte di Assise di Palermo (presidente Alfredo Montalto, giudice a latere Stefania Brambille) che ha condannato a dodici anni i generali dell’Arma dei carabinieri Mario Mori e Antonino Subranni che erano ai vertici del Ros, stessa pena per l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, otto anni sono stati inflitti all’ex colonnello Giuseppe De Donno, ventotto al boss corleonese Leoluca Bagarella.

Assolto perché “il fatto non sussiste” per falsa testimonianza l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, assolto dal concorso esterno ma condannato per calunnia a otto anni nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, l’ex sindaco di Palermo.

Una sentenza che ha accolto la ricostruzione dei pubblici ministeri Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Francesco Del Bene e Vittorio Teresi: e cioè che uomini dello Stato avevano negoziato in quello spaventoso 1992 con i vertici di Cosa Nostra in cambio della fine dei massacri e delle bombe. Un dialogo che sarebbe proseguito anche l’anno successivo.

Il processo d’appello è iniziato a fine dell’aprile scorso ed è in pieno svolgimentoAncora prima delle condanne un altro giudice aveva assolto l’ex ministro Calogero Mannino – che aveva scelto il rito abbreviato – dall’accusa anche lui di avere partecipato alla trattativa Stato-mafia. Di più: di essere lui stesso l’origine del patto in quanto terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima. L’ex ministro Mannino è stato assolto in primo grado e un paio di settimane fa anche in Appello “per non avere commesso il fatto”. Da una parte una Corte che sostiene che sia stato Mannino la “miccia”  del “dialogo” e dall’altra una Corte che lo esclude categoricamente. In attesa della sentenza d’Appello per gli imputati già condannati con il rito ordinario, leggiamoci le carte sullo Stato che processa se stesso.

Non era mai accaduto che rappresentanti delle istituzioni a così alto livello e capimafia fossero seduti insieme sul banco degli imputati. Oggi – proprio grazie a questo processo – qualcosa in più sappiamo, nonostante i troppi “non ricordo” degli uomini delle istituzioni chiamati a testimoniare.

Ma resta l’interrogativo più grande: Paolo Borsellino, che aveva appreso del patto segreto degli alti ufficiali dei carabinieri con Vito Ciancimino, fu ucciso perché voleva fermare la trattativa fra Stato e mafia?


Il rapporto “Mafia e Appalti”  Il tema del c.d. rapporto “mafia e appalti” redatto da R.O.S. dei Carabinieri nel 1991 è stato oggetto di una amplissima attività istruttoria, sia orale che documentale, che la Corte ha stentato ad arginare per l’iniziale difficoltà di comprendere le finalità probatorie perseguite.

Ben diciannove testimoni (Umberto Sinico, Gioacchino Natoli, Massimo Ciancimino, Carlo Vizzini, Giuseppe Lipari, Liliana Ferraro, Claudio Martelli, Giovanni Brusca, Angelo Siino, Antonino Giuffrè, Riccardo Guazzelli, Luciano Violante, Giovanna Livreri, Gian Carlo Caselli, Alfonso Sabella, Nicolò Marino, Guglielmo Sasinini, Vittorio Aliquò ed Agnese Piraino Leto) hanno a vario titolo riferito anche riguardo alla vicenda del rapporto “mafia e appalti” e sulla stessa, soprattutto per iniziativa delle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno, sono stati acquisiti innumerevoli documenti per lo più diretti a documentare gli esiti di complessi procedimenti svolti si sia dinanzi al Consiglio Superiore della Magistratura, sia presso Autorità Giudiziarie a seguito di denunzie che hanno visto come protagonisti alcuni magistrati delle Procure di Palermo e Catania ed alcuni appartenenti al R.O.S. dei Carabinieri.

Molta di tale attività istruttoria si è incentrata, per iniziativa della Pubblica Accusa, sulla dimostrazione di una doppia refertazione dei Carabinieri del R.O.S. verso le Procure di Palermo e Catania che avrebbe avuto l’effetto di sottrarre per molto tempo alle indagini del primo Ufficio alcuni “politici” tra i quali Calogero Mannino (si vedano, per tutte, le dichiarazioni del teste Gioacchino Natoli […]); e, per iniziativa delle difese degli imputati sopra ricordati, invece, sulla negazione di tale accadi mento (per vero con prova riguardante non l’informativa definitiva consegnata nel febbraio 1991, ma alcune informative preliminari contenenti la mera trascrizione di intercettazioni consegnate ai Dott.ri Falcone e Lo Forte già il 2 luglio 1990 e il 5 agosto 1990) e, semmai, sulla dimostrazione di anomalie procedurali da parte di taluni magistrati della Procura di Palermo ad iniziare dal magistrato che all’epoca (fino al 1992) la dirigeva, il Dott. Giammanco […].

La Corte ritiene di dovere omettere qui un resoconto dettagliato di tutte le risultanze probatorie offerte dalle parti sulle questioni prima accennate, poiché queste appaiono di scarsissima (se non nulla) rilevanza per i fatti oggetto dell’imputazione di reato elevata in questo processo (e, per tale ragione, sono state anche respinte tutte le richieste di ulteriori acquisizioni documentali reiterate dalle difese ancora in sede di discussione e, conseguentemente e subordinatamente, anche dal P.M. persino in sede di replica all’ultima udienza del 16 aprile 2018).

La vicenda del rapporto “mafia e appalti” nasce e si sviluppa ben prima dei fatti riconducibili alla c.d. “trattativa” tra esponenti delle Istituzioni ed i vertici mafiosi e non sembra alla Corte che possa essere in alcun modo collegata e connessa a questa se non per quell’esile filo che sarebbe costituito soltanto dall’ulteriore prova di rapporti tra alcuni esponenti politici ed alcuni appartenenti all’Arma da un lato e tra tal uni di questi ultimi ed alcuni mafiosi dall’altro.

Sennonché, quanto al primo profilo, ai fini della prova dei fatti che rilevano in questa sede, appare sufficiente quanto già verificato e riportato sopra riguardo ai rapporti tra l’On. Mannino e il Gen. Subranni (nonché il M.llo Guazzelli), restando del tutto irrilevante ogni ulteriore approfondimento su eventuali favoritismi in favore del primo tanto nell’indagine “mafia e appalti” quanto nelle precedenti indagini svolte a carico del medesimo On. Mannino presso la Procura di Sciacca (pure oggetto di attività istruttoria e di un non breve excursus in sede di discussione della difesa degli imputati Subranni e Mori, che, per le medesime ragioni di sostanziale irrilevanza probatoria che ha dato luogo al rigetto delle relative istanze di acquisizioni documentali, qui possono omettersi di riferire ed esaminare); quanto al secondo profilo, le risultanze, peraltro di ambigua lettura (si pensi a tutta la vicenda dei rapporti tra il M.llo Lombardo e Angelo Siino), appaiono ugualmente irrilevanti ai fini della valutazione degli accadi menti maturati a partire dai primi contatti degli Ufficiali del R.O.S. con Vito Ciancimino che hanno dato luogo alla formulazione della ipotesi di reato qui da verificare.

V’è, però, un aspetto del rapporto “mafia e appalti” che appare qui rilevante approfondire in quanto in ipotesi connesso con la decisione di uccidere il Dott. Borsellino e, per meglio dire, con quell’improvvisa accelerazione impressa alla programmata esecuzione di tale omicidio di cui si è detto prima.

Le difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno, infatti, pur contestando che vi sia stata tale accelerazione nell’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino (accelerazione che, invece, a parere di questa Corte appare inconfutabile per gli inequivocabili elementi di prova, sopra ricordati, tra loro certamente convergenti sebbene eterogenei), hanno con forza prospettato durante tutto il corso del dibattimento (con l’evidente intento di allontanare ogni possibile collegamento con la “trattativa”) e, poi, ancora, in sede di discussione seppur con qualche oscillazione argomentativa (v. trascrizione udienza dell’8 marzo 2018) la convinzione che il Dott. Borsellino sia stato ucciso per la sua decisione di iniziare ad occuparsi della vicenda del rapporto “mafia e appalti”.

Ed in effetti, sono stati acquisiti elementi che comprovano l’intendimento del Dott. Borsellino di studiare il fascicolo relativo al rapporto “mafia e appalti” nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la strage di via D’Amelio.

Di ciò ha riferito il teste delle predette difese Umberto Sinico, secondo il quale, appunto, nel giugno del 1992 vi fu presso gli Uffici della Sezione Anticrimine dei Carabinieri di Palermo un incontro tra il Dott. Borsellino e il Col. Mori, ai quali, poco dopo, si era, però, aggiunto anche il Cap. De Donno […], per parlare specificamente, per quanto probabilmente riferito poi dallo stesso De Donno a Sinico […], proprio del rapporto “mafia e appalti” che era stato redatto, infatti, dallo stesso Cap. De Donno […].

Per vero, come evidenziato dal P.M. nel corso della sua requisitoria all’udienza del 15 dicembre 2017 sia pure sulla scorta di una risultanza probatoria utilizzabile esclusivamente nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno e cioè la testimonianza di Carmelo Canale (il quale in questa sede si è avvalso della facoltà di non rispondere, ma le cui dichiarazioni rese nel processo a carico di Mori e Obinu dinanzi al Tribunale di Palermo in data 20 febbraio 2011 sono state qui acquisite su richiesta, ex art. 468 comma 4 bis C.p.p., appunto degli imputati Subranni, Mori e De Donno), in realtà, la ragione di quell’incontro sollecitato dal Dott. Borsellino non riguardò propriamente il (contenuto del) rapporto “mafia e appalti”, ma un anonimo che in quei giorni circolava e che veniva attribuito al Cap. De Donno […].

In ogni caso, il teste Gioacchino Natoli, quindi, pur non ricordando che il Dott. Borsellino ebbe un giorno ad allontanarsi per parlare con il Col. Mori del rapporto “mafia ed appalti” […], ha, comunque, confermato che dopo la strage di Capaci lo stesso Dott. Borsellino gli aveva chiesto una copia del rapporto “mafia e appalti” […].

In occasione della testimonianza resa in questo processo, peraltro, il Dott. Natoli, sulla base di un ineccepibile riscontro temporale precedentemente non valorizzato, ha avuto modo di correggere una imprecisione delle sue precedenti dichiarazioni del 21 novembre 1992, allorché aveva, infatti, erroneamente riferito, non soltanto di quella richiesta di copia del rapporto “mafia e appalti” fattagli dal Dott. Borsellino, ma anche – errando – di avere parlato con quest’ultimo della c.d. doppia refertazione del R.O.S. alle Procure di Palenno e Catania, di cui egli, però, aveva appreso soltanto nel mese di ottobre 1992 e, quindi, dopo la morte del Dott. Borsellino […].

Una ulteriore conferma della circostanza che il Dott. Borsellino si stesse interessando, almeno in termini generali, anche delle vicende di “mafia e appalti” si trae anche dalla deposizione del teste Carlo Vizzini, il quale, infatti, ha riferito che di ciò ebbe a parlare con lo stesso Dott. Borsellino nel corso di una cena avvenuta a Roma il 16 luglio 1992 (“[…] DICH VIZZINI CARLO : – Guardi, l’argomento, prescindendo dai convenevoli e dalle considerazioni generali che si fanno in queste circostanze, credo che loro fossero reduci da un interrogatorio di un collaboratore che se non ricordo male era Mutolo. E poi l’argomento che impegnò il tempo più grande della cena, fu un forte interesse del dottore Borsellino alla vicenda di mafia e appalti … … … io avevo già denunciato in un convegno, alla fine del 1988, ho con me una copia del giornale L’Ora che ne parlò, ad un convegno di un altro partito dove c’erano diversi imprenditori che si lagnavano, mi permisi di dire: ma gira voce che in Sicilia gli appalti si vincano con una pistola posata sul tavolino. Il Giornale L’Ora pubblicò questa cosa, ma poi nulla … Non ci fu nessun altro seguito. Quando ci incontrammo, in realtà era già stato arrestato quello che poi venne definito il Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, il nomignolo era Bronson e il nome vero Siino. E debbo dire … E però ancora non era diventato collaboratore di giustizia, era stato arrestato ma non era ancora collaboratore di giustizia. […]”), pur se, poi, il teste, ridimensionando una sua precedente sintetizzazione giornalistica in cui aveva parlato di “chiodo fisso” del Dott. Borsellino, ha precisato che, ovviamente, intendeva soltanto dire, con quell’imprecisa (e infelice) espressione, che quello della vicenda “mafia – appalti” era stato l’argomento principale della conversazione di quella sera presso il ristorante romano […] e non certo che quella fosse l’unica o principale vicenda giudiziaria di cui si occupava il medesimo Dott. Borsellino […], tanto più che quest’ultimo neppure gli aveva parlato specificamente di un’indagine in corso […], ma soltanto, in generale, del fenomeno in questione […].

Quest’ultima circostanza, peraltro, trova conferma nella già richiamata testimonianza del Dott. Natoli, pure presente a quelle cena, il quale, infatti, ha riferito che, appunto, si parlò di appalti soltanto in termini di generalità e senza alcun riferimento ad indagini specifiche in corso […].

Anche la teste Liliana Ferraro ha riferito che, in occasione di un incontro avvenuto alla fine del mese di giugno di cui si parlerà più ampiamente più avanti in altro capitolo, il Dott. Borsellino le parlò, tra l’altro, della questione del rapporto “mafia e appalti” (” …. la maggior parte del nostro colloquio ha riguardato l’indagine mafia – appalti, che era quella fatta da De Donno e dai R.O.S. “), anche se, in questo caso, l’interesse del suo interlocutore era indirizzato, più che alla vicenda processuale in sé, all’anomalo invio del rapporto al Ministero operato dal Procuratore della Repubblica di Palermo […].

Parimenti anche il Dott. Aliquò, allora Procuratore Aggiunto presso la Procura di Palermo, ha confermato di avere parlato del rapporto “mafia e appalti” in occasione di alcune riunioni col Dott. Borsellino, e ciò anche perché, inizialmente, si era ipotizzato pure che questo potesse essere collegato alla strage di Capaci, anche se, poi, tale ipotesi era rimasta priva di qualsiasi supporto probatorio […].

Alla stregua dei predetti elementi di prova, dunque, può ritenersi certo che il Dott. Borsellino nel periodo compreso tra la strage di Capaci e la sua morte si sia occupato (anche) del rapporto “mafia e appalti”.

Tuttavia, non v’è alcun elemento di prova che possa collegare tale evenienza alla improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del Dott. Borsellino se si tiene conto, oltre del fatto obiettivo che tale indagine non era certo l’unica né la principale di cui quest’ultimo ebbe ad interessarsi in quel periodo (basti pensare che il Dott. Borsellino, tra le altre indagini, stava raccogliendo le dichiarazioni di alcuni collaboratori di Giustizia agrigentini e, da ultimo, anche del palermitano Gaspare Mutolo), che nessun spunto idoneo a collegare tra la vicenda “mafia e appalti” con la morte del Dott. Borsellino è possibile trarre dalle dichiarazioni dei tanti collaboratori di Giustizia esaminati e cui, peraltro, la vicenda “mafia e appalti” era ben nota.

Inoltre, vi sono, soprattutto, alcune considerazioni, sì, di ordine logico, ma fondate su obiettive risultanze, che consentono di escludere tale ipotizzata e prospettata causale.

Depone, invero, in senso contrario, innanzi tutto, il fatto che quell’interessamento del Dott. Borsellino per l’indagine “mafia e appalti” non ha avuto all’epoca alcuna risonanza pubblica.

D’altra parte, non v’è neppure certezza che il Dott. Borsellino possa avere avuto il tempo di leggere il rapporto “mafia e appalti” e di farsi, quindi, un ‘idea delle questioni connesse, mentre, al contrario, è assolutamente certo che non vi fu alcuno sviluppo di quell’interessamento nel senso di attività istruttorie eventualmente compiute o anche soltanto delegate alla P.G., che, conseguentemente, possano avere avuto risalto esterno giungendo alla cognizione dei vertici mafiosi così da allarmarli e spingerli improvvisamente ad accelerare l’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino medesimo. Ma v’è di più.

V’è, infatti, un ‘ulteriore considerazione che, sotto il profilo logico, consente di escludere la conclusione propugnata dalle difese prima ricordate sul possibile collegamento tra l’indagine “mafia e appalti” e l’uccisione del Dott. Borsellino.

Ci si intende riferire al fatto che la vicenda “mafia e appalti”, per quanto riguarda il versante mafioso, aveva già avuto esito almeno un anno prima (con l’arresto, tra gli altri, di Angelo Siino) e non si comprende, dunque, quale preoccupazione talmente viva, attuale e forte avrebbero potuto avere i vertici mafiosi per sviluppi investigativi che, al più, avrebbero potuto attingere quegli esponenti politici che avevano tratto lucro dal patto spartitorio degli appalti garantito da “cosa nostra”.

Né appare verosimile ritenere che tal uno di tali esponenti politici, preoccupato delle conseguenze per sé pregiudizievoli di un possibile sviluppo di quell’indagine, possa avere avuto, nei confronti dei vertici, mafiosi una “forza contrattuale” tale da imporre loro addirittura una modifica della generale strategia di contrasto allo Stato in quel momento già decisa ed in corso di attuazione.

[…] Si ritiene, dunque, di potere escludere con assoluta e fondata certezza che quell’input dato da Salvatore Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il Dott. Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni (v. intercettazione ambientale sopra già ricordata), mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione (tra i quali quello concernente l’On. Mannino di cui ha riferito Giovanni Brusca), possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo Dott. Borsellino al rapporto “mafia e appalti”, tanto più che ancora lontana – e allora assolutamente non prevedibile – era ancora la collaborazione che Angelo Siino avrebbe intrapreso con la Giustizia soltanto molto tempo dopo.

Appare del tutto evidente, piuttosto, che in quel periodo deve necessariamente essersi verificata ben altra evenienza, che, per la sua importanza e rilevanza, ha avuto l’effetto di far rompere ogni indugio a Salvatore Riina, inducendolo a sconvolgere la “scaletta” del proprio programma criminoso ed a anticipare, quindi, un delitto, che, in quel momento, all’apparenza, sarebbe stato totalmente controproducente per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, se non altro per l’effetto catalizzatore che avrebbe avuto contro la tracotanza mafiosa e di conseguente inevitabile tacitamento delle opposizioni di carattere “garantista”, interne ed esterne al Parlamento, che si erano levate di fronte al “giro di vite” che il Governo si apprestava ad attuare nell’azione di contrasto alle mafie (v. quanto già osservato sopra in proposito).

Ed allora, se così è, può ugualmente escludersi che tale sopravvenuta evenienza possa ricollegarsi anche alle indagini conseguenti alla collaborazione di Gaspare Mutolo, che, semmai, potevano apparire più pregiudizievoli, non già per i mafiosi, ma per alcuni alti esponenti della Polizia e per tal uni magistrati che in passato avevano intrattenuto rapporti – quanto meno ambigui – con esponenti mafiosi.

E può parimenti escludersi, tra tali possibili eventi, anche la prospettata nomina del Dott. Borsellino quale Procuratore Nazionale Antimafia, frutto, peraltro, soltanto di un’improvvida “uscita” televisiva di un Ministro dell’Interno (l’On. Scotti) di un Governo in fase di rinnovo e che era stata già respinta dal medesimo Dott. Borsellino.

D’altra parte, tale possibile nomina non era certo in quel momento così imminente, né sarebbe stata tale da determinare effetti di così immediato pregiudizio per gli interessi di “cosa nostra”.

Ed allora, è giocoforza ritenere che l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio.

Ora, ove anche non si volesse pervenire alla conclusione prospettata dalla Pubblica Accusa che Riina abbia deciso di uccidere il Dott. Borsellino temendo la sua opposizione alla “trattativa”, conclusione che, peraltro, trova una qualche convergenza nel fatto che, secondo quanto riferito dalla moglie Agnese Piraino Leto, il Dott. Borsellino pochi giorni prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle Istituzioni e mafiosi (v. dichiarazione della detta teste di cui si dirà anche più avanti: ”… mi ha accennato qualcosa e non in quel contesto, che c’era una trattativa tra la Mafia e lo Stato, ma che durava da vero un po’ di tempo… dopo la strage di via … di Capaci, dice che c’era un colloquio tra la Mafia e alcuni pezzi « infedeli» dello Stato, e non mi dice altro …”), in ogni caso, non v’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai Carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio del Dott. Borsellino con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente da Istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo, dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile ed efferata violenza concretizzatasi nella strage di via D’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo.

Non v’è dubbio, infatti, che quei contatti che già all’indomani della strage di Capaci importanti e conosciuti Ufficiali dell’Arma avevano intrapreso attraverso Vito Ciancimino, unitamente al verificarsi di accadimenti (quali l’avvicendamento di quel Ministro dell’Interno, che si era particolarmente speso nell’azione di contrasto alle mafie, in assenza di plausibili pubbliche spiegazioni) che potevano ugualmente essere percepiti come ulteriori segnali di cedimento dello Stato, ben potevano essere percepiti da Salvatore Riina già come forieri di sviluppi positivi per l’organizzazione mafiosa nella misura in cui quegli Ufficiali lo avevano sollecitato ad avanzare richieste cui condizionare la cessazione della strategia di attacco frontale allo Stato.

Si vuole dire in altre parole, che, se effettivamente quei segnali pervennero a Salvatore Riina nel periodo immediatamente antecedente alla strage di via D’Amelio (e che ciò effettivamente avvenne, come si vedrà, risulta provato) è logico e conducente ritenere che Riina, compiacendosi dell’effetto positivo per l’organizzazione mafiosa prodotto dalla strage di Capaci, possa essersi determinato a replicare, con la strage di via D’Amelio, quella straordinaria manifestazione di forza criminale già attuata a Capaci per mettere definitivamente in ginocchio lo Stato ed ottenere benefici sino a pochi mesi prima (quando vi era stata la sentenza definitiva del maxi processo) assolutamente per lui impensabili.

Ma di ciò si dirà più diffusamente più avanti affrontando il tema dei contatti tra gli Ufficiali del R.O.S e Vito Ciancimino.


Giovanni Brusca e le “colpe” di Falcone  Le predette dichiarazioni trovano in gran parte riscontro nelle parole di un altro soggetto che, rivestendo anch’egli la carica di capo “reggente” di un “mandamento” della provincia di Palermo (quello di San Giuseppe Jato), aveva titolo per partecipare alle riunioni della “commissione provinciale”. Ci si intende riferire all’odierno imputato Giovanni Brusca, il quale ha, innanzitutto, confermato l’insoddisfazione che montava in Salvatore Riina per l’andamento del maxi processo ancor prima della sentenza definitiva della Corte di Cassazione e, conseguentemente, la ripetuta manifestazione della minaccia di uccidere l’On. Lima sul quale il Riina aveva fatto affidamento per “aggiustare” il maxi processo (” .. . da quando … durante il primo Maxiprocesso che io andavo dai cugini Salvo affinché intervenissero per intervenire sul presidente, su quella che era la situazione, per ottenere un favore positivo e le risposte erano sempre negative, quando io portavo le risposte da Totò Riina dice: “lo a questo lo devo ammazzare” e dipende dal tono e il modo come lo diceva per me già era sentenza, non c’era bisogno di aspettare il ’92. Poi era sempre il ritornello che continuava, ma già per me era il quadro. Siccome poi questa volontà è andata avanti che primo grado, secondo grado, in Cassazione non ha fatto niente, quindi è arrivato al punto quando poi ha chiuso il conto … …. …. Non era un ‘esternazione di quella “Ah, a questo lo devo ammazzare” o “Questo di qua” o un certo spazio, lo spazio di un ripensamento era l’ l%. Cioè, si poteva salvare … …. ….. si poteva salvare se l’onorevole Lima avrebbe portato un risultato positivo per Cosa Nostra …. …. …. io siccome ho vissuto in prima persona, sia perché imputato, ma perché mi ci mandava, prevalentemente era l’interesse di Totò Riina per il Maxiprocesso affinché venisse manipolato, aggiustato per ottenere un esito positivo, in particolar modo quella che era la fissazione sua era il teorema Buscetta la cosiddetta commissione …. …. …. lo l’ho seguito dal primo giorno. Poi sempre un ‘altra lamentela ci fu quando non intervenne perché si fece un decreto, ora non mi ricordo in dettaglio, di retroattività. che ci fu una contestazione tra Difesa. Pubblico Ministero e Corte. e lui non intervenne affinché questo decreto non passasse … …. ….. Possiamo dire che tutte le richieste di Riina non trovavano soddisfazione”).

Brusca ha, quindi, riferito che la questione del maxi processo fu oggetto di più riunioni della “commissione provinciale” tenutesi a partire dal 1990 e nelle quali via via si prese atto dell’evoluzione della vicenda sino a quell’intervento, attribuito al Dott. Falcone, finalizzato a far sostituire il Presidente Carnevale, sul quale erano riposte le aspettative dei mafiosi, con altro Presidente della Corte di Cassazione con conseguente previsione dell’esito infausto per l’associazione mafiosa che, infine, vi sarebbe stato (“E allora. riunioni di commissione provinciale ce ne sono state più di una …. ‘” … dal novanta … ’92, fino a che è arrestato Riina ho partecipato a quattro cinque o forse qualcuna di più ……. ….. E quindi io in queste riunioni successive, siccome già al fatto dell ‘onorevole Lima non ci stavo attento. io stavo attento a quelle che erano le novità dell’oggetto, perché l’onorevole Lima già sapevo che … Lima, il dottor Falcone il dottor Borsellino questi io già li sapevo da una vita, ogni volta c’erano novità dipende qual ‘era l’esigenza del contendere. Attraverso questi fatti mi ricordo che si discuteva in commissione di Cosa Nostra … …. ….. Guardi, più che discussioni c’erano ricordi. rinnovamenti … …. …. Guardi. diciamo che da quando fu assegnato in commissione, cioè in Cassazione, cioè, facciamo un piccolo passo indietro, in Corte d’Assise d’appello il processo stava andando bene, cambiò la situazione quando cominciò a collaborare Francesco Marino Mannoia che cominciò a collaborare nel corso d’opera e stravolse quelle che erano le aspettative, tant’è che io ero stato assolto in primo grado e in secondo grado poi sono stato condannato, come tanti altri. le condanne all ‘ergastolo e via dicendo. Quindi poi si sperava di poterlo aggiustare in Cassazione e da lì sono stati… … .. .. Principalmente con la corrente …attraverso l’onorevole Lima e l’onorevole Andreotti, poi c’erano anche… .. ……. Ma lui doveva intervenire principalmente, se non ricordo male, che ci fu di evitare la cosiddetta, la rotazione dell ‘assegnazione, in maniera che … doveva fare in modo che arrivasse al dottor Carnevale, in sostanza, questo era l’interesse di Totò Riina…. …. .. … Che poi Totò Riina attraverso altri canali l’avrebbe … nel merito ci sarebbe entrato, ma quantomeno voleva che lui facesse in modo che facesse assegnare questo processo al dottor Carnevale. Nel merito  lui pensava di farlo gestire attraverso un amico di Mazara del Vallo, un avvocato, non mi ricordo chi è, con Carnevale erano molto amici, amici, si conoscevano non so se per quali fini o per quali motivi … ; ….  P.M DR. TERESI – E quindi la rotazione di questa turnazione nell’assegnazione dei processi in Cassazione, come dire, sconvolse le vostre aspettative?; IMPUTATO BRUSCA – Sì, con l’intervento del dottor Giovanni Falcone …. …. …. Ma l’abbiamo capito subito quando lui da Palermo se ne andò a Roma per andare a fare principalmente questo, perché era un lavoro suo e quindi voleva portarlo a termine …. …. …. Davamo la colpa a Falcone, ma principalmente a Martelli che gli aveva consentito di fare questo … cioè, di andare a occupare questo posto … …. ….. Anche qui io la volontà di uccidere il dottor Falcone per me risale già subito dopo Chinnici e ho fatto pure dei tentativi, ho studiato pure degli obi… cioè delle abitudini, per una serie di fatti sempre veniva rinviato. Quando invece in ultima battuta sapevo di questo fatto, però io non sapevo ancora la volontà di Totò Riina, io c’entro, tra virgolette, per sbaglio in quest’attentato …. …. … Cioè, io entro nella fase … sapevo la deliberazione, sapevo la volontà di Totò Riina, io entro nel piano esecutivo di portare a termine tutta una serie diattentati omicidiari e quant’altro … “). Indi, Brusca ha confermato che nel dicembre 1991 si tenne un’ulteriore riunione della “commissione provinciale” (“Che io mi ricordi l’ultima fu, credo, come di solito si faceva sempre, a Natale ’91, tutta allargata, successivamente … “), forse in un luogo diverso dalla casa di Guddo (“L’ultima, che io mi ricordo, fu a casa del cugino di Salvatore Cancemi, di un certo… Non mi ricordo come si chiama …. ; … P.M DR. TERESI – È possibile che si chiami Guddo?; IMPUTATO BRUSCA – No, c’è un altro, c’è un altro che poi è stato individuato. A casa di Guddo ne abbiamo fatto altre di riunioni, ma questa che mi ricordo credo che sia l’ultima, che mi ricordo anche la presenza di Nino Giuffrè, si chiama questo … è stato già individuato, è stata individuata pure la casa, avendo assistito ad altri processi, però in questo momento non mi viene il nome, Vito, Vito… eravamo in uno scantinato, comunque vicino la casa di Guddo, perché Totò Riina si muoveva sempre nell’ambito da casa sua dove abitava vicino alla rotonda, si muoveva, diciamo, nell’arco di un chilometro, 2 chilometri, 3 chilometri, non andava oltre …. …. …. Si muoveva nel territorio di Raffaele Ganci, di Angelo La Barbera e Salvatore Cancemi …. “), cui parteciparono quasi tutti i capi “mandamento” tra i quali anche Giuffré (“Ma partecipammo quasi … no “quasi”, tutti, credo che fu un momento che in due o tre occasioni partecipammo tutti, al/ora eravamo … …. ….. Salvatore Riina per Corleone e capo provincia, Biondino Salvatore che sostituiva Giuseppe Giacomo Gambino, Angelo La Barbera per Porta Nuova, per Passo di Rigano che sostituiva Salvatore Buscemi, Matteo Motisi per Pagliarelli, Salvatore Montalto che sostituiva il padre per Villabate che prima era Bagheria e poi è diventato Villabate, io per San Giuseppe Jato, Giuseppe Graviano per Brancaccio, Francesco Lo lacono per Partinico che sostituiva Geraci Antonino il vecchio, Giuffi-è Antonino per Caccamo, Salvuccio Madonia per San Lorenzo, Pietro Aglieri e Carlo Greco per Santa Maria di Gesù, Raffaele Ganci per la Noce, credo di averli detti tutti … “) e nella quale, come pure riferito dallo stesso Giuffrè, prese la parola Riina, manifestando, senza alcuna opposizione dei presenti, l’intendimento di uccidere i Dott.ri Falcone e Borsellino quali nemici storici di “cosa nostra” ed alcuni politici che, a suo dire, avevano tradito “cosa nostra”, tra i quali Lima e, forse, Mannino (” …. Di solito in queste circostanze li prendeva sempre Salvatore Riina, erano quasi sempre monologhi, difficilmente qualcuno interveniva, perché quando parlava lui tutti gli altri ascoltavano o per amore o per timore o perché gli conveniva, era quasi sempre lui che parlava.

Interveniva qualcuno tipo mi ricordo Matteo Motisi che fece un intervento, non mi ricordo qual era il motivo e quasi no lo rimproverò, ma per educazione per l’età lo mise un po’ a tacere, ed era quello che voleva … cioè, voleva uccidere tutti, che si doveva vendicare, che non riusciva più a portare avanti quelle chenerano le sue esigenze, dell’interesse di Cosa Nostra, che lui stava facendo tutto, che la politica si stava … i politicanti lo stavano tradendo. Questa è la sostanza dell’argomento… …. .. … Sì, faceva i nomi… … .. … Ma principalmente c ‘era il dottor Giovanni Falcone. quello era il suo chiodo fisso. poi c ‘era quello del dottor Borsellino che lo nominava da tanto tempo, si è aggiunto Lima che io già sapevo e poi tutta un ‘altra serie di nomi di politici … … …. Prima di tutto, il primo di tutti era Giovanni Falcone, il secondo era il dottor Borsellino che io sapevo già dagli anni Ottanta, si ci è aggiunto a questo, in base a quello che già … perché nel ’91 già … non è che aspettavamo la sentenza di Cassazione che veniva confermata, sapevamo, e quindi pubblicamente esternava la volontà di uccidere Lima. Credo qualche altro politico. non mi ricordo se fece quello di Mannino o di qualche altro, il nome di qualche altro l’abbia fatto. Là, in quella circostanza, non disse: “Dobbiamo uccidere, tu pensa a questo. io penso … “.”Dobbiamo uccidere”, punto …. …. …. O meglio “Ci dobbiamo rompere le corna” per semplificare il concetto della discussione… …. .. … Le ragioni stratificate nel tempo, sommate nel tempo dell’odio di Cosa Nostra verso Giovanni Falcone. poi ritenuto addirittura responsabile della questione della Cassazione. ne abbiamo parlato, per quanto riguarda il dottore Borsellino … …. ….. so. per l’arresto di Leoluca Bagarella, che era indagato per via Pecori Girardi per un omicidio e il dottor Borsellino non voleva accondiscendere alle sue richieste di aggiustamento da Pubblici Ministeri”).

Neppure secondo Brusca in quella riunione si parlò della “Falange Armata” e, quindi, come si vede, v’è sostanziale coincidenza tra il racconto del predetto e quello del Giuffrè al di là del luogo della riunione, riferito, peraltro, da quest’ultimo in termini incerti e che, d’altra parte, a distanza di tanto tempo può essere non ben ricordato da uno di essi o da entrambi.

Brusca, infine, ha attribuito quella decisione comunicata nella riunione esclusivamente a Riina ben conoscendo il potere assoluto che questi, all’epoca, esercitava in “cosa nostra” (“E in particolar modo Totò Riina. la persona di Totò Riina … … …. aveva un fatto specifico personale. per questo dico che aveva più interessi di tutti”) e, pertanto, ha detto di non essere a conoscenza della riunione della “commissione regionale” tenutasi a Enna (“No. non ne so nulla io di questa riunione”).

Di quest’ultima riunione, tuttavia, ha parlato Malvagna Filippo (il cui racconto è apparso lineare e, anche con riferimento alla scelta collaborativa, caratterizzato dall’assenza di elementi idonei ad inficiare l’attendibilità intrinseca del dichiarante), il quale ebbe ad apprendere di questa, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, dallo zio Pulvirenti Giuseppe, a sua volta informato da Benedetto Santapaola che vi aveva partecipato in qualità di capo della “provincia” di Catania (“P. M TARTAGLIA: – … ha avuto mai occasione di avere notizie su più generali strategie di politica criminale di Cosa Nostra? … DICH. MALVAGNA: – Sì. io ho avuto notizie in tal senso e in particolare verso la fine del 1991 – gli inizi del 1992 si parlava … Mio zio mi raccontò che vi era stata una riunione in provincia di Enna dove si erano riuniti tutti i vertici delle varie famiglie esistenti in Sicilia. Lui in particolar modo mi disse che aveva partecipato a questa riunione direttamente il Santapaola per quanto riguarda la famiglia. la nostra famiglia. si diceva all’epoca. E questa riunione era direttamente … Vi era in questa riunione. era presieduta da Salvatore Riina . …

… ha parlato Giuseppe Pulvirenti. Lui personalmente no, aveva partecipato il. .. … L’aveva saputo perché aveva partecipato a questa riunione il Santapaola e il Santapaola al rientro chiamò i vertici dell’organizzazione, tra cui anche il Pulvirenti, e lo mise al corrente dell’oggetto di questa riunione. … Ma adesso i miei ricordi sono lontani nel tempo, io se non vado errato siamo agli inizi del 1992, adesso non ricordo se siamo a gennaio, a febbraio, marzo, non ricordo di preciso la data precisa. P. M TARTAGLIA: – E quando Pulvirenti agli inizi del 92 gliene parla, le parla di una riunione accaduta, verificatasi quanto tempo prima? È in grado di dirlo questo? DICH. MALVAGNA : – Ma il tempo prima non lo so, lui mi parlava di poco tempo, dieci giorni, quindici giorni, un mese massimo. Di preciso non mi specificò la data quando venne fatta, mi disse che è stata fatta lì in provincia di Enna, … “).

In quella riunione, secondo quanto poi raccontato al Malvagna, Riina aveva pronunciato la frase “qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace” (“P. M TARTAGLIA : – E Pulvirenti le ha riferito qualche frase testuale, qualche passaggio testuale dell’intervento di Salvatore Riina in quella riunione? DICH. MALVAGNA: – Sì, mi ha riferito che Salvatore Riina ebbe a dire: bisogna, qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace. …. Sì, è una frase che aveva pronunciato direttamente Salvatore Riina in quella riunione”) sulla quale si tornerà più avanti per il significato che essa assume nel contesto dei fatti oggetto del presente processo.

Anche in quella riunione di Enna, ancora secondo quanto appreso e, quindi, riferito da Malvagna, Salvatore Riina si era lamentato delle promesse di politici non mantenute ed aveva prospettato che a quel punto occorreva muoversi “tipo libanesi, tipo i colombiani” e cioè con una strategia di attacco frontale verso lo Stato e con azioni idonee a confondere la matrice mafiosa o terroristica dell’atto criminale (“P. M TARTAGLIA: – … Perché bisognava fare la guerra per poi fare la pace? … DICH. MALVAGNA : – Ma di preciso non mi è stato detto, mio zio mi ha spiegato che erano venuti meno dei agganci che a Palermo avevano. Cioè, le persone che erano, avevano fatto delle promesse, non le avevano mantenute e in particolare parlava di zio Totò era molto arrabbiato. E quindi aveva deciso di mettere in atto questa, diciamo questa strategia, loro dicevano a tipo libanesi, tipo i colombiani, un attacco frontale per poi … Per fargli vedere che loro, cioè, meritavano … Erano capaci di destabilizzare diciamo anche la popolazione e lui mi parlò di una cosa tipo una cosa che poi doveva anche, doveva anche confondersi questa cosa, doveva confondersi, che non dovevano capire niente se era mafia, se era ritornato il terrorismo, tutte ste così ha detto, mi ha detto questo qua …. P. M TARTAGLIA : – … le è stato detto da chi erano rappresentati questi agganci? DICH MALVAGNA : – Ma da chi erano rappresentati nello specifico non mi venne detto, anche perché … Non mi venne detto nello specifico”).

Secondo Malvagna, in tale contesto, Riina aveva invitato a rivendicare le azioni che sarebbero state compiute con la sigla Falange Armata (“Sì, sì, direttamente il Salvatore Riina, come dicevo prima, siccome si doveva fare un po’ di confusione, che non si doveva capire da dove provenisse tutto questo terremoto, disse di rivendicare qualsiasi cosa con una frase, la così detta … Dovevano essere rivendicate dicendo che chi metteva in atto queste cose faceva parte della Falange Armata. P. M TARTAGLIA : – Questa fu quindi una richiesta di Salvatore Riina? Fu Salvatore Riina a proporre in quella sede di rivendicare gli attentati con la sigla Falange Armata? DICH MALVAGNA : – Sì, sì, si dovevano fare queste cose e rivendicarle con questa sigla di Falange Armata”), sino ad allora a tutti sconosciuta (“P. M TARTAGLIA : – … Lei o suo zio Pulvirenti in quel momento, cioè nei primi mesi del 92, avevate mai sentito parlare della sigla Falange Armata? DICH MALVAGNA: – No, io mai. P. M TARTAGLIA: – Quindi era una sigla sconosciuta a lei e ai componenti della sua organizzazione criminale? DICH. MALVAGNA – Che io sappia sì, era la prima volta che si sentiva dire”).

Della “Falange Armata” si dirà meglio più avanti, anticipando, però, sin d’ora, che effettivamente tutti i principali fatti delittuosi che da lì in poi sarebbero stati commessi da “cosa nostra” nel biennio 1992-93, ad iniziare dall’omicidio Lima, furono effettivamente rivendicati con la predetta sigla. Anche Malvagna, infine, ha confermato che già alla fine del 1991 a Catania i mafiosi erano consapevoli che il maxi processo, nel quale erano imputati anche importanti esponenti di quella “famiglia” quali Benedetto Santapaola e Carletto Campanella, avrebbe avuto un esito diverso da quello da loro sino ad allora sperato (“P. M TARTAGLIA: – … Ora io le vorrei chiedere sinteticamente: lei ha avuto modo di commentare la vicenda e l’evoluzione del Maxi Processo con Pulvirenti o con altri soggetti del suo gruppo criminale? DICH. MALVAGNA: – Ma io ho appreso che mentre mi trovavo a Catania in una riunione, sentivo parlare il capo decina con Salvatore Santapaola, che avevano già notizie ancora prima che la Cassazione si esprimesse, che il Maxi Processo andava male . … , io non ricordo le date precise, so che era in quel periodo, alla fine del 1991 …. Sì, c’erano parecchi imputati, c’era anche Santa paola era imputato al Maxi Processo. C’era mi sembra Carletto Campanella e qualche altro, adesso non ricordo. Però non è che se ne parlava soltanto a carattere personale, se ne parlava a carattere generale nell’ambito dell’organizzazione Cosa Nostra, perché loro avevano una… Cioè, era stata una grossa botta quella del Maxi Processo e loro avevano, non lo so, delle informazioni che si sarebbe sistemata la cosa, invece avevano informazioni che… Cioè che andava male. Prima che ancora ci … Io mi ricordo prima che poi c’è stata la sentenza ufficiale, loro già sapevano che andava male il Maxi Processo, adesso da quale canale lo sapevano non lo so”). In conclusione, dunque, può ritenersi provato che l’originario intento di Salvatore Riina, maturato già prima della pronunzia della sentenza della Corte di Cassazione all’esito del maxi processo (ma strettamente collegato alla previsione ormai certa, dopo la sostituzione del Dott. Carnevale, dell’esito infausto che questo avrebbe avuto) e che fu recepito senza alcuna opposizione all’interno dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, fu quello di scatenare la propria vendetta, uccidendo i Giudici Falcone e Borsellino, quali nemici “storici” della mafia responsabili della debacle che si preannunciava con la sopra ricordata sentenza, ed alcuni politici, iniziando da Salvo Lima, che avevano tradito le attese in essi riposte dallo stesso Riina.

Può, peraltro, già qui anticiparsi che la predetta ricostruzione ha trovato ulteriore definitivo riscontro nelle stesse parole di Salvatore Riina intercettate nel 2013 all’interno del carcere in cui il predetto era detenuto e di cui si darà ampio resoconto più avanti nella Parte Quinta della presente sentenza (v., soprattutto, intercettazioni del 6, 8, 18, 20, 29 e 31 agosto 2013, 24 e 27 settembre 2013 e 27 ottobre 2013).

In sostanza, quel che si vuole qui evidenziare, per le conseguenze che successivamente si trarranno sui fatti oggetto della specifica imputazione di reato che in questa sede è stata esaminata, è che in quella prima fase – e, come si vedrà, sino al giugno 1992 – non v’era alcun intendimento da parte di Riina (e, conseguentemente, da parte dei suoi sodali stante il potere assoluto dal primo esercitato e l’assenza di qualsiasi possibile opposizione interna manifestabile in occasione delle riunioni degli organismi collegiali senza incorrere nella punizione con la morte da parte del Riina medesimo) di “trattare” contropartite di sorta ovvero di subordinare l’inizio o anche soltanto la prosecuzione del programma delittuoso già comunicato nelle riunioni di cui sopra si è detto a eventuali cedimenti da parte delle Istituzioni dello Stato.

Invero, soltanto la dimostrazione incontenibile ed inarrestabile di forza e violenza da parte dell’associazione mafiosa, nell’ottica di Riina (”fare la guerra per poi fare la pace”), avrebbe costretto lo Stato a adoperarsi per ristabilire una situazione di reciproca non belligeranza, quale quella che per molti anni, se non decenni, sino all’irrompere sulla scena di magistrati quali Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino e di altrettanti validi investigatori che li affiancavano (alcuni dei quali ugualmente uccisi come i predetti magistrati: tra i tanti, basti qui ricordare Ninni Cassarà e Beppe Montana), aveva caratterizzato i rapporti nel territorio siciliano (e, spesso, non solo in questo) e segnato l’esito di molti processi concJusisi, a differenza di quanto sarebbe, invece, avvenuto col maxi processo, con sentenze o che negavano addirittura l’esistenza della mafia o che, al più, si rifugiavano nella formula dubitativa dell ‘assoluzione per insufficienza di prove.

Con le sentenze del maxi processo si evidenziava, dunque, un chiaro indebolimento dell’associazione mafiosa – ed, in primis, quindi, di Salvatore Riina che, come detto, dai primi anni ottanta ne era il capo assoluto ed incontrastato – che non era più riuscita, pur con la pletora di politici o di soggetti che più o meno indirettamente facevano da tramite con i primi, ad “aggiustare” l’esito di quel processo e, conseguentemente, ad ottenere quel risultato che in passato e sino ad allora era stato indice proprio della potenza intimi datrice della mafia, ma anche – e forse soprattutto – della capacità di questa di tessere una ragnatela di rapporti tale da avviluppare a sé, in un gioco di interessi e contro-interessi ed in nome del quieto vivere, una fetta non indifferente della società civile che più contava (politici, imprenditori, professionisti, magistrati e investigatori).

Salvatore Riina non poteva di certo consentire, senza reagire, un simile indebolimento, che ne avrebbe inevitabilmente intaccato la leadership e, quindi, prima ancora della sentenza definitiva della Corte di Cassazione, che avrebbe potuto scatenare l’insoddisfazione del “popolo” di “cosa nostra” ed una reazione di questo nei suoi confronti per non essere riuscito ad ottenere il risultato che aveva garantito fidandosi di quei politici che sino ad allora lo avevano sempre assecondato per i propri tornaconti elettorali ed economici, quando ancora il suo potere era saldo, aveva coinvolto i vertici di “cosa nostra” in quella strategia di attacco frontale allo Stato, che, creando inevitabilmente un punto di non ritorno, avrebbe costretto coloro che già avevano approvato quella strategia a non recedere da quella decisione e, quindi, in definitiva, avrebbe impedito che altri, che magari già segretamente vi aspiravano, avessero potuto tentare di conquistare la guida di “cosa nostra” in opposizione al “ridimensionato” Salvatore Riina.

Ed infatti, già all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione nel maxi processo (30 gennaio 1992), prima che vi fosse il tempo di riflettere sulla debacle di “cosa nostra” e, quindi, di Riina, iniziano le attività preparatorie per l’esecuzione dell’omicidio di Salvo Lima, poi effettivamente realizzato il 12 marzo 1992, a breve distanza di tempo seguito, prima dall’ micidio del M.llo Guazzelli e, poi, a coronamento di quella prima fase, dalla più eclatante delle stragi per modalità esecutive e valore simbolico (non a caso “voluta” da Riina in Sicilia nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove il Dott. Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), quella di Capaci, nella quale vennero uccisi lo “storico nemico n. l” di “cosa nostra”, Giovanni Falcone, la moglie che lo accompagnava e gli uomini della scorta che lo proteggevano.

Sui primi due dei ricordati avvenimenti (omicidi Lima e Guazzelli) occorre, però, formulare qualche ulteriore separata considerazione per la rilevanza che essi hanno nell’ambito della costruzione dell’ipotesi accusatoria oggetto di verifica nel presente processo.  MAFIE di ATTILIO BOLZONI


Totò Riina e quelli che “si erano fatti sotto”  Nei capitoli precedenti sono stati ricostruiti, in base a ciò che è stato possibile sulla scorta delle risultanze acquisite, ma soprattutto in forza delle stesse parole dei principali protagonisti, i contatti che vi furono ali’ indomani della strage di Capaci tra i Carabinieri del R.O.S., nelle persone degli odierni imputati Mori e De Donno, e Vito Ciancimino e sono state, quindi, infine sintetizzate le prime conclusioni sulle quali può ritenersi già acquisita la prova.

L’ultima di tali conclusioni riguarda l’accettazione della “trattativa” da parte di Salvatore Riina e, quindi, la circostanza che effettivamente quest’ultimo fu raggiunto dalla richiesta di dialogo indirizzatagli dai Carabinieri tramite Vito Ciancimino (il quale a sua volta, per contattare Riina, si era avvalso dell’intermediazione di Antonino Cinà).

Si è visto sopra, infatti, che lo stesso Ciancimino ebbe ad un certo momento a informare Mori che i vertici mafiosi da lui contattati “accettavano la trattativa”, così come riferito in occasione della deposizione di Firenze dallo stesso Mori, nel contempo, dichiaratosi consapevole che effettivamente Ciancimino fosse riuscito a mettersi in contatto con Riina.

Ma adesso si vuole qui evidenziare un’ulteriore – anche se non necessaria, alla stregua delle risultanze probatorie prima esaminate – conferma del fatto che Riina fu effettivamente raggiunto da una richiesta di “trattativa”.

Deve premettersi, in proposito, che la conferma si ricaverà, indirettamente ma univocamente, anche dal fatto che, come si vedrà, per averlo riferito, anche in tempi non sospetti, molti collaboratori di Giustizia, Riina, ad un certo momento, condizionò all’ottenimento di alcuni benefici la cessazione delle stragi e, poi, per rafforzare tale richiesta di benefici decise di eseguire ulteriori gravissime stragi.

Ma di ciò si dirà più ampiamente ed approfonditamente più avanti. Qui, invece, ci si intende riferire alle dichiarazioni più propriamente e direttamente confermative della ricezione da parte di Riina della sollecitazione alla “trattativa” rese da due collaboratori di Giustizia, Cancemi Salvatore e Brusca Giovanni (quest’ultimo anche imputato nel presente processo).

[…] Si intende qui valorizzare, al predetto fine confermativo, più che il contenuto delle propalazioni, la circostanza che i predetti collaboratori di Giustizia le hanno rese (Cancemi nel 1994 e Brusca nel 1996) prima che Mori e De Donno, soltanto, come si è visto, nel gennaio del 1998, ebbero pubblicamente a parlare in un processo dei contatti da essi avuti con Vito Ciancimino nel 1992 ed a pronunziare, in tale contesto, la parola “trattativa”.

Da ciò il rilievo delle relative propalazioni rese quando ancora la questione della “trattativa” non aveva avuto alcuna risonanza pubblica, dal momento che il generico accenno fattovi da Vito Ciancimino in interrogatori non pubblici non aveva, di fatto, avuto alcun seguito, mentre, di “trattativa”, come detto, avrebbero pubblicamente parlato in un dibattimento (peraltro senza che in quella occasione i media vi prestassero particolare attenzione,) Mori e De Donno soltanto successivamente nel 1998 e, quindi, a distanza di oltre cinque anni dai fatti.

Ed in proposito, infatti, a riprova del rilievo pubblico assunto dai fatti soltanto nel 1998, è significativo rilevare che, come risulta dalla minuta della nota del R.O.S. a firma del “Generale di Brigata comandante Mario Mori inviata il 25 gennaio 1998 ai Comandi Provinciali dei Carabinieri di Roma e Palermo […], lo stesso Mori, in riferimento alle testimonianze rese, da lui e da De Donno, il 24 gennaio 1998 davanti alla Corte di Assise di Firenze, riferisce a quei Comandi che “nel corso della loro testimonianza, i due ufficiali hanno illustrato i contatti intrattenuti, negli anni 1992-1993, con Ciancimino Vito Calogero ed il figlio Massimo, volti ad acquisire spunti informativi utili alla ricerca di latitanti appartenenti a Cosa Nostra” e che “nel contesto delle dichiarazioni sono stati descritti comportamenti da cui è emersa la volontà di collaborazione con la polizia giudiziaria da parte dell’ex sindaco di Palermo” e conclude, quindi, che “il fatto potrebbe provocare riflessi negativi sulla sicurezza del Ciancimino stesso e dei suoi familiari. Tanto si segnala per gli interventi valutati opportuni nelle sedi competenti”.

Si tratta, con tutta evidenza, di un documento che comprova, per bocca dello stesso Mori, che soltanto nel gennaio 1998 ebbero rilievo pubblico i contatti dei Carabinieri con Vito Ciancimino e la collaborazione di quest’ultimo, tanto che soltanto allora ci si preoccupò delle conseguenze che sarebbero potute derivare da tale risalto pubblico per la sicurezza dello stesso Ciancimino e dei suoi familiari.

Ed allora, assume rilevanza anche l’ulteriore conferma, da parte di due soggetti che hanno ricoperto ruoli non certo secondari nell’ambito dell’associazione mafiosa, almeno della percezione, da parte di “cosa nostra”, di una volontà delle Istituzioni di addivenire ad un accomodamento per interrompere la strategia stragi sta di quest’ultima e ciò perché da tale percezione, come si vedrà, è conseguita, non già una interruzione della strategia stragi sta che poi vi sarà successivamente soltanto per ragioni diverse, ma, al contrario, una intensificazione delle stragi nel corso del 1993 e sino al gennaio 1994 (quando avvenne un ulteriore tentativo di strage, però, fallito) per massimizzare l’effetto intimidatorio ed ottenere benefici ritenuti indispensabili per la stessa sopravvivenza di “cosa nostra”.

Delle numerose acquisizioni probatorie che riguardano questo aspetto della vicenda, quello, cioè, della intensificazione delle stragi decisa nel 1993, si dirà più avanti esaminando gli effetti della “trattativa”, mentre è utile esaminare prima le risultanze, fondate su dichiarazioni di intranei alla associazione mafiosa, che, dal punto di vista di questa, confermano le risuItanze sopra già tratte sulla scorta delle stesse parole dei loro principali protagonisti, Mori e De Donno da un lato e Vito Ciancimino dall’altro.

Le dichiarazioni rese da Cancemi Salvatore nel corso delle indagini e dei processi per fatti connessi a quelli oggetto del presente processo sono state acquisite perché divenute irripetibili a seguito del decesso del detto dichiarante.

In particolare, sono state acquisite le dichiarazioni rese ai Pubblici Ministeri di Roma e Milano in data 15 marzo 1994, le dichiarazioni rese al P.M. Di Caltanissetta il 21 gennaio 1997, le dichiarazioni rese ai Pubblici Ministeri di Firenze e Caltanissetta in data 23 aprile 1998, e, infine, le dichiarazioni rese nel corso del dibattimento per la strage di via D’Amelio alle udienze del 17,23,24 e 29 giugno 1999. […] Nel successivo interrogatorio del 15 marzo 1994 (del quale è stato prodotto ed acquisito il relativo verbale riassuntivo), Cancemi ha affrontato temi più direttamente attinenti alle vicende qui in esame.

In particolare, il Cancemi, in occasione di tale interrogatorio, per la parte che qui rileva (e, d’altra parte, il verbale acquisito appare in gran parte omissato), ha riferito che, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, Riina riteneva che lo Stato non avrebbe reagito, ma avrebbe tentato di intavolare una “trattativa” attraverso importanti soggetti estranei a “cosa nostra” (” .. in concreto, per quello che sentivo da Riina e Biondino ….. si era certi che lo Stato non avrebbe reagito ….. In sostanza. Riina ed il suo cerchio ristretto erano convinti, a mio parere, che quegli atti eclatanti avrebbero indotto lo Stato alla trattativa. Ciò, come ho detto a varie A.G., per effetto dei rapporti che loro avevano con persone esterne a cosa nostra, importanti. Ho più volte ribadito che si trattava, in questo caso, di persone che io non posso specificare, e dei cui contatti con Riina, mi aveva parlato il Ganci, quel famoso giorno in cui tornavamo da una riunione tenutasi a Capaci in preparazione dell’attentato a Falcone … … … ciò che io prima ho detto va riferito esclusivamente alle aspettative ed ai convincimenti di Riina, Provenzano, Biondino, Bagarella, Ganci, Aglieri, Greco Carlo, Tinnirello e dei Graviano, cioè quel nucleo dirigente sanguinario di cui ho già parlato. È chiaro invece che la gran parte degli affiliati a cosa nostra riteneva, al contrario, essendo estranea a quei contatti con persone importanti di Riina ed ai discorsi che all’interno di quel nucleo si facevano, che la reazione dello Stato sarebbe stata molto dura e avrebbe potuto mettere in crisi l’assetto stesso di cosa nostra”).

Da segnalare, poi, riguardo a tale interrogatorio la risposta ambigua data dal Cancemi alla domanda se egli ritenesse, alla luce di quanto nel frattempo accaduto (siamo nel marzo 1994), che le aspettative di “cosa nostra” fossero andate deluse: “vedremo, Provenzano è ancora libero”.

Ma, appare di estrema importanza, come già anticipato, il fatto che già nel marzo 1994, ben prima, quindi, della risonanza pubblica dei contatti tra i Carabinieri e Vito Ciancimino, Cancemi abbia espressamente parlato di “trattativa”, che, dopo le stragi del 1992, Riina intendeva intavolare con lo Stato. […] Nel successivo interrogatorio reso ai magistrati della Procura di Caltanissetta il 21 gennaio 1997, il Cancemi parla, invece, della parallela vicenda della “trattativa” legata alla restituzione di alcune opere d’arte pure riferita da Paolo Bellini ed altri di cui si dirà più avanti separatamente. Nell’interrogatorio congiunto delle Procure di Firenze e Caltanissetta del 23 aprile 1998 (del quale sono stati depositati ed acquisiti tanto il verbale riassuntivo, quanto la trascrizione della registrazione, così che, per maggiore completezza e precisione, è opportuno riferirsi a quest’ultima), quindi, Cancemi, dopo avere iniziato il suo racconto dal 1991 allorché egli era stato convocato a casa di Guddo da Riina, il quale gli aveva detto di recarsi da Vittorio Mangano per dirgli di mettersi da parte nei rapporti con Berlusconi e Dell’Utri perché ora intendeva occuparsene direttamente (“.. io devo cominciare dal ’91 cedo, esatto, credo dal ’91 quando Riina a me mi ha mandato a chiamare, lui personalmente, con Ganci Raffaele, e io l ‘ho incontrato dietro la villa Serena, la villa di Guddo, e lui mi disse a me: «Totuccio, mi devi fare una cortesia» , ho risposto io: «anche due» , dice: «devi chiamare a Vittorio Mangano e ci devi dire che si mette da parte, questa situazione che lui ha avuto nelle mani, di Dell’Utri e Berlusconi, si deve mettere da parte perché … … … si deve mettere da parte questa cosa dice, me l’ho messo nelle mani io lui mi dice, nelle mani io fa perché è un bene per tutta cosa nostra, queste sono state le parole di Riina”), cosa che egli aveva effettivamente fatto informando di ciò Vittorio Mangano […], ha, poi, riferito che dopo qualche tempo, in occasione di un altro incontro, il Riina aveva specificato quali richieste intendeva avanzare a quelle persone (“…credo che è stato nel ’92 ….. … Riina un giorno ci siamo incontrati, io Riina, Ganci e credo Biondino Salvatore, che è venuto con una situazione di dire che, ha parlato con noi, che doveva fare sapere a queste persone di, ci doveva dare alcuni punti, di fare annullare l’ergastolo, di fare annullare la legge sui pentiti, il sequestro dei beni e altre cose,[…]. Quindi i punti che io mi ricordo erano questi del fatto di fare abolire l’ergastolo, ‘sta legge sui pentiti di farla scomparire, di, mi sembra che c’era anche il 41 bis, insomma erano se o sette punti diciamo che lui doveva, doveva portare .. … …. aveva una specie di, un biglietto nelle mani, una cosa, un pezzo di carta nelle mani, mi ricordo, si .. …. ….. in questa riunione dice che ci doveva fare avere queste cose a queste persone, Berlusconi e Dell’Utri, i nomi che ha fatto erano questi qua … “).

Nello stesso interrogatorio, quindi, il Cancemi, dopo avere ricordato la vicenda dei quadri che erano stati recuperati già riferita nel precedente interrogatorio del 21 gennaio 1997 e di cui, come anticipato, si dirà successivamente, ha raccontato che lo scopo delle stragi era quello di “sfiduciare” coloro che erano in quel momento al potere […] per favorire l’ascesa di Berlusconi e Dell’Utri

[…], ha riferito di non avere mai saputo di progetti di attentati ai danni di politici e del Dott. Grasso, mentre ha ricordato di un progetto per uccidere il Questore La Barbera […], ha ricordato, quanto agli incontri con Brusca Giovanni, tra i tanti, un incontro presso la casa di Guddo in occasione del quale lo stesso Brusca aveva presentato tale Rampulla a Riina […]. Quanto al Provenzano, invece, Cancemi ha riferito di averlo visto in occasione di qualche incontro nella stessa casa di Guddo […] e ciò anche dopo l’arresto di Riina […] ed ha aggiunto che in occasione di tali incontri successivi all’arresto di Riina, Provenzano ebbe a tranquillizzarlo dicendogli che tutto proseguiva come stabilito dal Riina medesimo (“stai tranquillo che tutto è a posto, le cose stanno continuando per come tu sai da zio Totuccio”). […]

Ebbene, non v’è dubbio che Cancemi abbia effettivamente progressivamente ampliato i suoi ricordi inserendovi anche nomi di estrema notorietà inizialmente taciuti (per tutti, Berlusconi e Dell’Utri) e da ciò derivano anche tal une delle ragioni delle criticità della sua attendibilità già evidenziate nell’apposito paragrafo (Parte Prima della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.5) che impongono un esame rigoroso delle sue dichiarazioni e la ricerca di sicuri riscontri.

E, tuttavia, come si è già evidenziato nella Parte Terza, Capitolo 4 di questa sentenza, l’attendibilità di Cancemi ha, poi, trovato un importante riscontro – all’epoca delle sue dichiarazioni non prevedibile – riguardo alla principale delle omissioni dichiarative soltanto successivamente integrate, quella relativa alla improvvisa “premura” da parte di Riina di uccidere il Dott. Borsellino.

Nelle sue iniziali dichiarazioni, infatti, Cancemi aveva affermato di non sapere nulla dell’uccisione del Dott. Borsellino, mentre successivamente ha raccontato di quella riunione nella quale Riina aveva comunicato a Raffaele Ganci la relativa decisione.

Tale dichiarazione appariva come un tipico esempio di “dichiarazione a rate” ed, infatti, sul relativo ritardo e sulla contraddizione rispetto alle precedenti dichiarazioni si sono incentrate le contestazioni dei difensori degli imputati di quel processo.

Sennonché, come si è già rilevato nel precedente Capitolo 4, quel racconto del Cancemi sulla improvvisa accelerazione imposta da Riina alla esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino e sulla sorpresa degli interlocutori del predetto capomafia (nella specie, secondo Cancemi, Raffaele Ganci), ha trovato un inatteso e del tutto imprevedibile riscontro nelle stesse parole di Salvatore Riina intercettate all’interno del carcere nel 2013 (v. Capitolo 4 già richiamato).

Ciò impone di riconsiderare quelle dichiarazioni del Cancemi ancorché tardive, pur non abbandonando, però, il più rigoroso criterio di valutazione di cui già si è detto.

In ogni caso, quel che è utile rilevare riguardo alla questione in esame in questo Capitolo, è il nucleo delle dichiarazioni di Cancemi sostanzialmente rimasto invariato nel tempo, quello relativo al fatto che, dopo la strage di Capaci, in “cosa nostra” si iniziò a parlare di “trattativa” e che l’oggetto delle pretese di Salvatore Riina era costituito dall’ergastolo, dalla legge sui pentiti, dal sequestro dei beni e dal 41 bis, nonché, più in generale, dai detenuti mafiosi […].

[…] Anche le dichiarazioni di Giovanni Brusca, sia per la loro evoluzione nel tempo ben messa in evidenza dai difensori degli imputati in sede di controesame, sia per lo stesso ruolo di imputato che il Brusca riveste in questo processo, devono  essere esaminate con particolare ngore (v. sopra Parte Prima della sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4).

Non v’è ragione, però, di giungere ad una totale e pregiudiziale dichiarazione di inattendibilità intrinseca del detto dichiarante così come chiesto e sostenuto dai difensori degli altri imputati, sia perché in molti altri processi già conclusi con sentenze irrevocabili è stata riconosciuta l’importanza e la rilevanza del contributo fornito dal Brusca per la ricostruzione di vicende delittuose e per l’individuazione dei relativi responsabili (tanto che al detto odierno imputato è stata in molte occasione formalmente riconosciuta la circostanza attenuante speciale della collaborazione), sia perché anche nel presente processo sono stati acquisiti straordinari ed imprevedibili riscontri alle dichiarazioni del Brusca nelle parole di Salvatore Riina intercettate nel 2013 all’interno del carcere ove lo stesso era detenuto.

Si è già ricordata, in proposito, la conferma, nelle parole del Riina, dell’improvvisa accelerazione impressa alla esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino, di cui, appunto, Brusca aveva sempre riferito per conoscenza diretta collegata all’incarico di uccidere l’On. Mannino, che egli precedentemente aveva ricevuto e stava attuando, poi, appunto, revocatogli per la sopravvenuta esigenza rappresentatagli dal Riina medesimo (v. sopra Capitolo 4).

E si è già fatto cenno, nella scheda sopra dedicata al Brusca come collaboratore di Giustizia, ad un particolare, assolutamente peculiare ed originale che ha trovato conferma ancora nelle parole del Riina, riferito al tema controverso degli assetti dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” dopo l’arresto di Salvatore Riina.

Si è visto sopra, infatti, che tra le tante dichiarazioni, Brusca ad un certo momento, riferendo, appunto, dell’assetto di “cosa nostra” dopo l’arresto di Riina e delle discussioni cui anch’egli ebbe a partecipare riguardo alle decisioni da prendere in ordine alla prosecuzione o meno della strategia mafiosa, ha riferito di una particolare frase che Bagarella ebbe a rivolgere a Provenzano a fronte del tentativo di questi di tirarsi indietro dalla strategia sino ad allora portata avanti: “Ti metti un cartellone così. prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente» ” (v. dichiarazioni Brusca sopra più ampiamente riportate: “Provenzano l’unica cosa che dice: “Ed io come mi giustifico con gli altri?” Si riferiva al suo gruppo Aglieri, Giuffrè e Benedetto Spera. E provocatoriamente

Bagarella gli fa, dice, che ha sorpreso pure me, dice: “Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente»”).

Ebbene, balza assolutamente evidente la coincidenza del racconto del Brusca con un passo di un’intercettazione effettuata all’interno del carcere nel quale era detenuto Riina allorché quest’ultimo racconta al suo interlocutore che, di fronte alle perplessità del Provenzano, egli gli aveva detto (rectius, ovviamente gli aveva mandato a dire, essendo egli, appunto, già detenuto, ma non essendo d’ostacolo di certo lo stato di isolamento dal momento che egli, comunque, effettuava i colloqui con i familiari e, pertanto, innanzitutto con la moglie, sorella di Leoluca Bagarella; […]) di mettersi un cartello al collo con la scritta “io non ne so niente” ove intendesse dissociarsi (v. intercettazione del 18 agosto 2013 del colloquio del Riina nel corso del quale quest’ultimo, ad un certo punto, dice: “invece con tutta quella, comu sacciu, con tutta quella esperienza che aveva ci rissi: ti mietti un cartellino attaccato ‘nto cuoddu e dici – io non ne so niente!”).

Come si vede, poiché tale intercettazione non era ancora nota quando Brusca ebbe a fare il suo racconto, si tratta di un riscontro assolutamente straordinario per importanza e rilevanza, che conferma come non sia possibile (né corretto alla stregua dei criteri generali sopra ricordati nella Parte Prima della sentenza, Capitolo 3, paragrafo 3.3) disattendere del tutto le propalazioni del Brusca per difetto di attendibilità intrinseca, seppur applicando, per le criticità che, comunque, hanno connotato la sua collaborazione, un particolare rigore nella ricerca dei riscontri (e ciò sarà fatto anche con riferimento alla intercettazioni effettuate nei confronti di Riina nelle quali si rinvengono, come si vedrà nell’apposito Capitolo in cui tali intercettazioni saranno esaminate, anche talune smentite alle propalazioni del medesimo Brusca che richiederanno una specifica analisi).

Ma, ritornando al tema qui in esame, quello della ricerca della conferma della “trattativa” anche nelle parole del Brusca, è utile qui concentrarsi, come nel caso del Cancemi, soprattutto sulle dichiarazioni che Brusca ebbe a rendere nell’immediatezza della sua collaborazione (dopo il superamento, però, degli iniziali depistaggi finalizzati a “salvare” alcuni soggetti a lui vicini) nel mese di agosto 1996 e, quindi, ben prima delle testimonianze di Mori e De Donno, che, appena da lui conosciute, lo hanno indotto a rielaborare e reinterpretare alcuni ricordi, aggiungendo tardivamente anche alcuni particolari, di cui, proprio per il particolare rigore che, come detto, deve applicarsi nella valutazione delle propalazioni del Brusca, non può tenersi conto in assenza di diretti ed univoci riscontri (si pensi al nome di Mancino soltanto nelle sue più recenti dichiarazioni aggiunte dal Brusca a proposito del destinatario delle richieste del Riina).

Le dichiarazioni che Brusca ebbe a rendere il 14 agosto 1996 sono state poste all’attenzione della Corte con le contestazioni che le difese degli altri imputati hanno mosso in sede di esame del Brusca e, tuttavia, possono essere utilizzate, oltre che per la valutazione della credibilità del dichiarante, anche nel loro contenuto nei limiti in cui, ovviamente, poi tali dichiarazioni, a seguito, appunto, delle contestazioni di cui si è detto, sono state confermate dal Brusca medesimo nell’esame reso in questa sede.

Ebbene, è importante, allora, evidenziare che Brusca, già il 14 agosto 1996, prima, si ripete, che Mori e De Donno riferissero i particolari dei loro colloqui con Vito Ciancimino […], ebbe a riferire che dopo le stragi (quelle del 1992) Riina aveva sospeso la strategia stragi sta perché aveva avuto contatti con soggetti non specificati che gli avevano chiesto cosa volesse per porre termine alle stragi medesime ed egli (il Riina) aveva a quel punto fatto un “papello” di richieste ritenute, però, esose dai suoi interlocutori, così come raccontato al Brusca medesimo in occasione di un incontro avvenuto nel periodo natalizio del 1992 (v. verbale dell’interrogatorio in data 14 agosto 1996 nel quale, come risulta dalla contestazione fatta al Brusca in questo dibattimento, si legge a pag. 9: […]”Dopo le stragi di Palermo e l’incarico a me dato di un attentato al Giudice Grasso, da me non attuato per ragioni già dette, Riina aveva messo il fermo. Mi disse espressamente che aveva avuto contatti con qualcuno e questo qualcuno gli aveva detto più o meno «cosa vuoi per finire queste cose?». Riina mi disse di aver fatto un papello di richieste, ma che la risposta era stata negativa, erano troppe. Questo discorso me lo fece sotto le feste di Natale”).

Brusca ha confermato – e, poi, maggiormente dettagliato (ma, d’altra parte, quelle dichiarazioni sono riportate in un verbale riassuntivo) – anche in questo dibattimento il contenuto del colloquio avuto con Riina (“… e lui mi risponde: “Si sono fatti sotto “, stavolta con un tono contento, di soddisfazione e già era arrivato al punto, dice: “Gli ho fatto un papello così di richiesta”[…]”), modificando, però, la collocazione temporale allora data, perché, secondo il predetto dichiarante odierno imputato, quel colloquio, in realtà, avvenne alla fine di giugno 1992 e, comunque, prima della strage di via D’Amelio, così come egli ha potuto ricostruire, asseritamente, sulla base di alcuni episodi delittuosi di quei mesi, quali l’omicidio Lizio, l’omicidio Milazzo ed il tentato omicidio di Germanà.

La Corte, poiché tale collocazione temporale è stata oggetto di dichiarazioni del Brusca nel tempo diverse e spesso contraddittorie, intende prescindere da tale dato (che, peraltro, come meglio si preciserà nei prosieguo non appare determinante ai fini della contestazione di reato in esame nel presente processo) e concentrarsi, quindi, soltanto sul contenuto del colloquio avuto con Riina (quale che sia il periodo in cui questo avvenne, comunque, per il suo contenuto, collocabile nel secondo semestre del 1992), che, invece, come detto, nel suo nucleo centrale (quello che appare possibile, quindi, utilizzare) è stato sempre confermato dal Brusca in tutte le sue dichiarazioni fino a quelle rese in questo dibattimento.

[…] Ebbene, non v’è chi non veda come il principale elemento di conoscenza fornito da Brusca (già, si ripete, nell’agosto 1996) si specchi totalmente in un passo della ricostruzione di quegli accadimenti che soltanto dall’anno successivo (agosto 1997), ma pubblicamente addirittura soltanto dal gennaio 1998 (quando furono assunte le relative testimonianze a Firenze), fu, poi, fatta da Mori e De Donno.

Il riferimento è a quella domanda rivolta al Riina dai suoi interlocutori istituzionali così come sintetizzata da Brusca, (” … «cosa vuoi per finire queste cose?» …. ; frase confermata anche in sede dibattimentale: ” …. «Per finirla cosa volete in cambio?» …. “), che fa da contraltare, apparendo logicamente consequenziale nel suo significato sostanziale, alla sollecitazione rivolta da Mori a Vito Ciancimino: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”‘; sollecitazione incontestatamente inoltrata ai vertici di “cosa nostra” tramite l’intermediario (Cinà) e certamente recepita dai vertici medesimi se è vero che, come riferito dallo stesso Mori, Vito Ciancimino ebbe successivamente a dirgli che i suoi interlocutori accettavano la “trattativa” (“Guardi, quelli accettano la trattativa”).

Ed è importante evidenziare che Brusca ha reso quella sua prima dichiarazione quando ancora ignorava che tra coloro che “si erano fatti sotto” (cioè che si erano fatti avanti, che lo avevano cercato) vi erano anche i Carabinieri, circostanza che, come dallo stesso riferito, aveva appreso soltanto successivamente dalla lettura dei giornali, inducendolo, soltanto in quel momento, a collegare a tale iniziativa dei Carabinieri ciò che a suo tempo gli aveva detto Riina […].

La propalazione di Brusca, dunque, anche per la sua prima collocazione temporale e per l’originalità del contenuto su fatti che in quel momento non apparivano particolarmente significativi in assenza di ulteriori conoscenze del contesto in cui gli stessi di inserivano, si appalesa attendibile e conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che effettivamente, quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non già dopo la prima strage (quella di Capaci), Riina fu contattato da soggetti istituzionali che, con l’evidente intento di superare la contrapposizione frontale che si era creata, gli chiesero a quali condizioni avrebbe potuto porre termine alla strategia stragista.

[…] Un ‘ulteriore e, questa volta definitiva, conferma si trae anche dalle dichiarazioni di un altro collaboratore, Antonino Giuffré, che, a differenza dei predetti Cancemi e Brusca, presenta un ben più sicuro livello di affidabilità (v. scheda di cui alla Parte Prima, Capitolo 4, paragrafo 4.21). […] Il Giuffrè ha, tra l’altro, dichiarato che, poiché circolavano nell’ambito di “cosa nostra” notizie sul rapporto confidenziale che Vito Ciancimino intratteneva con le Forze dell’Ordine, egli ebbe a chiedere spiegazioni a Bernardo Provenzano, il quale, quindi, espressamente gli disse che il Ciancimino agiva in “missione” per conto di “cosa nostra” e che, pertanto, per quei suoi contatti con i Carabinieri aveva avuto lo “sta bene” direttamente da Salvatore Riina […]. Orbene, come si vede si tratta di una definitiva conferma di assoluta autorevolezza in quanto promanante direttamente da Bernardo Provenzano, allora alter ego di Riina, e, quindi, al vertice, insieme a quest’ultimo, dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, oltre che in diretti accertati rapporti ultratrentennali, come si è già visto sopra, con Vito Ciancimino.

Altrettanto autorevole è, inoltre, la fonte Giuffré, non soltanto per il ruolo di vertice dallo stesso ricoperto nell’ambito dell’associazione mafiosa, ma soprattutto per l’accertata ed incontestabile (perché risultante anche documentalmente da alcuni “pizzini” sequestrati) sua vicinanza con Bernardo Provenzano.

In altre parole e per tali ragioni, non soltanto deve ritenersi attendibile il racconto fatto dal Giuffré in questa sede, ma deve, altresì, ritenersi attendibile il racconto fatto dal Provenzano al Giuffré e da questi riferito sia per i rispettivi ruoli di grande rilievo che entrambi i predetti ricoprivano allora in “cosa nostra” che già di per sé non avrebbero consentito il mendacio […], sia, forse ancor più, per il rapporto di estrema reciproca fiducia degli stessi sempre alleati in uno stesso schieramento all’interno di “cosa nostra”.

D’altra parte, anche sotto il profilo logico, non si comprenderebbe perché Provenzano avrebbe dovuto mentire al Giuffré, tanto più che in quel momento i contatti con i Carabinieri non erano più attuali e il Ciancimino era ormai da tempo detenuto.

Si tratta, dunque, di una straordinaria ulteriore conferma del fatto che Vito Ciancimino, sollecitato dai Carabinieri, riusci effettivamente a mettersi in contatto con Salvatore Riina e che quest’ultimo ebbe a quel punto ad avallare l’azione del medesimo Ciancimino per sfruttare l’apertura al dialogo con la “controparte Stato” che da quell’iniziativa derivava.


L’“accelerazione” per la seconda strage – L’origine della strategia mafiosa scaturita dal volere, soprattutto, di Salvatore Riina tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, non v’è alcun dubbio che, sin dall’inizio, nel programma “a grandi linee” delineato e ratificato dai vertici di “cosa nostra” vi fosse anche l’omicidio del Dott. Borsellino in quanto simbolo, insieme al Dott. Falcone, della nuova stagione, iniziata nei primi anni ottanta, di incessante contrasto al fenomeno mafioso e di rifiuto di qualsiasi indulgenza anche verso quei settori della società e del mondo politico e imprenditoriale che ne avevano consentito, in qualche modo, lo sviluppo, sino a permeare pericolosamente molte, se non tutte, le attività pubbliche e private spesso anche oltre gli stretti ambiti territoriali siciliani.

Tuttavia, l’omicidio del Dott. Borsellino, a soli cinquantasette giorni di distanza dalla strage di Capaci, nel momento di maggiore indignazione della società civile verso il fenomeno mafioso e di conseguente reazione dello Stato anche sul fronte legislativo estrinsecatasi con il D.L. dell’8 giugno 1992 n. 306 che introduceva, sì, tra l’altro, il regime del 41 bis, ma che era stato seguito dal plateale dissenso di ampi settori del Parlamento e di giuristi che prospettavano un inammissibile superamento dei limiti delle garanzie che, comunque, uno stato di diritto democratico deve assicurare, è apparso, sia dai primi momenti, ai più, come del tutto controproducente per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, se non altro, perché, come di fatto poi è avvenuto, anche da parte di coloro che agivano in perfetta buona fede e per profonde convinzioni ideali, non sarebbe stato possibile opporre alcuna resistenza a coloro che propugnavano la necessità di un definitivo “giro di vite” nella più dura repressione del fenomeno mafioso.

Ed infatti, unanimemente, tutti i testi “politici” esaminati in questo dibattimento, non hanno mostrato alcun dubbio nel ritenere e riferire che la strage di via D’Amelio e le conseguenti reazioni della società civile, furono determinanti per stroncare i dissensi da tanti manifestati (in buona o in cattiva fede) e per giungere alla conversione in legge, senza che ne fosse snaturato l’intento fortemente repressivo del fenomeno mafioso, del decreto legge prima ricordato, col quale si ponevano le basi per l’applicazione ai mafiosi, per la prima volta, di un regime detentivo particolarmente duro e tale da impedire loro quei collegamenti con i sodali liberi che, sino ad allora, erano stati uno dei punti di forza del perpetuarsi del potere mafioso nonostante gli arresti delle sue leve di comando ed i duri colpi inferti con il maxi processo (senza dimenticare, poi, altre misure non meno importanti ai fini del contrasto alle mafie pure contenute in quel decreto legge).

Ed in effetti, può ritenersi certamente provato, all’esito dell’istruttoria dibattimentale compiuta, che il generico e generale progetto di uccidere il Dott. Borsellino (nell’ambito di quel programma che riguardava molti altri soggetti e che, però, per le più svariate ragioni, non per tutti è stato, poi, attuato) ha subito una improvvisa accelerazione ed esecuzione, ancora una volta per volere di Salvatore Riina, proprio nei giorni immediatamente precedenti quello in cui, poi, avvenne la strage di via D’Amelio.

Un primo significativo elemento di prova si trae dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca.

Quest’ultimo, invero, pur affermando espressamente di non essere a conoscenza di una eventuale accelerazione del progetto omicidiario in danno del Dott. Borsellino (”No, io non ho mai saputo di accelerazioni su questo fatto”), ha, tuttavia, riferito che, dopo la strage di Capaci, lo stesso Riina gli aveva dato incarico di organizzare l’uccisione dell’On. Mannino e che, tuttavia, pochi giorni prima della strage di via D’Amelio, quell’incarico gli era stato revocato senza dargli alcuna spiegazione, anche se egli, però, poi, aveva ricollegato quell’improvvisa revoca proprio alla sopravvenuta esecuzione di quella strage (” … dopo la strage di Capaci mi aveva dato il mandato per uccidere l’onorevole Mannino, come ho detto poco fa. A un dato punto, tramite Biondino, mi revoca il mandato ed io provvedo per fare altre cose, però non mi dice … … …. il mandato me lo dà, credo, nel secondo… primo o secondo incontro dopo Capaci…. … .. . .i1 mandato, siamo sempre là, intorno ai quindici, dieci giorni, otto giorni, venti giorni prima della strage di via D’Amelio. Biondino, attraverso Nino Gioè che neanche io lo vedo, mi dice di fermare per quanto riguarda l’attentato ai danni… … .. … E non saprò mai per quale motivo mi revoca questo mandato … […]).

Un primo riscontro alle propalazioni sul punto rese da Brusca si rinviene, già nelle dichiarazioni rese da Salvatore Cancemi in occasione del suo esame dibattimentale avvenuto nelle udienze del 17, 23, 24 e 29 giugno 1999 nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio (v. trascrizioni acquisite agli atti).

Il Cancemi, infatti, ha riferito di una riunione, avvenuta dopo la strage di Capaci, nella quale il Riina, assumendosene la responsabilità, aveva manifestato l’improvvisa urgenza di uccidere anche il Dott. Borsellino (“Poi mi ricordo che un ‘altra riunione c’è stata credo giugno … comunque dopo la strage del dottore Falcone, sicuramente dopo, ci … pure nella casa di Guddo c’è stata un ‘altra … un’altra riunione dove il Riina si era appartato così, sempre nello stesso appartamento, nello stesso … dove eravamo noi con Ganci Raffaele, che si sono detti delle cose e io c ‘ho sentito dire: “La responsabilità è mia”. Il riferimento era pure quello là. Poi, quando io … ce ne siamo andati, mi ricordo che me ne sono andato con Ganci Raffaele e mi disse, dice: “Questo ci vuole rovinare a tutti”, questo riferen. .. parlando per Riina … …. ….. io in quella riunione mi ricordo che i presenti eravamo io, Biondino, Biondino Salvatore, Ganci Raffaele … Ganci Raffaele, il Riina e credo anche La Barbera Michelangelo. […] Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci. Ganci mi disse: “Questo ci… ci vuole rovinare a tutti”. quindi la cosa era … il riferimento era per il dottor Borsellino .. … …. mi ricordo, sforzando i miei ricordi, perché, ripeto, magari prima qualche cosa uno non la ricorda e la ricorda più avanti, mi ricordo, si, che si è fatto anche in quella data il nome del dottor Borsellino … … .. .Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa … di una cosa veloce, aveva … io avevo intuito questo, che il Riina questa cosa la doveva … la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno. Questa è l’impressione che io ho avuto … …. …. io ho capito che c’era qualcosa che Riina aveva… che questa cosa la doveva portare subito a compimento, […]come se lui aveva un impegno preso che doveva fare questa strage del dottor Borsellino .. “).

Per completezza, però, va detto che tali dichiarazioni di Cancemi seguono precedenti dichiarazioni con le quali il predetto aveva affermato di non sapere nulla della uccisione del Dott. Borsellino e che, conseguentemente, gli sono state puntualmente contestate dai difensori degli imputati di quel processo […].

Il Cancemi, a propria giustificazione, ha allora addotto la difficoltà e complessità del percorso che lo aveva infine indotto ad aprirsi ad una piena collaborazione con la Giustizia (” … scusatemi l’espressione, mi dovete capire. La mia collaborazione, Signor Presidente, non è stata una passeggiata, la mia collaborazione è stata una cosa incredibile; non è stato come quelli che sono arrivati dopo che hanno trovato tutto in un piatto d’argento. La mia collaborazione è stato quello che io dovevo andare ammettere delle cose così gravi, così terribili davanti a Voi, che per me era come se io l’avessi rifatto di nuovo, come se io li stavo commettendo davanti a Voi. A me mi succedeva questo qua, quindi, io ho avuto di bisogno del tempo di superare tutte queste cose, non è stato perché io volevo sfuggire alla Giustizia, perché se io volevo sfuggire alla Giustizia, Signor Presidente, io mi pigliavo i soldi che avevo e me ne andavo con la mia famiglia, lo me ne andavo in un altro angolo del mondo. invece no, non l’ho fatto questo, Signor Presidente, io ho voluto dare una mano alla Giustizia per distruggere questo male; però ho avuto di bisogno del tempo, perché i travagli … lo so io quello che ho avuto nella mia persona. […]”).

Ora, per la valutazione della attendibilità generica di Salvatore Cancemi si rimanda a quanto osservato nella Parte Prima di paragrafo 4.5. questa sentenza, Capitolo 4, ma, a prescindere dalle criticità della collaborazione del Cancemi ivi evidenziate, così come delle criticità della collaborazione di Brusca (v. Parte Prima di questa sentenza, Capitolo 4, paragrafo 4.4), qui deve dirsi che le predette risultanze probatorie ricavate dai racconti di Brusca e Cancemi, hanno trovato un inaspettato straordinario riscontro nelle parole dello stesso Salvatore Riina, allorché questi, come si vedrà meglio più avanti in un apposito Capitolo che approfondirà tale risultanza, è stato intercettato all’interno del carcere ove era detenuto.

Invero, rinviando al preannunciato approfondimento, può qui, però, già ricordarsi che effettivamente da quelle intercettazioni si ricava che, mentre l’esecuzione della strage di Capaci è stata pianificata, studiata ed organizzata con largo anticipo, la strage di via D’Amelio è stata eseguita a seguito di una improvvisa accelerazione maturata soltanto nei giorni immediatamente precedenti […].

Lo stesso Riina, dunque, ha confermato che l’attentato di via D’Amelio è stato “…studiato alla giornata…” e deciso (ovviamente nella sua concreta attuazione, perché la “condanna a morte” del Dott. Borsellino era risalente nel tempo […]) solo qualche giorno prima […].

Non solo, ma dalla medesima intercettazione si ricava, altresì, la – anche in questo caso straordinaria – conferma delle dichiarazioni del Brusca nella parte in cui questi ha riferito che dopo la strage di Capaci non era prevista nell’immediato l’uccisione del Dott. Borsellino.

[…] Dalle parole di Riina sopra ricordate si ha la conferma che effettivamente sino a pochi giorni prima della strage di via D’Amelio (fatto che conferma anche la dichiarazione di Brusca nella parte in cui questi ha riferito che conseguentemente gli fu revocato l’incarico di uccidere l’On. Mannino solo tre giorni prima della detta strage) non era stata decisa l’attuazione del progetto omicidiario nei confronti del Dott. Borsellino, tanto che il Riina racconta, da un lato, di avere, quindi, prospettato ad un certo punto ad un suo ignoto interlocutore la necessità di operare immediatamente (“.. Arriva chidu. .. ma subitu … subitu”) e, dall’altro, la sorpresa manifestata da quel medesimo suo interlocutore per quella improvvisa decisione di uccidere in quel momento anche il “secondo” e cioè il Dott. Borsellino dopo che il “primo”, il Dott. Falcone, era stato ucciso poco tempo prima (“Eh.. . Ma rici… macara u secunnu?”), ribadendo, poi, in una successiva intercettazione di avere autorizzato (“Fai … fa (inc).”) l’esecuzione della strage di via D’Amelio appena due giorni prima del giorno in cui questa avvenne ( …. “dopudumani … ” dici …).

Alla stregua anche di tali straordinari riscontri deve totalmente disattendersi il tentativo della difesa degli imputati Subranni e Mori di contestare le dichiarazioni rese da Brusca Giovanni con riferimento alla preparazione di un attentato ai danni dell’On. Mannino prima della strage di via D’Amelio (v. trascrizione della discussione ali ‘udienza del 2 marzo 2018).

Secondo la difesa, infatti, le dette dichiarazioni sarebbero smentite, sotto il profilo temporale, soprattutto dalle dichiarazioni di Gioacchino La Barbera, oltre che da quelle di Siino.

Orbene, rileva la Corte che, in realtà, non v’è alcuna incompatibilità tra le dichiarazioni di Brusca relative all’attentato ai danni dell’On. Mannino che egli, su incarico di Riina, aveva iniziato a studiare prima di sospenderlo su richiesta dello stesso Riina pochi giorni prima della strage di via D’Amelio e le dichiarazioni di La Barbera che, invece, riferiscono, come si vedrà, della ulteriore preparazione del medesimo attentato di cui egli ebbe ad occuparsi nei mesi successivi.

Si tratta, infatti, di due episodi diversi che si collocano in due diverse fasi temporali, la prima quella già ampiamente descritta sopra, la seconda quella che, come si vedrà più avanti, ebbe ad aprirsi nell’autunno del 1992 in continuità con gli incontri tra i Carabinieri e Vito Ciancimino (oltre che con la vicenda Bellini di cui pure si tratterà più avanti) e nella quale si progettò la ripresa degli attentati, non soltanto nei confronti dell’On. Mannino, ma anche del Dott. Pietro Grasso e di altri.

[…] L’accertata diversità dei due episodi cui si sono rispettivamente riferiti Brusca e La Barbera e della loro compatibilità e coerenza temporale anche in relazione agli sviluppi di tutti gli accadimenti di cui si darà conto a partire dal successivo Capitolo, rende superfluo esaminare in proposito le propalazioni di Siino, citate dalla difesa degli imputati Subranni e Mori a sostegno delle dichiarazioni di La Barbera e per smentire quelle di Brusca, in quanto si riferiscono evidentemente, per il profilo temporale che se ne ricava, semmai confermandolo, al secondo episodio relativo alla ripresa del progetto di attentato in danno dell’On. Mannino, dopo che, nel precedente mese di luglio, il medesimo progetto, in quel caso affidato a Brusca, era stato sospeso.

Alla stregua delle suddette risultanze che comprovano l’improvvisa accelerazione della decisione di uccidere il Dott. Borsellino in quel momento non ancora in fase di attuazione, deve necessariamente concludersi, per ineludibile deduzione logica, che effettivamente nei giorni precedenti la strage di via D’Amelio ebbe a verificarsi un qualche accadimento che ha indotto il Riina a soprassedere all’omicidio dell’On. Mannino ed a concentrarsi, invece, con immediatezza, nella uccisione del Dott. Borsellino, nonostante questa non fosse, in quel momento, all’ordine del giorno per i prevedibili effetti controproducenti di cui si è detto (certamente ben più dirompenti di quelli che sarebbero derivati, invece, dalla programmata uccisione dell’On. Mannino, dato di fatto, che, in via obiettiva, può ricavarsi col parallelo confronto tra le reazioni all’omicidio dell’On. Lima e quelle all’uccisione del Dott. Falcone).

Ed allora, è opportuno esaminare anche due aspetti della complessa attività istruttoria dibattimentale compiuta che appaiono in qualche modo connessi con il tema affrontato in questo capitolo, aggiungendo, infine, anche alcune considerazioni su un ulteriore tema particolarmente caro alle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno ancorché a questa Corte ne sia sfuggita appieno la rilevanza.


Quella confidenza sul generale Subranni Prima di passare al tema dei contatti dei Carabinieri (e, specificamente, degli imputati Subranni, Mori e De Donno) con Vito Ciancimino, però, è opportuno qualche cenno ad un’altra vicenda che, come detto, è, in qualche modo, collegata agli accadi menti che si verificarono nel giorni immediatamente precedenti la strage di Via D’Amelio e che pure è stata oggetto di attività istruttoria nel presente processo.

Infatti, Agnese Piraino Leto, coniuge del Dott. Paolo Borsellino, ancorché per la prima volta soltanto nel 2009, ha riferito una confidenza che il marito ebbe a farle pochi giorni prima di morire riguardo a quanto dallo stesso appreso sul Gen. Subranni.

In particolare, la Sig.ra Piraino Leto, sentita il 18 gennaio 2009 […], dopo avere raccontato che il marito aveva numerose amicizie nell’Arma dei Carabinieri per la quale nutriva una vera e propria ammirazione (“Mio marito vantava numerose amicizie tra Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, con i quali aveva anche frequenti rapporti di tipo professionale, nutrendo egli una vera e propria ammirazione verso l’Arma dei Carabinieri”), si è soffermata sui rapporti con il Gen. Subranni, che il marito medesimo aveva avuto modo di conoscere quando il predetto era Comandante della Regione Sicilia ed aveva, comunque, frequentato sporadicamente solo per ragioni professionali […].

Ebbene, la Sig.ra Piraino Leto, nel riferire di ignorare se il marito si fosse riferito al Gen. Subranni allorché, come raccontato dai Dott.ri Alessandra Camassa e Massimo Russo, piangendo, aveva detto loro di essere stato tradito da un amico (“Prendo atto che le SS. LL. mi rappresentano che la dott.ssa Alessandra Camassa ed il dotto Massimo Russo hanno riferito di essere stati testimoni di uno sfogo di Paolo il quale, piangendo, disse di essere stato tradito da un amico. Ignoro a chi si riferisse mio marito e, pertanto, non posso affermare che si trattasse del Generale Subranni”), tuttavia, ha aggiunto spontaneamente, a quel punto, il racconto di un episodio che all’epoca l’aveva colpita moltissimo e del quale fino ad allora non aveva mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri (“Tuttavia ricordo un episodio che all’epoca mi colpì moltissimo e del quale finora non ho mai parlato nel timore di recare pregiudizio all’immagine dell’Arma dei Carabinieri, alla quale mi legano rapporti di stima ed ammirazione”).

Tale accadimento si era verificato il giorno 15 luglio 1992, data individuata con certezza dalla Sig.ra Piraino Leto sulla scorta della copia fotostatica dell’agenda grigia del marito dalla quale risultava che il giorno 16 luglio 1992 (giorno che ricordava essere successivo all’episodio riferito) il marito si era recato a Roma per motivi di lavoro (“Mi riferisco ad una vicenda che ebbe luogo mercoledì 15 luglio 1992: ricordo la data perché, come si evince dalla copia fotostatica dell’agenda grigia che le SS. LL. mi mostrano, il giorno 16 luglio 1992 mio marito si recò a Roma per motivi di lavoro ed ho memoria del fatto che la vicenda in questione si colloca proprio il giorno prima di tale partenza”).

Ebbene, in quell’occasione, intorno alle ore 19,00, mentre entrambi i coniugi si trovavano nel balcone di casa, il marito, manifestando uno stato di particolare agitazione tanto da sentirsi male ed avere conati di vomito, le aveva detto che aveva “visto la mafia in diretta” perché gli avevano riferito che “il Generale Subranni era punciutu”, termine col quale, notoriamente, si indicano i soggetti formalmente affiliati alla mafia […].

Indi, la teste ha precisato di non avere chiesto al marito qual era la fonte di quella confidenza da lui ricevuta, anche se le era venuto in mente che, proprio in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri (”Non chiesi, tuttavia, a Paolo da chi avesse ricevuto tale confidenza, anche se non potei fare a meno di rammentare che, in quei giorni, egli stava sentendo i collaboratori Gaspare Mutolo, Leonardo Messina e Gioacchino Schembri”).

La teste, poi, ha aggiunto che il giorno 18 luglio 1992 era sabato e che col marito erano andati a fare una passeggiata sul lungomare di Carini senza scorta, quando, ad un certo momento, il marito medesimo, sconfortato, le aveva detto che non sarebbe stata la mafia, della quale non aveva paura, ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere, senza, tuttavia, nonostante le sue insistenze, farle alcun nome e ciò per non renderla depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la sua incolumità, costituendo, dunque, un’eccezione a detta regola la confidenza che qualche giorno prima le aveva fatto riguardo al Gen. Subranni (“Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo. Non mi fece alcun nome, malgrado io gli avessi chiesto ulteriori spiegazioni, ciò anche per non rendermi depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la mia incolumità; infatti la confidenza su Subranni costituisce un’eccezione a questa regola”).

L’episodio è stato, quindi, confermato dalla teste anche il successivo 27 gennaio 2010[…]. Nella stessa occasione (ma su ciò si tornerà anche più avanti) la teste ha anche aggiunto che il marito, dopo la strage di Capaci, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle Istituzioni e mafiosi (“… mi ha accennato qualcosa e non in quel contesto, che c’era una trattativa tra la Mafia e lo Stato, ma che durava da vero un po’ di tempo… dopo la strage di via … di Capaci, dice che c’era un colloquio tra la Mafia e alcuni pezzi «infedeli» dello Stato, e non mi dice altro… “) .

Orbene, ritiene la Corte che, anche in forza delle complessive risultanze probatorie acquisite, non via sia alcuna ragione di dubitare della assoluta veridicità dell’episodio raccontato dalla Sig.ra Piraino Leto, veridicità che, tuttavia, come si dirà, può estendersi, sì, anche al ricevimento di quella notizia da parte del Dott. Borsellino, ma non anche, ovviamente, al contenuto intrinseco della stessa, ancorché la reazione non usuale di una persona e di un magistrato qual era il Dott. Borsellino, certamente uso a ben valutare le più disparate informazioni raccolte nelle sue molteplici indagini in materia di mafia (peraltro, proprio in quegli stessi giorni, aveva raccolto anche informazioni di particolare gravità persino su colleghi con i quali lavorava da anni, oltre che su Bruno Contrada), induca a ritenere che quella sua conoscenza rassegnata alla moglie in quell’occasione e con quelle modalità fosse fondata su elementi da lui ritenuti particolarmente solidi.

Occorre, invero, rilevare in proposito, innanzitutto, che già qualche anno prima, tra la fine del 2004 e l’inizio del 2005, la Sig.ra Piraino Leto aveva raccontato il medesimo episodio, sostanzialmente negli stessi termini, al Dott. Cavaliero, magistrato legato da intenso rapporto di frequentazione ed amicizia con la famiglia Borsellino, così come dallo stesso confermato in sede di esame testimoniale anche nel presente processo.

[…] II teste ha aggiunto che la moglie del Dott. Borsellino non gli disse quanto tempo prima di morire il marito le aveva fatto quella confidenza, ma certamente ciò era avvenuto dopo la strage di Capaci […], confermando, però, poi, le sue precedenti dichiarazioni con le quali aveva riferito che il Dott. Borsellino aveva parlato alla moglie del Gen. Subranni qualche giorno prima di morire […].

Il teste, quindi, ha ribadito la sua meraviglia per quella confidenza e che, tuttavia, non chiese null’altro alla Sig.ra Piraino Leto (“[…] Non chiesi nulla alla signora Agnese perché la signora Agnese era già sufficientemente diciamo infastidita nel dirmelo perché lei era profondamente amareggiata per quella che era stata la reazione violenta che il marito aveva avuto di aver vomitato immediatamente dopo di averle detto questa notizia, e quindi lei era amareggiata per quella che era la condizione emotiva del marito. Devo essere sincero, non ci fu assolutamente da parte mia nessuna domanda ulteriore alla signora Agnese relativamente a quello che mi aveva detto … “), neppure se ne avesse riferito all’A.G. […] e ciò conoscendo le preoccupazioni che ancora in quel periodo la Sig.ra Borsellino nutriva per i figli […].

Quanto al Gen. Subranni, poi, il teste ha precisato che gli era stato presentato proprio dal Dott. Borsellino e che gli stessi intrattenevano buoni rapporti […].

In sede di controesame delle difese degli imputati, quindi, il teste ha aggiunto di avere un vago ricordo che forse effettivamente l’elicottero per accompagnare il Dott. Borsellino a Salerno per il battesimo del figlio dello stesso teste fosse stato messo a disposizione dal Gen. Subranni e che forse anche quest’ultimo era a bordo […], che il Dott. Borsellino non gli fece mai alcuna confidenza né sul Gen. Mori, né sul Gen. Subranni […] e che la Sig.ra Borsellino non aggiunse alcun particolare a proposito di quanto dettogli dal marito riguardo al Gen. Subranni se non che il marito in quella occasione si sentì male (”No, aggiunse solamente il dettaglio che Paolo, quando le riferì a lei questa frase, vomitò e si sentì male”), escludendo, peraltro, che, per quello che era il suo stato d’animo in quell’ultimo periodo, il Dott. Borsellino avrebbe potuto fare anche a lui una confidenza quale quella riferita dalla moglie riguardo al Gen. Subranni […], tanto più che dopo l’incontro del 12 luglio, egli non aveva più parlato col Dott. Borsellino […].

* * *  La testimonianza di Agnese Piraino Leto, per l’autorevolezza tanto di quest’ultima in quanto moglie di Paolo Borsellino, tanto del teste – il Dott. Cavaliero, magistrato – che l’aveva riscontrata nei termini sopra riportati, è stata oggetto di forte contestazione da parte della difesa di Antonio Subranni e anche da parte di quest’ultimo personalmente, il quale, infatti, in proposito, all’udienza del 22 settembre 2017, ha voluto rendere le seguenti spontanee dichiarazioni:

” … Altra tematica è quella relativa alle dichiarazioni in atti della signora Agnese Borsellino, secondo la quale il marito le avrebbe detto, in data 15 luglio 92, che il sottoscritto era punciutu, dichiarazioni riferite in tale sede anche dal Dottor Cavaliero, per averle apprese dalla signora Borsellino. Prescindo dal fatto che la Procura di Caltanissetta ha scrupolosamente verificato la fondatezza di tale affermazione, anche attraverso l’escussione dei collaboratori che il Dottor Borsellino, all’epoca, interrogava. E non trovando alcun riscontro, ha chiesto e ottenuto l’archiviazione del procedimento iscritto a mio carico.

[…] Una considerazione s’impone alla luce della testimonianza del Dottor Cardella ed attiene ai rapporti tra i Carabinieri del ROS e la famiglia del Dottor Borsellino. Essi continuarono anche dopo la tragica fine del Magistrato nei termini riferiti dal Teste escusso. Mi domando, a prescindere dalla certezza sulla partecipazione del sottoscritto ali ‘incontro, di cui ha parlato il Dottor Cardella, se veramente il sottoscritto fosse stato o anche solo sospettato di essere punciutu, la signora Borsellino si sarebbe recata presso il Comando dal quale dipende il ROS per incontrare Ufficiali del ROS, con il fondato rischio di incontrare il sottoscritto? Inoltre, è emerso, in sede processuale, che il 16 febbraio 93 la signora Borsellino si recò al ROS e, nella stessa sera, vi fu anche una cena. Io non ho un ricordo specifico ma mi chiedo: se il sottoscritto fosse stato – o anche solo sospettato – di essere punciutu, la signora Borsellino si sarebbe recata presso il ROS con il rischio di un incontro anche casuale, ma comunque non gradito, con il sottoscritto, allora Comandante? Per ora mi limito a queste dichiarazioni sul tema, riservandomi, eventualmente, alcune puntualizzazioni qualora ciò si rendesse necessario, ad esito di altre deposizioni testimoniali dalle quali emergerà, lo dico sin d’ora, atteso che i Testi cui mi riferisco sono stati escussi nel processo a carico dei miei collaboratori, Generale Mori e Colonnello Obinu, che le preoccupazioni del Dottor Borsellino non erano per il sottoscritto ma per i suoi colleghi e per le infedeltà dei suoi colleghi, ben rappresentate dalla frase: “un amico mi ha tradito”

* * *  Tuttavia, la Corte ritiene che, alla stregua delle risultanze prima esposte, può concludersi che nessuno degli elementi opposti dalla difesa dell’imputato Subranni, e da questi anche personalmente, per porre in dubbio la dichiarazione della Sig.ra Piraino Leto, appare idoneo ad inficiarne l’attendibilità.

In particolare:

non lo è, in sé, il fatto che l’episodio sia stato riferito soltanto molti anni dopo, poiché può essere compresa la remora della Sig.ra Borsellino nel riferire quella scarna confidenza, che, senza alcuna specificazione, accusava un alto esponente dell’ Arma dei Carabinieri nei cui confronti, sia il marito che tutta la famiglia Borsellino nutrivano sentimenti di rispetto, stima e riconoscenza. D’altra parte, non si evidenzia alcuna plausibile ragione per la quale la Sig.ra Piraino Leto avrebbe dovuto, ad un certo punto, deliberatamente elaborare un racconto falso, né si comprenderebbe perché, ove anche ciò, in ipotesi, avesse fatto per scopi non noti, abbia poi atteso altri anni (dal 2004 quando già ebbe a raccontare l’episodio al Dott. Cavaliero sino al 2009) per riferire il fatto alla A.G.; non lo è la circostanza che la Sig.ra Piraino Leto abbia continuato a partecipare a manifestazioni organizzate dall’Arma dei Carabinieri poiché la notizia riguardante il solo Gen. Subranni non poteva, ovviamente, coinvolgere l’intera Istituzione verso la quale, come detto, tutta la famiglia Borsellino aveva sempre nutrito la massima fiducia e non v’è, peraltro, alcuna prova certa che a taluna di queste manifestazioni abbia incontrato ed eventualmente salutato anche il Gen. Subranni (v. attestazione trasmessa dal Comando Generale dell’ Arma dei Carabinieri in data 29 maggio 2012, a firma del Capo del II Reparto, prodotta dalla difesa dell’imputato Subranni relativa a visite della signora Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino, negli anni 1993 e 1994, secondo la quale ” .. agli atti di questo Comando Generale risultano due incontri avvenuti, rispettivamente in data 13 maggio 1993 e 28 gennaio 1994 tra il Comandante Generale protempore, Gen. C.A. Luigi Federici, e la Sig.ra Agnese Piraino Leto, ved. Borsellino”, nonché le stesse spontanee dichiarazioni di Subranni nelle quali si fa riferimento soltanto a possibili occasioni di incontri, in concreto, però, non verificatesi); non lo è il fatto che ancora l’11 luglio 1992 il Dott. Borsellino fosse in compagnia del Gen. Subranni allorché ebbe a recarsi a Salerno e che nulla il medesimo Dott. Borsellino abbia detto al collega Cavaliero, atteso che la Sig.ra Borsellino ha collocato l’episodio nella settimana antecedente la strage di via D’Amelio e, più precisamente, nel pomeriggio del giorno 15 luglio 1992, così che è possibile, da un lato, escludere che quella notizia riguardante il Gen. Subranni possa essere stata la causa dello scoramento manifestato dal Dott. Borsellino ai colleghi Camassa e Russo in periodo antecedente (nel giugno 1992) tanto più che in questo caso non si giustificherebbe dopo un tempo così lungo una reazione emotiva talmente intensa da provocare persino conati di vomito, e, dall’altro, trarre conferma che effettivamente il Dott. Borsellino ebbe ad apprendere quella sconvolgente notizia soltanto dopo essersi trovato in compagnia del Gen. Subranni in occasione del viaggio a Salerno, ovvero, come ipotizzato dal P.M. nel corso della sua requisitoria (v. trascrizione udienza dell’11 gennaio 2018), anche se ciò appare alla Corte meno probabile, ebbe a trarre la conclusione poi rassegnata alla moglie da qualche condotta del Subranni nei giorni in cui si erano incontrati (il 10 e l’11 luglio, secondo quanto riferito da quest’ultimo imputato), tanto da determinargli lo stato di particolare agitazione, di cui pure ha riferito il teste Cavaliero, manifestato in occasione della ricerca spasmodica dell’agenda personale, che, ad un certo momento, il Dott. Borsellino aveva temuto di avere smarrito (v. testimonianza Cavaliero: ” … Paolo ebbe la percezione che non teneva l’agenda appresso. Ricordo che mi fece quasi smontare la macchina, nonostante questa agenda non fosse uno spillo. Lui era … … … Era visibilmente agitato. era visibilmente agitato … “); non lo sono, infine, per le medesime ragioni, né la cena cui il Dott. Borsellino ebbe a partecipare a Terrasini nel giugno 1992 con la presenza di molti Carabinieri, essendo la stessa antecedente alla notizia riguardante Subranni appresa dal predetto soltanto nei giorni precedenti la strage di via D’Amelio (come detto il 15 luglio 1992 o, al più, nei giorni compresi tra l’11 e il 15 luglio 1992), né la circostanza che, dopo la strage, i familiari del Dott. Borsellino chiesero che alla perquisizione della loro abitazione fossero presenti anche Ufficiali dei Carabinieri (il Cap. Adinolfi e forse anche il Cap. Ierfone secondo quanto riferito dal teste Sinico), stante la persistente stima, comunque, nutrita dai familiari medesimi, come detto, nei confronti dell’Arma (e non inficiabile per gli eventuali comportamenti deviati di un solo suo esponente ancorché di grado elevato non legato da particolari vincoli di amicizia o frequentazione), tanto più che non va dimenticato che allora la persona più fidata e vicina al Dott. Borsellino ed ai suoi familiari era proprio un graduato dell’Arma (il M.llo Carmelo Canale), né, infine, l’incontro presso il R.O.S. con il Col. Mori e la successiva cena cui la stessa Sig.ra Piraino Leto ebbe a partecipare il 16 febbraio 1993 con il medesimo Col. Mori e con Padre Bucaro (v. annotazioni riportate nelle agende del Col. Mori nella pagina relativa alla predetta data prodotta dalle difese all’udienza dell’8 ottobre 2015), non risultando, in tali occasioni, la presenza del Gen. Subranni […].

Peraltro, non appare di certo irrilevante sottolineare che l’attendibilità della testimonianza della Sig.ra Piraino Leto non è stata sostanzialmente posta in dubbio neppure da Mori e De Donno, odierni coimputati del Subranni, allorché l’ebbero a commentare subito dopo la diffusione pubblica della notizia. E’ stata acquisita agli atti, infatti, anche un ‘intercettazione di una telefonata intercorsa tra i predetti Mori e De Donno 1’8 marzo 2012 nel corso della quale il secondo riferisce al primo la testimonianza della Sig.ra Piraino Leto di cui si era avuta, appunto pubblica notizia (“DE DONNO: che poi, qualche giorno prima di morire, le avrebbe detto che … dice: “Ho visto “, dice, “la morte in faccia “, dice, “sono sconvolto, perché mi hanno detto che Subranni è punciutu…. .. … … in questa ricostruzione, però chiaramente ehm … indaga Subranni per 416 bis Caltanissetta, perché eh. .. con questa ricostruzione, probabilmente il … diciamo così, il traditore di tutta questa storia… sarebbe il Generale Subranni, Comandante del ROS, di qui si spiega il perché lui… diciamo così, era così avvilito, proprio in virtù dei rapporti che lui aveva con Subranni”), definisce la medesima Sig.ra Piraino Leto “corretta” perché non li aveva chiamati in causa (“La signora… per carità, io non ho letto il verbale, però sembrerebbe teoricamente così corretta, nel senso che la signora, volendo, poteva raccontare quello che voleva … … …. cioè poteva … Visto che c’è tutto questo … questa cosa poi la racconta adesso la signora… …. …. poteva pure… poteva pure inventarsi … che ne so, che il marito le aveva parlato di lei, di me e … ….. …. della trattativa, e invece su questo è molto corretta, cioè non dice niente, dice: “Non mi ha mai parlato di trattativa, non mi ha mai parlato di questi Carabinieri, non mi ha mai detto niente” … “) e osserva che la detta teste non avrebbe avuto alcuna ragione di accusare ingiustamente Subranni (” …. racconta solo ‘sto fatto su Subranni, il ché … se si voglia ammettere… cioè, perché pigliarsela con Subranni? Probabilmente… non lo so dico, eh, però ipotizzo. può darsi pure che sia vera ‘sta storia che gli ha fàtto ‘sta confidenza Borsellino. Però il punto è: chi cazzo glielo ha detto a Borsellino, ammesso che sia vera ‘sta storia … …….. ammesso che sia vero pure che lui abbia fatto questa confidenza alla signora, eh, però adesso non si sa chi gliel ‘ha detta ‘sta … e chi gli ha raccontato ‘sta stronzata a … a Borsellino? Sicuramente, se gliel ‘hanno raccontata, casomai quello era sconvolto, cioè, figuriamoci … comanda il ROS, lo conosceva da una marea, cioè gli viene ‘sto dubbio… lo posso pure capire che stava agitato in quel periodo storico, però … “), ricevendo ripetutamente assenso da Mori, sia pure quasi sempre con monosillabi per l’evidente prudenza (che caratterizza tutta la conversazione: v. trascrizione in atti) di chi sa – o quanto meno non esclude – di potere essere intercettato.

Anzi, De Donno è ancora più esplicito in una conversazione immediatamente successiva con tale “RAF”, pure intercettata ed acquisita agli atti, nel corso della quale ribadisce di ritenere verosimile che la Sig.ra Piraino Leto avesse detto la verità non avendo alcuna ragione di mentire […]. Ciò detto, come già anticipato sopra, se non v’è ragione di dubitare di quanto raccontato dalla Sig.ra Piraino Leto, però, occorre puntualizzare che, alla stregua della detta testimonianza, può ritenersi provato soltanto:

che il Dott. Borsellino nei giorni immediatamente successivi al suo viaggio a Salerno (e, quindi, nel periodo tra il 12 e il 15 luglio) o, al più (anche se, a parere della Corte, ciò è meno probabile), negli stessi giorni del detto viaggio nei quali aveva incontrato Subranni (il 10 e l’11 luglio 1992), ebbe ad apprendere da fonte non precisata – o, quanto meno, ebbe a trarre la personale convinzione – che il Gen. Subranni fosse affiliato alla mafia; che il Dott. Borsellino, ritenendo evidentemente, fondata quell’informazione o convinzione, ne rimase talmente sconvolto da sentirsi male fisicamente e, inusualmente, da condividere quella informazione con la moglie.

Tuttavia, non essendo stato possibile, invece, individuare la fonte di quella notizia (ed anzi, essendo escluso che possa essersi trattato di Gaspare Mutolo che il Dott. Borsellino stava interrogando in quei giorni), né tanto meno ricostruire le ragioni per le quali il Dott. Borsellino giunse alla predetta conclusione (il collegamento di essa con la “trattativa” cui ha fatto cenno il P.M. nel corso della sua requisitoria non va oltre la mera – ancorché non implausibile – ipotesi), non è possibile, invece, valutare la fondatezza o meno della notizia o conclusione medesime e, quindi, trarre da esse conferma alle accuse mosse nel presente processo a carico del Gen. Subranni, né, tanto meno, seppur in astratto coerenti se riferite in qualche modo ai contatti intrapresi dai Carabinieri con i vertici mafiosi di cui si dirà nel Capitolo che segue, metterle direttamente in relazione con quell’accelerazione dell’esecuzione dell’omicidio del Dott. Borsellino di cui tratta il presente Capitolo.


La versione degli alti ufficiali  Sono state, altresì, acquisite le testimonianze rese dagli odierni imputati Mori e De Donno allorché vennero esaminati nel processo per la strage di via D’Amelio denominato “Borsellino ter” all’udienza del 27 marzo 1999.

[…] E’ opportuno, invece, riportare qui di seguito una sintesi della deposizione resa

da Mario Mori: “[…] P.M dott. DI MATTEO: – … Le volevo chiedere se corrisponde a verità il fatto che lei nella seconda metà del ’92 ha avuto contatti con l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino ed eventualmente ci dirà … intanto ci dica se sì o no; TESTE MORI: – Sì, ho avuto contatti…. … …Sì. Faccio riferimento, giusto per puntualizzare e temporalizzare i vari momenti… … … Allora, per temporalizzare cominciamo a dire che … a puntualizzare alcune date. Il 24 o 25 di maggio c’è l’attentato a Capaci; muore Giovanni Falcone, la signora e la scorta. Fu un momento di… di crisi generale delle Istituzioni per la società italiana, che plasticamente, anche se ingiustamente, si può rappresentare con il volto del dottor Caponnetto, che dice: “É finita”. Cioè, lo Stato era in ginocchio in quel momento. E noi investigatori, i magistrati, la Polizia Giudiziaria, eravamo in un momento di… quasi di buio totale. […] E definii due tipi di … di attività: una quello della ricerca specifica del capo di “Cosa Nostra” attraverso un gruppo scelto e individuato da noi nel ros … tra il nostro personale che su … anche su indicazioni dell’allora maresciallo Lombardo, che poi si suicidò anni dopo, cominciò a sviluppare l’indagine esclusiva volta alla ricerca di Salvatore Riina.

Attivai poi tutto il personale che si interessava di criminalità organizzata di tipo mafioso perché si … si trovassero delle fonti informative che potessero darci un quadro di conoscenze su cui sviluppare un’attività più incisiva. In questo secondo aspetto, in questo secondo ambito, si fece avanti con una proposta l’allora capitano De Danno. De Donno aveva svolto, […] una serie di indagini su Vito Ciancimino, in particolare sugli appalti per la manutenzione strade e per la manutenzione degli edifici scolastici […] De Donno mi fece questa proposta, dice: ”[…]Perché non proviamo ad andare sotto a Ciancimino? Perché l’uomo, dato il suo livello, senz’altro può conoscere fatti, cose, personaggi che in qualche modo ci potrebbero ampliare le nostre conoscenze”. Pur dubbioso dell’esito dissi: “Va bé, proviamo”. E quindi ci fu un contatto, peraltro molto facile, perché c’erano queste udienze in corso e quindi era naturale il… il contatto tra il capitano De Donno e Ciancimino. […] P.M dott.ssa PALMA: – … nei precedenti incontri o prima della cattura di Riina, ovviamente, il Ciancimino fornì mai qualche elemento, qualche informazione utile per voi e che vi portò alla cattura di Riina?; TESTE MORI: – La cattura di Riina é avvenuta per tutt’altra vicenda investigativa … …. … La vicenda nasce nell’estate del ’92. Io decido di costituire questo Reparto, un gruppo scelto di un quindici – sedici persone comandati da un ufficiale, che scende a Palermo durante il mese di settembre e comincia un’attività su di un input preciso, che ci viene fornito … Preciso … si fa per dire preciso, comunque era qualche cosa già. Che ci viene fornito dal maresciallo Lombardo, il quale dice che… di avere acquisito notizie secondo cui il punto di riferimento, chi insomma voleva parlare con Totò Riina doveva passare attraverso Raffaele Ganci, che era il capo della famiglia della Noce. Su questo elemento noi decidiamo… io mi fidavo di Lombardo, perché Lombardo era un grande conoscitore di cose di mafia. Cioè, mi fidai della notizia, della bontà della notizia, per cui noi puntammo la nostra attività, ed è documentale, perché poi è stata… è processualizzata ed è tutta l’attività di pedinamento, osservazione e riscontro soprattutto video delle attività sulla famiglia Ganci, ed in particolare prima su Raffaele, il padre, e poi i suoi due figli, Domenico e l’altro non mi ricordo come si chiama. Nel corso delle indagini, delle… e dei servizi sul terreno il gruppo operativo seguì in una circostanza Domenico, mi sembra, Domenico Ganci, comunque uno dei due figli, fino a via Bernini, là, dove poi a suo tempo è stato visto uscire e poi quindi arrestato Riina. E acquisii questo dato di fatto: lui si… entrò dentro il comprensorio e loro si fermarono. Ad un certo punto, verso il 10 di maggio, io ho un appuntamento … 10 di gennaio ’93, ho un appuntamento a Torino con Giancarlo Caselli, il quale mi aveva chiesto di andare su perché in previsione, dopo pochi giorni, di assumere la carica di Procuratore di Palermo voleva avere un quadro della situazione dal punto di vista investigativo e operativo. Arrivato sul posto mi fil segnalato di portarmi, appena arrivato all’aeroporto, al Comando della Brigata Carabinieri perché lì mi aspettava il dottor Caselli. Lì c’era il dottor Caselli e il generale Delfino e mi sottoposero un verbale di… di confessione fatto da Baldassare Di Maggio a proposito dei suoi rapporti con Salvatore Riina. Mi dissero altresì che sulla base delle indicazioni che avevano dato … che aveva dato Di Maggio circa i luoghi dove si poteva trovare, dove aveva accompagnato, dove aveva visto Riina, stavano per partire l’indomani delle perquisizioni. Chiesi e feci notare l’incongruità dell’operazione che si stava per svolgere perché dico: “Questi sono fatti che perlomeno si riferiscono a due anni fa. Se nel frattempo qualche cosa è cambiata e noi facciamo delle … delle perquisizioni a tappeto su tutti gli obiettivi, chiaramente se ci scappa Riina non lo prendiamo più, perché questo sa che qualcheduno sta parlando e ha indicato anche con cognizione di causa del posti precisi”. Chiesi e ottenni dal dottor Caselli di fare alcuni riscontri attraverso il mio Gruppo Operativo che già operava giù in Sicilia. Si mise in contatto il comandante di questo Reparto con il dottor Aliquò, che in quel momento reggeva la Procura, e si stabilivano i servizi di osservazione intorno ai punti indicati dal Baldassare Di Maggio.

Ad un certo punto, dopo due o tre giorni, il dottore Aliquò, visto che non si concludeva nulla, decise di intervenire.

L’ufficiale del mio Reparto chiese altre 24 ore di tempo al dottore Aliquò, che le concesse, per sottoporre al … il luogo, la visione del luogo al Di Maggio dove aveva visto Domenico Ganci entrare in una determinata strada. Portarono sul posto Baldassare Di Maggio; anche questo é verbalizzato da Baldassare Di Maggio in tutti … in tanti procedimenti. Non riconobbe, dice: “Io non sono mai stato qua, in via Bernini, non la conosco”. Nella serata furono sottoposti a Baldassare Di Maggio delle riprese televisive … furono sottoposte delle riprese televisive sviluppate in quella giornata dai nostri uomini sull’obiettivo di via Bernini e nella nottata Baldassare Di Maggio riconobbe da una macchina … uscì da via Bernini una macchina con a bordo la … Bagarella, la moglie di Totò Riina e mi sembra di ricordare che riconobbe anche il figlio che si aggirava in bicicletta nella zona, Giovanni. Sulla scorta di questo l’ufficiale mi telefonò, (io) a Palermo, e decidemmo l’intervento per la mattina successiva. Cosa che avvenne, perché verso le ot … ci portammo di nuovo questa volta Baldassare Di Maggio dentro una macchina davanti all’obiettivo e lui ci indicò all’uscita la macchina che era entrata pochi minuti prima con la persona che lui conosceva, ma non sapeva in quel momento indicare con un nome, e riuscì questa macchina con questa persona alla guida e a fianco Salvatore Riina.

Lo seguirono fino alla Rotonda, lì, non mi ricordo come si chiama, comunque un chilometro e mezzo o due, e poi lo arrestarono; …… …. P.M dott.ssa PALMA: – ….. lei ha mai sentito parlare di papello? Se ne ha sentito parlare quando, e può dirci se questo termine papello la conduce in qualche modo alla vicenda di cui ha parlato, se esistono dei collegamenti; ……… TESTE MORI: – Quando ci fu il contatto Mori – De Donno con Ciancimino, e questa parola é assolutamente … anche perché non ci furono date delle… delle condizioni, qualche cosa. Le precondizioni erano quelle che ho dette prima alla … al dottor Di Matteo e basta. Non si parlò di richieste o di altro. […]

* * * Orbene, da tale testimonianza emerge, con tutta evidenza, il tentativo di Mario Mori di “sfumare” alcune affermazioni fatte in occasione della precedente testimonianza resa a Firenze poco più di un anno prima.

Tale tentativo può riscontrarsi, ad esempio:

1) riguardo ai primigeni contatti con Vito Ciancimino nel mese di giugno 1992 e, comunque, antecedenti alla strage di via D’Amelio (“lo penso che il contatto … l’avance, diciamo, tra De Donno e Massimo Ciancimino. cioè la proposta di De Donno a Massimo Ciancimino é prima del 25; la risposta è sicuramente dopo il 25 di … di giugno, dopo l’incontro…. … …Sì, perché altrimenti ne avrei parlato con il dottor Borsellino; cosa che invece assolutamente non si è verificata; P.M dott. DI MATTEO: – E poi materialmente quando si realizza il primo contatto diretto, il primo incontro tra il capitano De Donno ed il Ciancimino?: TESTE MORI: – Guardi, questo non glielo so dire. bisognerebbe chiederlo proprio a De Donno. Certamente nel corso del mese di luglio lui si incontra con Ciancimino …. …….. Il 25 di giugno, quando incontro Borsellino, non abbiamo ancora la risposta da parte di Vito Ciancimino; … …. …. P.M dott.ssa PALMA: – Allora questa … la mia domanda era in questo senso.’ dal 25 giugno al 19 luglio ci furono degli ulteriori contatti?

Cioé, si portò a termine questa volontà di incontro fra il Ciancimino e prima il capitano De Donno e poi con lei? Cioé, prima della strage di via D’Amelio già si ebbe … ? Forse … ; TESTE MORI: – Non glielo so collocare nel tempo il momento preciso in cui Ciancimino dice.’ “Va bene, voglio… venga pure il capitano”. Se ciò é avvenuto prima del 19 o dopo. lo penso che solo De Donna lo può dire con… con esattezza .. “) a fronte della più netta indicazione precedentemente fornita il 24 gennaio 1998 […] peraltro senza alcun cenno all’attesa di risposte da parte di Vito Ciancimino non ancora pervenute sino al 25 giugno 1992 (circostanza di cui, d’altra parte, neppure De Donno aveva fatto alcun cenno […]);

2) riguardo, più in generale, a quella che egli, in prima battuta, non aveva avuto alcuna remora a definire come “trattativa” ed alle sue finalità quanto meno concorrenti di ottenere la cessazione delle stragi […];

3) riguardo alla risposta ai mafiosi su chi essi Carabinieri rappresentassero in quel frangente, anche in questo caso qui molto generica (“…”Lei non si preoccupi, andiamo avanti che poi si vedrà”….”) a fronte della inequivoca e ben più specifica affermazione della precedente testimonianza resa pure a Firenze da De Donno […];

4) riguardo all’idea originaria di cercare un contatto in “cosa nostra” che qui viene attribuita da Mori al solo De Donno senza più riferimenti – almeno espliciti – alla sua preventiva autorizzazione ed alla stessa ideazione dell’iniziativa […], mentre il 24 gennaio 1998 aveva chiaramente attribuito a sé quell’ideazione (“A fine maggio, mi sembra 24, 25, non ricordo bene, c’è la strage di Capaci ….. … …Ritenni che era un impegno morale, oltre che professionale, fare qualche cosa di più, di diverso, per venire a capo, nelle mie possibilità, di queste vicende, di questa struttura che stava distruggendo i migliori uomini dello Stato… “) e riferito, quindi, di avere espressamente autorizzato De Donno a contattare Ciancimino (“Lo autorizzai a procedere a questo tentativo”).

Deve, poi, evidenziarsi che anche in occasione della detta deposizione del 27 marzo 1999 Mori ha posticipato la conoscenza dei contatti con Ciancimino da parte di Subranni al momento successivo al primo incontro dello stesso Mori con Ciancimino in data 5 agosto 1992 […], senza alcun cenno di smentita, però, della contraria e precisa affermazione di De Donno sulla conoscenza da parte di Subranni già dei precedenti incontri dello stesso De Donno con Ciancimino (“PUBBLICO MINISTERO: … Il colonnello Mori, prima di dare il via libera a lei, per questo avvio di contatti, o anche successivamente, ha rappresentato questa iniziativa presso comandi superiori dell’Arma?; TESTE De Donno: Sì, ne parlò col comandante del ROS dell’epoca,il generale Subranni”).

[…] Nel processo a carico di Mori e Obinu per il reato di favoreggiamento Giuseppe De Donno è stato esaminato, in qualità di indagato in procedimento connesso, all’udienza dell’8 marzo 2011 e, nell’occasione, per le parti che qui rilevano, ha dichiarato:

“I rapporti con Ciancimino nascono nel giugno 1992, dopo la morte del Dottor Falcone, nel senso che prima di quella data, io non avevo avuto rapporti, diciamo così, extra investigativi, se non per esigenze di interrogatorio, normale attività con Ciancimino. Avevo avuto qualche incontro nelle aule di Tribunale, nel corso del! ‘attività con il figlio Massimo, che era la persona che in quel periodo era un po’ più vicina al padre, cioè lo assisteva in questa attività. Dopo la morte del Dottor Falcone, il Ros decise, il generale Mori decise una serie di iniziative investigative e a me fu affidato il compito di individuare potenziali attività informative che potevano fornirci spunto e elemento per capire quello che stava accadendo in quel periodo. […] Il Colonnello Mori mi autorizzò e nel corso, alla prima occasione utile che io non cercai, alla prima volta che incontrai Massimo Ciancimino in aereo, gli chiesi se poteva chiedere al padre la disponibilità a incontrarmi per parlare di quello che stava succedendo. […] Quando lui accetta poi di incontrarmi, si sviluppano, io incontro Ciancimino nell’intervallo tra le due stragi, cioè quella del Dottor Falcone e del Dottor Borsellino, credo tre volte, sempre nella sua abitazione a Roma e sono incontri sostanzialmente interlocutori. Chiaramente il nostro obiettivo principale era quello di avere delle indicazioni, delle valutazioni che ci consentissero di capire e in questo vorrei essere chiaro, è il perché io, poi il mio comandante accetta e scelgo Ciancimino.

[…] Nel frattempo interviene la strage del Dottor Borsellino. A quel punto veramente, io credo in maniera estremamente onesta, Vito Calogero Ciancimino non comprende i due avvenimenti in rapida successione, però per me la strage di Borsellino fu l’elemento determinante per un salto di qualità nel lavoro. Cioè, essendo lui estremamente turbato, estremamente ossessionato da queste due stragi in rapida successione, io ritenni che era il momento di introdurre un elemento nuovo di diversificazione. Cioè gli dissi, poiché lui non capiva, dico guardi, lei ci deve aiutare, noi dobbiamo capire che sta succedendo, dobbiamo individuare queste persone, perché qui c’è una strage ogni mese, dico lei deve parlare col mio comandante, perché introdurre il comandante? Perché Ciancimino era un capo e doveva parlare con un capo, cioè io tutt’oggi, ma ci arriveremo, spero dopo, rivendico in maniera assolutamente chiara e netta il merito dell’attività che noi abbiamo svolto con Vito Calogero Ciancimino e spiego il perché. Introducendo il Colonnello Mori, Ciancimino accettava una interlocuzione di livello che non era più il capitano De Donno, era il Colonnello Mori, cioè era il rappresentante del Ros Carabinieri, quindi accettava implicitamente un rapporto con lo Stato che lo poneva ormai al di là di certe scelte, cioè non poteva più tornare indietro e questo per noi era un vantaggio incommensurabile perché comunque noi, da un personaggio come Vito Calogero Ciancimino ne avremmo ottenuto, quantomeno a livello informativo, delle indicazioni insostituibili e lui accetta di incontrare il Colonnello Mori.

Accetta e il primo incontro avviene i primi di agosto, il 5 agosto. […]

Quando torna al terzo incontro e ci racconta l’esito dell ‘incontro con il suo contatto, di cui non ci dice, non ci dà le generalità, lui ci dice: ma io, quel mio referente, mi ha detto dice ma questi chi sono? Che è già sintomatica, cioè in un contesto storico particolare, si presentano delle persone che giù Cosa Nostra, cioè il suo referente dice: ma questi chi sono? E lui dice sono … e l’altra parte risponde, dice: questi o sono pazzi o hanno le spalle veramente coperte. Allora, dice, se sono veramente quello che dicono, risolvono i suoi problemi e poi discutono con noi. Quando Ciancimino ci riferisce questa cosa, l’impressione fu che ci stesse prendendo in giro, nel senso che era fin troppo scontata la richiesta di risolvere i problemi giuridici di Ciancimino, Ciancimino aveva questa idea fissa, tornava sempre sul problema della sua libertà, dei suoi processi, della misura di prevenzione. […] La risposta fu estremamente chiara, gli dicemmo che non solo non potevamo fare nulla per i suoi processi, ma glielo motivammo pure ….. nel suo mondo ormai, diciamo così, tra virgolette, era ormai sostanzialmente bruciato, ci disse, dice loro, dice va bene accettare di parlare, dice che cosa proponete? Al che il Colonnello gli disse, in maniera molto tranquilla, seria e incontestabile, si consegnino tutti i latitanti e noi gli garantiamo un giusto processo e un trattamento equo per le famiglie. Ricordo che Ciancimino saltò, si colpì le gambe e saltò sulla sedia diventando bianco. Io personalmente, ma credo anche il Generale Mori, in quel momento capimmo che lui veramente aveva parlato con Cosa Nostra, perché lui ci disse, dice voi mi volete morto e dice volete morire pure voi. Lì avemmo la sensazione che lui non ci aveva preso in giro, cioè veramente aveva preso contatti con l’altra parte e veramente aveva trasmesso la nostra richiesta. A quel punto chiaramente però si rese anche conto che noi non avevamo, perché non avevamo niente da offrire e niente da trattare, al che pensandoci, lui individuò la soluzione, ma trattandoci con forza, cioè lui nel rapporto, già lui era un tipo nervoso, digrignava i denti quando parlava, era un personaggio a modo suo. E ci disse, cioè, tra virgolette quasi, ci fece un cazziatone, perché disse voi, dice “qui si muore, dice qui ci ammazzano. Allora facciamo una cosa, dice io gli dico che voi non volete più discutere di niente, non volete nulla e che quindi questo discorso si interrompe, in maniera tale che comunque io ho fatto un ‘attività che però non possono pensare né che li ho presi in giro né che era falsa. Chiudiamo la questione qui e poi si vede e non se ne parla più […].

PUBBLICO MINISTERO.’ – Senta, noi abbiamo rinvenuto, presso gli archivi del Ros, un appunto, è agli atti del processo, 30 maggio 1992, su carta intestata appunto raggruppamento operativo speciale Carabinieri e reparto criminalità organizzata, non è firmato ma è datato 30 maggio 1992, quindi siamo proprio all’indomani della strage di Capaci. Lei ha detto che i contatti con Vito Ciancimino cominciamo nel giugno del 1992.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – Dopo la strage, dopo la strage di Falcone, adesso la data esatta non la so. Dopo la strage di Falcone sì.

PUBBLICO MINISTERO: – Quindi è possibile addirittura che il primo incontro con Massimo Ciancimino sia del maggio 1992?

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – È possibilissimo, sì.

PUBBLICO MINISTERO: – Vieni giorno tot che ti porto io a casa.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – No, non mi portava, mi diceva la data e io ci andavo da solo.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – Lo sapeva anche dopo, quando veniva il Colonnello, ci portava sempre il caffè.

PUBBLICO MINISTERO: – No aspetti, su un punto specifico, non mi interessa nemmeno la definizione di trattativa, non è un interesse diciamo da un punto di vista, tra virgolette, giornalistico o di compendio di una vicenda. lo voglio un fatto preciso: lei ha detto, sotto giuramento in Corte d’Assise, gli proponemmo di farsi tramite per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione dell’attività stragista nei confronti dello Stato.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – Confermo.

PUBBLICO MINISTERO : – Che vogliamo discutere, troviamo un punto di incontro per cessare le stragi.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – Confermo.

PUBBLICO MINISTERO : – Senta, sempre nella stessa udienza, lei ha dichiarato: “gli facemmo intendere che noi, nella trattativa, eravamo lì in veste di rappresentanti dello Stato “.

DICH. DE DONNO GIUSEPPE: – È quello che ho detto prima, certo. Non certo potevamo andare a titolo personale.

* * * Da notare che nella ricostruzione inizialmente spontaneamente resa il De Donno appare chiaramente influenzato dall’imputazione mossa in quel processo al suo superiore Mori e così scompare del tutto la “trattativa”, che riaffiora, infine, soltanto quando, sollecitato dal P.M., lo stesso De Donno non può che confermare le ben più incisive ed inequivoche dichiarazioni rese quale testimone nel processo di Firenze.


Manovre e baratti all’ombra delle stragi  All’udienza del 15 settembre 2016 il P.M. ha chiesto di acquisire (ed è stata, poi, acquisita alla successiva udienza del 30 settembre 2016) la registrazione audio della conferenza stampa tenuta a Palermo il 15 gennaio 1993 dal Gen. Giorgio Cancellieri, Comandante della Regione Sicilia, in occasione della quale il predetto ebbe, tra l’altro, a dire: “La personalità di Totò Riina è nota. Fa parte… direi della letteratura della mafia, a lui sono riconducibili tutta una serie di gravissimi e reiterati episodi di criminalità nell’isola, nell’intera Nazione e anche fuori dal territorio dello Stato. Fenomeni che hanno aggredito, nei gangli vitali, la popolazione, il cittadino comune, qualsivoglia attività produttiva, con attacchi ripetuti contro le Istituzioni statali. E questo in un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico, addirittura potrebbe avere del! ‘inaudito e dell’assurdo, di mettere in discussione l’Autorità istituzionale. Quasi a barattare, a istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale”.

A seguito di tale acquisizione probatoria di estrema importanza perché per la prima volta, dal punto di vista della ricostruzione storico-fattuale, veniva pronunziata pubblicamente, in relazione alle vicende oggetto del presente processo, la parola “trattativa”, le difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno hanno chiesto di esaminare, in qualità di testimone a discarico, il Gen. Giorgio Cancellieri.

Quest’ultimo, quindi, è stato esaminato all ‘udienza del 9 febbraio 2017 ed in tale occasione, in sintesi, ha riferito:

[…] – che la dichiarazione che egli fece in quella conferenza stampa era stata concordata con il ROS e, in particolare, con Subranni e soprattutto Mori (”[…]DICH. CANCELLIERI GIORGIO: – .. .fu una,direi, una intervista, più che altro una risposta altre domande, che era stata preparata congiuntamente ai rappresentanti del Ros, in particolare forse c’era anche Subranni, che era venuto, ma in particolare Mori, era quello che in pratica mi aveva dato la notizia della presenza nella caserma di Corso Vittorio Emanuele di Riina. Ed era una, direi una dichiarazione concordata anche su spunti da parte del Ros … ……. Sì, sì, era, era … …. …. Erano dei fogli che avevo, che infatti si può vedere anche dai giornali … … …. Poi magari me l’ero pure preparata […]”);

– che egli non si chiese quale fosse il senso di quella dichiarazione contenuta in un foglio che gli fu passato materialmente da Mori […];

– che egli in quella circostanza non ebbe modo di riflettere su quanto dichiarato e non chiese, dunque, alcuna spiegazione […];

– che in quel momento egli non era a conoscenza degli incontri tra Mori e Vito Ciancimino […];

– che quella dichiarazione non fu concordata con i magistrati presenti alla conferenza stampa […];

– di avere poi appreso dalla stampa dei contatti tra Mori e Vito Ciancimino (“lo di questo aspetto di Ciancimino, dei contatti, debbo dire che proprio … Ho finito quasi per leggerli sui giornali come notizie di cronaca, non come fatto reale, né come attività investigativa, anche se, come dico, il fatto che si potessero … Che il Ros potesse …il Ros o le Sezioni Anticrimine potessero prendere dei contatti … Ma d’altra parte questo anche… L’attività investigativa (PAROLA INCOMPRENSIBILE)”); […].

Come si vede, dunque, il Gen. Cancellieri, chiamato dalle difese degli imputati Subranni, Mori e De Donno nell’intento di confutare quella risultanza della registrazione della conferenza-stampa del 15 gennaio 1993 precedentemente mai emersa, ha testimoniato che egli, in quell’occasione, ebbe a farsi portavoce, quale Ufficiale più alto in grado della Regione Sicilia, di un comunicato predisposto dal R.O.S. nelle persone di Subranni e Mori o comunque di indicazioni da questi ultimi fornitegli poco prima dell’inizio della conferenza stampa.

L’estrema importanza di tale risultanza, allora, deriva dal fatto che in quell’occasione la “trattativa” citata nella conferenza stampa non venne riferita, come poi avrebbe fatto Mori nel 1997, soltanto agli incontri con Vito Ciancimino, bensì direttamente a Salvatore Riina.

Ciò, innanzi tutto, comprova che Subranni e Mori già in quel momento (gennaio 1993) avevano acquisito la consapevolezza, non soltanto del fatto che effettivamente Vito Ciancimino fosse riuscito a veicolare la loro sollecitazione […] sino al massimo vertice dell’associazione mafiosa “cosa nostra” (appunto, Salvatore Riina), ma, soprattutto, per quel che rileva in questa sede, che Riina aveva, in un certo senso, accolto quella loro sollecitazione formulando alcune richieste (rectius, condizioni) per porre termine alle stragi.

V’era negli imputati Subranni e Mori, in altre parole, la consapevolezza che, a seguito della loro sollecitazione rivolta per il tramite di Vito Ciancimino […], si era, comunque, effettivamente e di fatto, instaurata, appunto, una “trattativa”, con la richiesta, da un lato (Subranni e Mori), delle condizioni per cessare, appunto, le stragi e con l’indicazione, dall’altro (Riina), dei benefici al cui ottenimento veniva condizionata la cessazione delle stragi medesime.

Peraltro, in tale contesto, appare estremamente significativo che sia stato usato, nel comunicato predisposto da Subranni e Mori e letto dal Gen. Cancellieri in quella conferenza stampa, accanto alla parola “trattativa” anche il verbo “barattare” .

Ciò rende ulteriormente del tutto vano il tentativo fatto in questa sede dall’imputato Mori di ridimensionare il senso della parola “trattativa” da lui e da De Donno utilizzata nella deposizione dinanzi alla A.G. di Firenze […], poiché, escluso il lapsus per la reiterazione dell’uso di quel termine, sin dai primi momenti successivi all’arresto di Riina nel 1993, da parte di soggetti di riconosciuta levatura culturale, appare chiara ed evidente la differenza tra il semplice contatto o abboccamento, che può avere carattere anche soltanto unilaterale, e la trattativa che, nel suo significato ontologico, mira alla composizione di un contrasto con il raggiungimento di un accordo (del quale, infatti, come già osservato sopra, la trattativa – e cioè gli incontri, i colloqui, le discussioni, le proposte e le controproposte – costituisce la fase preliminare).

Ed allora, se già nel gennaio 1993, Subranni e Mori parlarono senza alcuna remora di “trattativa” e di “baratto”, si ripete, non con Vito Ciancimino, ma con Salvatore Riina, non può che concludersi che essi già in quel momento fossero venuti a conoscenza delle richieste avanzate dal vertice di “cosa nostra” per porre termine a quella stagione sanguinosa apertasi con l’uccisione di Salvo Lima e proseguita, passando per l’uccisione del M.llo Guazzelli, soprattutto con le stragi di Capaci e via D’Amelio.

D’altra parte, non va dimenticato che lo stesso Mori ha riferito che Vito Ciancimino, ad un certo momento, ebbe a dirgli che i suoi interlocutori mafiosi (di fatto, Salvatore Riina, essendo l’unico che in quel momento aveva un effettivo potere decisionale) accettavano la “trattativa” (“Guardi. quelli accettano la trattativa”)

In sostanza, v’è, a questo punto, la prova definitiva ed inconfutabile che Subranni e Mori fossero a conoscenza di quelle che, senza alcun margine di opinabilità, come si dirà meglio nel prosieguo, devono essere definite come “minacce” che l’organizzazione mafiosa, attraverso Subranni e Mori […], inevitabilmente intendeva veicolare sino al potere esecutivo affinché questo ponesse in essere quelle iniziative dirette a soddisfare le condizioni che, a seguito della sollecitazione pervenuta tramite Vito Ciancimino, erano state poste per porre termine alle stragi.

Ciò detto, rinviando, quindi, ad un momento successivo l’inquadramento della suddetta risultanza probatoria nel complesso della ricostruzione fattuale richiesta, in questa sede, appare importante, però, qui sottolineare, anche per la valutazione sulla genuinità o meno di alcune successive propalazioni di collaboranti sulla c.d. “trattativa” di cui si darà conto in un capitolo successivo, che i presenti alla conferenza stampa (e cioè sia gli altri protagonisti di questa, sia i giornalisti), a causa della mancata conoscenza, in quel momento, dei fatti che costituivano il substrato della dichiarazione predisposta da Subranni e Mori, non colsero il vero senso di quella dichiarazione, così che questa non ebbe alcun risalto sulla stampa e fu persino tagliata dalla registrazione nel servizio televisivo trasmesso quel giorno (v. testimonianza Bonferraro), tanto che soltanto in anni recenti è stato possibile recuperare la registrazione integrale grazie al prezioso archivio di Radio Radicale.

Le risultanze di cui si è appena dato conto nei capitoli 5, 6 e 7 che precedono consentono di ritenere già raggiunta la prova, al di là di ogni ragionevole dubbio, su alcuni dati fattuali che è opportuno qui sintetizzare prima di proseguire nell’analisi delle ulteriori risultanze probatorie che condurranno fino alla valutazione delle condotte che hanno dato luogo alla contestazione di reato formulata nel presente processo (di cui, come già osservato nella premessa in questa sentenza, la “trattativa” costituisce soltanto l’antecedente fattuale).

In particolare, alla stregua di quanto esposto nei Capitoli prima ricordati, può affermarsi che, sulla scorta delle stesse dichiarazioni dei protagonisti principali e di quanto oggettivamente si ricava dalle condotte da loro tenute, risultano provate, in termini di fatto, le seguenti circostanze:

– Vito Ciancimino fu contattato, prima da De Donno e poi anche da Mori personalmente, sì, certamente per acquisire da lui notizie di interesse investigativo, ma, nel contempo, anche con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del “maxi processo” e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci;

– Mori e De Donno tentarono, nel contempo, di acquisire la necessaria “copertura politica” di quell’iniziativa, informando, per via mediata, il Ministro della Giustizia e il Presidente del Consiglio dei Ministri e, comunque, si accreditarono verso gli interlocutori mafiosi dicendo loro (o quanto meno facendo credere loro) di rappresentare, ai fini del chiesto dialogo, le Istituzioni dello Stato o coloro che, comunque, avrebbero avuto il potere di soddisfare eventuali richieste indicate dai vertici mafiosi quali condizioni per cessare la strategia stragi sta;

– Vito Ciancimino, forse anche inaspettatamente per Mori e De Donno, effettivamente si attivò immediatamente, informando (tramite Antonino Cinà) Salvatore Riina della sollecitazione al dialogo ricevuta dai Carabinieri;

– Salvatore Riina accettò la “trattativa”, autorizzando Vito Ciancimino a proseguire quei contatti con i Carabinieri


Le dichiarazioni spontanee del generale    Infine, deve darsi conto delle dichiarazioni spontaneamente rese sul punto nel presente dibattimento dall’imputato Mario Mori, pur premettendo, sin d’ora, che lo stesso in qualche passaggio ha rinviato alle più dettagliate conoscenze del coimputato De Donno (“Sull’argomento potrà interloquire anche il dottor De Donno, che fu colui che li iniziò, ovviamente da me autorizzato”), il quale, tuttavia, così come Mori, non ha accettato di sottoporsi all’esame delle parti e nulla ha riferito spontaneamente riguardo al tema dei contatti con Ciancimino qui in esame rinviando a sua volta alle dichiarazioni di Mario Mori […].

Ciò premesso, in ordine ai contatti con Vito Ciancimino ed all’esito delle dichiarazioni precedentemente rese da Massimo Ciancimino in questo dibattimento, l’imputato Mario Mori ha reso spontanee dichiarazioni all’udienza dell’8 settembre 2016.

Si omettono qui, però tutte le considerazioni del Mori riguardo alla inattendibilità di Massimo Ciancimino poiché le dichiarazioni di quest’ultimo non sono, come detto, in alcun modo utilizzate da questa Corte ai fini della valutazione delle risultanze probatorie.

Rileva, qui, piuttosto, la ricostruzione dei contatti con Vito Ciancimino.

Dunque, in particolare, in quella occasione, riguardo a tali contatti, Mario Mori ha spontaneamente dichiarato:

“Mi riferisco alla deposizione resa dal signor Massimo Ciancimino e a quelle ad esse direttamente collegate …. …. …. Nel corso del mese di giugno 92, il Capitano De Donno, sfruttando incontri casuali verificati nel corso dei suoi viaggi da e per Palermo, incontrò e prese contatto con Massimo Ciancimino, da lui conosciuto nel corso di perquisizioni a casa del padre, stabilendo con lui una corretta interlocuzione. L’Ufficiale titolare delle investigazioni sfociate nell’inchiesta mafia e appalti, ben conosceva il ruolo di protagonista che aveva rivestito e che ancora rivestiva all’epoca Vito Ciancimino nel condizionamento degli appalti pubblici e più in generale la sua situazione di cerniera tra il mondo politico e imprenditoriale e l’ambito mafioso. Nell’ottica di acquisire elementi utili alla prosecuzione delle indagini per giungere a una individuazione dei responsabili degli omicidi di quell’anno, in particolare per quanto attiene la strage di Capaci, e sulla base delle interlocuzioni avute con Massimo Ciancimino, siamo dopo l’attentato di Capaci e prima di quello di Via D’Amelio, De Donno ritenne che, opportunamente contattato, Vito Ciancimino avrebbe potuto accettare il dialogo e al limite accondiscendere a qualche forma di collaborazione se non altro per dimostrare la sua sempre proclamata estraneità a Cosa Nostra. […] Nella vicenda però ritenevo di avere un vantaggio importante dato dal fatto che Ciancimino era in attesa di decisioni connesse ai propri procedimenti giudiziari aperti, che se a lui sfavorevoli, come era ipotizzabile, lo avrebbero riportato in carcere definitivamente. Il primo incontro con me avvenne nel pomeriggio del 5 agosto 1992, nell’abitazione romana di Ciancimino, in zona di Piazza di Spagna – Villa Medici. Si veda l’agenda del 1992 mia, già in questi atti. […] Il terzo incontro avvenne il 1 ottobre 1992. Ciancimino ci disse che aveva preso contatto con l’altra parte, senza specificare l’identità dei suoi interlocutori, riferendoci che aveva riscontrato perplessità perché avendo fatto i nostri nomi gli era stato chiesto chi rappresentassimo. Convinto che il mio interlocutore tergiversasse, gli risposi di non preoccuparsi e di andare avanti così. Questa risposta che non lo poteva soddisfare in condizioni normali, in quel momento lo accontentò perché anche lui aveva esigenze impellenti da fronteggiare, che gli sconsigliavano di assumere posizioni rigide. Così prese per buona una risposta che esaustiva certamente non era e decise di procedere oltre. Nel corso dell’incontro Ciancimino ci consegnò due copie della bozza di un suo libro intitolato Le Mafie, scritto su persone e fatti politici – amministrativi da lui conosciuti come protagonista e testimone delle vicende siciliane degli anni appena trascorsi. Nel testo egli sosteneva la tesi di una sostanziale convergenza di intenti tra mafiosi e politici.

Il Ciancimino mi disse che era sua intenzione farlo pubblicare e che ne aveva già distribuito delle copie per sensibilizzare al suo caso persone in grado di aiutarlo una volta conosciuta la verità. Egli aggiunse che quelli del libro erano anche gli argomenti che voleva trattare quando fosse riuscito ad essere ricevuto nella Commissione Parlamentare Antimafia e al riguardo chiese anche un mio interessamento. Egli, convinto che dietro le morti di Salvo Lima, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oltre alla matrice mafiosa, vi fosse un disegno più ampio, voleva esporre questa sua ipotesi davanti ad un consesso politico e nel senso mi preannunciò una sua lettura al Presidente della Commissione nella quale avrebbe rinnovato la sua richiesta di essere sentito, già formulata sin dagli anni ottanta. Il libro Le Mafie, citato anche dal Ciancimino nel corso dei suoi interrogatori, fu trasmesso dal Ros il 2 febbraio del 1993 ai Magistrati della Procura della Repubblica di Palermo. […]Nel corso del mese di novembre 1992, il Capitano De Donno, attraverso Massimo Ciancimino, seppe che Vito Ciancimino lo voleva incontrare di nuovo da solo. Ritornando dall’appuntamento, l’Ufficiale mi riferì che il Ciancimino, dichiaratosi pienamente collaborativo, gli aveva chiesto cosa effettivamente volessimo e che lui gli aveva risposto che a noi interessava catturare i capi di Cosa Nostra, cioè Riina e Provenzano. Ciancimino ne aveva preso atto, precisando subito che le indicazioni più immediatamente sfruttabili su Riina Salvatore, chiedendo a riguardo le mappe della zona di Palermo che, da Viale della Regione Siciliana, va verso Monreale, con lo schema dei relativi allacci dell’azienda municipalizzata degli acquedotti. […] Poche ore dopo l’incontro avvenuto il 18 dicembre del 1992, Ciancimino venne arrestato in esecuzione di un provvedimento di custodia cautelare emesso sul presupposto del pericolo di fuga dalla Corte d’Appello di Palermo. Vito Ciancimino quindi non contribuì in alcun modo alla cattura di Totò Riina ….

[…] Il termine trattativa è stato usato da me e dal dottor De Donno nelle nostre dichiarazioni davanti alla Corte d’Assise di Firenze e Caltanissetta quando avremmo potuto adoperare altrimenti vocaboli affini quale contatto, relazione, rapporto, scambio di idee, abboccamento, discussione e altri simili. Questa espressione invece è diventata la parola d’ordine per un certo tipo di approccio del tutto forviante e scorretto ad una specifica indagine su Cosa Nostra. E su questo termine evocativo si cimentano tutt’ora i cultori di un tanto al chilo della materia per elaborare ipotesi a vanvera al solo scopo di tenere in piedi, artificiosamente, una ben definita impostazione ideologica. Per me Ciancimino era solo ed esclusivamente una potenziale fonte informativa da trattare in base al disposto dell’articolo 203 del Codice di Procedura Penale, che consente all’ufficiale di P.G. questi tipi di contatti …. […]”.

* * *  Anche in questo caso, risalta evidente il comprensibile tentativo di Mori di calibrare la ricostruzione degli accadimenti di modo da non lasciare alcuno spazio alla tesi accusatoria in verifica nel presente processo, e ciò affidandosi a dichiarazioni spontanee che, impedendo gli approfondimenti che sarebbero inevitabilmente conseguiti in caso di accettazione dell’esame delle parti, gli hanno consentito di omettere o ridimensionare alcuni passaggi della ricostruzione degli accadimenti medesimi originariamente riferita nella sua prima deposizione del 24 gennaio 1998 a Firenze.

Così in tale ultima ricostruzione v’è spazio soltanto per l’intendimento del Mori di utilizzare Vito Ciancimino esclusivamente come proprio confidente per acquisire notizie utili sull’organizzazione mafiosa.

Non v’è più alcun cenno, quindi, all’idea originaria che l’aveva determinato a cercare quel contatto e cioè quella di fare qualcosa per far cessare le stragi quanto meno concomitante con quella di individuare i responsabili della strage di Capaci […], d’altra parte, in modo ben più diretto e chiaro riferita inizialmente anche da De Donno (“… un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato”).

Ciò spiega perché nella sua ultima ricostruzione Mario Mori “dimentica” il passo forse più importante e certamente più significativo della sua interlocuzione con Vito Ciancimino (” … ‘Ma signor Ciancimino. ma cos ‘è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?’ La buttai lì convinto che lui dicesse: ‘cosa vuole da me colonnello?’ Invece dice: ‘ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo’. E allora restammo … dissi: ‘allora provi’ …”), allorché egli ebbe ad invitare quest’ultimo a prendere contatto con i vertici di “cosa nostra” per porre termine alla contrapposizione frontale, che aveva da ultimo caratterizzato le rispettive posizioni, plasticamente rappresentata da quella nuova strategia manifestatasi, dopo la sentenza definitiva del maxi processo, con l’uccisione di Salvo Lima, seguita da quella del M.llo Guazzelli e culminata con la strage di Capaci, che, peraltro, lasciava presagire ulteriori nefaste azioni già paventate sia da organi istituzionali (v. allarmi lanciati dal Capo della Polizia e dal Ministro dell’Interno di cui prima si è detto sopra), sia da possibili future vittime, tra le quali il Ministro Mannino che si era già prontamente rivolto per tale ragione anche al Gen. Subranni (ed, in proposito, a dimostrazione che il rischio di quelle ulteriori azioni veniva ritenuto concreto anche dall’Arma dei Carabinieri, si veda, altresì, la nota del 20 giugno 1992 del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri indirizzata al Direttore del SISMI ed avente ad oggetto “Minacce nei confronti di inquirenti e personalità” acquisita all’udienza del 24 ottobre 2014).

Ed è appena il caso di ricordare ancora come sulla finalità di instaurare un dialogo con i mafiosi per ottenere l’immediata cessazione della strategia stragista, da ultimo tralasciata da Mori nelle dichiarazioni spontanee sopra riportate, ancora più chiaro è stato, nella sua prima deposizione, Giuseppe De Donno con riferimento alla proposta che egli e Mori fecero a Vito Ciancimino:

“E gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa nostra al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò”.

Ma, d’altra parte, pur rimandando una più approfondita valutazione delle risultanze ad un Capitolo successivo, può sin d’ ora, però, anticiparsi come appaia del tutto logico che Mori, a riprova del suo intendimento di calibrare la ricostruzione degli accadimenti per non lasciare alcuno spazio alla tesi accusatoria, abbia del tutto omesso il riferimento a quel passo della sua interlocuzione con Vito Ciancimino in quanto palesemente in contrasto e contraddizione con la sua affermazione riguardo al più limitato intendimento di utilizzare quest’ultimo quale mero confidente per raccogliere notizie utili alle indagini.

Quella frase dimostra incontestabilmente, infatti, che non si intendeva affatto raccogliere soltanto le confidenze di Ciancimino utilizzandolo come mero “informatore”, definizione utilizzata, appunto, da Mori nelle sue spontanee dichiarazioni unitamente al riferimento all’art. 203 c.p.p. fatto per giustificare l’omissione della informativa ali’ A.G. (“Per me Ciancimino era solo ed esclusivamente una potenziale fonte informativa da trattare in base al disposto dell’articolo 203 del Codice di Procedura Penale, che consente all’ufficiale di P.G. questi tipi di contatti”), ma, piuttosto, si intendeva utilizzare questi per instaurare un dialogo con “cosa nostra” e, quindi, per una attività che certamente trascende quella del mero informatore per trasmodare più in quella, semmai, di un agente provocatore, non certo consentita alla P.G. in assenza di preventiva comunicazione all’autorità giudiziaria competente per le indagini (v., con riferimento alle azioni sotto copertura, anche art. 9 comma 4 della legge 16 marzo 2006 n. 146) ed anzi, come pure si vedrà meglio più avanti, addirittura trascendendo anche quella dell’infiltrato, la cui condotta non può certo inserirsi con rilevanza causale in un’azione criminale, ma, assumendo soltanto carattere di marginalità rispetto a questa, deve prevalentemente concretizzarsi nell’osservazione, nel controllo e nel contenimento delle azioni illecite altrui, laddove, invece, nel caso in esame, con quella richiesta di dialogo avanzata dal Mori, veniva sollecitata a “cosa nostra”, determinandola in modo essenziale per il conseguente effetto di incitamento e istigazione, la formulazione di richieste di carattere minaccioso nei confronti dello Stato al cui accoglimento soltanto la stessa organizzazione mafiosa “cosa nostra” avrebbe modificato la sua già intrapresa strategia stragi sta.

Ed in tale contesto si spiega, altresì, la “retromarcia” operata nelle sue ultime dichiarazioni spontanee dal Mori riguardo a quella che originariamente, senza remore e tentennamenti, aveva egli stesso definito “trattativa”[…].

Oggi il Mori, nella sua più recente ricostruzione degli accadi menti, omette accuratamente di utilizzare tale termine e tenta di ridimensionare – rectius, rimediare alle sue precedenti dichiarazioni proponendo diverse definizioni […], che, contrariamente a quanto dallo stesso sostenuto, non sono affatto “affini” (v. dich. spontanee sopra riportate), né tanto meno sinonimi di “trattativa” .

Questa, come pure, d’altra parte, in modo sintetico e più semplice, detto da Mori comporta “una negoziazione che presuppone un dare e un avere”, o, per meglio dire, l’esplicitazione di rispettive richieste finalizzata al raggiungi mento di un accordo.

[…] E se così è, allora, è evidente che l’iniziativa del Mori comportò proprio l’apertura di una “trattativa” con “cosa nostra”, nella misura in cui il predetto sollecitò Vito Ciancimino a richiedere a vertici dell’organizzazione mafiosa cosa volessero per fare cessare la contrapposizione con lo Stato “muro contro muro” (parole testuali del Mori) e, quindi, le stragi.

La sollecitazione del Mori (ovviamente, si intende quella indirizzata ai vertici di “cosa nostra”, non essendo contestato che Ciancimino accettò di fare da tramite con questi […]), infatti, se accolta (e di ciò si dirà nel prossimo Capitolo), avrebbe inevitabilmente comportato l’accettazione della “trattativa” proposta e, conseguentemente, la formulazione di richieste da parte di “cosa nostra” al cui accoglimento subordinare la cessazione delle stragi, aspetto che successivamente si approfondirà con riferimento, non già alla stessa questione della “trattativa” che, come detto può rilevare soltanto come antecedente fattuale causale, ma alla imputazione di minaccia (al Governo della Repubblica) che è stata contestata in questa sede agli imputati dalla Pubblica Accusa.

E, forse, di ciò si è reso conto lo stesso Mario Mori, che, infatti, incidentalmente e senza apparentemente darvi alcun importanza, ha, poi, attribuito ad altri (non meglio precisati ed indicati, ma, in modo sibillino, definiti come più “qualificati” e “disponibili”) l’eventuale “trattativa” con “cosa nostra” (“Da quanto sopra si deduce che se una trattativa vi è stata, questa non è da attribuire a Mori e De Donno. ma a qualche altro che agli occhi di Cosa Nostra appariva senza altro più qualificato e disponibile…”).


I contatti segreti dell’estate 1992  Si è già visto sopra nei paragrafi precedenti che dei contatti di Mori e De Donno con Vito Ciancimino non venne mai data alcuna informativa alla Autorità Giudiziaria (di Palermo o anche di altra sede).

E ciò, non soltanto in modo formale (circostanza fattuale incontestata) anche eventualmente tacendo il nome dell’informatore avvalendosi della prerogativa di cui all’art. 203 c.p.p. pure più volte richiamato da Mori […], ma neppure in modo informale in colloqui riservati con magistrati della Procura di Palermo (o anche di altre Procure, quali in ipotesi, la Procura di Caltanissetta che indagava sulle stragi prima di Capaci e poi di via D’Amelio, ovvero anche la Procura di Roma stante che i contatti con Ciancimino iniziarono in tale città).

L’imputato Mori ha sempre giustificato tale omissione con i rapporti non idilliaci che il R.O.S. allora aveva con la Procura di Palermo a causa delle vicende del c.d. rapporto “mafia e appalti” […].

Tale giustificazione appare però chiaramente pretestuosa, tenuto conto che:

– neppure dopo l’insediamento del nuovo Procuratore della Repubblica Caselli e nonostante nel frattempo Vito Ciancimino fosse stato arrestato facendo così venire meno eventuali esigenze di riservatezza, venne mai redatta dal R.O.S., una informativa su tutti i contatti intrapresi con Ciancimino sin dal mese di giugno precedente e sugli sviluppi degli stessi;

– tale informativa, in realtà, neppure informai mente fu data al medesimo nuovo Procuratore della Repubblica Caselli, che, come si è già visto nel precedente paragrafo (v. dichiarazioni del teste Caselli già richiamate), infatti ebbe poi ad apprendere degli incontri tra i Carabinieri e Vito Ciancimino soltanto da quest’ultimo e nei soli limiti in cui lo stesso ritenne di informarlo, mentre né

Subranni, né Mori, né De Donno mai ebbero a fornirgli una effettiva e completa informazione anche con la ricostruzione dei medesimi accadimenti dal loro (necessariamente diverso) punto di vista;

– la giustificazione addotta potrebbe riguardare, al più, soltanto la Procura della Repubblica di Palermo e non spiega, quindi, perché non furono informati altri Uffici Giudiziari, primo fra tutti la Procura di Caltanissetta, tanto più che, a detta degli imputati, da Vito Ciancimino si intendevano acquisire notizie anche sulle stragi (v., ancora, dichiarazioni spontanee di Mario Mori sopra già riportate: “… mi ripromettevo di acquisire da lui elementi che mi potessero fare progredire nelle indagini, per l’identificazione di mandanti e autori delle stragi di Capaci e Via D’Amelio…”).

Già tali considerazioni rendono vana la giustificazione addotta dagli imputati ed inducono a ritenere, conseguentemente, che altra fu la ragione dell’omissione qui in esame. Ma v’è di più.

Come si è visto nei paragrafi precedenti, per stessa ammissione degli imputati Mori e De Donno, la decisione di contattare Vito Ciancimino fu presa immediatamente dopo la strage di Capaci e, già durante il mese di giugno successivo, quanto meno il solo De Donno aveva, in effetti, già contattato il Ciancimino.

Non solo, ma è emerso che di tali contatti De Donno ebbe a riferire a Liliana Ferraro alla fine del mese di giugno 1992 e, in particolare, in un giorno compreso tra il 23 (trigesimo della strage di Capaci) ed il 28 (giorno in cui, poi, la Ferraro aveva incontrato il Dott. Borsellino).

Ed allora, se già quei contatti, quanto meno sotto il profilo programmatico, erano già attuali in quei giorni e lasciavano presagire importanti sviluppi tanto che De Donno ritenne di parlarne alla Ferraro, non si comprende perché analoga informazione non venne data anche al Dott. Borsellino, per il quale, di certo, per la sua storia e per la sua nota ed incontestabile dirittura morale, non potevano valere quelle remore addotte da Mori riguardo al Procuratore della Repubblica dell’epoca (il Dott. Giammanco) od eventualmente anche riguardo ad altri magistrati di quell’Ufficio.

Eppure tanto Mori che De Donno incontrarono personalmente il Dott. Borsellino il 25 giugno 1992 in Palermo presso la Caserma Carini ed ebbero con lo stesso un lungo colloquio (v. sopra risultanze riportate nel capitolo 4) e, tuttavia, negli stessi giorni (o forse anche successivamente al giorno) in cui già avevano ritenuto di informare la Ferraro, per stessa ammissione dei predetti imputati, nulla dissero al Dott. Borsellino riguardo a Ciancimino.

Ed allora, non può che concludersi che la ragione della voluta omissione informativa qui in esame non può di certo ricondursi alla giustificazione addotta da Mori, perché di certo né quest’ultimo né altri avrebbero potuto diffidare del Dott. Borsellino, mentre ogni altra eventuale esigenza di riservatezza era già venuta meno con la informazione data alla Ferraro nonostante questa non ricoprisse alcun ruolo che la giustificasse.

Se così è, ben altra deve essere stata la ragione dell’omessa informativa, non soltanto, in generale, all’autorità giudiziaria, ma persino alla persona del Dott. Borsellino.

E tale ragione, quindi, logicamente ed ineludibilmente non può che individuarsi nell’intendimento sottostante a quell’iniziativa di contattare Vito Ciancimino, che, come si ricava dalle risultanze già prima esaminate nei paragrafi precedenti, non era quello di instaurare un semplice rapporto confidenziale per carpire qualche notizia e che certamente ben avrebbe potuto essere comunicata, non soltanto, ovviamente, al Dott. Borsellino, ma anche a qualsiasi Ufficio Giudiziario per l’ordinarietà di quell’attività tutt’al più tacendo il nome del “confidente-informatore” (ma è significativo che tale esigenza di riservatezza non abbia animato sicuramente gli imputati se è vero che essi fecero il nome di Vito Ciancimino a più soggetti quali la Ferraro, la Contri e Violante), ma, semmai, quella reale di instaurare, attraverso Vito Ciancimino, un dialogo con i vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra”.

Appare assolutamente evidente ed incontestabile, infatti, che un simile intendimento non avrebbe potuto essere rappresentato a magistrati di qualsiasi Ufficio giudiziario e, certamente, giammai, comunque, al Dott. Borsellino, che, insieme al Dott. Falcone, invertendo la linea che aveva caratterizzato sino al finire degli anni settanta il rapporto delle Istituzioni con l’associazione mafiosa, aveva sempre voluto, perseguito e mantenuto piuttosto una linea di assoluta intransigenza nell’azione di contrasto al fenomeno mafioso del tutto incompatibile con un’ipotesi di dialogo con i vertici mafiosi, quand’anche questo fosse stato finalizzato alla cessazione delle stragi, perché ciò, soprattutto dopo la positiva conclusione della lunga vicenda del “maxi processo”, avrebbe inevitabilmente rilegittimato e, conseguentemente, perpetuato il potere di “cosa nostra”.

Nello stesso solco si colloca, altresì, l’omissione di Subranni, Mori e De Donno in ordine alla documentazione, anche soltanto per uso interno del R.O.S., dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino e delle attività, in conseguenza di questi, poste in essere dai Militari.

Ed invero, a seguito di ordine di esibizione dei P.M. di Palermo e Caltanissetta, notificato il 16 novembre 2009 al Comandante del R.O.S., diretto ad acquisire “relazioni di servizio, annotazioni, appunti riservati o documentazione comunque afferente rapporti di qualsivoglia genere eventualmente intrattenuti da appartenenti al ROS” con alcuni soggetti, tra i quali Ciancimino Vito

Calogero e Ciancimino Massimo, oltre che la documentazione a qualsiasi titolo relativa a questi ultimi, sono stati consegnati dal R.O.S., in data 19 novembre 2009, i fascicoli relativi a Vito Ciancimino ed alle stragi di Capaci e via D’Amelio esistenti presso quel Raggruppamento.

Tra i documenti allora acquisiti (prodotti in copia dal P.M. all’udienza del 22 settembre 2017), v’è ne soltanto uno attinente ai fatti in esame, quello costituito dalla copia, senza intestazione e senza firma, del memoriale consegnato da Mori alla Procura di Firenze l’ l agosto 1997 ed alla Procura di Caltanissetta il 23 settembre 1997 (per il contenuto v. sopra).

Dunque, fino al 1997, né Mori, né De Donno hanno mai redatto alcuna relazione di servizio sui contatti con Vito Ciancimino e sulle informazioni ottenute (sul punto, si veda anche la testimonianza resa all’udienza del 31 marzo 2017 dal Gen. Giampiero Ganzer, già in servizio al R.O.S. dal febbraio 1993, vice comandante del detto Reparto dal mese di luglio 1997 e, infine, Comandante del R.O.S. dal 26 gennaio 2002 al 6 luglio 2012 […]”), né, d’altra parte, Subranni, allora comandante del R.O.S. e, quindi, superiore dei predetti, sia se informato sin dall’inizio, sia se informato soltanto nel mese di agosto come sostenuto da Mori, ha mai sollecitato ai suoi sottoposti la redazione di apposite relazioni di servizio in ogni caso utili, per qualsiasi eventualità, a trasmettere le conoscenze acquisite da uomini del suo Raggruppamento anche ad altri investigatori se la finalità di quei contatti fosse stata effettivamente, come asserito dagli imputati, di tipo esclusivamente investigativo.

Nessun Corpo investigativo d’elite, qual era ed è il R.O.S., può consentire che le conoscenze acquisite da un suo investigatore, soprattutto se, come nel caso in esame, sin dall’inizio ritenute di estrema importanza tanto da dame informale notizia al più alto livello politico (v. sopra), rimangano racchiuse esclusivamente nella mente e nella memoria dello stesso.

Persino lo stesso Gen. Giampiero Ganzer, teste della difesa sentito all’udienza del 31 marzo 2017, smentendo la contraria tesi della difesa dell’imputato De Donno (v. trascrizione della discussione all’udienza dei 5 aprile 2018 a proposito di asserite e presunte ragioni di sicurezza) ha dichiarato che, per norma e prassi interna al R.O.S., dovevano essere annotati gli incontri e I rapporti con i confidenti […].

Eppure è ciò che è avvenuto nella fattispecie, laddove non v’è alcuna traccia all’interno del R.O.S. dei contatti intrapresi da due dei suoi più importanti investigatori con un personaggio altrettanto importante (ovviamente sotto un diverso profilo, quello criminale) qual era Vito Ciancimino, né della disponibilità da quest’ultimo manifestata, né, ancora, di quel cenno dello stesso Ciancimino ai contatti avuti, quanto meno, con un intermediario dei vertici mafiosi, né, infine, più in generale, di tutte le notizie, comunque, raccolte durante i colloqui con Vito Ciancimino e sulle modalità ed i tempi di tali colloqui.

Di tutta questa attività nulla si sarebbe saputo se Vito Ciancimino, dopo l’arresto, non avesse deciso, sia pure con molte reticenze ed in termini alquanto generici, di informare i magistrati che si erano recati ad interrogarlo.

Può trovare giustificazione una simile omissione se Vito Ciancimino fosse stato un semplice confidente-informatore? Certamente no, perché persino i Servizi di Sicurezza lasciano traccia scritta dei contatti con le proprie fonti ancorché senza rivelarne l’identità (v. deposizione del teste Giraudo di cui si dirà esaminando in conclusione la posizione individuale dell’imputato Mori), né è utile richiamare, come ha fatto la difesa dell’imputato De Donno (v. trascrizione della discussione all’udienza del 5 aprile 2018) gli esempi dei rapporti confidenziali Riccio-Ilardo e Ravidà-Sturiale, dal momento che in entrambi i casi, in realtà, tali rapporti vennero documentati (per il primo, a prescindere dalle dichiarazioni di Riccio sull’invito proprio di Mori ad omettere le relazioni di servizio e dalle relazioni di servizio che, comunque, poi, furono riportate all’interno del rapporto “Grande Oriente” sottoscritto, non da Riccio, ma dal Col. Mauro Obinu, v’è quanto meno l’informativa ad uso interno del R.O.S. dell’ Il marzo 1996 come meglio si vedrà in seguito esaminando la relativa vicenda nel successivo Capitolo 35; per il secondo, risulta che Ravidà relazionava regolarmente, ovviamente, ciò che Sturiale gli riferiva e non viceversa, come si ricava anche dalla testimonianza di Nicolò Marino, di cui pure si dirà meglio più avanti).

V’è, poi, il caso eclatante dei contatti con Bellini, che pure sarà meglio e più approfonditamente esaminato più avanti, nel quale soltanto Mori ebbe ad omettere di lasciare traccia di tali contatti, mentre il suo omologo della D.LA. Dott. Messina, pure contattato da Bellini con modalità sostanzialmente analoghe, ebbe a redigere apposita relazione di servizio per lasciare traccia dell’accadimento (v. deposizione Messina che sarà riportata nel successivo Capitolo Il, paragrafo Il .10).

Ed allora, se così è, quella totale omissione, da parte di Mori e De Donno con l’avallo del Comandante Subranni, trova adeguata giustificazione soltanto se i contatti dei predetti col Ciancimino furono diretti ad instaurare, attraverso quest’ultimo, un dialogo con i vertici di “cosa nostra”, trattandosi, in questo caso, di un’attività evidentemente non esternabile, ed, infatti, ancora negata con decisione dagli imputati per gli effetti controproducenti, che, come si vedrà nel prosieguo, essa ha, poi, determinato.

Altrettanto eclatante e tale da contraddire la tesi difensiva degli imputati sulla finalità meramente investigativa dei contatti con Ciancimino appare, infine, l’omissione di qualsiasi attività investigativa da parte di coloro che, via Via, appresero degli sviluppi di quei contatti sul versante di “cosa nostra”.

Qui, a prescindere dai tempi di acquisizione della notizia (se sin dall’inizio dei contatti ovvero, come sostenuto da Mori, soltanto dal mese di ottobre 1992), rileva la circostanza, ammessa dagli stessi imputati, che ad un certo momento essi ebbero la certezza che Vito Ciancimino aveva effettivamente interloquito, attraverso un intermediario dallo stesso non indicato (lo avrebbe poi fatto soltanto successivamente in alcuni scritti ed in occasione degli interrogatori dopo l’arresto), con i vertici di “cosa nostra” […].

Eppure, nonostante tale certezza, nulla Subranni, Mori o De Donno fecero per tentare di sfruttare investigativamente quella notizia acquisita da Cianci mino: non fecero alcun accertamento sui pregressi eventuali spostamenti di quest’ultimo per verificare in quale momento e con quali modalità lo stesso avesse potuto instaurare quel contatto; non predisposero e non attuarono alcun successivo monitoraggio degli ulteriori contatti di Vito Ciancimino e dei movimenti dei familiari che in quel momento convivevano con lui; non richiesero alcuna attività di intercettazione e ascolto delle utenze in uso a Vito Ciancimino ed ai suoi familiari oltre che ambientale nei luoghi ove i predetti dimoravano; non disposero alcuna perquisizione (ovviamente, per non allarmare il Ciancimino, facendola eseguire ad altro reparto territoriale dei Carabinieri o altra forza di polizia e con motivazioni di comodo) per ricercare eventuali scritti in possesso di Vito Ciancimino relativi a quel contatto con l’intermediario dei vertici mafiosi.

Potevano esperti investigatori, qual erano i predetti imputati, ritenere che tali attività investigative non fossero di alcuna utilità, anzi, assolutamente ineludibili per l’acquisizione di spunti investigativi di estrema importanza per qualsiasi indagine sull’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e per l’individuazione anche di soggetti ad essa appartenenti e, in ultimo, anche per la stessa individuazione e cattura dei soggetti di vertice latitanti che essi, dichiaratamente, intendevano arrestare? Certamente no, e di ciò si rende conto lo stesso Mori, il quale, pur dopo avere respinto le critiche in più occasioni ricevute per i suoi metodi operativi (v. ancora le citate dichiarazioni spontanee: “in questa e in altre vicenda, a seconda di quali sono gli specifici interessi di chi le tratta, io e De Donno veniamo considerati alternativamente o dei fuori classe dell’investigazione, ovvero dei minus habens che procedevano nelle indagini senza la parvenza del discernimento”), già in occasione della sua prima deposizione a Firenze ebbe a preoccuparsi di giustificare l’inerzia investigativa che accompagnò i primi contatti con Ciancimino con la ristrettezza dei tempi […].

Perché, ovviamente, non sfuggiva al Mori che una parallela attività di investigazione finalizzata al monitoraggio delle reazioni di Vito Ciancimino sarebbe stata giudicata da qualsiasi investigatore indispensabile già nel momento in cui il medesimo Ciancimino, con i primi approcci da parte di De Donno, veniva “provocato” e, pertanto, il predetto ha tentato di giustificare la sua omissione con la ristrettezza dei tempi.

Sennonché è agevole rilevare che i primi approcci con Vito Ciancimino risalgono addirittura ai primi di giugno del 1992 e, comunque, – per stessa ammissione degli imputati – quanto meno al mese di luglio ancor prima della strage di via D’Amelio e sono stati poi seguiti da ulteriori incontri, anche personali con il Col. Mori, nel mese di agosto e poi ancora ad ottobre.

Eppure, dal mese di giugno o, quanto meno, luglio 1992 sino al 18 ottobre 1992, quando, secondo Mori, ebbero la certezza dei contatti avuti da Vito Ciancimino con i vertici dell’associazione mafiosa o almeno con un intermediario di questi, nulla fu fatto per monitorare le reazioni di Vito Ciancimino rispetto ai numerosi precedenti incontri, omettendo sia di effettuare quei pedinamenti di cui lo stesso Mori ha parlato […], sia, cosa certamente ancor più utile, qualsiasi attività di intercettazione ambientale e telefonica (quale quella, ad esempio, già svolta dal ROS nel mese di marzo 1992 ed inopinatamente interrotta nonostante da quelle intercettazioni fosse emersa l’esistenza, nella abitazione romana di Vito Ciancimino, di un’utenza riservata e diversa da quella già sottoposta ad intercettazione).

Ed allora, la giustificazione di Mori sulla ristrettezza dei tempi e sulla imprevedibilità della reazione di Ciancimino appare, anche in questo caso, risibile, non essendo plausibile che nel lasso di oltre quattro mesi o anche soltanto di oltre un mese (se si volesse restringere il periodo a quello compreso tra l’incontro del 29 agosto e quello del 18 ottobre 1992) non ci sia stato il tempo di organizzare l’attività di monitoraggio dei movimenti e dei contatti del Ciancimino a fronte della estrema importanza che gli stessi Mori e De Donno attribuivano a quella indagine, tanto da averne dato già notizia specifica ai più alti livelli politici sin dai precedenti mesi di giugno (incontro con la Ferraro) e luglio (incontro con la Contri).

Ma, in ogni caso, seppure si volesse prendere per buona la giustificazione addotta da Mori, non si comprenderebbe perché, dopo avere avuto la certezza (in data 18 ottobre 1992 secondo lo stesso Mori) che Ciancimino aveva effettivamente contattato un intermediario dei vertici mafiosi, ciò nonostante ancora nulla è stato fatto per monitorare il Ciancimino sino al 19 dicembre 1992 quando il predetto venne arrestato, e ciò neppure in prossimità di tale arresto quando, nei giorni immediatamente precedenti, il 17 dicembre 1992, Vito Ciancimino si recò a Palermo per contattare ancora l’intermediario […].

Né, in proposito, può valere la diversa giustificazione, invece, addotta da De Donno riguardo all’omissione qui in esame.

De Donno, infatti, anche lui evidentemente consapevole dell’anomalia della detta omissione investigativa, ha addotto a giustificazione il rischio di essere scoperti e di far venire meno, conseguentemente, il rapporto di fiducia con Vito Ciancimino […].

Sennonché, non soltanto tale giustificazione è smentita da quella diversa fornita da Mori prima ricordata, poiché quest’ultimo, che ovviamente ha avuto sin dall’inizio la direzione delle operazioni a fronte del ruolo meramente esecutivo del De Donno, ha dichiarato che aveva in animo di far effettuare il pedinamento di Ciancimino (v. dichiarazioni Mori: ” .. Ma io ero anche orientato eventualmente, se lui, come ritenevo, avesse portato a lungo la trattativa, di fare dei servizi di pedinamento su Ciancimino .. “) e che ciò non fu fatto, non già per il rischio di essere scoperti che, dunque, egli riteneva superabile, ma soltanto per mancanza di tempo (v. ancora dichiarazioni Mori: “Questo, poi, non è avvenuto perché ha bruciato i tempi, Ciancimino”); ma, in ogni caso, si tratta di una giustificazione che non appare credibile, essendo ben nota l’elevatissima professionalità del R.O.S. nell’effettuare indagini tecniche e di pedinamento nonostante le difficoltà degli obiettivi, mentre, d’altra parte, cosi come è accaduto per moltissime altre investigazioni del R.O.S. e di altre Forze impegnate contro la criminalità organizzata, il rischio di essere scoperti non può costituire una valida remora soprattutto a fronte dell’enorme importanza dei risultati investigativi che quell’attività di monitoraggio avrebbe potuto produrre (basti qui pensare alla conferma del ruolo di Vito Ciancimino, in quel momento ancora imputato in un processo in corso per il reato di associazione mafiosa, o ancora alla individuazione di soggetti facenti parte di tale associazione dal predetto eventualmente contattati, sino alla individuazione, in ipotesi, persino di taluno degli esponenti di vertice dell’associazione mafiosa in quel momento latitanti, quali Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, che, in virtù della comune provenienza da Corleone, certamente Ciancimino aveva avuto modo di conoscere).

Ed allora, l’omissione delle investigazioni conforta ulteriormente e definitivamente la conclusione che in quel momento l’intendimento di Subranni, Mori e De Donno non fosse quello minimale della raccolta di informazioni dal “confidente” Vito Ciancimino, ma, come più volte rilevato, anche in questo caso, soltanto quello di instaurare un dialogo con i vertici dell’associazione mafiosa (v. parole testuali di Mario Mori nella testimonianza resa a Firenze: “Ma non si può parlare con questa gente?”).

Mentre, infatti, nel primo caso, le investigazioni avrebbero costituito il conseguente corollario della provocazione lanciata al Ciancimino per sfruttarne la reazione ed ottenere i possibili risultati investigativi prima ipotizzati, nel secondo caso l’omissione delle investigazioni, nella consapevolezza che anche l’individuazione di tal uno degli esponenti mafiosi, anche se eventualmente di vertice, non avrebbe di certo posto termine alla strategia mafiosa stragista in corso, era, invece, strumentale alla instaurazione di quel dialogo tra parti contrapposte necessario per far cessare il “muro contro muro”.

E per raggiungere tale obiettivo era necessario lasciare a Vito Ciancimino i più ampi margini di libera manovra.

Come si è visto, dunque, l’analisi delle condotte, sia quelle attive, sia soprattutto quelle omissive, poste in essere dagli imputati Subranni, Mori e De Donno conduce univocamente ad una sola e certa conclusione: al di là dei singoli apporti e delle ragioni che più avanti saranno esaminati, essi volevano instaurare una “trattativa” con Vito Ciancimino ed, attraverso questi, con i vertici di “cosa nostra”.

Ed il termine “trattativa”, infatti, è stato correttamente ed appropriatamente usato sia da Mori che De Donno (oltre che, sin dali ‘inizio, dal loro interlocutore primario Vito Ciancimino) sino a quando, a seguito di altre acquisizioni conoscitive (soprattutto conseguenti alla collaborazione con la Giustizia di alcuni esponenti mafiosi), essi non hanno preso consapevolezza delle conseguenze nefaste di quell’improvvida iniziativa.

Essi intendevano, cioè, in quel momento, capire se vi fossero spazi di interlocuzione che potessero indurre i vertici mafiosi a recedere da quell’attacco e da quella contrapposizione frontale che era già culminata nella strage di Capaci e che tante preoccupazioni suscitava – oltre che in soggetti che per ruolo istituzionale erano stati sempre possibile bersaglio della vendetta mafiosa – ora anche in alcuni esponenti politici che temevano di dovere subire, per mano mafiosa, la stessa infausta sorte di Salvo Lima, tra i quali Calogero Mannino, che, come si è già visto sopra, si rivolse per tale ragione proprio al Gen. Subranni.

Ed intendevano conoscere – o almeno ciò prospettarono a Vito Ciancimino e, di conseguenza, ciò questi comunicò ai vertici mafiosi quand’anche non fosse stata quella la reale volontà di Subranni, Mori e De Donno, ma soltanto un “bluff’ per far venire allo scoperto i mafiosi responsabili della strage di Capaci prima e di via D’Amelio dopo – a quali condizioni “cosa nostra” avrebbe potuto porre termine alla contrapposizione frontale “muro contro muro” (v. ancora parole testuali di Mario Mori a Firenze).

In sostanza, essi, quali, si ripete, che fossero le loro intenzioni, di fatto ed in modo testualmente inequivoco (“Ma non si può parlare con questa gente?”) sollecitarono espressamente a Vito Cianci mino un’interlocuzione con i vertici mafiosi per conoscere a quali condizioni si sarebbe potuto porre termine al “muro contro muro” tra lo Stato e “cosa nostra” e, quindi, inevitabilmente, nel momento in cui tale sollecitazione fosse giunta ai vertici mafiosi, l’apertura, non si vede come potrebbe diversamente definirsi, di una “trattativa”.

Ma una importante conferma, anche in questo caso riconducibile alle stesse parole di Mario Mori (oltre che, come si vedrà, questa volta anche di Subranni) si ricava anche da una molto più recente acquisizione probatoria di questo dibattimento di cui si dirà nel Capitolo che segue.

 VITO CIANCIMINO

IL MISTERIOSO O FANTASIOSO PAPELLO “L’esempio principale di tali ultimi documenti è costituito dal c.d. “papello” per il quale, pur non essendo stata riscontrata alcuna traccia di manomissione, manipolazione o altra anomalia, non è stato possibile individuare l’autore (v. deposizione dei consulenti del P.M. di cui si è già dato conto nella Parte Seconda di questa sentenza) e che, tuttavia, nel contesto dei molti documenti di cui è stata accertata con sicurezza la falsità o, quanto meno, la – anche soltanto parziale – alterazione per opera di Massimo Ciancimino non appare possibile alcuna utilizzazione in applicazione di una doverosa regola di prudenza, potendosi ritenere elevatissimo il rischio di un apposito “confezionamento” da parte dello stesso Massimo Ciancimino per supportare le sovrastrutture da lui create sui fatti di cui ha avuto occasione di avere cognizione o (poche volte) direttamente per essersi trovato in compagnia del padre, ovvero (quasi sempre) per avere letto e sfruttato per le sue fantasiose ricostruzioni alcuni scritti del padre”.

IL DOCUMENTO “PARADIGMA DELLA COLLABORAZIONE

“Tra gli altri documenti diversi da quelli consegnati da Massimo Ciancimino, sono, invece, certamente utili tutti quelli che sono stati sequestrati a Vito Ciancimino in data 3 giugno 1996 a seguito della perquisizione effettuata all’interno della sua cella presso il carcere di Rebibbia in Roma […].

La grafia ovvero il luogo del rinvenimento consentono, infatti, la riconducibilità di tali scritti a Vito Ciancimino. Ebbene, tra tali documenti devono ricordarsi:
– due fogli manoscritti[…];
– n. 17 fogli in parte dattiloscritti e in parte manoscritti col titolo “PARADIGMA DELLA COLLABORAZIONE”, nei quali, per le parti che qui interessano, tra l’altro si legge: dattiloscritto “Un fatto importantissimo, che da solo sta a dimostrare la mia posizione personale nei confronti del fenomeno mafioso, è quello che io ho aderito all’invito dei Carabinieri (Col. Mori e Cap. Di Donno)
di collaborare con loro. Questa collaborazione, che si stava dimostrando foriera di buoni risultati è stata interrotta dall’arresto del 19/12/1992”.

LE PLANIMETRIE DI PALERMO PER LA CATTURA DI TOTO’ RIINA

“PLANIMETRIE Nel periodo in cui Ciancimino collaborò coi carabinieri prima dell’arresto, concordemente valutarono che sulla scorta di alcune indicazioni vaghe che poteva fornire il Ciancimino, se fossero state corroborate da planimetrie di Palermo e provincia e da utenze ENEL ed AMAP, con buona probabilità, si poteva arrivare ad individuare due rifugi attribuibili ai corleonesi nell’ambito di un determinato territorio a monte di Palermo. All’uopo i carabinieri fornirono planimetrie di Palermo e utenze Amap. Ma sia le une che le altre si mostrarono insufficienti perché non coprivano il territorio indicato da Ciancimino”.

DOCUMENTI PER LANCIARE MESSAGGI

CONCLUSIONI SULLE DICHIARAZIONI E GLI SCRITTI DI VITO CIANCIMINO

Orbene, come si vede, le dichiarazioni e gli scritti di Vito Ciancimino appaiono di scarso aiuto ai fini della ricostruzione più dettagliata possibile degli accadimenti, poiché il predetto, conformemente peraltro al suo noto stile ed al suo carattere riferiti da più testi anche in questo processo, ne ha raccontato sempre in modo alquanto sommario e con evidenti (volute?) imprecisioni e contraddizioni, sia sotto il profilo temporale che contenutistico, che, non infrequentemente, rendono criptici alcuni riferimenti almeno apparentemente finalizzati, anziché a spiegare e fare conoscere, a lanciare, piuttosto, per proprio tornaconto personale, messaggi comprensibili soltanto ad alcuni degli interlocutori da lui prefigurati”.


I contatti fra don Vito e i carabinieri del Ros  Costituisce fatto accertato ed incontestato anche da parte degli imputati che, all’indomani della strage di Capaci, i Carabinieri del R.O.S., nella specie nelle persone degli odierni imputati Subranni, Mori e De Donno, abbiano deciso di “agganciare” Vito Ciancimino.

Ai fini della ricostruzione dei conseguenti contatti tra i predetti Carabinieri, la Corte, non intendendo in alcun modo utilizzare il racconto di Massimo Ciancimino per le ragioni sopra esposte nella Parte Seconda della presente sentenza, si avvarrà esclusivamente di quanto risulta dalle dichiarazioni, orali o scritte, dei protagonisti dei contatti medesimi comunque acquisite nel presente processo ed esaminerà le stesse alla luce anche delle altre acquisizioni dibattimentali, iniziando dalle risultanze del primo processo che ha affrontato i temi qui in esame, quello tenutosi a Firenze per le stragi del 1993, peraltro, a sua volta, in gran parte fondate sulle testimonianze rese in quella sede dagli odierni imputati Mori e De Donno.

[…]  Nella sentenza n. 3/98 pronunziata dalla Corte di Assise di Firenze il 6 giugno 1998 (doc. 50 della produzione del P.M. all’udienza del 26 settembre 2013), per la parte che qui rileva, si legge:

“Mario Mori. Il gen. Mori ha riferito che nel 1992 era a capo del reparto Criminalità Organizzata del ROS. Fu nominato vice-comandante del ROS ai primi di agosto del 1992. Dopo la strage di Capaci colse lo sconcerto dell’opinione pubblica, degli organismi istituzionali e degli stessi investigatori per la realtà di un fenomeno, quello mafioso, che molti cominciavano a considerare “indebellabile “, perché insito nella cultura di una determinata zona del territorio nazionale. Ritenne perciò suo dovere morale e professionale fare qualcosa. La prima iniziativa che prese fu quella di costituire un gruppo speciale di operatori destinato alla ricerca del capo di “cosa nostra” (Riina).

Un ‘altra iniziativa di ricercare ”fonti, spunti, notizie” che potessero portare proficuamente gli investigatori all’interno della struttura mafiosa. Parlò di quest’idea col capitano Giuseppe De Donno, suo dipendente, al quale rappresentò la necessità di ricercare una fonte di alto livello con cui interloquire. Il De Donno gli parlò della familiarità che aveva col figlio di Vito Ciancimino, a nome Massimo, nata nel corso del dibattimento di I grado svoltosi contro il padre. Infatti, ha precisato, Vito Ciancimino era stato prima arrestato e poi portato a giudizio al termine di un ‘indagine che riguardava la manutenzione strade ed edifici scolastici della città di Palermo, condotta dal Nucleo Operativo del Gruppo di Palermo, cui era addetto il sunnominato capitano De Donno. Ciancimino fu giudicato e condannato a otto anni di reclusione per associazione a delinquere semplice, abuso d’ufficio, falso e altro.

Il De Donno suggerì di sji-uttare la familiarità che aveva con Massimo Ciancimino per tentare un avvicinamento al padre, che era, all’epoca, libero e residente a Roma. Egli lo autorizzò a ricercare “il contatto “. In effetti, ha proseguito, nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio, ci fu un primo incontro tra De Donno e Massimo Ciancimino, all’esito del quale De Donno si incontrò con Vito Ciancimino. A quest’incontro ne seguirono altri successivi (due-tre in tutto), alcuni dei quali si svolsero anche a cavallo della strage di via D’Amelio. Lo scopo di questi incontri era quello di avere da Ciancimino qualche spunto di tipo investigativo che portasse alla cattura di latitanti o, comunque, alla migliore comprensione del fenomeno mafioso (“De Donno andò a contattare Ciancimino per vedere di capire e di avere qualche notizia, qualche informazione, qualche spunto, di tipo investigativo ”).

Il dialogo tra i due si allargò e investì la stessa “Tangentopoli” e le inchieste che li avevano visti protagonisti (De Donno come investigatore; Ciancimino come persona sottoposta ad indagini). In uno di questi incontri Ciancimino fece a De Donno una strana proposta, che il teste così riferisce: “lo vi potrei essere utile perché inserito nel mondo di Tangentopoli, sarei una mina vagante che vi potrebbe completamente illustrare tutto il mondo e tutto quello che avviene “. Questo fatto convinse De Donno che il Ciancimino fosse disponibile al dialogo.

Per questo fece in modo che si incontrassero lui (Mori) e Ciancimino. Egli entrò in campo, ha spiegato, perché, quando si manifestò, concretamente, la possibilità di avere un rapporto con Ciancimino, comprese che questi “non era la solita fonte informativa da quattro soldi”, ma un personaggio che non avrebbe accettato di trattare con altri che non fossero dei capi. Per questo si rese visibile anche lui, oltre che per fornire sostegno psicologico e morale al De Donno. Invero, incontrò per la prima volta Vito Ciancimino nel pomeriggio del 5-8-92 a Roma, in via di Villa Massimo, dove il Ciancimino abitava (nota n. 1642: Il gen. Mori si è rivelato sicuro sulle date perché, ha detto, conserva l’agenda del 1992, dove sono segnati appunti che l’hanno aiutato nella memoria. Copia delle pagine dell’agenda del 5 agosto, ma anche delle giornate successive (di cui si dirà) sono state prodotte all’udienza del 24-1-98 (vedi faldone n. 32 delle prod. dib.).

Parlarono, in generale, di molte cose, soprattutto della vita palermitana (Ciancimino era palermitano ed egli aveva comandato il Gruppo Carabinieri di Palermo per quattro anni).

Ciancimino gli chiese anche notizie sui suoi diretti superiori. Egli fece il nome del gen. Subranni. Ciancimino mostrò di ricordarsi di lui (il gen. Subranni aveva diretto il Nucleo Investigativo di Palermo) e manifestò ammirazione per la sua sagacia investigativa. Quando fece rientro in ufficio accennò al gen. Subranni di quest’incontro e lo commentarono insieme. Ebbe il secondo incontro con Ciancimino il 29-8-92, sempre a casa di quest ‘ultimo. A quell’epoca, ha precisato, sapeva che Vito Ciancimino aveva una posizione “non brillantissima” dal punto di vista giudiziario, giacché gli era stato ritirato il passaporto e prima o poi sarebbe dovuto rientrare in carcere (evidentemente, per scontare una condanna definitiva). Per questo sperava che il Ciancimino facesse delle aperture (”Noi speravamo che questo lo inducesse a qualche apertura e che ci desse qualche input ”). Perciò, riprendendo il filo del discorso avviato da De Donno (quello sugli appalti), disse a Ciancimino: “Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?” La buttai lì convinto che lui dicesse: ”cosa vuole da me colonnello?” Invece dice: ”ma, sì, si potrebbe, io sono in condizione di farlo”. E allora restammo … dissi: ”allora provi”. E finì così il secondo incontro, per sintesi ovviamente”. Nel corso di quest’incontro, o di quello precedente, fecero qualche accenno ai guai giudiziari di Ciancimino. Si rividero 1’1-10-92, ancora a casa di Ciancimino. In questo terzo incontro Ciancimino disse di aver preso contatto con i capi di “cosa nostra”, “tramite intermediario” (di cui non gli fece il nome). Ma ecco come l’incontro viene narrato dal teste: “Allora, dice: ‘io ho preso contatto, tramite intermediario, con questi signori qua, ma loro sono scettici perché voi che volete, che rappresentate?’ Noi non rappresentavamo nulla, se non gli ufficiali di Polizia Giudiziaria che eravamo, che cercavano di arrivare alla cattura di qualche latitante, come minimo. Ma certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso, oppure gli potevo dire: ‘beh, signor Ciancimino, lei si penta, collabori, che vedrà che l’aiutiamo’. Allora gli dissi: ‘lei non si preoccupi, lei vada avanti’. Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa”. Ciancimino gli fece anche capire che le persone da lui contattate non si fidavano. Si rividero, sempre a casa di Ciancimino, il 18-12-92. In questa occasione Ciancimino gli disse: “Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l’intermediario sono io’ – Ciancimino – ‘e che la trattativa si svolga all’estero. Voi che offrite in cambio? “. Egli sapeva che a Ciancimino era stato ritirato il passaporto e che, pertanto, la proposta di continuare la trattativa all’estero era un escamotage del Ciancimino per mettersi al sicuro. Aveva messo in conto, ma solo come ipotesi remota, fin dall’inizio del suo rapporto con Ciancimino, che questi gli chiedesse cosa aveva da offrire. Non si aspettava, però, uno “show down” così precoce, pensando che il Ciancimino avrebbe tirato la cosa per le lunghe. Era convinto che Ciancimino avrebbe fatto qualche apertura “a livello più basso “, ma non che offrisse una disponibilità totale a fare da intermediario, come invece avvenne. Per questo venne colto alla sprovvista dalla disponibilità di Ciancimino e dalla richiesta di mettere le carte sul tavolo. Perciò gli rispose: “Beh, noi offriamo questo. I vari Riina, Provenzano e soci si costituiscono e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie”. Prosegue: “A questo punto Ciancimino si imbestialì veramente. Mi ricordo era seduto, sbattè le mani sulle ginocchia, balzò in piedi e disse: ‘lei mi vuole morto, anzi, vuole morire anche lei, io questo discorso non lo posso fare a nessuno “. Quindi, molto seccamente, lo accompagnò alla porta.

Si lasciarono con la prospettiva di chiudere la trattativa “senza ulteriori conseguenze”. Ebbe la sensazione, all’esito di questo incontro, che Ciancimino avesse realmente stabilito un contatto con i capi di “cosa nostra”. Suppose anche che il Ciancimino, pressato dalla sua posizione giudiziaria, si sarebbe fatto risentire. Infatti, ha aggiunto, ai primi di novembre di quello stesso anno,

Massimo Ciancimino richiamò il cap. De Donno e gli chiese di incontrare nuovamente il padre. De Donno, con la sua autorizzazione, si incontrò, in effetti, con Vito Ciancimino (non ricorda quando). Questi gli chiese nuovamente cosa volessero in concreto e De Donno gli rispose che volevano catturare Salvatore Riina. Ciancimino si mostrò, questa volta, disposto ad aiutarli. Chiese perciò a De Donno di fargli avere le mappe di due-tre servizi (luce, acqua, gas) relative ad alcune precise zone della città di Palermo: viale della Regione Siciliana, “verso Monreale”. De Donno se le procurò presso il Comune di Palermo e gliele portò il 18-12-92. Il Ciancimino non si mostrò però soddisfatto e diede alcune altre indicazioni su ciò che gli occorreva. Il giorno dopo (19-12-92), però, Ciancimino venne arrestato. Pensava che il rapporto con lui fosse concluso, quando, qualche giorno prima dell ‘arresto di Riina (quindi, agli inizi di gennaio del 1993), fu contattato dall’avv. Giorgio Ghiron, legale di Ciancimino, il quale gli disse che il suo cliente voleva parlargli. Egli contattò allora il Procuratore della Repubblica di Palermo, dr. Caselli, al quale raccontò tutta la vicenda precorsa.

Il dr. Caselli autorizzò un colloquio investigativo col Ciancimino. Questo nuovo incontro si svolse nel carcere di Rebibbia il 22-1-93 e ad esso partecipò, come al solito, il cap. De Donno. Il Ciancimino si mostrò aperto alla formale collaborazione con lo Stato. 1n effetti, ha aggiunto, a partire da febbraio del 1993 il Ciancimino fu escusso dalla Procura di Palermo, alla quale spiegò che l’intermediario tra lui e i vertici di “cosa nostra” era stato il dr. Cinà, medico personale di Riina. – Il teste ha precisato di aver reso le prime dichiarazioni su questa vicenda alla Procura di Firenze il giorno 1-8-97. Inoltre, di aver annotato le date dei vari incontri col Ciancimino sulla sua agenda personale (nota n. 1643: La copia di alcune pagine dell’agenda è stata acquisita dalla Corte, su richiesta del PM).

All’epoca degli incontri di Roma, in via Villa Massimo, Ciancimino era libero. Agli incontri  partecipò sempre il cap. De Donno. Ha detto di aver informato il gen. Subranni, suo diretto superiore, del rapporto con Ciancimino, per avere un consiglio da lui, ma non perché fosse obbligato a farlo, in quanto gli ufficiali di polizia giudiziaria possono trattare autonomamente le fonti informative. Gli rese noto l’esito della discussione del 18-10-92. Ha insistito sul fatto che la presa di contatti con Ciancimino mirava ad avere il Ciancimino come fiduciario del ROS. Ad averlo, cioè, come un confidente che, avendo una posizione giudiziaria in sospeso, sarebbe potuto divenire un collaboratore. Quindi, richiesto di spiegare in che modo e ad iniziativa di chi Ciancimino venne ad assumere il ruolo di “interfaccia “, ha dichiarato: “Ma guardi, il problema …

Ciancimino non è il solito personaggio da quattro soldi. Cioè, bisognava gestirlo sviluppando con lui un dialogo che tenesse conto anche delle sue esigenze. Perché non gli potevamo dire brutalmente: senti, Ciancimino, la tua posizione giuridica e giudiziaria è quella che è, statti attento, se vuoi evitare la galera ti possiamo aiutare. Però tu dacci … Perché mi avrebbe accompagnato alla porta immediatamente. Perché i tempi erano diversi. Oggigiorno, forse, questo discorso brutalmente si potrebbe anche fare; nel ’92 non si poteva assolutamente fare. E allora era una schermaglia continua tra me e lui, tra lui e De Donno, in tre, cercando di cogliere … E’ stato un bel duello, possiamo definirlo così, per cercare di capire i punti in cui noi ci potevamo spingere, dove lui accettava. Dove lui ci voleva anche portare. Perché tutto sommato, ci ha l’intelligenza per gestire qualche… Quindi, inizialmente il problema era solo, dice: va be’, ci darà qualche notizia se ci va bene; sennò ci accompagna alla porta e finisce lì. Poi, il fatto che lui si presenta come addirittura disponibile ad inserirsi in un gioco sotto copertura, quasi nell’ambito dell’attività contro l’imprenditoria mafìosa. Il fatto che dovevamo, in qualche modo, allungare il brodo … lo che gli potevo dire? Brutalmente … solo quello gli potevo dire. Gli ho detto: ‘ma lei li conosce questa gente?’ Sapevo benissimo che li conosceva, Ciancimino è di Corleone. E quindi è stato quasi portato al discorso, questo ti … E’ stato un andare insieme verso quel… Perché a noi ci conveniva, guadagnavamo tempo “. Ha detto di aver avuto in mente anche di far pedinare Ciancimino, se la trattativa fosse proseguita, per capire quali persone contattava e se le contattava.

In sede di controesame ha precisato che Ciancimino gli parlò espressamente dei “corleonesi” come suoi referenti […]. Non furono mai fatte da Ciancimino proposte concrete per la trattativa. Non sentì mai parlare di “papello “. Ciancimino non diede alcun contributo all’arresto di Riina. Secondo la sua personale opinione, se la trattativa fosse proseguita li avrebbe messi in condizione di fare un’indagine seria su Riina. Le mappe richieste da Ciancimino sono state consegnate alla Procura della Repubblica di Palermo. In esse era compresa anche la zona che fu teatro dell’arresto di Riina. Erano comprensive anche della zona in cui abitava Riina. Circa le intenzioni con cui essi iniziarono la discussione con Ciancimino ha precisato, in sede di controesame: “lo pensavo, e ritengo di averlo espresso questo concetto, che Ciancimino avrebbe tirato alla lunga questa trattativa per vedere in effetti noi che cosa gli potevamo offrire come persona, non come soggetto inserito in una organizzazione. Cioè, ai suoi fini l’avrebbe tirata lunga, perché non ritenevo che fosse in condizione, o che volesse prendere contatto con Cosa nostra. Per cui io ritenevo che invece lui cercasse di sbocconcellarci il pane della sua sapienza, di fatti e di cose che potevano interessarci, su altri settori. Cioè imprenditoria mafiosa, appalti, polemiche relative … vicende giudiziarie relative al Comune di Palermo: ecco, questo era il settore dove io pensavo che lui andasse a finire. E quindi rimasi sorpreso invece dall’indirizzo che lui ebbe a dare al nostro…”

… De Donno Giuseppe. Questo teste ha dichiarato di essere stato in servizio al Nucleo Operativo del Gruppo dei Carabinieri di Palermo tra il 1988 e il 1989, come ufficiale (capitano). In tale qualità effettuò una serie di indagini sulla gestione degli appalti del Comune di Palermo, all’esito delle quali furono emesse ordinanze di custodia cautelare dal GiP di Palermo a carico di Vito Ciancimino e altri personaggi. Ciancimino fu arrestato nella primavera del 1990 e condannato poi a sette o otto anni di reclusione. Ha dichiarato di essere poi passato al ROS alla fine degli anni ’90 e di essersi interessato nuovamente di Ciancimino nel 1992. Questa volta, non per sottoporlo ad indagini, ma per questi altri motivi: “Il senso in pratica era questo: era nostra intenzione cercare di trovare un canale di contatto con il Ciancimino, per tentare di ottenere da lui indicazioni utili su quanto, sui fatti storici che si stavano verificando in quel periodo. E in ultima analisi tentare di ottenerne una collaborazione formale con l’autorità giudiziaria “.

L’idea di contattare Ciancimino fu sua, perché conosceva molto bene uno dei figli di Vito Ciancimino, a nome Massimo, che aveva incontrato varie volte mentre si sviluppava l’attività investigativa sul padre e nel corso di spostamenti aerei da Palermo a Roma. Aveva anche motivo di ritenere di non essere male-accetto a Ciancimino e alla sua famiglia, giacché si era sempre comportato con estrema correttezza nel corso dei “contatti” che aveva avuto con lui per motivi professionali. Fece presente questa sua intenzione all’allora col. Mori, comandante del reparto in cui operava, poco dopo la strage di Capaci, ed ebbe l’autorizzazione a tentare un approccio. Si rivolse a Massimo Ciancimino, che incontrò, appunto, durante uno spostamento aereo da Palermo a Roma e avanzò la sua richiesta di essere ricevuto dal padre. Incontrò, in effetti, Vito Ciancimino nella di lui abitazione romana, due tre volte, tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. Prese il discorso alla larga, facendo intendere che ricercava elementi di valutazione rispetto a ciò che stava accadendo, in quel periodo, in Sicilia […]. Parlarono anche di “tutto lo sviluppo cheCc’era stato nel momento delle operazioni milanesi, il cosiddetto Manipulite”.

L’obiettivo era, comunque, a quel momento, di instaurare un rapporto di fiducia e di comprensione con Ciancimino. Ha aggiunto che, dopo la strage di via D’Amelio, fece un tentativo, riuscito, di “forzare la mano “: indurre Ciancimino a incontrarsi col colonnello Mori. Spiega così questo “innalzamento del livello “: “Questo, per una serie di motivi particolari. Primo fra tutti, la presenza del comandante rappresentava un livello nettamente superiore al mio, quindi rappresentava una sorta di riconoscimento del livello del nostro interlocutore. E ritenevo che il Ciancimino potesse sbloccarsi di più. Tra l’altro, mantenendo ferma l’idea che la nostra impostazione era comunque quella di attenerne una collaborazione, l’accettazione da parte del Ciancimino di un dialogo anche con il colonnello Mori era un passo in avanti verso questo obiettivo graduale che si doveva raggiungere “. Questo “innalzamento “, ha precisato, non era stato preventivato fin dall’inizio, ma rappresentò l’approdo del discorso fino a quel momento sviluppato. L’obiettivo finale era, comunque, quello di portare il Ciancimino alla collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.

Ecco in che modo pensarono di raggiungere questo risultato: “Allora convenimmo che la strada migliore era quella di avvicinare sempre di più il Ciancimino alle nostre esigenze, cioè di portarlo per mano dalla nostra parte. E gli proponemmo di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa nostra. Al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò. Accettò questa ipotesi con delle condizioni. Innanzitutto, la condizione fondamentale era che lui poteva raggiungere il vertice dell’organizzazione siciliana, palermitana, a patto di rivelare i nominativi miei e del comandante al suo interlocutore “.

Essi acconsentirono a che venissero rivelati i loro nomi agli interlocutori, ma non fecero certo capire al Ciancimino che erano rappresentanti solo di sé stessi. Gli lasciarono credere che “avevano la capacità di fare questa iniziativa”. […] Il discorso del cap. De Donno è continuato, quindi, sulla falsariga di quello già fatto dal gen. Mori. Ha riferito che ci furono quattro incontri tra Mori e Ciancimino tra agosto e ottobre del 1992, avvenuti tutti a casa di Ciancimino e tutti con la sua partecipazione. […] Al quarto incontro Ciancimino disse di aver stabilito un contatto con i “vertici siciliani” e chiese loro cosa volevano. Si adirò quando si sentì dire che volevano la cattura di Riina e Provenzano in cambio di un equo trattamento per i loro familiari. Decise autonomamente che non avrebbe fatto alcun cenno al suo interlocutore della loro richiesta, perché, altrimenti, avrebbe anche corso il rischio di rimetterci la vita. Si lasciarono col tacito accordo di congelare ogni cosa, per il momento (”Quindi avrebbe dato sì un messaggio negativo, ma non un messaggio ultimativo. Cioè, comunque restava aperta la porta ad un ‘eventuale ripresa di dialogo”).

L’esito di questo discorso fu, comunque, quello di isolare Ciancimino dal suo retroterra mafioso, giacché, accettando il dialogo con i Carabinieri, si era venuto a trovare “con un piede di qua e un piede di là”, se non altro perché aveva reso evidente che “i Carabinieri avevano scelto lui per questo contatto”.

Questo fatto costringeva ormai il Ciancimino a “gestirsi in maniera estremamente accorta “, perché in Sicilia anche un minimo sospetto “può determinare conseguenze particolari “.

Praticamente, la scelta della collaborazione era ormai obbligata per Ciancimino. Ha dichiarato che, prima di dargli il via libero per i contatti con Ciancimino, il col. Mori parlò col comandante del ROS, il generale Subranni. Ha continuato dicendo di aver incontrato nuovamente Ciancimino afine ottobre (o inizi di novembre del 1992), allorché Ciancimino gli fece sapere, attraverso il figlio, che voleva vederlo. Quando si incontrarono chiese chiaramente a Ciancimino di collaborare fattivamente per la cattura di Riina Ciancimino accettò di fornire informalmente elementi utili a questo scopo, nella speranza di allontanare la prospettiva del carcere, che per lui si presentava quasi imminente. Chiese, infatti, alcune mappe particolareggiate di Palermo e alcuni documenti dell’azienda municipalizzata dell’acqua, attraverso cui pensava di poter individuare l’abitazione di Riina. Gli consegnò questi documenti il 19-12-92, ma nello stesso giorno Ciancimino fu arrestato per scontare una condanna definitiva. Successivamente, accettò di incontrare i magistrati di Palermo. In sede di controesame ha precisato che Ciancimino, nei primi incontri avuti con lui, si disse disposto a fare da “agente sotto copertura” con “la funzione di diventare il responsabile, il gestore della ristrutturazione del sistema tangentizio tra imprese e partiti “, che egli riteneva connaturato al sistema politico ed imprenditoriale italiano e necessario al suo funzionamento. Si dichiarò sempre in grado di raggiungere i vertici “corleonesi” di “cosa nostra” (“Ciancimino non si è mai dichiarato uomo d’onore, comunque era in grado di arrivare ai vertici dell’organizzazione corleonese, sì”). Rispondendo al Procuratore di Palermo il Ciancimino rivelò poi che la persona da lui contattata per giungere a Riina era il dr. Cinà, medico di Riina”.

* * *  Come si è detto e si legge nella citata sentenza della Corte di Assise di Firenze, le predette risultanze si fondano soprattutto sulle testimonianze in quel processo rese dagli odierni imputati Mori e De Donno. Tale testimonianze sono state, quindi, introdotte anche nel medesimo processo per iniziativa degli stessi predetti imputati, […].

E’ bene fissare, allora, per le valutazioni che poi saranno fatte sulle risultanze complessive, ciò che, in punto di fatto, si può ricavare dalla predetta sentenza e, ancor più dettagliatamente, dalle deposizioni testimoniai i allora rese dagli odierni imputati Mori e De Donno sulle quali prevalentemente si fondano le conclusioni di quella sentenza:

l) il Col. Mori fu mosso, dopo la strage di Capaci, dal dovere professionale di fare qualcosa per ricercare notizie all’interno della struttura mafiosa (Dich. Mori: “A fine maggio, mi sembra 24, 25, non ricordo bene, c’è la strage di Capaci ….. … … Ritenni che era un impegno morale, oltre che professionale, fare qualche cosa di più, di diverso, per venire a capo, nelle mie possibilità,

di queste vicende, di questa struttura che stava distruggendo i migliori uomini dello Stato … “);

2) De Donno suggerì di contattare Vito Ciancimino tramite il figlio Massimo, col quale aveva familiarità (Dich. Mori: “In questo ambito, in questo contesto di iniziativa mi si presentò il capitano De Donno, che da me dipendeva, il capitano Giuseppe De Donno. E mi propose un’iniziativa …… …. mi propose di tentare un avvicinamento, tramite il figlio Massimo, con Vito Ciancimino, che in quel momento era libero ed era residente a Roma”; Dich. De Donno: “L’idea di contattare il Ciancimino era stata mia …. . … …. Sì,faccio questa ipotesi al mio comandante. Che era, allora, il colonnello

Mori. E così, proponendogli questa prova, nel senso insomma di tentare, nell’immediatezza della strage di tentare un – tra virgolette, così – “un avvicinamento” del Ciancimino”);

3) Morì autorizzò De Donno a procedere In tal senso (Dich. Mori: “Lo autorizzai a procedere a questo tentativo”; Dich. De Donno: “Col comandante concordiamo che questo tentativo possa esser fatto”);

4) De Donno agganciò Massimo Ciancimino e incontrò Vito Ciancimino per la prima volta tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio (Dich. Mori: “questo primo contatto – che poi sono più di uno – tra De Donno e Massimo Ciancimino, avviene tra Capaci e via D’Amelio. Quindi diciamo nel giugno del ’92. Vito Ciancimino, sollecitato dal figlio, accetta”) e successivamente altre volte, secondo Mori, “a cavallo” della strage di via D’Amelio (Dich. Mori: “E ci sono una serie di colloqui che quindi partono … adesso, De Donno poi può essere più preciso, non so quand’è il primo, comunque partono nel giugno e si sviluppano tra il giugno e il luglio, a cavallo anche del secondo fatto grave, cioè via D’Amelio”), mentre, secondo De Donno, prima della detta strage (Dich. De Donna: “E abbiamo provato il contatto che. tra la strage di via Capaci e la strage di via d’Amelio. avviene. Perché Ciancimino accetta di incontrarmi nella sua abitazione di Roma … … .. .lo vado dal Ciancimino e incontro il Ciancimino sempre nella sua abitazione di Roma, da solo, due, tre volte. Nell’intervallo tra le due stragi: la strage del dottor Falcone e del dottore Borsellino…”);

5) lo scopo di tali incontri fu, per Mori, quello di acquisire spunti investigativi sia per la individuazione di latitanti, sia più in generale per le indagini in corso ed interrompere la strategia stragista della mafia (Dich. Mori: “Noi volevamo solo arrestare della gente che delinqueva …. … …. La trattativa nostra con Ciancimino era solo per vedere di sapere qualche cosa di più di Cosa Nostra e arrestare questa gente. E basta; A VVOCATO Li Gotti: E poi era di interrompere la strategia stragista: TESTE Mori: Certo. Certo. certo”), così come confermato anche da De Donno secondo il quale, oltre a tentare di spingere Ciancimino a collaborare con la Giustizia, essi avevano anche l’intendimento di per far cessare le stragi (Dich. De Donno: ” .. era nostra intenzione cercare di trovare un canale di contatto con il Ciancimino, per tentare di ottenere da lui indicazioni utili su quanto, sui fatti storici che si stavano verificando in quel periodo. E in ultima analisi tentare di attenerne una collaborazione formale con l’autorità giudiziaria … ……… un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest’attività di contrasto netto. stragista nei confronti dello Stato”);

6) il discorso, in questi stessi incontri, si allargò al fenomeno di “tangentopoli” (Dich. De Donno: ” .. tutto lo sviluppo che c’era stato nel momento delle operazioni milanesi, il cosiddetto “Manipulite'”‘) e Vito Ciancimino si offrì di fornire le sue conoscenze;

7) per tale ragione, secondo Mori, De Donno aveva organizzato il primo incontro con lo stesso Mori avvenuto il 5 agosto 1992 […], mentre secondo De Donno, egli aveva deciso di “innalzare il livello” dei contatti dopo la strage di via D’Amelio per indurre definitivamente Ciancimino a collaborare […];

8) in questa occasione Mori fece a Vito Ciancimino il nome del Gen. Subranni (comunque già informato sin dall’inizio dell’intendimento di contattare Ciancimino: v. testimonianza De Donno[…]), che il Ciancimino già conosceva (“…gli accennai che il mio superiore diretto era il generale Subranni. Al che lui si ricordò: ‘ma chi è, il maggiore che era al Nucleo Investigativo di Palermo?’ ‘Sì, il maggiore che … ‘ e commentammo questo .. “), informando, poi, di ciò Subranni […];

9) il secondo incontro avvenne il 29 agosto 1992 (“II secondo incontro avviene il 29 di agosto, quindi nello stesso mese, a fine mese”) ed in tale occasione, secondo Mori, questi sapendo dei problemi giudiziari di Ciancimino, gli chiese se, superando il “muro contro muro” tra lo Stato e la mafia, fosse possibile parlare con i vertici mafiosi […], mentre, secondo De Donno, fu anche espressamente detto a Ciancimino che il dialogo era finalizzato alla immediata cessazione della strategia stragi sta dei mafiosi (Dich. De Donno: “E gli proponemmo di farsi tramite. per nostro conto. di una presa di contatto con gli esponenti dell’organizzazione mafiosa di Cosa nostra. AICfine di trovare un punto di incontro. un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest ‘attività di contrasto netto. stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò”);

10) secondo Mori, Vito Ciancimino accettò, dichiarandosi in grado di poteri o fare, e Mori, quindi, lo sollecitò a farlo, mentre, secondo De Donno, Ciancimino condizionò il suo intervento alla possibilità di fare ai mafiosi i nomi dei Carabinieri con cui era in contatto, richiesta cui Mori e De Donno acconsentirono, facendo credere al Ciancimino che essi avevano il potere di rappresentare lo Stato inteso come Istituzione […];

11) secondo Mori, nel successivo incontro dell’l ottobre 1992 Ciancimino disse di avere preso contatto con i vertici mafiosi tramite un intermediario e che, però, i predetti vertici volevano sapere per conto di chi agivano quei Carabinieri […]; tale discorso, come detto al punto precedente, è collocato, invece, da De Donno nella prima occasione in cui essi avevano sollecitato Ciancimino a contattare i vertici mafiosi;

12) ancora secondo Mori, questi allora, “bluffando”, fece consapevolmente credere a Ciancimino che la sua iniziativa era nota a chi avrebbe potuto interloquire fattivamente con i mafiosi, invitando, quindi, Ciancimino ad andare avanti (” ….. Allora gli dissi: ‘lei non si preoccupi, lei vada avanti’…”); anche tale discorso logicamente collegato al precedente, ugualmente, è collocato, invece, come già detto sopra, da De Donno nella prima occasione in cui essi avevano sollecitato Ciancimino a contattare i vertici mafiosi;

13) Mori e Vito Ciancimino, dunque, lasciandosi, concordarono di “sviluppare la trattativa” (“…E restammo d’accordo che volevamo sviluppare questa trattativa…”); il termine “trattativa”, sul quale si tornerà più avanti anche a proposito delle dichiarazioni spontanee rese all’udienza dell’8 settembre

2016 da Mario Mori, è stato espressamente usato da quest’ultimo; anche De Donno ha usato il medesimo termine riferendo di avere detto a Ciancimino che i Carabinieri in quella, appunto, “trattativa”, rappresentavano lo Stato;

14) Mori e Ciancimino si rividero il successivo 18 ottobre 1992 ed in quella occasione il secondo disse che i mafiosi “accettavano la trattativa” (Dich. Mori: “18 ottobre, quarto incontro. Ciancimino, con mia somma sorpresa, perché fino a quel momento, anche con tutte le affermazioni: ‘io ho preso contatto’, non ci credevo. Ciancimino mi disse: ‘guardi, quelli accettano la trattativa .. “; Dich. De Donno: “Al quarto incontro. Ciancimino invece si fece portatore di un messaggio di accettazione della nostra richiesta di trattativa, di dialogo, di discorso dei vertici siciliani. Cioè, ci disse: ‘sono d’accordo. Va bene, accettano”) a condizione che Ciancimino fosse l’intermediario e che la trattativa proseguisse all’estero […] con conseguente richiesta del Ciancimino di ottenere il passaporto […] e riferì, nel contempo, che i mafiosi chiedevano di sapere cosa lo Stato offrisse loro (Dich. Mori: “Voi che offrite in cambio?”; Dich. De Donno: “Vogliono sapere che cosa volete”‘); secondo De Donno, però, essi avrebbero dissuaso il Ciancimino dal richiedere il passaporto per le conseguenze per lui pregiudizievoli che ne sarebbero derivate;

15) Mori, preso alla sprovvista da quella richiesta, disse a Ciancimino di invitare i mafiosi a costituirsi con in cambio la promessa di trattare bene le loro famiglie […];

16) Ciancimino disse a Mori che mai avrebbe potuto riferire una simile offerta ai mafiosi che altrimenti lo avrebbero ucciso e, pertanto, i predetti si lasciarono con la prospettiva di chiudere la “trattativa” […];

17) tuttavia, nei primi di novembre 1992 Vito Ciancimino aveva chiesto di incontrare di nuovo i Carabinieri […] e, incontrato De Donno, gli chiese cosa effettivamente loro volessero da lui […];

18) De Donno rispose che volevano catturare Riina e Vito Ciancimino accettò di aiutare i Carabinieri, chiedendo, a tal fine, di fargli avere le mappe delle utenze di alcune precise zone di Palermo […];

19) secondo Mori, De Donno portò le mappe a Ciancimino il 18 dicembre 1992 e quest’ultimo, però, chiese di disporre di altre indicazioni che, tuttavia, non fu più possibile fargli avere perché il giorno successivo Ciancimino fu arrestato […], mentre, secondo De Donno, egli consegnò le mappe a Ciancimino lo stesso 19 dicembre 1992 poco prima che quest’ultimo fosse arrestato […];

20) soltanto quando Ciancimino nel marzo 1993 ne aveva parlato con i magistrati, Mori e De Donno avevano saputo che l’intermediario tra Vito Ciancimino e i vertici mafiosi era stato il Dott. Cinà […];

21) Mori aveva sempre informato il suo superiore Gen. Subranni dello sviluppo degli incontri con Vito Ciancimino […];

22) Mori era ben consapevole che Vito Ciancimino effettivamente conosceva i mafiosi “corleonesi” (“Dich. Mori: “Gli ho detto: ‘ma lei li conosce questa gente?’ Sapevo benissimo che li conosceva, Ciancimino è di Corleone”), cioè Riina e Provenzano, cosa di cui aveva avuto conferma quando Ciancimino si era adirato per la richiesta di far consegnare i predetti ([…];

23) Mori aveva intenzione di far pedinare Vito Ciancimino, se la “trattativa” fosse proseguita, per scoprire con chi si incontrasse il predetto […];

24) Ciancimino non formulò mai proposte concrete per la “trattativa” e, pertanto, non si parlò mai del “papello” […].

LA SENTENZA DI SECONDO GRADO DELLA CORTE DI ASSISE DI APPELLO FIRENZE

Nella sentenza n. 4/200 l pronunziata dalla Corte di Assise di Appello di Firenze il 13 febbraio 2001 (doc. 50 della produzione del P.M. all’udienza del 26 settembre 2013), per la parte che qui rileva, si legge: “La trattativa Mori – Ciancimino. La questione riveste, ad avviso di questa Corte, molta importanza nella economia del presente processo e merita quindi farvi un cenno, ancorché breve, sia perché dei rapporti fra l’allora Colonnello dei Carabinieri Mori, comandante del R.O.S. dei Carabinieri, con tale Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato per reati di mafia ha parlato il primo giudice, sia perché è stata chiesta, ancora, la l’innovazione del dibattimento per nuovo esame del predetto ufficiale, che sembra oggi sia generale dell’Arma, e del capitano De Donno, suo dipendente, da parte del difensore di Calabrò e Riina. […] La predetta sentenza di appello, dunque, nulla aggiunge ai dati di fatto già enucleati dalla sentenza di primo grado, se non nell’ inciso in cui rileva che “i contatti tra i due ufficiali” (quindi, sia Mori che De Donno) con Vito Ciancimino erano iniziati nel giugno 1992. 


Gli scritti corsari di Vito Ciancimino  Agli atti del processo sono stati, poi, acquisiti numerosi documenti attribuiti a Vito Ciancimino che contengono riferimenti ai contatti di quest’ultimo con Mori e De Donno.

Molti di tali documenti sono stati consegnati direttamente da Massimo Ciancimino nel corso dei molteplici interrogatori resi al P.M. nella fase delle indagini preliminari, ma tra questi la Corte, come prima anticipato, non intende fare alcun uso non soltanto, ovviamente, di quelli di cui è stata accertata l’alterazione, ma neppure di quelli di cui non è certa l’attribuibilità a Vito Ciancimino o ad altri ancorché non sia stato possibile accertare la loro falsità.

L’esempio principale di tali ultimi documenti è costituito dal c.d. “papello” per il quale, pur non essendo stata riscontrata alcuna traccia di manomissione, manipolazione o altra anomalia, non è stato possibile individuare l’autore (v. deposizione dei consulenti del P.M. di cui si è già dato conto nella Parte Seconda di questa sentenza) e che, tuttavia, nel contesto dei molti documenti di cui è stata accertata con sicurezza la falsità o, quanto meno, la – anche soltanto parziale – alterazione per opera di Massimo Ciancimino non appare possibile alcuna utilizzazione in applicazione di una doverosa regola di prudenza, potendosi ritenere elevatissimo il rischio di un apposito “confezionamento” da parte dello stesso Massimo Ciancimino per supportare le sovrastrutture da lui create sui fatti di cui ha avuto occasione di avere cognizione o (poche volte) direttamente per essersi trovato in compagnia del padre, ovvero (quasi sempre) per avere letto e sfruttato per le sue fantasiose ricostruzioni alcuni scritti del padre.

Analoga conclusione vale anche, ad ulteriore esempio, essendo documenti oggetto di particolare attenzione delle parti durante l’istruttoria dibattimentale, per i dattiloscritti indirizzati al Governatore della Banca d’Italia (dal 1993 al 2005) Fazio.

[…] Pochi sono allora i documenti consegnati da Massimo Ciancimino e contenenti riferimenti ai contatti dei Carabinieri con Vito Ciancimino che siano utilizzabili perché certamente opera di quest’ultimo.

[…] Tra gli altri documenti diversi da quelli consegnati da Massimo Ciancimino, sono, invece, certamente utili tutti quelli che sono stati sequestrati a Vito Ciancimino in data 3 giugno 1996 a seguito della perquisizione effettuata all’interno della sua cella presso il carcere di Rebibbia in Roma […].

La grafia ovvero il luogo del rinvenimento consentono, infatti, la riconducibilità di tali scritti a Vito Ciancimino. Ebbene, tra tali documenti devono ricordarsi:

– due fogli manoscritti[…];

– n. 17 fogli in parte dattiloscritti e in parte manoscritti col titolo “PARADIGMA DELLA COLLABORAZIONE”, nei quali, per le parti che qui interessano, tra l’altro si legge: dattiloscritto “Un fatto importantissimo, che da solo sta a dimostrare la mia posizione personale nei confronti del fenomeno mafioso, è quello che io ho aderito all’invito dei Carabinieri (Col. Mori e Cap. Di Donno) di collaborare con loro. Questa collaborazione, che si stava dimostrando foriera di buoni risultati è stata interrotta dall’arresto del 19/12/1992.

L’arresto è stato giustificato col pericolo di fuga perché avevo chiesto il passaporto alla Questura di Roma, mentre come risulta dai verbali di interrogatorio del Dott. Caselli, Procuratore Distrettuale di Palermo il passaporto era stato chiesto alla Questura col pieno accordo dei Carabinieri, che hanno sottoscritto il verbale del Procuratore Distrettuale Caselli (repetita juvant); dattiloscritto “Ognuno di questi episodi (mi riferisco come diciottesimo all’incontro del 21/01/1994 tra il Procuratore Distrettuale Caselli, il Col. Mori e me. Di questo incontro (21/01/ 1994) non si è redatto il vero verbale ma un altro (inutile) consensualmente per evitare che potesse influire sulla incolumità della mia famiglia, se reso pubblico. da solo dimostra la univoca determinazione di avere collaborato e di volere continuare, in maniera più incisiva e decisiva come ho detto al Dott. Caselli proprio il 21/01/1994. Alcuni di questi episodi sono di tale portata da conferire ogni beneficio di legge, presente passata e futura”, seguito, nella stessa pagina, da un appunto manoscritto di non agevole lettura (forse “Mappe mai inviate Appalti idem coop”); manoscritto “L’episodio importantissimo che (da solo) sta a dimostrare la posizione personale di Vito Ciancimino sta nel fatto di avere aderito ali ‘invito dei Carabinieri (Col. Mori e Cap. Di Donno) di collaborare con loro, contro il fenomeno mafioso. Questa collaborazione (iniziatasi la fine di agosto del 1992) si stava dimostrando foriera di buoni risultati quando è stata bruscamente interrotta dall’arresto di Ciancimino avvenuto il 19-12-92. L’arresto è stato giustificato col pericolo di fuga perché aveva chiesto il passaporto alla Questura di Roma. Mentre dai verbali di interrogatorio del Dott. Caselli acquisiti nella sua qualità di Procuratore Distrettuale di Palermo risulta che il passaporto alla Questura era stato chiesto in pieno accordo coi Carabinieri che hanno sottoscritto lo stesso verbale della Procura”; manoscritto “Spunto in questi articoli apparentemente slegati, nella mente di Ciancimino emerse il ricordo che la zona nella quale si sarebbe potuto trovare quei rifugi era proprio quella di Monreale. l tre articoli “fusero” nella mente di Ciancimino che il convincimento che la ricerca dei due rifugi poteva essere attuale, anche dopo l’arresto di Riina. Chiese di vedere A SOLO il Dott. Caselli ed il Col. Mori, ambedue edotti di quella ricerca iniziata prima dell’arresto: Mori per averla vissuta, Caselli per averla verbalizzata. Sono venuti caselli e Mori, soli, a Rebibbia il 21-1-94. Raccontai i fatti, le mie valutazioni, si mostrarono oltremodo interessati e rimanemmo d’intesa che entro qualche giorno avremmo potuto, adeguatamente aiutati, riprendere quel lavoro di ricerca che ritenevano molto attuale. Non ho visto né sentito più nessuno. Solo il 2 giugno presenti stavolta il Dott. Caselli ed il Dott. lngroia si riprese l’argomento mostrando i due lo stesso interesse di prima”; manoscritto “PLANIMETRIE Nel periodo in cui Ciancimino collaborò coi carabinieri prima dell’arresto, concordemente valutarono che sulla scorta di alcune indicazioni vaghe che poteva fornire il Ciancimino, se fossero state corroborate da planimetrie di Palermo e provincia e da utenze ENEL ed AMAP, con buona probabilità, si poteva arrivare ad individuare due rifugi attribuibili ai corleonesi nell’ambito di un determinato territorio a monte di Palermo. All’uopo i carabinieri fornirono planimetrie di Palermo e utenze Amap. Ma sia le une che le altre si mostrarono insufficienti perché non coprivano il territorio indicato da Ciancimino. Si decise di adeguarli conseguentemente; anzi si fissò addirittura il giorno, 22-12-92. Senonché 3 giorni prima il 19-12-92, come noto, Ciancimino venne raggiunto da mandato di cattura e quel lavoro passò nel dimenticatoio. Successivamente tra la fine del 1993 e gli inizi del 1994 una serie di articoli giornalistici rievocarono in Ciancimino il ricordo di quel lavoro rimasto sospeso e che non era stato sollecitato, pur essendo noto, attraverso i verbali … “; manoscritto “Mappe topografiche per individuare (possibilmente) 2 abitazioni nell ‘hinterland di Palermo. Questa richiesta ritenuta interessante per mia espressa volontà .. è stata fatta solo al Dott. Caselli e al Col. Mori il 21-1- 1994 ed avevano origine (e continuazione) nel l’apporto iniziale dei carabinieri avvenuto dal 25/8-92 … (continuazione del periodo non leggibile nella copia del documento prodotta agli atti);

– foglio manoscritto avente il seguente contenuto “indipendentemente dalle valutazioni «PONDERALl» di Caselli[…];

– foglio manoscritto avente il seguente contenuto “Se Cangemi facesse parte della Cupola doveva sapere della trattativa condotta da con la Cupola (come membro autorevole della Cupola) d ‘accordo coi Carabinieri. I Volta condizione possibile II Volta condizione da considerare che non si è considerata (cfr. VERBALE)”;

– foglio manoscritto nella cui parte iniziale si legge “Mafioso secondo Marchese 18-11-1992. Se avessi fatto parte di una associazione mafiosa non avrei potuto ipotizzare quella collaborazione fatta coi carabinieri (nome uomo politico PAROLA INCOMPRENSIBILE) perché sarei stato costretto a dire il nome, come ho detto durante la trattativa sia al Col. Mori che al Cap. De Danno” e che poi continua con altri appunti non rilevanti;

– foglio manoscritto avente il seguente contenuto “Lei nel verbale ha scritto che la collaborazione coi carabinieri è stata priva di effetto pratico. Ma la colpa dei mancati effetti di chi è?: a) le carte richieste per tentare di individuare le possibili dimore del boss, mi sono state portate incomplete e dovevano essere integrate. AI capitano avevo fatto notare le lacune ed eravamo rimasti d’accordo che mi avrebbe fornito le carte integrative, ma ha ritardato ed intanto è intervenuto l’arresto b) Per quanto riguarda il piano “cosiddetto politico “, io di intesa coi carabinieri, sono partito per Palermo il 17-12-92 per quel contatto concordato e sono ritornato il 19 ed il 19 stesso ho avuto, alle 17,30, un incontro col capitano e lo informai che non avevo avuto il contatto e che la risposta la avrei avuto il Martedì successivo. Rimanemmo d’accordo col capitano di rivederci Martedì sia perché lui mi fornisse le carte mancanti, sia per dargli la risposta. Era il 19-12-92 il capitano se ne è andato ed io mezz’ora dopo venivo arrestato. Fatta questa premessa si può imputare a me”.

[…] CONCLUSIONI SULLE DICHIARAZIONI E GLI SCRITTI DI VITO CIANCIMINO

Orbene, come si vede, le dichiarazioni e gli scritti di Vito Ciancimino appaiono di scarso aiuto ai fini della ricostruzione più dettagliata possibile degli accadimenti, poiché il predetto, conformemente peraltro al suo noto stile ed al suo carattere riferiti da più testi anche in questo processo, ne ha raccontato sempre in modo alquanto sommario e con evidenti (volute?) imprecisioni e contraddizioni, sia sotto il profilo temporale che contenutistico, che, non infrequentemente, rendono criptici alcuni riferimenti almeno apparentemente finalizzati, anziché a spiegare e fare conoscere, a lanciare, piuttosto, per proprio tornaconto personale, messaggi comprensibili soltanto ad alcuni degli interlocutori da lui prefigurati.

Emblematiche appaiono, in proposito, anche alcune delle dichiarazioni rese da Vito Ciancimino.

Invero, sotto il profilo temporale, ad esempio, basti evidenziare che egli colloca la prima visita a casa sua del Cap. De Donno dopo la strage di via D’Amelio (v. le dichiarazioni, più vicine temporalmente ai fatti, del 17 marzo 1993: “Ma dopo i tre delitti (quello di Lima, che mi aveva sconvolto; quello di Falcone che mi aveva inorridito; quello di Borsellino che mi aveva lasciato sgomento) cambiai idea e ricevetti nella mia casa di Roma il predetto capitano”) e, nelle dichiarazioni più recenti, addirittura alla fine di agosto 1992, in particolare il giorno 25 o 26 […] e poi, quindi, il secondo incontro con lo stesso De Donno, questa volta però insieme a Mori, l’ l settembre 1992 […].

Peraltro, la ricostruzione temporale di Vito Ciancimino risulta smentita persino dal suo difensore di allora, l’Avv. Giorgio Ghiron […], il quale personalmente vide il Cap. De Donno uscire dalla abitazione romana del Ciancimino tra la fine di maggio e i primi del mese giugno 1992 […], ma, comunque, certamente entro il mese di giugno 1992, fatto di cui si è detto certo perché, successivamente, prima di allontanarsi da Roma per le vacanze, come di consueto, intorno al 20 luglio 1992, aveva incontrato Vito Ciancimino […], e gli aveva chiesto chiarimenti su quella precedente visita del Cap. De Donno, ricavando, inoltre, in quell’occasione, dalla risposta datagli, l’impressione che Vito Ciancimino avesse già incontrato anche il Col. Mori […].

E, seppure si tratta di un elemento di prova utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno […], v’è da rilevare che dalla testimonianza resa dal figlio Giovanni Ciancimino in data 20 febbraio 2011 dinanzi al Tribunale di Palermo Sezione Quarta Penale, si ricava che Vito Ciancimino ebbe a parlare col detto figlio di incontri con importanti personaggi altolocati che lo avevano incaricato di contattare l’“altra sponda”, con ciò riferendosi ai mafiosi, dopo circa venti o venticinque giorni dalla strage di Capaci e, comunque, sicuramente prima della strage di via D’Amelio.

[…] Ora, riguardo a tale testimonianza, va detto, oltre che per Giovanni Ciancimino non valgono le criticità che hanno già condotto sopra a disattendere totalmente le dichiarazioni del fratello Massimo (anche perché Giovanni Ciancimino, così come tutti gli altri familiari, si è sempre dissociato dalle iniziative del fratello Massimo e non ha mai fatto nulla per supportarne le propalazioni, tanto che anche nel presente processo, potendo farlo a differenza che nel processo Mori-Obinu, si è avvalso della facoltà di non rispondere), che non può essere dubbio che, ancorché a Giovanni Ciancimino non ne siano stati fatti i nomi, gli “importanti personaggi altolocati” fossero i Carabinieri che si erano presentati a Vito Ciancimino anche facendogli credere di operare per conto delle Istituzioni politiche, così come si ricava sia dalle ragioni degli incontri riferite al figlio da Vito Ciancimino perfettamente coincidenti con la ricostruzione emersa aliunde, sia dalle parallele dichiarazioni dell’altro figlio di Vito Ciancimino, Roberto, che, sentito, invece, nel corso di questo dibattimento, pur non potendo collocare nel tempo quegli incontri perché egli ne ebbe conoscenza soltanto successivamente alla strage di via D’Amelio, ha, però, riferito che il padre gli fece in proposito i nomi del Col. Mori e del Cap. De Donno […].

Sotto il profilo contenutistico, basti, invece, evidenziare che Vito Ciancimino ha ripetutamente sottolineato la risposta negativa – e persino sdegnosa – del suo interlocutore (il Dott. Cinà) che aveva sempre rifiutato di aprire alcun dialogo con i Carabinieri invitando il Ciancimino medesimo, semmai, a utilizzare quel contatto con i Carabinieri per risolvere i suoi problemi giudiziari personali; e, tuttavia, poi, in un passo delle sue dichiarazioni, forse inconsapevolmente (o forse no, tenuto conto della diabolicità e deI sarcasmo del personaggio che emerge persino dalle dichiarazioni dei suoi stessi familiari), ha fatto cenno, nelle dichiarazioni più vicine ai fatti del 17 marzo 1993, alla volontà ad un certo momento manifestata dai vertici mafiosi attraverso il Dott. Cinà di accettare la trattativa con i Carabinieri attraverso il Ciancimino, cui, quindi, conferirono espressa delega in tal senso (v. dich. citate: ” …. Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare”), ribadendo, peraltro, poi successivamente, nelle dichiarazioni più recenti degli anni successivi, ancora di avere ricevuto, sì, quella “delega”, ma aggiungendo anche che tale “delega” prima concerneva il Cap. De Donno e poi era stata estesa più in generale ai Carabinieri (“Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare oltre al Capitano poi pure carabinieri … ), così confermando indirettamente che i vertici mafiosi erano stati informati sin dai primi contatti con il solo De Donno e li avevano autorizzati se è vero che avevano a tal fine già “delegato” Vito Ciancimino, per poi, successivamente, estendere quella delega ai Carabinieri (più in generale) evidentemente quando era subentrato anche il Col. Mori.

Una chiara conferma di tale conclusione, peraltro, si ricava dalle dichiarazioni di Antonino Giuffrè di cui si dirà più avanti nel Capitolo 9.

D’altra parte, la negazione di una “trattativa” concretizzatasi per suo tramite tra i Carabinieri e i vertici mafiosi che appare trasparire in più passi degli scritti di Vito Ciancimino è contraddetta palesemente da altri scritti, quale, ad esempio, quello da lui manoscritto nel quale commenta che il noto Salvatore Cancemi, ove, come da questi asserito dopo avere iniziato la collaborazione con la Giustizia, avesse fatto parte dell’organismo di vertice di “cosa nostra”, avrebbe dovuto sapere della “trattativa” da questa portata avanti (v. foglio manoscritto nel quale si legge: “Se Cangemi facesse parte della Cupola doveva sapere della trattativa condotta da con la Cupola (come membro autorevole della Cupola) d’accordo coi Carabinieri”).

V’è, poi, ad ulteriore riprova di quanto appena osservato, anche quel foglio manoscritto nella cui parte iniziale Vito Ciancimino fa cenno, anche in questo caso senza alcuna vera spiegazione, ad un uomo politico ed a ciò che aveva detto a Mori e De Donno, appunto, durante la “trattativa” (v. manoscritto nel quale si legge “Mafioso secondo Marchese 18-11-1992. Se avessi fatto parte di una associazione mafiosa non avrei potuto ipotizzare quella collaborazione fatta coi carabinieri (nome uomo politico PAROLA INCOMPRENSIBILE) perché sarei stato costretto a dire il nome. come ho detto durante la trattativa sia al Col. Mori che al Cap. De Donno”).

Traspare, in conclusione, una chiara reticenza di Vito Ciancimino che, al di là di alcuni passaggi certi (quali, ad esempio, quelli dei ripetuti incontri con Mori e De Donno per la finalità di instaurare un contatto con i vertici mafiosi e quello conseguente dell’interlocuzione con Cinà di cui si dirà meglio più avanti esaminando anche altre risultanze) non consente di ricostruire adeguatamente, né sotto il profilo dei tempi, né sotto il profilo del contenuto, quei contatti che, comunque, tanto Mori e De Donno nelle loro prime esternazioni, quanto lo stesso Vito Ciancimino, concordemente ed esplicitamente hanno ricondotto in modo esplicito ad una “trattativa”.

Per meglio ricostruire tale “trattativa”, pertanto, sarà necessario ricorrere ad altre risultanze, relative, da un lato, all’operato in quella fase di Subranni, Mori e De Donno e, dall’altro, all’operato dei vertici mafiosi dell’epoca, di cui si darà conto nei capitoli successivi.


L’accusa: minaccia a “corpo politico”. Agli imputati Riina, Brusca, Bagarella, Cinà, Subranni, Mori, De Donno e Dell’Utri, unitamente ad altri soggetti nei cui confronti si è proceduto separatamente (Provenzano Bernardo e Mannino Calogero) ovvero deceduti (Parisi Vincenzo e Di Maggio Francesco), il P.M. contesta il reato di minaccia ad un corpo politico previsto dall’art. 338 c.p., per avere, in particolare, usato minaccia a rappresentanti del Governo della Repubblica al fine di turbare la regolare attività di quest’ultimo (v. imputazione di cui al capo A).

Tale contestazione, per le problematicità dell’ipotizzata figura di reato evidenziate anche dai difensori degli imputati sin dalle battute iniziali del processo (v. richiesta di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. già avanzata in sede di questioni preliminari dagli imputati Mori e Subranni e, sotto altro profilo, dagli imputati Riina e Bagarella) rende necessarie alcune considerazioni di carattere generale.

La prima, certamente principale e fondamentale, questione riguarda la configurabilità di tale reato rispetto ad un organo costituzionale qual è il Governo della Repubblica.

Si sostiene, infatti, in particolare da parte della difesa dell’imputato Dell’Utri […], con l’avallo anche di autorevole dottrina, che la nozione di “corpo politico” di cui all’art. 338 c.p. non può ricomprendere gli organi costituzionali (come, appunto, il Governo o le Assemblee legislative o la Corte Costituzionale) per i quali, infatti, il codice penale appresta una specifica tutela con la previsione di cui all’art. 289 c.p. (attentato contro organi costituzionali e contro le assemblee regionali).

Tale argomentazione è stata, poi, ripresa, nel prosieguo della discussione, anche dalle difese di tutti gli altri imputati del medesimo reato.

Ed in effetti, la nozione di “corpo politico” è stata sempre alquanto controversa nella dottrina penalistica più tradizionalista, che spesso ha stentato ad individuare gli organi riconducibili a tale previsione a differenza di quanto, invece, è più semplice fare per le concorrenti nozioni di “corpo amministrativo” e “corpo giudiziario” pure richiamate nel medesimo articolo 338 c.p. […].

In realtà, però, la difficoltà principale non va individuata nella nozione di “corpo politico”, bensì in quella più ristretta di “corpo” laddove non v’è diretta corrispondenza con l’esplicitazione normativa terminologica degli organi dello Stato.

Tuttavia, col termine “corpo” può ritenersi, in sostanza, che il legislatore abbia inteso riferirsi genericamente ad ogni autorità o organo costituiti in collegio, come si ricava dal successivo riferimento contenuto nello stesso art. 338 c.p. […].

Già tale definizione impone, dunque, con tutta evidenza, di includere tra i “corpi politici”, innanzitutto, proprio il Governo della Repubblica, che costituisce, anzi, il principale organo che, in forma collegiale, svolge una attività indubitabilmente “politica” .

Ed in tal senso, infatti, si è espressamente pronunziata la Suprema Corte con una sentenza Cv. Cass. Sez. VI 18 maggio 2005 n. 32869) volutamente pressoché trascurata dalle difese […]. In realtà, l’affermazione della Suprema Corte è assolutamente chiara ed inequivocabile, laddove fa seguire l’indicazione del Governo della Repubblica (così come quelle analoghe del Parlamento e delle Assemblee Regionali) alla definizione di “Corpo politico” che nella stessa sentenza viene offerta: “Per corpi politici vengono intesi quegli organismi che svolgono una funzione politica”[…].

La seconda questione da affrontare ancora in termini di generalità è quella della configurabilità della fattispecie criminosa dell’art. 338 c.p. nel caso in cui la violenza o minaccia sia perpetrata nei confronti, non dell’intero Governo riunito, ma nei confronti di uno o più Ministri che del Governo fanno parte.

Si è visto, invero, che soggetto passivo del reato è l’organo pubblico dello Stato nell’integrità della sua composizione collegiale mediante la quale esercita le sue funzioni. Tuttavia, deve ritenersi configurabile il reato in esame anche quando la minaccia, seppure indirizzata nei confronti di un solo componente dell’organo collegiale non in presenza dello stesso organo collegiale riunito, sia, però, diretta a minacciare l’intero organo collegiale allo scopo di impedirne o turbarne l’attività (interpretazione ora, come si vedrà, rafforzata, per quanto si dirà più avanti, dalla modifica apportata dalla legge 3 luglio 2017 n. 105 che ha inserito le parole “, ai singoli componenti” dopo le parole “Corpo politico, amministrativo, giudiziario”).

In sostanza, si configura, comunque, il reato previsto dall’art. 338 c.p. Quando l’agente, pur rivolgendo la minaccia ad un componente eventualmente non in presenza dell’organo collegiale riunito, mira non già alla persona fisica del componente medesimo, ma al corpo politico al fine di impedirne o turbarne l’attività.


La grande paura e l’inizio della Trattativa  L’omicidio dell’On. Salvo Lima eseguito il 12 marzo 1992 ha certamente destato grandi preoccupazioni sia nell’ambito delle Istituzioni sia in alcuni soggetti, principalmente colleghi di partito dell’On. Lima (v. dich. della figlia di quest’ultimo, Susanna Lima all’udienza del 24 ottobre 2013: ” … erano tutti preoccupati, anche perché era un evento che non si aspettava nessuno, non eraatteso, almeno così io avevo percepito … ….. preoccupazioni che non sapevano che cosa stava succedendo, perché non si aspettavano… Si era in piena campagna elettorale, non si aspettavano nulla del genere .. “), che concretamente percepirono, a quel punto, il pericolo di potere essere a loro volta vittime di “punizioni” o vendette mafiose.

Degli allarmi lanciati dal Capo della Polizia e dal Ministro dell’Interno Scotti nei giorni successivi all’omicidio Lima si dirà più avanti. Qui ci si intende concentrare, invece, sui timori che il predetto omicidio ebbe a suscitare in uno dei più importanti esponenti della politica siciliana dell’epoca, l’On. Calogero Mannino, appartenente al medesimo partito dell’On. Lima, la Democrazia Cristiana, ed allora, peraltro, Ministro in carica nel Governo presieduto dall’On. Andreotti.

Nell’ipotesi accusatoria oggetto di verifica in questa sede, infatti, è l’On. Mannino che, manifestando il timore di essere ucciso così come era avvenuto per l’On. Lima, sollecita alcuni Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri ad adottare iniziative che potessero salvargli la vita, ponendo, quindi, le basi per quella che oggi mediaticamente viene definita “trattativa Stato-mafia” (v. capo di imputazione con quale si contesta, appunto, al Mannino di avere contattato “a cominciare dai primi mesi del 1992, esponenti degli apparati info-investigativi al fine di acquisire informazioni da uomini collegati a “Cosa Nostra” ed aprire la sopra menzionata “trattativa” con i vertici dell’organizzazione mafiosa, finalizzata a sollecitare eventuali richieste di “Cosa Nostra” per far cessare la programmata strategia omicidiario-stragista, già avviata con l’omicidio dell’on. Salvo Lima, e che aveva inizialmente previsto l’eliminazione, tra gli altri, di vari esponenti politici e di Governo, fra cui egli stesso Mannino”).

Prima di esaminare le risultanze acquisite nel presente processo, appaiono, però, opportune alcune precisazioni.

L ‘On. Calogero Mannino era originariamente coimputato per il concorso nel reato di minaccia a Corpo politico nel medesimo procedimento che ha dato luogo al presente processo. Il predetto imputato, però, a differenza degli altri imputati, in sede di udienza preliminare, ha richiesto il giudizio abbreviato e, pertanto, il relativo procedimento è stato separato e si è concluso, in primo grado, con la sentenza di assoluzione pronunziata dal Giudice per l’Udienza Preliminare in data 4 novembre 2015 (non ancora irrevocabile, essendo in corso il processo di appello promosso dal P.M.).

Esula, dunque, dal presente processo l’esame del ruolo che l’On. Mannino avrebbe avuto, in relazione alla fattispecie di reato contestata agli altri imputati del reato di cui al capo A) della rubrica, non soltanto quale “promotore” della c.d. “trattativa Stato-mafia” (v. condotta sopra già ricordata), ma, altresì, in un momento successivo anche per avere esercitato “in relazione alle richieste di “Cosa Nostra”, indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione dei decreti di cui all’art. 41 bis ord. Pen.”, così “agevolando lo sviluppo della “trattativa” Stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando il proposito criminoso di “Cosa Nostra” di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista” (v. capo imputazione nella parte concernente Calogero Mannino).

In questa sede la condotta dell’On. Mannino sarà, dunque, esaminata solo ed esclusivamente quale ulteriore eventuale antecedente fattuale della c.d. “trattativa Stato-mafia”, che, d’altra parte, come è stato già sopra ricordato (ma è bene sempre ribadirlo), non configura in sé il reato oggetto di esame nel presente processo.

Invero, la condotta che rileva ai fini della responsabilità penale da verificare in questo processo in relazione alla contestazione della fattispecie criminosa prevista dall’art. 338 c.p. non è minimamente quella di colui che eventualmente abbia per propri fini (investigativi o personali) cercato contatti diretti o indiretti con la mafia e neppure quella di colui che, in ipotesi, tali contatti abbia coltivato per il fine di ottenere la cessazione, senza condizioni, di quella nuova strategia mafiosa che già l’omicidio dell’On. Lima lasciava intravedere e prevedere. La condotta penale qui da accertare, infatti, è solo ed esclusivamente quella consistente nelle minacce rivolte eventualmente dai mafiosi nei confronti del Governo della Repubblica per ottenere determinati benefici e, ancora eventualmente, quindi, nell’intervento di terzi che prima abbiano stimolato l’iniziativa dei vertici mafiosi rafforzandone il proposito criminoso e, successivamente, si siano fatti carico anche di “recapitare” le minacce (o, quanto meno, di agevolare tale recapito al destinatario) così consentendo ai mafiosi il raggiungimento del loro scopo.

Messo da parte il giudizio etico che non compete a questa Corte, resta, pertanto, certamente al di fuori del perimetro penale come sopra in sintesi delineato l’iniziale intervento sollecitatorio di possibili contatti con i vertici mafiosi finalizzati alla propria esclusione, quale vittima, dal programma criminoso omicidiario già adottato (prima parte della condotta del Mannino descritta nel capo di imputazione).

Se così è – e, comunque, ciò è quello che ritiene questa Corte -, non può esservi allora alcuna interferenza con il separato giudizio ancora pendente, per il medesimo reato, a carico di Calogero Mannino, se non con riferimento ad una fase successiva della vicenda, quella delle “pressioni”, di cui ha riferito il teste Cristella, che Mannino avrebbe fatto sul Dott. Di Maggio in relazione alla questione del 41 bis. Ma di ciò si parlerà più avanti esaminando la predetta testimonianza e le altre risultanze probatorie concernenti le vicende del 1993.

Ciò premesso, tornando temporalmente alla prima metà dell ‘anno 1992, possono ritenersi effettivamente provati tanto il timore (se non il terrore) di Calogero Mannino, subito dopo l’uccisione di Salvo Lima, di subire anch’egli la punizione o la vendetta di “cosa nostra” per non essere riuscito a raggiungere il medesimo risultato preteso nei confronti di Salvo Lima (l'<> del maxi processo) o quanto meno per avere voltato le spalle a “cosa nostra” nel momento di maggiore difficoltà di questa dopo avere per molti anni instaurato con alcuni suoi esponenti rapporti, che, seppure, con apprezzamento ex post, in concreto non avevano avuto una effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione mafiosa (l’On. Mannino, infatti, per tale ragione, pur a fronte di comprovati rapporti con esponenti mafiosi quali risultano dalle sentenze pronunziate nei suoi confronti, è stato assolto dal reato di concorso esterno nell’associazione mafiosa: v. sentenze prodotte in atti dal P.M. all’udienza del 22 settembre 2017), apparivano in ogni caso ai mafiosi di buona “convivenza”; quanto il conseguente intervento del medesimo Calogero Mannino nei confronti di alcuni Ufficiali dell’Arma coi quali era in stretti rapporti affinché verificassero (ed eventualmente ovviassero a) quel pericolo che gli appariva estremamente immanente ed imminente.


Il pentito Giuffré e l’attacco allo Stato  >Sono stati acquisiti sicuri elementi di prova che consentono di collocare alla fine del 1991 l’inizio della nuova strategia mafiosa (decisa dopo alcuni anni di voluta “sommersione” in attesa della conclusione del c.d. “maxi processo”) che avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni delle Stato e, più specificamente, contro rappresentanti di queste che o avevano tradito aspettative e promesse ovvero costituivano il nucleo operativo – e, nel contempo, la “punta di diamante” – con il quale lo Stato aveva più efficacemente contrastato l’organizzazione mafiosa “cosa nostra”.

In particolare, molteplici elementi di prova indicano che nel detto periodo, certamente antecedente anche alla conferma della sentenza del maxi processo da parte della Corte di Cassazione in data 30 gennaio 1992, si tennero una riunione della “commissione regionale” ed una riunione della “commissione provinciale di Palermo” di “cosa nostra”, entrambe convocate da Salvatore Riina, all’epoca, di fatto, al di là della formale esistenza degli organismi collegiali prima ricordati, capo assoluto ed incontrastato dell’organizzazione mafiosa.

Entrambe le riunioni, quindi, sono servite al Riina per fare recepire e ratificare a quegli organismi collegiali la sua volontà di sferrare un violento attacco allo Stato e ciò una volta acquisita, da parte dello stesso Riina, la consapevolezza che, contrariamente alle tante assicurazioni a più livelli manifestategli (e da lui, quindi, “girate” ai sodali per giustificare quella fase di “sommersione” che si protraeva da alcuni anni e sostanzialmente interrotta soltanto, nell’agosto del 1991, dall’omicidio Scopelliti, commesso, però, in Calabria al fine di evitare l’immediato diretto collegamento con “cosa nostra”), il maxi processo avrebbe avuto, infine, una conclusione infausta per l’associazione mafiosa da lui capeggiata.

Delle predette riunioni ha riferito, innanzi tutto, Antonino Giuffrè, collaboratore di comprovata affidabilità per la gran mole di riscontri acquisiti, con sentenze passate in cosa giudicata, sul ruolo apicale dallo stesso svolto nell’ambito dell’associazione mafiosa (“capo” di uno dei “mandamenti” all’epoca più importanti, quello di Caccamo), sui rapporti diretti e personali con i vertici di questa, Riina e, soprattutto, Provenzano, e su molteplici vicende criminali, sia direttamente vissute, sia conosciute in virtù del suo ricordato ruolo, sempre tutte raccontate con assoluta coerenza.

Ebbene, Giuffrè ha, innanzitutto, raccontato di avere egli stesso partecipato, per la carica di capo “mandamento” che rivestiva, ad una riunione, appunto, della “commissione provinciale” che si tenne nel mese di dicembre 1991 e nella quale si deliberò di uccidere, da un lato, Lima ed altri politici che avevano tradito le attese di “cosa nostra” e, dall’altro, alcuni magistrati che storicamente venivano considerati nemici di “cosa nostra” (“lo ho partecipato alla riunione in Cosa Nostra del dicembre del 91, se la memoria non mi inganna, dove appositamente c’è stata la famosa riunione della resa di conti tra Cosa Nostra e le persone ostili a Cosa Nostra, tra cui i politici da un lato e ha cui Salvo Lima e altri politici, e la resa dei conti nei confronti dei Magistrati, quali Falcone e Borsellino.

Questo è stato fatto in una famosa riunione del 91, del dicembre del 91. Tanto è vero che poi nel 92 ci sarà l’uccisione di Lima e del dottore Borsellino, del dottore Falcone, eccetera, eccetera. Da tenere presente che nella lista dei politici vi erano … Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell’ambito politico, appositamente per il discorso che era partito politicamente della inaffidabilità, ed ecco il discorso dell’87, quando c’è stato il cambiamento di rotta, venivano … Erano stati considerati inaffidabili questi politici”).

Giuffré ha indicato, quale luogo di tale riunione, seppur non in termini di assoluta certezza, la casa di certo Guddo, certamente identificabile in Girolamo Guddo proprietario di una villa presso la quale, come emerso in molteplici processi, si tennero in quel periodo molte riunioni dei vertici mafiosi (”Non me lo ricordo con precisione, ma buona parte delle riunioni venivano fatte in unacasa di Guddo, se vado bene, nell’abitazione di Guddo, dove vi era un grande garage con attigua una grande stanza dove vi era sistemato un grande tavolo, dove ci sedevamo. […] Chi fosse il Guddo io non lo so, cioè, perché non l’ho mai frequentato, lo vedevo là, lo conoscevo, poi successivamente, a distanza di tempo, mi è stato dai Marcianò diciamo portato avanti, che aveva degli interessi sulla zona di Termini Imerese, mi sembra di avergli fatto pure qualche favore, niente di tutto questo”).

In quella occasione, quindi, ancora secondo Giuffrè, Riina comunicò la sua decisione a tutti capi “mandamento” facenti parte della “commissione provinciale” (” .. Angelo La Barbera, Raffaele Ganci, Peppino Farinella, Salvatore Madonia, io, Matteo Motisi, Salvatore Cangemi, Giovanni Brusca, Graviano, Giuseppe Graviano, Peppuccio Montalto, Salvatore Biondino, cioè tutta la commissione al completo, tutti i capi mandamento della provincia di Palermo”), i quali accolsero la decisione medesima con assoluto silenzio (“Diciamo che è stato commentato con l’assoluto silenzio, non c’è stato nessun commento. Già di per se stesso, come io ho detto in altre circostanze, è stata una riunione glaciale, di ghiaccio. Diciamo che non c’è stato … Si sentivano le mosche che volavano, non c’è stato nessun commento da parte di nessuno”).

Tale decisione del Riina fu sostanzialmente, innanzi tutto, quella di arrivare alla “resa dei conti” nei confronti di tutti coloro che avevano dato assicurazione che, alla fine, sarebbe stato possibile evitare gli ergastoli già inflitti nei gradi di merito del maxi processo (“È stato la conclusione diciamo di tutto un periodo di tempo, dalla metà degli anni 80 e anche prima, fino ad arrivare a quella data ein modo particolare da un lato vi era stato un abbandono, possiamo dire tranquillamente, da parte …

Cioè, un abbandono dell’appoggio politico di cui Cosa Nostra aveva goduto e quando parlo dell’appoggio politico, in modo particolare mi intendo riferire a quelli che erano i discorsi a livello di processi, vi erano state delle azioni molto importanti da parte delle forze di Polizia sotto la guida del dottore Falcone e del dottore Borsellino, discorsi importanti nella prima metà dell’80, quando già c’era stato Michele Greco con il mandato di cattura e poi ci saranno altre operazioni importanti che hanno interessato anche l’America, Milano, eccetera, eccetera, e poi in modo particolare con ilMaxi Processo. Cioè, nel momento in cui si è visto che le situazioni andavamo sempre peggio, diciamo che c’è stato, come ho detto, il discorso della resa dei conti nei confronti di tutti gli avversari di Cosa Nostra che avevano, ci avevano abbandonato. E anche una questione, come ho detto in altre circostanze, di immagine da parte di Salvatore Riina, dove in diverse circostanze, per rassicurare le persone che avevano dei familiari in carcere, eccetera, eccetera, diceva che la situazione dei carcerati, la situazione degli ergastoli si doveva risolvere. Mettiamoci in testa, diceva che dobbiamo farci ha nostra bella associazione, però di ergastoli nemmeno a parlarne. Poi, successivamente, il dire di Salvatore Riina è stato smentito in seno anche alla Commissione, quindic’è stata un intervento molto brutale da parte del Salvatore Riina contro quei personaggi che lui riteneva e che noi ritenevamo dei traditori. Da quel momento in poi iniziò una politica di aggressione violenta contro tutti questi personaggi”) e ciò in quanto, ormai, il Riina aveva acquisito la consapevolezza che, in realtà, a causa di un intervento attribuito al Dott. Falcone, con la sentenza della Corte di Cassazione sarebbero state confermate le condanne all’ergastolo già inflitte daigiudici di merito (“Si sapeva ufficiosamente se non vado male dei ricordi l’esito del Maxi Processo, che come ho detto è in forma ufficiosa. Ecco, posso dire che è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso …. …….. Sì. sì. lo vado a confermare perché già si vociferava che a causa di tutto un discorso anche precedente che c’era stato, cioè la sentenza andava male …. … … Diciamo che questa era ormai la strategia ufficiale, che diventava ufficiale e operativa nell’ambito di Cosa Nostra. Quindi diciamo che da quel momento in poi, dopo questa delibera. diventava ufficiale quanto era stato deciso contro i politici, cioè diciamo contro i nemici giurati di Cosa Nostra. Falcone e Borsellino. e contro i politici che si erano defilati nell’appoggiare Cosa Nostra … … …. Erano delle voci che già giravano all’interno di Cosa Nostra. quindi mi sembra che sia stato Riina in quella sede. ma già era un discorso che si avvalorava perché vi erano state… C’erano dei presupposti che già il cambiamento della sezione del processo. cioè tutto un complesso di situazioni che già nell’ambito nostro girava la voce che il processo, la sentenza andava male … … … Ricordo così diciamo a memoria a gomito, cioè, vi era stato anche un discorso travagliato in seno alla Cassazione dove doveva essere un procedimento che doveva andare in una determinata sezione. non mi ricordo sefosse quella presieduta da Carnevale e invece il processo è stato mandato in un’altra sezione. Questo è un discorso così che vagamente che mi vado a ricordare. Ci sono stati dei travagli anche all’interno della Cassazione. Comunque sono mi sembra di essere 99% certo che già a fine del 2001 si aveva sentore che il Maxi Processo prendeva una brutta piega.. … . … Cioè, chiedo scusa, parliamo del 91”).

E’ importante evidenziare per ciò che riguarda più specificamente i fatti oggetto di questo processo e per le considerazioni che si faranno sulla c.d. “trattativa”, che in quella riunione del dicembre 1991, ancora secondo Giuffré, venne esplicitato dal Riina esclusivamente un intendimento di vendetta (“La strada si doveva completamente abolire, tanto è vero che poi c’è stato l’omicidio Lima, quindi … … …. Diciamo in modo particolare in quella sede, cioè, l’eliminazione di tutti… Una vendetta cioè nei confronti di tutte quelle persone che non avevano adempiuto a dare una mano a Cosa Nostra, e qua parliamo per quanto riguarda i politici. Per quanto riguarda i Magistrati, diciamo che, come ho detto ieri, si trattava di persone, particolarmente il dottore Borsellino e ildottore Falcone, pericolose, che avevano lottato contro Cosa Nostra in modo particolarmente forte e intransigente, quindi diciamo che … “), mentre soltanto in una seconda successiva fase avrebbe poi preso campo l’intendimento di ricattare e minacciare lo Stato (“Diciamo che questo discorso di ricatto, di minaccia, è una tappa successiva al discorso delle stragi del 93, in modo particolare suFirenze, su Milano e su Roma. Diciamo che sono due tappe successive. Una prima tappa è quella dell’eliminazione delle persone che non avevano mantenuto, come ho detto, ripeto, gli impegni presi nei confronti di Cosa Nostra. Poi, successivamente, è scattato in contemporanea diciamo anche ildiscorso del ricatto e delle minacce allo Stato…. … …Il discorso poi, mi riallaccio al discorso del Provenzano in modo particolare…. … …Poi successivamente con il Provenzano. Diciamo che per quanto riguarda il 91 io le posso parlare di quello che le ho parlato, del discorso dell’eliminazione dei politici. Per quanto riguardano i discorsi di Firenze e altro, io ero completamente all’oscuro, come ho sempre detto e riferisco a questa Corte”).

Ancora per quanto riguarda il Giuffrè è opportuno qui ricordare che, secondo il predetto collaborante a quella riunione della “commissione provinciale” non partecipò Provenzano, pur non essendovi alcun dubbio, per i presenti, che quest’ultimo, come di consueto, avesse già precedentemente condiviso l’iniziativa con Riina (“Ripeto che non mi risulta a me che il Provenzano sia stato mai presente a una riunione di Commissione. Le posso tranquillamente dire che il Provenzano a detta di lui, a detta del Riina, a detta sia del Provenzano … Era a conoscenza sempre di tutto, di quello che avveniva nelle iniziative del Provenzano, tramite incontri che avevano privatamente tra di loro e tramite delle lettere che si scambiavano, questo sì …. ….. ….. C’è stato, per quello che io potevo capire, sin dall’inizio della loro ascesa al potere, diciamo, un … Hanno intrapreso la strada di comune accordo, si sono scambiati anche le zone di influenza dove potere operare ed ecco perché può sembrare una anomalia, che dice che quando mi si dice che il Provenzano ha partecipato alle riunioni di Commissioni, io devo dire no perché non l’ho mai visto, però con questo non è che vado a dire che Provenzano non c’entra niente nei discorsi. Ne è ugualmente consapevole e responsabile quanto lo è Salvatore Riina, per le ragioni di cui sto dicendo, che era sempre informato, era sempre a conoscenza e portavano avanti la stessa strategia, sia per quanto riguarda i discorsi nella guerra di mafia, sia per quanto riguarda l’eliminazione delle persone che poi dovevano essere eliminate”), circostanza che, d’altra parte, trova direttoriscontro nel fatto che già da alcuni mesi Provenzano aveva manifestato allo stesso Giuffrè l’intendimento di uccidere Lima (P.M DEL BENE: – Senta, allora procedo ad una contestazione per sollecitarle il ricordo su questo profilo, di questa interlocuzione con Provenzano, verbale di interrogatorio di Giuffrè Antonino reso alla Procura della Repubblica di Palermo il 26 settembre 2009, pagina Il, a penna, per le Difese. A specifica domanda del Pubblico Ministero, il signor Giuffrè, ebbe a rispondere: in tuffa onestà le devo dire una cosa, io ero stato informato che Lima doveva essere ucciso. Da chi? Dice il Pubblico Ministero. Giuffrè: da Provenzano. Pubblico Ministero: quando? Giuffrè: prima di andare a finire in galera, circa un sei mesi prima. Poiproseguendo, cioè, dice il Pubblico Ministero? Giuffrè: nel 91, nell’estate del ’91, settembre; DICH. GIUFFRE’: – Confermo quanto lei mi sta contestando diciamo che già c’era anche su Lima la voce che doveva essere … Per quelle circostanze che ho detto in precedenza; P.M. DEL BENE: – Quindi Provenzano era informato di questa decisione antecedentemente alla riunione a casa di Guddo, mi pare di capire. Questo vorrei capire comprendere, signor Giuffrè, mi perdoni.; DICH. GIUFFRE’: – Sì, sì, tranquillamente, tranquillamente, sì.. .. … … Contribuì indubbiamente perché, veda, Salvatore Riina un giorno mi disse che, parlando del Provenzano, che … Io con Bino posso avere delle vedute un pochino diverse, dice e forse è anche giusto così, però nel momento in cui noi ci alziamo dal tavolo, siamo in perfetta sintonia. Quindi da queste parole che mi ha detto il Salvatore Riina e da quanto mi diceva il Provenzano, diciamo che per quanto riguarda in modo particolare gli attacchi contro i politici e contro .. … …Erano… … …il Provenzano ne era a conoscenza ed era in perfettasintonia, diciamo, con il Salvatore Riina .. “).

E’ da segnalare, inoltre, che Giuffrè, però, ha negato che in occasione della detta riunione della “commissione provinciale” del dicembre 1991 si sia parlato di rivendicare gli omicidi che sarebbero stati commessi a nome della Falange Armata (“P. M. TARTAGLIA: – Per quanto riguarda le riunioni alle quali lei ha partecipato personalmente, lei ricorda se in queste riunioni, quando si parlò dell’eliminazione di Lima e delle successive attività in programma, fu avanzata da qualcuno la proposta di rivendicare queste azioni con la sigla della Falange Armata?; DICH. GIUFFRE’: – Completamente no”)

Infine, pur non avendovi partecipato per non avere titolo, Giuffrè, sulla base delle regole dell’attività di “cosa nostra” da lui conosciute, ha ipotizzato che quella riunione del dicembre 1991 potesse essere stata già preceduta da altra riunione della “commissione regionale” (“Potrebbe essere un discorso inverso … … …. Cioè che già c’erano stati degli accordi con le altre province su questastrategia e poi successivamente ne veniva data comunicazione dallo stesso Riina a livello provinciale, a Palermo”).


Strage di Capaci, la “premessa” del patto – Tra gli antefatti logico-fattuali della c.d. “trattativa Stato-mafia” di cui si dirà, assume, ovviamente, un ruolo del tutto centrale e forse determinante per la sua dirompente tragicità, anche la strage di Capaci nella quale persero la vita il Dott. Giovanni Falcone, la moglie Dott.ssa Francesca Morvillo e alcuni degli uomini della scorta del primo.

In questa sede, tuttavia, non appare necessario ricostruire quel tragici accadimenti, potendosi rinviare alle risultanze delle sentenze irrevocabili intervenute su tale delitto ed acquisite agli atti (la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Caltanissetta del 26 settembre 1997; la sentenza di secondo grado della Corte di Assise di Appello di Caltanissetta del 7 aprile 2000; la sentenza della Corte di Cassazione del 30 maggio 2002).

Quel che semmai è opportuno evidenziare, per le valutazioni che si faranno nel prosieguo, è che dal complesso esame di tali sentenze emerge con chiarezza l’intento vendicativo e punitivo che ebbe in quel momento ad animare la feroce reazione di Salvatore Riina pur nell’esecuzione di una “condanna a morte” del Dott. Falcone risalente nel tempo, tanto da abbandonare improvvisamente la possibile più agevole esecuzione del delitto in Roma per perpetrare una strage senza precedenti e così manifestare coram populo la persistente potenza di “cosa nostra” e della propria persona (v. quanto successivamente si dirà riguardo alle risultanze delle intercettazioni eseguite nel 2013 nei confronti dello stesso Riina) nonostante il grave colpo inferto dallo Stato con la sentenza del maxiprocesso.

Si vuole dire, in altre parole, che in quel momento era ben lungi da Salvatore Riina l’intento di formulare richieste trattativiste nei confronti di Istituzioni dello Stato (che, altrimenti, sarebbe stato più utile non portare lo scontro alle estreme conseguenze con una strage così eclatante, che, nella logica delle cose, avrebbe dovuto, semmai, inevitabilmente chiudere qualsiasi possibilità di dialogo e “scatenare”, da parte dello Stato, una reazione senza quartiere diretta a sgominare definitivamente l’organizzazione mafiosa siciliana e quella sua leadership così sanguinaria), ma soltanto quella di dimostrare la forza e l’ineluttabilità della reazione di “cosa nostra” all’attacco sferrato dallo Stato con le condanne inflitte ali ‘esito del maxiprocesso.

In sostanza, dunque, non v’era ancora alla vista alcuna ipotesi di minaccia di ulteriori azioni finalizzata ad ottenere benefici (e, quindi, di ricatto), ma solo e soltanto l’esplosione della furia vendicatrice di Salvatore Riina nei confronti dei magistrati che venivano individuati quali artefici di quel successo dello Stato e di quei personaggi, gravitanti attorno all’associazione mafiosa beneficiando di appoggi elettorali e prebende economiche, che non erano stati in grado di opporsi a quell’esito infausto (per “cosa nostra”).


Sul “patto” sfilano i big della politica  Il teste Giuliano Amato è stato esaminato all’udienza dei 15 giugno 2016, allorché, in sintesi, ha riferito nelle parti più direttamente concernenti l’On. Scotti (per il resto della testimonianza, concernente anche aspetti dei contatti Mori-Ciancimino, si darà conto nel prosieguo):

– di non avere ricordo del dibattito pubblico che si sviluppò dopo gli allarmi lanciati dal Ministro Scotti e dal Capo della Polizia Parisi nel marzo 1992 e che pure, insieme ad altri esponenti politici, lo riguardavano […];

– che si pervenne alla sua nomina come Presidente del Consiglio su indicazione dell’On. Craxi nell’impossibilità di questi di assumere egli stesso l’incarico per il coinvolgimento in alcune vicende giudiziarie […];

– che soltanto dopo l’affidamento dell’incarico seppe dal Segretario Generale Gifuni della visita fatta da Scotti e Martelli al Presidente della Repubblica al fine, per quanto si diceva, di proporsi per il nuovo governo […], ma di non avere saputo e di non sapere che tale visita fu causa di dissidio tra Martelli e Craxi […];

– che il 18 giugno 1992, ricevuto l’incarico, aveva iniziato le consultazioni con i partiti, acquisendo, come di consueto, le indicazioni sui ministri da nominare […];

– che, tuttavia, in quella occasione egli ritenne di discutere alcune di quelle indicazioni sia con il segretario della D.C. Forlani, sia successivamente nell’apposita riunione avuta con il Presidente della Repubblica la mattina di domenica 28 giugno 1992 quando si decise di escludere alcuni dei proposti per il temuto coinvolgimento in vicende giudiziarie […], mentre, nella stessa occasione, non furono modificate le indicazioni per Scotti e Mancino (”Non toccai, e questo già ce lo siamo … gliel’ho detto, tra le designazioni della Democrazia Cristiana, quella di Mancino all’Interno e di Scotti agli Esteri”);

– che il Presidente Scalfaro accettò le proposte che egli gli aveva avanzato (“Beh, nell’esperienza che io ho fatto in questa occasione ci fu un maggior peso del Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica accettò quello che il Presidente del Consiglio gli proponeva. Nessuna delle proposte che io gli feci, venne contestata dal Presidente della Repubblica, devo dire la verità. […]”);

– che le indicazioni di Scotti agli Esteri e Mancino all’Interno non fu oggetto di discussione con il Capo dello Stato (“Questo non fu oggetto, no”);

– che egli si pose il problema della continuità dell’azione di governo di contrasto alla mafia, ma che il nome di Mancino che gli era stato proposto per il Ministero dell’Interno era a tal fine rassicurante (“P.M Dott. DI MATTEO – Quello è un momento particolare, era trascorso meno di un mese dalla strage di Capaci. Lo le chiedo, in particolare per la individuazione del Ministro degli Interni e di quello della Giustizia, in quel momento lei, nella veste di Presidente del Consiglio incaricato, si pose il problema – intanto le chiedo se si pose il problema, non … – di cercare di assicurare una continuità all’azione di contrasto alla mafia, che era stata portata avanti anche con una serie considerevoli di Decreti Legge o provvedimenti di vario tipo, in ultimo quello dell’8 giugno, dal precedente Governo?; TESTE G. AMATO – E certo che me ne preoccupai, anche perché poi il lavoro che facemmo fu soprattutto di assicurare il passaggio parlamentare rapido e, anzi, il rafforzamento di quel decreto dell’8 giugno. Se lei si riferisce alle persone, mah, io ritenevo, tra le proposte che ebbi da Forlani, il nome di Mancino un nome che mi tranquillizzava; lo conoscevo, era una persona che di cose del genere si era, da capogruppo, occupato, era una persona solida e quindi non avevo problemi davanti alla scelta che la Democrazia Cristiana aveva fatto con lui, né mi parve che l’avesse, appunto, il Capo dello Stato, che non obiettò, e poi Mancino si mise a lavoro su questi temi”);

– che per quanto gli fu riferito, Scotti, in un primo momento, a causa della incompatibilità col ruolo di parlamentare decisa dalla direzione della D.C., aveva deciso di restare fuori dal governo e che, quindi, quando lo stesso aveva deciso di rientrare nel governo, il ruolo di Ministro dell’Interno era stato già destinato all’On. Mancino […];

– che, d’altra parte, Scotti non gli aveva manifestato il desiderio di rimanere nel dicastero già occupato per proseguire nell’azione di contrasto alla mafia già intrapresa (“lo ricordo … guardi, io ricordo un’unica cosa.’ che una persona che io conoscevo bene, di cui mi consideravo e mi considero amico, se avesse avuto seriamente questo problema, mi sarei aspettato che mi avesse chiamato e mi avesse detto Giuliano: “Io voglio restare all’Interno, lo considero importante per la lotta contro la mafia, e qui rischia che mi mettono fuori”. Questo non è accaduto, è l’unica cosa che ricordo, questa che non è accaduta”) ed egli non aveva letto le interviste rilasciate in proposito in quei giorni dallo stesso Scotti, il quale, d’altra parte, nulla gli aveva detto neppure dopo la formazione del nuovo governo […];

– di non ricordare alcuna sollecitazione affinché Martelli non venisse confermato al Ministero della Giustizia (“So che Claudio ha detto questo; io, quando lei o qualche suo collega me l’ha chiesto, ho detto che non lo ricordavo. L’ultima volta che questa cosa mi è stata chiesta in questa lunga vicenda, io ho aggiunto, mi pare di ricordare, di averlo ex post chiesto a Salvo Andò, che era il responsabile delle questioni giustizia del PSI, perché lui meglio di me poteva ricordare se c’era la volontà da parte del segretario del partito di allontanare Martelli dalla Giustizia. E lo stesso Andò mi ha detto che non ricorda nulla in questo senso, né ricorda di essere mai stato lui designato, eventualmente, per la giustizia, perché c’era Martelli, tanto è vero che lui divenne Ministro della Difesa in quel Governo. Questa è la risposta che ho dato e che le posso confermare”);

– di non ricordare, pur non escludendolo, che Scotti già nella immediatezza della nomina come Ministro degli Esteri presentò le dimissioni e che egli lo abbia invitato a soprassedere per l’imminenza di alcuni impegni internazionali […];

– che il Ministro Mancino era assolutamente favorevole al decreto dell’8 giugno 1992 per la cui tempestiva conversione in legge si prodigò (“Era assolutamente favorevole. anzi lo considerava essenziale che concludessimo nei tempi consentiti”) anzi rafforzandolo […];

– di avere saputo, forse da Forlani, che la designazione di Mancino al governo serviva anche a liberare il posto di capogruppo da destinare a Gava […].

Il teste Arnaldo Forlani è stato esaminato all’udienza del 5 febbraio 2015, allorché, in sintesi, ha riferito:

– che il partito invitava i propri esponenti che assumevano incarichi di governo ad assumere una linea di assoluta intransigenza verso il fenomeno mafioso (“Ma io ricordo che l’atteggiamento del mio Partito nei suoi organi dirigenti, e quindi per le direttive e gli orientamenti che dava anche agli uomini che assumevano responsabilità di Governo, era di un ‘assoluta intransigenza, di una lotta sistematica al fenomeno criminale, in modo particolare alla mafia in Sicilia … … … Ia direttiva era di un ‘assoluta coerenza, anche con il passato e quindi di un’assoluta intransigenza nel perseguire questi fenomeni”);

– che in occasione della formazione del nuovo governo la Democrazia Cristiana designò Mancino quale Ministro dell’Interno[…] e ciò a seguito di decisione dell’Ufficio Politico composto dal Presidente De Mita, dal Segretario Forlani e dai presidenti dei gruppi parlamentari Gerardo Bianco e Nicola Mancino […], cui, tuttavia, si aggiungevano talvolta i responsabili di singoli settori e i due vice segretari Lega e Mattarella […];

– che tale designazione, come anche le altre, fu fatta pochi giorni prima della formazione del nuovo governo col consenso di tutti e senza alcuna drammaticità […];

– di non ricordare in proposito interventi del Presidente della Repubblica […], rettificando, quindi, sul punto una precedente dichiarazione contestatagli […];

– che anche Scotti, così come gli altri ministri uscenti, era nella lista dei ministri da proporre per il nuovo governo, ma che, poi, taluni di questi, tra cui lo stesso Scotti, si autoesclusero per la regola della incompatibilità tra ruolo di ministro e mandato parlamentare […];

– che, tuttavia, successivamente, quando era stato già indicato Mancino quale Ministro dell’Interno, Scotti aveva cambiato idea e dato la sua disponibilità ed a quel punto, quindi, fu designato per il Ministero degli Esteri […];

– che tutto avvenne nel volgere di ventiquattro ore e che fu Gerardo Bianco ad informare Scotti della nomina […];

– che non vi fu alcun dissenso nella designazione di Mancino […];

– che, poiché Scotti venne nominato Ministro nonostante la regola della incompatibilità col mandato parlamentare, certamente il medesimo ebbe, ad un certo momento, ad accettare la detta regola allorché fu contattato dall’Ufficio Politico, probabilmente dall’On. Bianco […];

– che tutti i Ministri accettarono la medesima regola e, tranne Scotti, si dimisero […];

– che non si pose un problema di continuità della linea politica del Ministero dell’Interno perché Mancino venne ritenuto assolutamente idoneo ad assumere quell’incarico (”Quello che posso dire è che l’indicazione relativa a Mancino derivava da un particolare giudizio dell’ufficio politico circa la idoneità piena del personaggi ad assumere questa responsabilità, quindi certamente la persona che veniva da noi indicata non andava al Ministero per rendere più labile e meno risoluta l’azione e la lotta nei confronti della criminalità organizzata …. … per continuare in una linea di coerente lotta alla criminalità organizzata …. . , . … questo appartiene alla logica dei Partiti, mica uno fa il Ministro in eterno, allora venne indicato Mancino. Mancino era uno dei personaggi più autorevoli, era quello che aveva avuto una lunga responsabilità parlamentare ed era concorde l’opinione che aveva doti di fermezza caratteriale e di risolutezza particolarmente idonee ad assumere quella responsabilità”);

– che, d’altra parte, nulla in proposito gli fu rappresentato da Scotti, le cui obiezioni riguardavano soltanto la questione dell’incompatibilità […], cui, però, nella immediatezza della formazione del governo, ebbe a rinunziare secondo quanto riferito in seno all’Ufficio Politico da tal uno dei suoi componenti […];

– che le misure antimafia del decreto legge del giugno 1992 ed il successivo dibattito parlamentare per la conversione in legge non furono oggetto di discussione all’interno del Partito[…];

– di non ricordare specificamente l’allarme lanciato dal Ministro Scotti nel marzo 1992 (“Ma l’allarme era un dato non di eccezione, come la parola indurrebbe a credere, era un dato di continuità assoluta”) e di avere, invece, un ricordo vago della lettera di solidarietà a Scotti pubblicata da alcuni parlamentari sul quotidiano del Partito […];

– di ricordare anche la preoccupazione che vi era allora per alcuni politici siciliani, tra i quali Mannino (“Che gli uomini della DC con responsabilità pubbliche incorressero in minacce, in rischi, questo è un dato oggettivo, insomma, che appartiene alla storia del Paese, alle vicende, agli assassini intervenuti nei confronti di uomini politici, di Sindaci, di Presidente della Regione … .. … 1’atteggiamento di lotta e di intransigente contrapposizione alla criminalità, alla mafia è una linea di coerenza della Democrazia Cristiana, sempre tenuta, e quindi non è che sia cambiata o abbia avuto degli adeguamenti diversi a seconda … Quindi Mannino era segretario in quel periodo, segretario regionale della Democrazia Cristiana, è evidente che incorreva in dei rischi le notizie allarmanti che venivano … … .. rappresentate e in termini di opinione pubblica, di stampa, e dagli stessi rapporti e relazioni di Governo, certo, ne avevamo notizia come tutti e per quanto ci riguarda comportavano orientamenti e direttive di assoluta intransigenza”).

In sede di contro esame, quindi, il teste ha ulteriormente aggiunto e precisato:

– che la designazione di Mancino avvenne in conseguenza anche del fatto che il Seno Gava aspirava e stava per essere eletto alla carica di capogruppo precedentemente ricoperta dallo stesso Mancino […];

– di non avere saputo all’epoca che Scotti ebbe a presentare una lettera di dimissioni nella immediatezza della sua nomina quale Ministro degli Esteri […] e di non sapere, quindi, spiegare perché sia stata presentata tale lettera stante che precedentemente lo stesso Scotti aveva acconsentito alla nomina (”No, non so spiegarlo, è una contraddizione che non so spiegare … … … Quello che so è che a un certo punto Scotti ha accettato di andare agli Esteri e anche di buon grado e che, quindi, accettando di fare il Ministro degli Esteri avrebbe rassegnato le dimissioni da

Parlamentare”).

Il teste Claudio Martelli è stato esaminato nelle udienze del 9 e 15 giugno 2016 ed ha reso dichiarazioni anche su molti altri fatti rilevanti in questo processo diversi da quelli più strettamente attinenti alla vicenda della sostituzione, al Ministero dell’Interno, dell’On. Scotti.

In questo capitolo, quindi, si riportano soltanto le dichiarazioni testimoniali del Martelli relative a tale ultima vicenda, in ordine alla quale, in particolare, il teste, in sintesi, ha riferito:

– che Scotti, quando gli fu proposto il Ministero degli Esteri, gli disse che era dispiaciuto, ma che non avrebbe potuto dire di no a quell’incarico prestigioso (“Quando gli si propone e lo si invita, si comunica che deve lasciare il Ministero degli Interni e si propone Ministro degli Esteri, lui mi dice che era dispiaciuto, ma come posso dire di no? Come posso dire di no … “), anche se, forse, la sua aspirazione principale era quella di segretario della DC (“E lui in realtà, secondo me, non pensava più né a una cosa, né all’altra, pensava a fare il segretario del suo partito e questo lo si capisce con tutta evidenza nel momento in cui subentra la questione dell’incompatibilità tra incarico parlamentare e incarico di Governo. In quel momento Scotti si dimette anche da Ministro degli Esteri. E perché? Perché voleva fare il segretario del partito e quindi voleva essere parlamentare, non so se è chiaro”);

– che quel colloquio era avvenuto qualche giorno prima della formazione del Governo […];

– che Scotti gli disse che nel suo partito gli facevano pagare anche provvedimenti di scioglimento di alcuni consigli comunali adottati come Ministro dell’Interno (“P. M TERESI: – A proposito di questo, si accennò mai al consenso politico o al dissenso politico che ebbero gli scioglimenti dei

Consigli Comunali?; DICH. MARTELLI: – Accidenti, questa era la spiegazione che mi dava Scotti, mi dava Vincenzo … … … Io ho rotto le scatole a troppi nel mio partito con lo scioglimento dei Consigli Comunali …. … … Questa me la fanno pagare, mi fanno pagare questa”) e che si intendeva tornare alla precedente situazione di convivenza con la mafia (”P. M TERESI: – …. ricorda se in queste interlocuzioni si parlò di un ritorno al passato, di una restaurazione del clima che riguardava i rapporti con le mafie, con la mafia?; DICH. MARTELLI: – Sì, sì, se ne parlò eccome, credo che l’espressione che usavamo era … lo dicevo più spesso normalizzazione, lui diceva tornare alla convivenza o la coabitazione tra Stato e mafia”);

– di non sapere come si pervenne alla nomina di Mancino quale Ministro dell’Interno al di là di quanto dichiarato dallo stesso secondo cui tale nomina era stata voluta innanzitutto dal Presidente Scalfaro […];

– che Scotti attribuiva prevalentemente ai suoi provvedimenti di scioglimento dei consigli comunali la ragione della sua sostituzione quale Ministro dell’Interno […];

– che Scotti ambiva a divenire segretario della D.C. e per tale ragione non intendeva dimettersi da parlamentare (“…questo lo ricordo benissimo, perché cioè pongono una questione assurda e… lui aveva l’ambizione di diventare segretario della DC e quindi non aveva nessuna intenzione di dimettersi da parlamentare … … … o quantomeno di candidarsi a quel ruolo, ben inteso, non di… “).

Le dichiarazioni rese al P.M., in data 15 dicembre 2010, da Oscar Luigi Scalfaro sono state acquisite al fascicolo dei dibattimento quale atto divenuto irripetibile a seguito del sopravvenuto decesso del detto teste, il quale, quanto alla vicenda oggetto dei presente capitolo (per le restanti dichiarazioni concernenti altri fatti si dirà in seguito), ha riferito di non conoscere i motivi della nomina dell’On. Scotti a Ministro degli Esteri (“Non conosco i motivi che indussero l ‘On. Amato, nel giugno 1992 Presidente del Consiglio incaricato, a nominare l ‘On. Scotti ministro degli esteri, piuttosto che a confermarlo nel ruolo di ministro dell’interno. Ricordo solamente che l ‘On. Scotti, in virtù di una direttiva del partito della Democrazia Cristiana che impediva la contemporanea assunzione di incarichi di governo ed esercizio dell’attività parlamentare, rassegnò inopinatamente le dimissioni dalla carica di ministro e non da quella di parlamentare. Ciò mi parve strano e decisi, nonostante l’iniziale parere opposto dal Presidente del Consiglio, di accogliere le dimissioni dell’On. Scotti dalla compagine governativa”).

Ancora riguardo all’avvicendamento del Ministro dell’Interno Scotti con Nicola Mancino, deve darsi conto anche della dichiarazioni rese da quest’ultimo in occasione della sua audizione in data 8 novembre 2010 dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia, poiché, da tali dichiarazioni la Pubblica Accusa ha ritenuto di trarre elementi, oltre che a sostegno della contestazione di falsa testimonianza di cui al capo C) della rubrica riportata in epigrafe, anche a sostegno della tesi sulle reali ragioni di quell’avvicendamento (v. trascrizione della requisitoria del P.M. alle udienze dell’ Il e 12 gennaio 2018).

Ebbene, dal Resoconto stenografico n. 58 dell’audizione di Nicola Mancino in data 8 novembre 2010 dinanzi alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, risulta che il predetto, in quella occasione, quanto alla sua nomina a Ministro dell’Interno nel nuovo Governo presieduto da Giuliano Amato, ebbe, tra l’altro, a dichiarare: “Chi mi volle Ministro dell’Interno fu in primis il Presidente Scalfaro, che si formò un giudizio positivo nei miei riguardi, soprattutto nei cinque anni in cui era stato Ministro dell’Interno … … …. mi sostennero poi il Presidente del Consiglio incaricato, onorevole Amato, e anche l’onorevole Forlani… …. …. sono stato sollecitato ad andare al Ministero dell’Interno. All’epoca ero capogruppo della DC al Senato e mi sono recato dal Presidente della Repubblica, insieme al capogruppo della DC alla Camera dei Deputati e al segretario della Democrazia Cristiana, perché il Capo dello Stato faceva consultazioni su chi dovesse essere investito della responsabilità di capo del Governo … … … ero sul punto di andare via, quando il capo dello Stato mi disse: io ti conosco bene, per quanto ai fatto in Commissione Affari

Costituzionali, e ritengo tu debba – forse è più esatto dite tu possa – essere il Ministro dell’Interno. L’onorevole Scalfaro ne parlò con il Presidente Amato. Sono stato invitato dalla direzione del mio partito ad accogliere questa sollecitazione e fui nominato Ministro dell’Interno non perché dovessi attenuare l’offensiva, ma, mi si scusi la presunzione, per accrescere il contrasto nei confronti della mafia … … . .. Gava era già stato Ministro dell’Interno, aveva dovuto abbandonare per un incidente di percorso dal punto di vista della sua salute e si era perciò dimesso dalla carica …. … … mi sento offeso quando si parla di un Antonio Gava che doveva fare il capogruppo della DC, come poi avvenne ……. … Mai avrei accettato di fare il ministro perché un altro dovesse sostituirmi come capogruppo … .. , … Posso dire di avere partecipato ad una riunione dell’organismo esecutivo del mio partito e che nel corso della stessa si era parlato di un’ipotesi Mancino, qualora il dicastero dell’interno fosse toccato ad un rappresentante della Democrazia Cristiana. Comunque, me ne andai con il convincimento di dovere rifiutare perché Forlani, nell’ultimo periodo della sua segreteria, fu piuttosto intransigente sulle incompatibilità, peraltro non previste dalla Carta costituzionale, tra Ministro e parlamentare ………. Quindi non è stato solo il Capo dello Stato ad avanzare l’ipotesi della mia candidatura. Immagino che ne abbia parlato con Amato e con Forlani. lo so solo che nel momento in cui doveva recarsi dal Presidente della Repubblica, l’onorevole Amato mi disse: « ti sei deciso a fare il Ministro dell’Interno?» . Risposi che avevo deciso ma nutrivo ancora perplessità”.


La testimonianza del ministro Scotti  Vincenzo Scotti, Ministro dell’Interno dal 16 ottobre 1990 sino al 29 giugno 1992, è stato esaminato, in qualità di teste, nelle udienze del 29 maggio e 13 giugno 2014 allorché, in sintesi, ha riferito:

– di avere assunto, in particolare, la carica di Ministro dell ‘Interno il 16 ottobre 1990, mantenendo la in due diversi governi, entrambi sotto la presidenza Andreotti, nei quali, invece, la carica di Ministro della Giustizia era stata ricoperta prima da Giuliano Vassalli e poi da Claudio Martelli […];

– che in tale periodo, in piena sintonia col Ministro della Giustizia, ebbe ad adottare numerosi provvedimenti per contrastare le organizzazioni mafiose pur incontrando alcune difficoltà in sede di conversione parlamentare (“Quasi tutti, tutti i provvedimenti che abbiamo assunto nell’arco del novembre 90, che fu il primo Decreto Legge a lui partecipai, fino al Decreto Legge dell’8 giugno 92, furono presi sempre in sintonia con il Ministro di Grazia e Giustizia.

Il primo provvedimento fil il Decreto Legge preso con firma congiunta, mia e del Ministro della Giustizia. lo quando mi sono insediato, l’elaborazione era già avanzata, facemmo solo delle … Feci solo, proposi solo delle aggiunte a quel testo, soprattutto in materia di regime carcerario, che poi sono un po’ i precedenti del 41 bis dell’8 giugno 92. Noi … Quel decreto incontrò notevoli difficoltà di conversione e fu reiterato per ben sei volte con una prassi costituzionale abbastanza discutibile da questo punto di vista. Questo primo decreto e la discussione in Parlamento aiutò a impostare una serie di provvedimenti che sono tutti tra loro collegati, fanno parte di una unica, possiamo dire, strategia, non solo strategia, ma anche di segno normativo e questi provvedimenti furono elaborati dal Ministero degli Interni e dal Ministero di Giustizia con, evidentemente, delle preminenze per alcune materie del Ministero degli Interni, preminenza del Ministero di Giustizia per altre questioni. Per esempio per la istituzione della DIA, il decreto fu Ministro degli Interni, Ministro della Giustizia, il decreto della DNA fu invece Ministero di Giustizia, Ministero degli Interni. Il disegno riguardava da una parte una prima osservazione che veniva dal Maxi Processo di Palermo di Falcone, e anche prima della venuta di Falcone a Roma ci fu una discussione con il Giudice Falcone anche in relazione alla collaborazione che ci venne dal Procuratore Giuliani che aveva collaborato con Falcone ai tempi della istruttoria del Maxi Processo. La prima questione era lasciar cadere le istituzioni emergenziali e delle legislazioni straordinarie, ma affrontare le questioni attinenti alla istituzione investigativa, alla istituzione giudiziaria, nascevano dalla considerazione di Falcone … È noto, sia per quanto riguardava il problema della creazione di una autorità investigativa che mettesse insieme le diverse Forze di Polizia e avesse una visione complessiva del fenomeno mafioso, anche con riferimenti a livello internazionale e dei suoi collegamenti internazionali.

Dall’altra parte il problema giudiziario della creazione di una Procura specifica e un coordinamento e una lunga discussione che avvenne sul problema dell’avocazione possibile da parte della Direzione Nazionale Anti Mafia. Questo fu un primo blocco di provvedimenti che fu molto travagliato perché le opinioni erano profondamente diverse e si congiungevano, diciamo così, visioni garantiste da una parte, costituzionali, e altre invece visioni più particolari di non volere strutture anti mafia specifiche …. … . . .II secondo blocco è quello che riguarda la collaborazione dei pentiti, la Legge e il regolamento. Il regolamento fu steso sostanzialmente da Falcone in una Commissione presso il Ministero degli Interni in quel momento, che aveva come Presidente il sottosegretario Ruffino del Ministero degli Interni …. … … L’altro blocco di misure furono quelle relative al riciclaggio del denaro e alla confisca dei beni, due punti fermi di quella strategia …….. … L’ultimo blocco fu quello che venne adottato con un Governo dimissionario nel giugno, 1’8 giugno del 92. Il problema quale fu? C’era da una parte l’entrata in vigore del Codice di Procedura Penale che aveva creato notevoli problemi rispetto alla investigazione giudiziaria, all’intervento giudiziario per la mafia, c’erano problemi che riguardavano proprio lo svolgimento del processo, tutte norme che voi conoscete benissimo, quindi non ho bisogno di dire niente. E in quella occasione venne fuori il problema del raccordo tra mafia interna ed esterna dal carcere e venne fuori la formulazione del 41 bis”);

– che già nel 1990 si era intervenuti con una modifica della legge Gozzini che escludeva i detenuti per mafia dai benefici carcerari […];

– che in occasione della legge istitutiva della D.I.A. si manifestarono opinioni dissenzienti anche da parte di alcuni Corpi delle Forze dell’Ordine […];

– che il decreto sanciva, tra l’altro, l’obbligo di tutti i Corpi delle Forze dell’Ordine di informare la D.I.A. di quanto emerso nel corso delle rispettive investigazioni in tema di antimafia (“Questo era un presupposto la DIA per poter funzionare, per avere un quadro complessivo del funzionamento, diciamo così, della criminalità organizzata, si richiedeva che la DIA fosse messa in condizioni di avere conoscenza dei vari pezzi di investigazione esistenti sul territorio nazionale e quindi di notizie pervenute ai diversi Corpi, alle diverse responsabilità …… … La scelta dei vertici della DIA fu fatta anche con questo criterio di portare il Generale Tavormina dei Carabinieri e il Prefetto De Gennaro, rispettivamente Direttore e Vice, proprio per dare l’indicazione della necessità dell’unità e questa si basa sulla informazione, l’informazione è fondamentale”);

– che nel marzo 1992, in occasione di una audizione parlamentare, ebbe effettivamente a lanciare un allarme di un tentativo destabilizzazione in corso da parte delle organizzazioni mafiose, così come, in quegli stessi giorni, d’altra parte, aveva fatto riservatamente il Capo della Polizia con alcuni dispacci riservati trasmessi alle prefetture ed inopinatamente pubblicati sulla stampa

(” .. devo premettere una cosa per comprendere. Dalla fine dell’anno precedente, del 90, del 91, agli inizi del 92, c’è stata una intensificazione della reazione della mafia ai provvedimenti che venivano adottati dal Governo. […] i1 Capo della Polizia, in quella stessa occasione nella sua relazione, spiega questo collegamento e lui consegna al Parlamento, il 20 di marzo, una documentazione ampia di questi fatti. Noi sulla base di questi fatti, io riunii il Comitato dell’Ordine e della Sicurezza e i Servizi ed ebbi, e registrai in quelle occasioni le preoccupazioni. Qui non si tratta di prendere singolarmente i fatti, ma di mettere insieme dei fatti concreti, delle informazioni provenienti dalle Forze di Polizia e dai Servizi e attraverso una analisi di intelligence dare un quadro e indicare un significato e una direzione di quello che avveniva. Su questa base, con il capo della Polizia decidemmo di allertare Questori, Prefetti, nell’ambito delle rispettive responsabilità, e i Comitati locali, per una attenzione straordinaria. Eravamo nel pieno di una campagna elettorale … …. …. dentro questo clima noi facemmo e lo facemmo con forma segreta. Due giorni dopo, due – tre giorni dopo, il Corriere della Sera pubblica la notizia. Noi una cosa che volevamo rimanesse segreta e riservata e che fosse una direttiva di comportamento dei Prefetti e dei Questori, diventa improvvisamente un problema politico. Siamo con il Parlamento sciolto, immediatamente i Presidenti di Camera e Senato mi chiamano e mi dicono: ma che cosa c’è dietro tutto questo e perché?.. … . … E qui c’è l’intelligence che entra in gioco, se lei prende questi singoli pezzi di puzzle e li mette insieme, allora arriva ad avere un quadro di preoccupazione, non generica ma specifica. lo tre giorni prima del 20 marzo avevo parlato alla Commissione Anti Mafia … I1 17 marzo, tre giorni prima del 20 marzo, avevo parlato alla Commissione Anti Mafia sul delitto Lima e avevo chiesto alla Commissione Anti Mafia e alle Forze Politiche presenti rappresentate nella Commissione Anti Mafia, di rispondere a un interrogativo: quale era la scelta che essi volevano. Cioè una scelta di scontro e di scontro a 360 gradi con la criminalità organizzata, io parlai specificamente di guerra, nel senso anche tecnico del termine, non di guerriglia, ma di strategia di guerra, o volevano avere un atteggiamento di connivenza che avrebbe certamente consentito un clima diverso, più … meno violento, con meno quantità di violenza, ma avremmo avuto… Ci portavamo sulle spalle la responsabilità di una situazione che era di corrompimento della vita sociale, economica e politica ….. … …. lo dissi che la mia scelta era quella e l’ho ripetuto … … … Questa dello scontro frontale […] Certamente io mi sentivo, fin quando sono stato lì, di rappresentare il Governo e di esprimere una linea in questa direzione non smentita…. … … io ho detto che quelle decisioni dell’allarme, eccetera, furono decisioni assunte da me e dal Capo della Polizia, assumendoci la responsabilità di quello che facevamo, pronti a risponderne, è evidente, e ne rispondemmo in Parlamento, questa è la situazione. E poi se il Governo mi smentiva, quello può tranquillamente farlo, siamo in Democrazia, questa era la posizione del Ministro degli Interni, ma fin quando non era smentita dal Governo era la posizione, io l’ho considerata la posizione del Governo e della maggioranza in Parlamento”);

– che, tuttavia, in quegli stessi giorni si sovrappose la vicenda di una segnalazione specifica giunta dall’ A.G. di Bologna che riferiva di un allarme lanciato da un soggetto, prima non specificato, ma che poi si venne a sapere trattarsi di un noto depistatore, Elio Ciolini (“[…] Una comunicazione che mi aveva trasmesso il Capo della Polizia su un documento acquisito da un Magistrato a Bologna, documento nel quale si diceva che c’era … Si erano visti all’estero, che c’erano delle… Che ci sarebbero stati attentati, ci sarebbero state azioni, eccetera, eccetera. Siamo prima di Capaci, cioè prima di quella fase lì, cioè siamo in quei giorni. E con il Capo della Polizia guardiamo al documento e gli dico: va bè, qui ci sono del cose che possono essere vere e delle cose fatte per depistare, sta a voi capire un minuto che cosa c’è dentro e che cosa è … Va presa sul serio, su cosa, come va invece scartata come depistaggio. Mentre la mattina, di giorno sono per andare al Parlamento, una agenzia di stampa viene fuori con il nome, si trattava di Ciolini, noto depistatore di processi passati […]. Alla Commissione dei Servizi di cui sono andato dopo il 20 di marzo, due giorni dopo sono andato anche alla Commissione dei Servizi presieduta allora, in quel momento, dall’Onorevole Gitti, sono andato e abbiamo riferito con il Capo della Polizia, con qualche maggiore dettaglio, l’informativa che avevamo dato alla Camera e al senato …. … …. anche il Comitato dei Servizi riteneva che c’erano degli elementi che spingevano a richiamare l’attenzione e a stringere non solo le istituzioni, ma anche l’opinione pubblica sul quadro in cui siamo. Quello che è risultato i mesi successivi, giudichiamoli come vogliamo, sono lì a dichiarare che qualcosa in fondo … “), così che lo stesso Presidente del Consiglio ebbe a ridimensionare quell’allarme fondato su segnali diversi da quelli provenienti dal Ciolini […], tanto che egli ritenne necessario a quel punto informare personalmente anche il presidente del Consiglio […];

– di ritenere che tutti i possibili obiettivi della strategia mafiosa, quali il Presidente del Consiglio Andreotti e i Ministri Mannino e Vizzini, furono allertati (“Sono convinto di sì, ho trovato un ritaglio di stampa che è dalla rassegna stampa ufficiale del Ministero degli Interni in cui qui parla … “Scotti respinge, il Ministro Mannino si tenga la scorta. No, il Ministro non potrà fare a meno della scorta, la richiesta di revoca dei Servizi di Protezione, avanzata dal Ministro Calogero Mannino, è stata ritenuta inaccettabile da parte del Ministero dell’Interno. Lo ha reso noto un comunicato dello stesso Ministero nel quale si informa inoltre che l’Onorevole Mannino è stato invitato ad accettare ulteriormente le misure di sicurezza disposte nei suoi riguardi. La notizia, la richiesta di rinuncia da parte del Ministro Mannino, dal servizio di scorta era stata comunicata venerdì dai rappresentanti di Sindacati di Polizia durante una conferenza stampa che si è svolta a Palermo per sottolineare i problemi inerenti alla carenza di mezzi e uomini nella lotta alla criminalità organizzata e in particolare … ” …… … Questa porta la data 1 giugno 1992 … … … La Gazzetta del Mezzogiorno”);

– che il Dott. Falcone, invece, ebbe ad esprimergli solidarietà, avendo condiviso l’opportunità di lanciare quell’allarme e la strategia del Ministro di contrasto duro alla mafia (“Sì, devo dire che il dottor Falcone … Anche qui ci sono le tracce, non sono un ricordo mio di oggi, no? Ho ritrovato anche sulla stampa le tracce su questo, Falcone mi espresse tutta la solidarietà e tutta la partecipazione dicendo che era giusto, che avevo ragione, che avevamo ragione in quella circostanza …. … … Del lanciare … …. …. la mia comunicazione allaCommissione Anti Mafia del 17 marzo, io prima di farla sui contenuti, mi consultai con Falcone e lui fil, diciamo così, condivise quella impostazione e mi disse: benissimo, lo faccia … …… Sì. lo gli lessi, gli feci leggere un minuto il testo che avevo preparato per la Commissione Anti Mafia perché doveroso mio avere un consenso su quello. Lui conosceva meglio di qualsiasi altro la situazione a Palermo e mi poteva consigliare se stavo dicendo delle cose del tutto fuori dalla realtà effettiva e quindi io… Fu mia preoccupazione, mio dovere, ritenni farlo”);

– che la decisione di introdurre il regime del cosiddetto 41 bis nacque dopo la strage di Capaci (” .. Il 41 bis nasce dopo e nasce su una convergenza rapida con Martelli sulla necessità di dare non un segnale, come si suoi dire, ma di dare un provvedimento in grado di poter interrompere il rapporto della mafia che sta nei carceri e quella che sta fuori …. … Nasce subito dopo Capaci, dove …

[…] In concreto, perché le opinioni uno le può tenere, ma quando sono andato dal Presidente del Consiglio e gli ho chiesto: qui c’è un Governo dimissionario, il Capo dello Stato, siamo all’8 di giugno, sta facendo le consultazioni per la formazione del Governo, cosa facciamo? Rimettiamo al nuovo Governo queste carte e poi il nuovo Governo deciderà che cosa fare sulla base della linea che adotta, o decidiamo noi? lo insieme a Martelli ti proponiamo di decidere noi. Andreotti mi dice: ma tu lo ritieni veramente … Lo ritengo urgente perché se lasciamo passare i giorni e dire non lo facciamo perché c’è la crisi di Governo, nei confronti della mafia noi mostriamo momenti di incertezza o di debolezza. Queste sono le cose … Le risposte vanno fatto anche quando c’è difficoltà a farle, come l’essere in una crisi, in un Governo di ordinaria amministrazione. Andreotti mi pregò, allora dice: sarà opportuno che tu vada un minuto dal Capo dello Stato insieme a Martelli e gli spiegate un istante perché questo, perché è lui che deve firmare in questo momento, poi lui deve firmare il Decreto e trasmetterlo alle Camere …. … … ed ebbi la risposta che il Capo dello Stato avrebbe firmato il decreto, anche non avendo visto ancora i contenuti … . .. … sembrò che fosse essenziale fare il decreto, cioè dico che non dovessimo cedere perché sennò le cose dette in Parlamento potevano apparire dichiarazioni di indirizzo futuro …. … … La stesura del decreto legge fu frutto del lavoro congiunto dei due uffici legislativi, questa volta ci furono più riunioni con la partecipazione anche dei Ministri, data anche la delicatezza della materia … … … Il 41 bis nacque in discussione su diversi strumenti da poter mettere in campo, alla fine si convenne che forse quello che poteva avere più rilievo era proprio l’introduzione di un regime carcerario capace di influenzare quello che … Di cambiare quello che spesso si diceva essere una prassi di collegamento dell’esterno del carcere con l’interno del carcere”);

– che anche il decreto legge dell’8 giugno 1992 suscitò reazioni negative sia da parte degli avvocati, sia da parte del mondo politico nell’ambito del quale soprattutto si discuteva dell’opportunità di affrontare subito il passaggio parlamentare, come egli, d’intesa con Martelli, richiedeva, anziché attendere la formazione del nuovo governo (”Noi siamo al 9 giugno, la formazione del

Governo è in corso, il Capo dello Stato sta svolgendo le consultazioni, il Governo si formerà il 28 o 29 giugno …. … … Noi credo che nel giro di pochi giorni mandammo in Parlamento, il capo dello Stato firmò rapidamente, il decreto fil trasmesso alla Camera. (PAROLA INCOMPRENSIBILE) le reazioni soprattutto l’inizio fu le reazioni sulla prima parte, gli Avvocati, le Camere Penali, cioè dico così, presero, misero in discussione quella parte, oltre tutto sollevando il problema di avere stravolto in un certo senso la normativa del Codice di Procedura Penale Vassalli. A livello politico sì, noi chiedemmo di iniziare la discussione perché ci fu una discussione sulla … Dice il decreto è stato approvato, il decreto è vigente, lasciamo che il Governo si insedi, che la maggioranza si formi in Parlamento, facciamo esaminare dalla nuova maggioranza che si forma, il nuovo Presidente, i nuovi Ministri di poter entrare nel merito. Io d’intesa con Martelli sostenemmo invece no, l’utilità è che si iniziasse in un certo senso la discussione, cioè che il Parlamento desse un segnale di attenzione alla proposta. Si aprì a discussione innanzitutto sulla costituzionalità, lo stesso Onorevole Salvi al Senato mostrò in Commissione, diciamo così, un giudizio di grande dubbio sulla costituzionalità di alcune norme. Non specificò, nelle dichiarazioni che ho letto, mai quali fossero in particolare le norme a cui lui si riferiva. La discussione sul 41 bis fu in questa fase iniziale tenuta molto sotto traccia, non ci furono molti a scoprirsi nel dare un giudizio sul 41 bis, cioè … Anche perché non c’era stato … Il41 bis arrivò alla Camera, al Senato, arrivò tra gli esperti, tra gli operatori del Diritto improvviso, non erano quelle questioni sa cui comunque c’era stata una certa discussione, no? .. …… il 41 bis fu un po’ un fulmine a ciel sereno, cioè dico, perché non era tra le previsioni … … … Questo provvedimento arrivò così, quindi non ci fu, nella fase iniziale, una reazione scoperta. Ci fu poi… Le interpretazioni non stanno a me darle, ma ci fu una tendenza a non entrare nel merito, a lasciare che la cosa andasse al successivo Governo”);

– che egli ebbe subito la percezione che, in sede parlamentare, sarebbero stati apportati profondi cambiamenti a quel decreto (“Il provvedimento sarebbe stato oggetto di interventi molto decisi di cambiamento, eravamo convinti che la discussione parlamentare, come si era annunciata, non sarebbe stata né facile, né avrebbe portato ad una approvazione del testo che era stato introdotto dal Governo, quindi avevamo la sensazione della difficoltà enorme del passaggio parlamentare, non c’erano dubbi su questo […]);

– che in quei mesi percepì ripetuti segnali di isolamento all’interno del Partito […];

– che anche l’On. Andò, poi divenuto Ministro della Difesa nel nuovo Governo, aveva manifestato perplessità generali sul decreto legge dell’8 giugno 1992 (”Sul 41 bis no, sul decreto nel suo insieme sì, cioè anche lui aveva preoccupazioni di costituzionalità, lo ha scritto, lo ha detto, quindi non è una cosa diciamo così che … Uno scambio di battute in un corridoio, cioè è stata una sua indicazione legittima, io … Lui riteneva, come altri ritenevano che ci fossero dei profili di incostituzionalità”);

– che egli ebbe in un certo senso a sfogarsi in una intervista al giornalista D’Avanzo pubblicata il 21 giugno 1992 sul quotidiano “La Repubblica” […];

– di non avere mai avuto notizia dei contatti intrapresi dal R.O.S. con Vito Ciancimino […];

– che nel nuovo governo varato il 29 giugno 1992 gli venne affidato, non più il Ministero dell’Interno, ma il Ministero degli Esteri […];

– che, pertanto, egli presentò immediatamente al Presidente del Consiglio una lettera di dimissioni, ma, tuttavia, poi accettò la richiesta di quest’ultimo di soprassedere per far fronte ad alcuni imminenti appuntamenti di politica internazionale […];

– che alla fine di luglio 1992 il Presidente del Consiglio improvvisamente lo informò che il Presidente della Repubblica lo aveva invitato ad accogliere le sue dimissioni […];

– che soltanto dopo la firma del decreto di accettazione delle dimissione aveva avuto occasione di avere uno scambio di opinioni col Presidente della Repubblica […];

– che dopo la strage di Capaci egli aveva individuato nel Dott. Borsellino la persona più adatta per ricoprire il ruolo di Procuratore Nazionale Antimafia come ebbe a manifestare allo stesso Dott. Borsellino personalmente in occasione di un incontro alla presenza anche dell’On. Martelli (“lo ritenni che la persona più indicata per dare anche un segno di continuità, io mi preoccupai di continuità in una azione anti mafia, fosse quella della nomina di Borsellino e ci trovammo alla presentazione del libro di Arlacchi a Roma alla Libreria Mondadori, alla Casa Mondadori, quella che sta a Via Veneto, sopra, gli uffici diciamo, non la libreria, e c’era Arlacchi, Martelli, io, Borsellino e il Capo della Polizia. […] Dopo pochi giorni mi mandò una lettera riservata dicendo: lascio a lei la responsabilità di pubblicarla o meno. Dopo che le cose un po’ erano andate avanti, io pubblicai la lettera di Borsellino. Quello che mi colpì nella lettera di Borsellino fu l’estrema umanità e umiltà della persona, il suo dirsi, rispetto a Falcone … Tutte le … Ma altra fine dice: io, il mio posto è a Palermo, ho delle cose da fare. Adesso la dizione non la … … … Non era ancora formato il Governo, eravamo sulla seconda… Verso il 15 – 20 giugno del 92, 20 giugno così, cioè eravamo … … … E questa era la parte finale della lettera, quello che .. . … … “Per quanto per me attiene, le supposte riflessioni cui si accompagnano le affettuose insistenze di molti dei componenti del mio ufficio, mi inducono a continuare a Palermo la mia opera appena iniziata in una Procura della Repubblica che sicuramente è quella più direttamente e aspramente impegnata nelle indagini sulla criminalità organizzata”. Questa era la conclusione della lettera, ma la lettera … “);

– che il passaggio delle consegne con il Ministro Mancino avvenne in modo rapido e pubblico e senza alcuna occasione di colloquio privato […];

– che, poi, la conversione in legge del decreto dell’8 giugno fu accelerata dalla strage di via D’Amelio […];

– che alla base dell’ allarme lanciato nel marzo 1992 vi erano stati anche alcuni episodi relativi a strane intrusioni in uffici e case riferibili al Ministro dell’Interno stesso […];

– che, per quanto si era saputo, l’avvicendamento al Ministero della Giustizia tra l’On. Martelli ed il Prof. Conso, invece, era scaturito da vicende interne al Partito Socialista […].

In sede di contro esame da parte dei difensori degli imputati, quindi, Vincenzo Scotti, ancora in sintesi, ha aggiunto:

– di avere appreso soltanto dalla lettura della lista dei ministri della nomina

dell’Ono Mancino quale ministro dell’Interno […];

– che nel settembre del 1992 organizzò una riunione presso la propria abitazione con il nuovo segretario della Democrazia Cristiana Martinazzoli, il Capo della Polizia Parisi ed il Capo di Stato Maggiore dei Carabinieri Pisani per sensibilizzare il primo sulle questioni che già da tempo lo avevano indotto a lanciare segnali di allarme […];

– di non avere avuto nel ruolo di Ministro dell’Interno alcun contrasto con il capogruppo al Senato Mancino […] e di non avere mai espresso giudizi su coloro che guidavano i vari Corpi delle Forze dell’Ordine […];

– che le prime notizie riguardo al rischio di attentati gli furono date dal Capo della Polizia tra i mesi di ottobre e novembre 1991 (“Sì, intorno a quella data quelle che sono state riferite a me. l tempi sono stati acquisiti dal Capo della Polizia, il Capo della Polizia disse a Camera e Senato nella Commissione che era da tempo che pervenivano segnali di questo tipo”) e che la segnalazione che poi fece nel marzo 1992 non era usuale […];

– di avere chiesto al Capo della Polizia di informare del pericolo anche coloro che erano stati indicati nominativamente quali destinatari delle minacce […];

– di non avere informato, prima di diramare l’allarme, né il Ministro della Giustizia, né il Presidente del Consiglio […];

– che anche nel dibattito politico di quel periodo si contrapponevano due diverse idee di contrasto alla criminalità mafiosa (“Erano sempre, io l’ho detto allora, lo ripeto adesso, sempre che in questo paese nella lotta alla mafia ci sono stati sempre due grandi filoni, uno tendente a ridurre la mafia entro confini controllati in uno scambio di istituzioni e dall’altra parte invece la tesi di una necessità di fare una azione tra virgolette di guerra nei confronti della mafia, queste sono dentro e si sono alternate spesso, ma queste sono le due faccende. […]);

– che tra il Presidente della Repubblica Scalfaro e il Capo della Polizia Parisi vi erano rapporti che trascendevano i ruoli istituzionali […];

– che l’allarme lanciato comprendeva anche segnali azioni concernenti la Falange Armata […] e che della Falange Armata ebbe a parlargli anche l’Ambasciatore Fulci […];

– di non essere stato mai informato di incontri personali avvenuti tra 1’0n.

Mannino, il Gen. Subranni e il Dott. Contrada […];

– di non avere mai ricevuto al Ministero dell’Interno il Dott. Contrada (“lo non ho mai ricevuto il dottor Contrada, né lui aveva accesso al secondo piano, al Gabinetto e al Ministro. Poi il problema, il Viminale è anche un porto di mare, quindi non posso dirgli quali frequentazioni … “).


Lillo Mannino al bar: “Ci fottono tutti”  Infine, deve darsi conto delle risultanze probatorie acquisite in ordine ad un più recente incontro (nel dicembre 2011) tra Calogero Mannino e Giuseppe Gargani e del contenuto del relativo colloquio riferito dalla teste Sandra Amurri, che, ancora secondo la Pubblica Accusa, costituirebbe un riscontro alla falsità delle giustificazioni fornite da molti testi allorché sono stati esaminati sulle ragioni dell’avvicendamento del Ministro dell’Interno Scotti (v. ancora trascrizione della requisitoria del P.M. all’udienza dell’11 gennaio 2018). […] Sandra Amurri, giornalista de “II Fatto Quotidiano”, esaminata all’udienza del 9 gennaio 2014, […] ha, innanzi tutto, dettagliatamente raccontato quanto accaduto il giorno 21 dicembre 2011 allorché ebbe ad ascoltare occasionai mente una conversazione svoltasi nei pressi del bar Giolitti di Roma tra 1’On. Mannino ed un altro personaggio successivamente riconosciuto nell’On. Gargani (“Allora, il 21 dicembre io avevo … Era uscito un po’ fuori questo scandalo della compra volta dei Senatori, no? Se ricordate erano un po’ quegli gli anni, e quindi io avevo appuntamento con l’Onorevole Aldo Di Biagio per, insomma, così, per farmi un po’ raccontare se era stato contattato, da chi, come, cosa gli avevano offerto. Ed era una giornata molto fredda a Roma, freddissima direi. Sono arrivata … Avevamo appuntamento al Bar Giolitti, […]. Quando stavo bevendo questo cappuccino, ho alzato lo sguardo e ho visto arrivare da Piazza del Parlamento, diciamo, verso il Pantheon, direzione quella lì, l’Onorevole Mannino e un altro signore che io non ho riconosciuto. Ovviamente l’Onorevole Mannino, insomma, è un personaggio di grande… Come dire, chi non può conoscerlo? Né tanto meno io insomma, occupandomi di queste cose. I due sono entrati dentro al bar, sono entrati dentro al bar e sono usciti immediatamente perché, ripeto, il bar era molto affollato e si sono messi in piedi fisicamente. Allora, io ero seduta così, con le spalle metà al bar, diciamo, al muro del bar, e con lo sguardo rivolto verso Piazza del Parlamento. E l’Onorevole Mannino mi dava le spalle, ma a questa distanza, cioè, immagini qui, e di fronte … pochi centimetri proprio, e non mi hanno vista, cioè diciamo… O meglio, probabilmente hanno visto questa persona così, insomma, tutta incappucciata, con la sciarpa, il cappello, e hanno iniziato a parlare e inizialmente, non conoscendo l’altra persona, non aveva attirato la mia attenzione la loro conversazione. La mia attenzione invece è stata, come dire, attratta dal fatto, quando ho iniziato ad ascoltare le prime cose che si dicevano. O meglio, che l’Onorevole Mannino diceva all’altro signore, fino a quel momento per me un estraneo. E l’Onorevole Mannino, con tono molto concitato e preoccupato, diceva: no, tu glielo devi dire, tu adesso che vai giù glielo devi dire a De Mita, glielo devi dire, hai capito? Lui è stato chiamato, è stato chiamato e lui deve dire, deve confermare la nostra versione, perché questa volta ci fottono. E io non riuscivo a capire, cioè, De Mita, cioè proprio non riuscivo, come dire, a collocare. E Gargani diceva: sì, sì, non ti preoccupare. Con la testa bassa diceva: sì, sì, sì, sì, non ti preoccupare.

Gargani, ovviamente, che ho scoperto dopo. … E l’Onorevole Mannino continuava a ripetere, proprio come un ritornello, perché questa volta hanno capito tutto a Palermo e questa volta ci fottono. lo, come ho ascoltato Palermo, bè, lì ho iniziato e ho pensato: Oddio, ma adesso potrei registrarlo. Ma no, se mi muovo, lì ho pensato, poi si accorgono di me e quindi non debbo muovermi, e sono rimasta lì ferma e scrivevo, così, alcuni appunti, perché avevo timore … E ad un certo punto l’Onorevole Mannino dice: perché – scusate il termine, ma lo debbo riferire testualmente – quel cretino di Ciancimino figlio di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità. Perché tu lo sai, no? Il padre, il padre di noi, insomma, sapeva tutto. A quel punto, cioè, io continuavo a non capire chi fosse l’altro e poi perché Mannino fosse così interessato. Non sapendo io che fosse indagato, no? Per, appunto, per il processo sulla Trattativa e non conoscendo l’altro, dico: ma perché tutto questo interesse, De Mita, da dove esce fuori? E come dire, mi si accavallavano tutti questi pensieri e cercavo di ascoltare con attenzione e il mio timore era quello di non riuscire a fotografare l’altra persona per riuscire a mettere insieme. . .. E a quel punto

Mannino dice: comunque tu … Sì, lo so che hai capito, ma io te lo ripeto, tu devi dire a De Mita che deve assolutamente dire le stesse cose nostre, assolutamente, assolutamente. E lui continuava a fare: sì, sì, ho capito. A quel punto, a quel che solo allora dice qualcosa all’orecchio alla persona, all’onorevole Gargani, e l’altro fa una espressione, insomma, meravigliata, sorpresa, non so come dire, e i due si fanno gli auguri di buon Natale e si salutano. […]”).

La teste, poi, ha aggiunto che l’appuntamento con l’On. Di Biagio era stato fissato tramite utenza cellulare e che […] il colloquio tra il Mannino e l’altro interlocutore era durato all’incirca venti minuti, pur con qualche incertezza nel quantificare tale durata in ragione del coinvolgimento emotivo e del turbamento causatole dall’occasionale ascolto di tale conversazione, turbamento, peraltro, immediatamente avvertito, al momento del suo arrivo al bar Giolitti, anche dall’On. Di Biagio […].

[…] La teste Amurri, ancora, ha aggiunto di non avere precedentemente mal conosciuto di persona l’On. Mannino, col quale, infatti, in passato, aveva avuto soltanto alcune conversazioni telefoniche per concordare una intervista in relazione al tentato omicidio dell’Ispettore Calogero Germanà, intervista che, però, poi non era stata più fatta, […] ed ha ribadito che, a suo parere, ad un certo punto, il Mannino si era accorto della sua presenza ed aveva sussurrato, quindi, qualche parola all’orecchio del suo interlocutore, salutandolo ed allontanandosi subito dopo […].

La teste, quindi, era corsa dietro l’interlocutore del Mannino, scattando alcune fotografie (mostrate dal P.M. alla teste medesima e da queste riconosciute) in prossimità dell’Hotel Nazionale con l’intento di identificarlo […], ancor prima di farle esaminare alla sede del giornale, inviandole al Dott. Ingroia, che conosceva da lungo tempo, ignorando, però, che il telefono di questi non fosse abilitato a riceverle […] .

Tornata, nel frattempo, al bar Giolitti per pagare il cappuccino, la giornalista era stata raggiunta dall’On. Di Biagio, che, come detto prima, si era accorto del suo stato d’animo, al quale aveva raccontato succintamente quanto accaduto senza riferire il contenuto della conversazione e senza mostrare le fotografie […], che, poi, invece, recatasi alla sede del giornale, aveva mostrato prima inutilmente al Direttore […] e poi al collega Travaglio che, quindi, aveva riconosciuto l’On. Gargani […]. La Amurri, poi, ha raccontato che, a quel punto, il collega Travaglio aveva ipotizzato che il Mannino potesse essersi riferito al processo della c.d.”trattativa”, ma che, poiché non si aveva notizia né che il Mannino fosse indagato, né della citazione dell ‘Ono De Mita, fosse necessario, prima di pubblicarla, approfondire la notizia per mettere il giornale al riparo da una eventuale querela, cosa che, però, la Amurri aveva rinviato essendo in procinto di partire per Taranto per visitare la madre che versava in precarie condizioni di salute […].

A causa di ciò, la Amurri, secondo quanto ancora riferito da questa, non si era più occupata della questione sino a quando, nel gennaio 2012, una agenzia di stampa aveva dato notizia dello status di indagato dell’On. Mannino nel processo c.d. “Trattativa” ed, a quel punto, la teste medesima, aveva contattato il Travaglio, che si trovava a Torino, ed aveva cominciato a lavorare sulla notizia […].

La teste ha riferito, quindi, di avere successivamente contattato telefonicamente il Dott. Di Matteo raccontandogli l’accadimento e questi, in attesa di una formale verbalizzazione, le aveva chiesto di inviargli appena possibile una mail con il racconto per iscritto […], cosa che ella aveva fatto pur informando il medesimo Dott. Di Matteo che avrebbe comunque pubblicato la notizia […].

Poco dopo, la Amurri era stata contattata da un ufficiale della DIA che le aveva rappresentato l’opportunità di procedere a Taranto ad una verbalizzazione con il Dott. Ingroia che si sarebbe trovato lì per la presentazione di un libro […], dal momento che, per le condizioni di salute della madre, ella sino a quel momento non si era più allontanata da Taranto […].

La teste, inoltre, ha riferito di avere parlato del colloquio ascoltato il 21 dicembre 2011 anche con il Commissario Rino Germanà, che conosceva dal tempo del tentativo di omicidio da questi subito nel 1992, sia con il Dott. Grasso, allora Procuratore Nazionale Antimafia, il quale le aveva consigliato di verbalizzare tutto quanto […].

3.3.3 LA TESTIMONIANZA DI GIUSEPPE GARGANI   Del teste Giuseppe Gargani sono state già riportate sopra (v. paragrafo 3.1.5) le dichiarazioni testimoniali rese in ordine a quanto di sua conoscenza sull’avvicendamento del Ministro dell’Interno Scotti con Nicola Mancino. Ma la seconda parte del predetto esame testimoniale condotto dal P.M. Ha riguardato, invece, l’episodio dell’incontro del Gargani con l’On. Mannino in cui si discusse della convocazione dell’On.De Mita da parte della Procura di Palermo per essere sentito nel corso delle indagini che hanno dato luogo al presente processo e di cui, pertanto, deve darsi qui conto.

In proposito, il teste ha, innanzitutto, riferito che fu Mannino […] ad informarlo della convocazione di De Mita, dicendogli di essere contento perché De Mita conosceva tutta la storia della Democrazia Cristiana […], che quell’incontro avvenne nei pressi del bar Giolitti di Roma […] e di non ricordare se Mannino gli chiese di parlarne a De Mita, pur confermando, poi, sul punto, quanto dichiarato al P.M. nel corso delle indagini preliminari (“[…] P. M DI MATTEO : – Senta, lei quando è stato sentito ha detto cosa diversa su questo punto …. … … Pagina 4 intanto, Pubblico Ministero che aveva già diciamo contestato altre risultanze: a noi risulta che Mannino in quella circostanza, tra l’altro manifestando una forte preoccupazione, le ha detto: stavolta i Magistrati di Palermo hanno capito tutto, devi dire a De Mita che dobbiamo dare tutti la stessa versione perché stavolta ci fottono, ci incastrano. Gargani: assolutamente no, né allora e né altrove, si raccomandava, si raccomandava che De Mita ricordasse tutto, perché De Mita era in condizione di chiarire. L’ha incaricata di contattare l’Onorevole De Mita? Che è la stessa domanda che le ho fatto poc’anzi io, a cui lei mi ha detto assolutamente no. E lei ha risposto: sì, dice, parlagliene, ricordagli, questo sì, di contattarlo. Poi nel senso che De Mita, quando io poi lo contattai, eccetera, eccetera; DICH.

GARGANI : – lo non ho difficoltà a dire, Presidente, però che se ho dichiarato quello può darsi che Mannino mi abbia detto avverti… … . … No, avverti, forse mi disse come io ho detto lì, avverti De Mita, ma lo saprà già perché probabilmente ha detto così. De Mita infatti lo sapeva …. … … Ma quello sacrosanto che io ricordo è che lui disse non di parlare con De Mita per qualcosa, siccome De Mita ricorda tutto, digli che ricordasse tutto fino infondo. Ecco lui, come dire, faceva una invocazione a me … … … Siccome si fidava di tutti i ricordi di De Mita, probabilmente anche senza avere (PAROLA INCOMPRENSIBILE) rispetto agli altri, perché De Mita ha vissuto intensamente la storia della Democrazia Cristiana, conosceva le cose che ha fatto Mannino, come dire, era contento che De Mita … Ecco, se posso dire quale era l’espressione anche visiva, ricordo che era contento perché De Mita chiarirà tutto, quindi i ricordi di De Mita siano chiarissimi per poter fare una deposizione al Pubblico Ministero adeguata. […] Le so bene le cose di Mannino, del processo precedente, quindi non è che mi sfuggiva, però quali fossero le cose in particolare la sua opposizione all’interno della Democrazia Cristiana era la lotta alla mafia, quello che aveva fatto … … … Disse che Ciancimino continuava a dire menzogne e si meravigliava come la Magistratura in qualche modo … … …. Ciancimino figlio, certo … …… è stato sempre un menzognero e continua ad essere menzognero e si meravigliava che la Magistratura in qualche modo … … …. non c’è stato l’oggetto in quella riunione, in quella discussione che è durata tre o quattro minuti, perché poi ci siamo fatti gli auguri per Natale, […] Me lo ricordo perché poi nei ricordi che il dottore Di Matteo mi ha suscitato nel colloquio, in quanto stavamo sotto un cornicione, è durato tre o quattro minuti e lui diceva delle cose, io pensavo le solite cose di cui si parla da quindici anni, che riguardavano le questioni di Ciancimino. Ciancimino continua… E io siccome avevo fretta e non avevo, non ho approfondito, non ho chiesto perché e non so neppure De Mita che cosa doveva dire fino in fondo”).

Gargani ha raccontato di essersi, poi, effettivamente incontrato con De Mita, il quale gli aveva, però, soltanto confermato di essere stato convocato dalla A.G. […].

Il teste ha anche confermato che Mannino ebbe ad usare un’espressione che manifestava preoccupazione per l’azione della magistratura (“P. M DI MATTEO : – Senta. una cosa. le ho già chiesto del colloquio con l’Onorevole Mannino. L’Onorevole Mannino ha utilizzato in qualche modo il termine ci vogliono fregare. ci vogliono fottere? Qualcosa del genere?; DICH. GARGANI: – Sì. credo fottere no. ma insomma non l’ha detto solo in quell’occasione ma l’ha ripetuto, io questo credo di averglielo detto anche allora.; P. M DI MATTEO: – In quella occasione lo utilizzò questo termine?; DICH. GARGANI: – Sì. sì. in quell’occasione. non che ci fregano. che c’è la volontà di … Perché credono niente di meno. credono a Ciancimino. questo era il senso del pensiero di Mannino; P. M DI MATTEO: – Utilizzò l’espressione. in quella circostanza, ci vogliono fottere, ci stanno fottendo, qualcosa del genere?; DICH. GARGANI : – Le sto dicendo credo no, la parola no, ci vogliono fregare forse, insomma, non è una cosa che usa frequentemente.; […] DICH. GARGANI : – O fregare o fottere, adesso io non … …. …. Sì, sì, una delle due, credo più la prima, quella meno, meno efficace”), aggiungendo di non sapere perché Mannino non aveva contattato direttamente De Mita […] e di non ricordare, comunque, se poi egli riferì al Mannino l’esito del colloquio con De Mita […]. Su specifica domanda del P.M., Gargani ha negato di avere parlato con De Mita dopo avere ricevuto la citazione per essere esaminato in questo processo […].

Successivamente, sollecitato delle difese degli imputati, Gargani ha ribadito che l’On. Mannino non gli disse mai che Ciancimino aveva detto la verità su di loro […] e che il Dott. Falcone in più occasioni gli aveva detto che l’On. Mannino lo aveva aiutato per far celebrare il c.d. Maxiprocesso (” ..Falcone mi ha ripetuto più di una volta che se doveva ringraziare un politico che l’ha aiutato a fare il Maxi Processo, che tutti sanno era contestato, era una novità anche sul piano organizzativo, oltre che sul piano sistematico, e che Mannino lo aveva fortemente aiutato, questo me l’ha detto almeno due o tre volte”).

[…] Le difese degli imputati hanno fortemente contestato l’attendibilità della testimonianza di Sandra Amurri ed appare necessario, pertanto, svolgere, in proposito, alcune considerazioni.

Orbene, la Corte, contrariamente all’assunto delle dette difese di taluni degli imputati, ritiene che non siano ravvisabili elementi che possano inficiare l’attendibilità della suddetta deposizione della teste Sandra Amurri, tanto più che, anzi, come si vedrà, sono stati acquisiti in proposito riscontri di assoluto rilievo.

[…] Le dichiarazioni della teste Amurri, d’altra parte, trovano già un primo riscontro, da un lato, nel fatto che effettivamente soltanto appena tre giorni prima (il 18 dicembre 2011) era stata notificata all’On. De Mita la citazione per essere sentito il successivo 12 gennaio 2012, e, dall’altro, nella deposizione dell’On. Di Biagio (v. sopra paragrafo 3.3.2), il quale, all’udienza del 9 gennaio 2014, ha confermato, infatti, lo stato di estrema agitazione in cui ebbe trovare la Amurri e che quest’ultima ebbe subito a raccontargli, pur senza entrare in dettagli, di quell’incontro cui poco prima aveva assistito e che l’aveva sconvolta.

Tale ultimo riscontro, per la “neutralità” e il disinteresse del teste Di Biagio, appare particolarmente rilevante e non sembra possa essere inficiato soltanto per le secondarie discordanze sul prosieguo dell’incontro […], restando, comunque, il fatto che non si comprenderebbe, altrimenti, perché, in assenza del colloquio oggi riferito dalla Amurri, quest’ultima avrebbe dovuto manifestare quella agitazione così chiaramente percepita dal Di Biagio.

In tale contesto, inoltre, la deposizione della Amurri non sembra possa essere inficiata neppure dal ritardo con la quale la stessa ebbe a riferire il fatto al Pubblico Ministero di Palermo.

A prescindere dalle vicende personali riferite dalla teste che la costrinsero a trattenersi in Taranto nei mesi successivi, infatti, una volta accertato che la Amurri non disponeva al 21 dicembre 2011 di elementi sufficienti per ricondurre con certezza il dialogo ascoltato ad una vicenda giudiziaria specifica (e, quindi, all’indagine sulla “trattativa Stato-mafia”), si inserisce in modo assolutamente coerente con lo sviluppo dei fatti il contatto intrapreso dalla Amurri medesima con il P.M. Di Matteo soltanto alla fine del mese di febbraio ed, in particolare, con la e-mail inviata, dopo un primo accordo telefonico, in data 24 febbraio 2012 (v. documento acquisito all’udienza del 9 gennaio 2012).

[…] Ma, a fugare ogni dubbio sull’attendibilità della testimonianza dell’Amurri sono poi sopravvenute le dichiarazioni del teste Gargani, il quale, seppure abbia negato che Mannino ebbe a pronunziare il giudizio sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino riportato dalla Amurri […], però, ha dovuto sostanzialmente confermare, per il resto, tanto l’incontro con il Mannino nelle circostanze di tempo e di luogo indicate dall’ Amurri, quanto, soprattutto, l’oggetto della conversazione concernente la citazione di Ciriaco De Mita e la richiesta del Mannino di contattare quest’ultimo, cosa che Gargani ha altresì ammesso di avere effettivamente fatto […], nonché sostanzialmente il motivo della preoccupazione del Mannino (diverso da quello sostenuto dalla difesa di Subranni e Mori in sede di discussione all’udienza del 9 marzo 2018) relativo alle dichiarazioni di Scotti sulla sua sostituzione con Mancino […] e persino le parole usate dal Mannino medesimo per definire l’azione dei Pubblici Ministeri di Palermo […] ed il riferimento a Ciancimino […].

Non solo, ma il Gargani ha anche ammesso di essersi, poi, effettivamente incontrato con De Mita e di avere parlato con lui della convocazione dei magistrati di Palermo […], seppur asserendo, però, di non ricordare se successivamente a tale incontro aveva ancora parlato con Mannino.

[…] La “non conferma” da parte del teste Gargani di quell’unico tratto della conversazione col Mannino concernente il giudizio sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino (peraltro del tutto irrilevante in questa sede) va ricondotta, dunque, proprio al contesto in cui è maturato l’intendimento del medesimo Mannino di influenzare in qualche modo le dichiarazioni che a breve Ciriaco De Mita avrebbe dovuto rendere e che, poi, con tratti di evidente inverosimiglianza (v. paragrafo 3.1.4.1), ha effettivamente reso.


Un ministro al posto dell’altro– L’On. Vincenzo Scotti fu nominato Ministro dell’Interno il 16 ottobre 1990, nel Governo presieduto da Giulio Andreotti, a seguito delle dimissioni dell’On. Gava ed ha mantenuto tale carica sino al 29 giugno 1992, allorché, insediatosi il nuovo Governo presieduto da Giuliano Amato di seguito alle elezioni della primavera precedente, gli venne affidato il Ministero degli Esteri.

La Pubblica Accusa ha sostenuto che tale avvicendamento sia stato determinato dalla intransigenza mostrata da Scotti nei confronti soprattutto delle organizzazioni criminali di tipo mafioso ed al fine di favorire l’abbandono da parte della principale di esse, quella imperante (ma non solo) in Sicilia denominata “cosa nostra”, della strategia di attacco allo Stato e di vendetta contro uomini delle Istituzioni che ne avevano tradito le aspettative (quali l’On. Lima, ucciso nel marzo 1992, ed altri politici di cui si temeva già che potessero essere uccisi), ovvero che l’avevano particolarmente avversata (come il Dott. Falcone).

Anzi, ancora secondo tale ipotesi accusatoria, tale avvicendamento nel ruolo di Ministro dell’Interno sarebbe stato l’esito finale dell’iniziale sollecitazione dell’On. Mannino ad intraprendere ogni iniziativa utile ad interrompere la strategia mafiosa di cui egli riteneva di poter essere uno dei prossimi e più imminenti obiettivi (ed in effetti, come si è già visto sopra, possono ritenersi ampiamente provati sia l’individuazione del Mannino come esponente politico che, dopo e come Lima, avrebbe dovuto essere ucciso, sia la consapevolezza acquisita dal Mannino medesimo di tale intendimento criminoso, sia il frenetico attivarsi di quest’ultimo per evitare quell’infausta conseguenza).

A sostegno di tale ipotesi sono stati prodotti ed acquisiti numerosi documenti e sono stati esaminati i testimoni di cui si è dato conto sopra.

Il fulcro della ricostruzione operata dalla Pubblica Accusa, muovendo dalle mosse dell’On. Mannino di cui si è detto e dall’appartenenza di quest’ultimo, in quel frangente storico, al medesimo raggruppamento politico interno alla Democrazia Cristiana cui aderiva anche l’On. Mancino designato in luogo di Scotti come nuovo Ministro dell’Interno, poggia su due diversi dati fattuali che, in termini oggettivi, sono stati effettivamente riscontrati all’esito della complessa istruttoria dibattimentale pure operata su tale specifica vicenda: da un lato le iniziative legislative di contrasto alla criminalità mafiosa e le chiare e (per l’epoca) inusuali prese di posizione del Ministro Scotti sia nel denunziare la deriva destabilizzatrice delle Istituzioni verso la quale si dirigeva inesorabilmente la strategia della mafia, sia nell’affermare l’irrinunciabile necessità di contrastarla, come in effetti aveva iniziato a fare, con interventi legislativi ed operativi sempre più rigorosi, rifiutando qualsiasi prospettiva di accomodamenti o ammorbidimenti che potessero indurre la mafia a ritenere che quella strategia potesse produrre risultati per sé utili (è significativo, in proposito, il giudizio espresso da uno dei più importanti capi mafia dell’epoca, Giuseppe Graviano, in una delle conversazioni intercettate di cui è stata acquisita la trascrizione peritale ali ‘udienza del 19 ottobre 2017 di cui si dirà meglio più avanti, e, specificamente, nella conversazione del 22 novembre 2016, nel corso della quale il Graviano, appunto, dice: “il Ministro Scotti, ddru crasto ‘i Scotti, Martelli … che poi li hanno tolti e hanno messo al posto di Scotti misiru a Mancini, chiddru Scotti un crastu … …. …… Scotti un crasto è!”); dall’altro, l’apparentemente inopinata sostituzione del Ministro Scotti, che, in quanto formalmente ed ufficialmente motivata soltanto con il rifiuto del predetto diaccettare l’incompatibilità con la carica di parlamentare decisa (o, quanto meno, applicata) dai vertici del suo Partito per la prima volta soltanto alla vigilia della formazione del nuovo governo, dava oggettivamente adito a diverse interpretazioni (tra le quali anche quella di una volontà di modificare la linea politica sino ad allora portata avanti da quel Ministro nel contrasto contro le mafie) nel momento in cui il medesimo rifiuto di quella incompatibilità non era stato ritenuto d’ostacolo per la nomina dello stesso Scotti a Ministro degli Esteri.

Va detto, però, che all’esito della corposa istruttoria compiuta, si è fatta sufficiente chiarezza soltanto sul primo punto e non (almeno fino in fondo) anche, come si vedrà, sul secondo.

Sul primo punto, invero, fanno chiarezza, innanzitutto, al di là della testimonianza dello stesso Scotti (v. sopra), le iniziative legislative sostenute da quest’ultimo dal suo insediamento sino alla promulgazione del decreto legge dell’8 giugno 1992 ed i documenti acquisiti, sia quelli riferibili al Ministero dell’Interno, sia, ancor più, quelli relativi ad alcuni interventi del predetto in sede parlamentare, in occasione dei quali l’On. Scotti non ha mostrato remore nell’attribuire una “valenza destabilizzante” ad alcune intimidazioni provenienti da associazioni mafiose anche in rapporti con formazioni eversive di estrema destra (” .. non è da sottovalutare la possibilità che frange eversive, stipulino con la criminalità organizzata, accordi di collaborazione a fini operativi per la destabilizzazione del paese … “) ed alla strategia ad esse sottese (” .. io ritengo, l’ho detto anche alla Commissione Antimafia, quindi non ne parlo oggi, che io ritengo il quegli omicidi e ritengo la criminalità organizzata in questo momento in Italia e per come si comporta un pericolo grave alla destabilizzazione delle istituzioni. Lo dico con fermezza e con chiarezza… . … ….. E non è una novità il giudizio che io ho fermo sul carattere eversivo della criminalità organizzata e del suo comportamento terroristico della condizione nella quale noi ci troviamo .. “) culminata in quel momento con l’omicidio dell’On. Lima nel marzo del 1992 (” …i1 fatto esiste si è sparato a un uomopolitico, comunque, di grande peso nella sua regione e nell’interno del suo partito. Questo non può non essere un fatto di destabilizzazione molto forte, rispetto al quale, io debba attivare, tutti gli strumenti e tutte le iniziative”), nonché nel sollecitare un inevitabile cambio di rotta per prevenire ulteriori attacchi criminali che prevedibilmente, da lì a poco, come poi in effetti è accaduto, avrebbero rischiato di incrinare le stesse fondamenta della democrazia (” .. un altro aspetto nuovo che sembra assumere la criminalità organizzata è quello di cospargere il terreno della lotta politica di cadaveri eccellenti avvalendosi delle tecniche che, a suo tempo, furono proprie del brigatismoeversivo … …… se la democrazia italiana vuole salvarsi da un condizionamento crescente della criminalità, allora dobbiamo essere tutti pronti ad affrontare un calvario doloroso, segnato anche da fatti estremamente preoccupanti … … Oggi siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le istituzioni, bensì a piegarne gli apparati ai propri fini … … .. La pericolosità è diventata quindi maggiore nel momento in cui la criminalità organizzata, vista l’impossibilità di avvalersi dei metodi tradizionali, ricorre alle tecniche terroristiche come avviene sempre più spesso”).

E non v’è dubbio che ad un certo momento, più evidentemente dal marzo 1992, il Ministro Scotti sia apparso isolato in quella sua visione della situazione politico-criminale di particolare preoccupazione per l’escalation di fatti e segnali via via sempre più gravi provenienti dal mondo della criminalità organizzata e diretti al mondo della politica e delle Istituzioni: in particolare, tale isolamento è emerso, come detto, in modo eclatante all’indomani della fuga di notizie sull’allarme lanciato riservatamente dal Ministro dell’Interno e dal Capo della Polizia il 16 marzo 1992 con telefax indirizzato ai Prefetti, Commissari di Governo e Questori (v. doc. n. 19.e della produzione del P.M.: ” . .Da qualche tempo est in atto vasta campagna intossicatoria ed disinformativa che, avvalendosi di messaggi intimidatori (telefonate anonime, lettere apocrife) ed fondata su azioni violente, tende minare credibilità pubbliche istituzioni ed ingenerare stati diffusa apprensione ed mobilitazione protesta…. …. . … Eventi omicidiari riferiti inducono at ulteriore mobilitazione et più attenta vigilanza, specie ove si consideri che, nel contesto dei luttuosi episodi, sono state rivolte minacce di morte contro signore presidente del consiglio, ministro Carlo Vizzini et ministro Calogero Mannino … …. … Da quanto sopra riferito affiorano fondati indizi in ordine at pretesa interrompere linea statuale fermezza per recupero pieno della legalità et correlata esistenza progetto complessivo di destabilizzazione del sistema democratico nel nostro paese, presumibilmente at opera di centrali eversive compromesse anche at livello esterno traffici illeciti .. “) e della conseguente audizione in data 20 marzo 1992 degli stessi Ministro dell’Interno Scotti e Capo della Polizia Parisi, per riferire sulla “situazione dell’ordine pubblico”, dinanzi alle Commissioni Affari Costituzionali ed Interni del Senato e della Camera dei Deputati (riunione congiunta), allorché, prendendo spunto dall’inaffidabilità di una sola delle fonti presa in considerazione in quella segnalazione (la propalazione di Elio Ciolini) e trascurando, invece, tutti gli altri motivi di concreto ed attuale allarme tratti da eventi delittuosi già verificatisi in quei mesi dal dicembre 1991 in poi (sino all’uccisione dell’On. Lima) ridotti a fatti di criminalità locale, quell’allarme e la ricostruzione del contesto in cui esso si inseriva vennero criticati da ampi settori delle forze politiche e soprattutto dallo stesso Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, il quale, a fronte di una richiesta di commento da parte della stampa, ebbe a sintetizzare il suo pensiero affermando testualmente “E’ una patacca” (questo, almeno, fu il titolo dell’articolo pubblicato dal Corriere della Sera mai smentito dall’On. Andreotti, né oggetto di precisazioni da parte dello stesso Presidente del Consiglio quanto meno al fine di circoscrivere quel giudizio al solo Ciolini facendo salvo il più ampio contesto descritto e denunciato dal Ministro dell’Interno e dal Capo della Polizia, tanto che il primo venne, poi, apertamente tacciato di eccessiva superficialità: V. dich. dello stesso Scotti già sopra riportate, laddove, tra l’altro, ha riferito sul punto, che” … certamente la cosa fu presentata dai giornali come un eccesso di superficialità, usiamo l’espressione in uso traducendole in un linguaggio un po’ meno brutale di quello che utilizzò la stampa. lo ricordo sempre con grande amarezza, ebbi una vignetta di Forattini sul Corriere della Sera in cui c’era scritto: “reo confesso”, io e il capo della Polizia tenuto per mano. La cosa è di ridurre una questione che poteva essere analizzata, valutata, cioè… Ma non ad una questione di depistaggio o di eccesso di superficialità in questa direzione, i problemi erano quelli.. “).

Ora, non può essere dubbio che le reazioni all’allarme lanciato dal Ministro dell’Interno ebbero ad indebolire la posizione dell’On. Scotti facendolo apparire, almeno per quella che poteva essere la percezione dell’opinione pubblica, isolato persino all’interno del Governo, dal quale mai gli pervenne alcun attestato di solidarietà e di aperto e pubblico riconoscimento dell’opera di contrasto alla criminalità organizzata e della giustezza di quell’allarme e ciò neppure quando nei mesi successivi si verificarono altri gravissimi delitti riconducibili a quella strategia di destabilizzazione delle Istituzioni (dall’omicidio del Maresciallo Guazzelli, allora del tutto sottovalutato e, come altri precedenti analoghi fatti delittuosi, ricondotto a problematiche locali se non addirittura a questioni estranee alla criminalità mafiosa, sino alla strage di Capaci) e lo stesso Ministro Mannino ebbe a manifestare a più soggetti di rilievo nell’ambito del proprio Partito (oltre che a rappresentanti delle Forze dell’Ordine) la concreta preoccupazione di essere oggetto di progetti omicidiari già elaborati da “cosa nostra” nell’ambito di quella medesima strategia che aveva visto cadere l’On. Lima (ciò senza considerare che, peraltro, a prescindere dalla esattezza della indicazione dei Ministri Vizzini e Mannino come possibili future vittime di cui allora in parte poteva non aversi certo riscontro, comunque la stessa propalazione del Ciolini, al di là della riconosciuta inaffidabilità dello stesso, avrebbe meritato qualche ulteriore riflessione ed approfondimento quanto meno dopo la strage di Capaci e le pesanti ripercussioni che la stessa ebbe ad avere anche sulla vita politica del Paese, influenzando, sia pure indirettamente, persino l’elezione del nuovo Capo dello Stato).

A ciò si aggiungano, poi, anche le reazioni al decreto legge dell’8 giugno 1992, che, sebbene in molti casi ammantate ed animate da sincere convinzioni in tema di garanzie costituzionali della persona, non potevano non apparire, oggettivamente, all’opinione pubblica (e nell’ambito di questa, anche ai mafiosi), non certo addentro a sottigliezze e disquisizioni giuridiche, all’indomani del più grave attacco della criminalità mafiosa mai sferrato allo Stato ed alla democrazia con la strage di Capaci, come un rifiuto o abbandono della volontà politica di contrastare con assoluto rigore il fenomeno mafioso, rinunciando a misure che sarebbero apparse assolutamente punitive per i mafiosi in carcere e per i loro familiari, pur di ritornare a quel “quieto vivere” che per molti anni aveva consentito, si, alla mafia di prosperare economicamente gestendo i propri affari, ma anche, nel contempo, di evitare però attacchi così gravi alle Istituzioni e la temuta vendetta anche nei confronti di esponenti politici in passato apparsi più condiscendenti verso tale contemperamento di contrapposti interessi.

Si aggiunga, poi, ancora, che con quel Ministro dell’Interno non vi era alcuno spazio per possibili contatti riservati con esponenti mafiosi diversi da coloro che avevano intrapreso la via della collaborazione ufficiale con lo Stato, non essendovi dubbio, alla stregua delle iniziative e delle dichiarazioni allora fatte dall’On. Scotti di cui si è detto sopra, che quest’ultimo già allora fosse fermamente convinto della impercorribilità di tale strada, così come dallo stesso, poi, espressamente dichiarato in occasione di una sua più recente audizione dinanzi la Commissione Parlamentare Antimafia del 28 ottobre 2010 […].

A fronte del rigore manifestato dal Ministro Scotti e del rifiuto da parte di questi di qualsiasi iniziativa che potesse apparire con un “patteggiamento” con le associazioni mafiose perché, appunto, “radicalmente incompatibile con la scelta di guerra” (v. sopra) e nel contesto di un complessivo dibattito politico che lo mostrava, almeno per quei che appariva all’esterno, isolato sia nell’ambito del Governo (con l’eccezione del Ministro Martelli certamente influenzato dal ruolo svolto presso il Ministero della Giustizia dal Dott. Falcone e, poi, dall’uccisione di un suo così valente Collaboratore), sia, soprattutto, nell’ambito dei Partito della Democrazia Cristiana, v’è stata la imprevista sostituzione dell’On. Scotti nel suo ruolo di Ministro dell’Interno, ai più, se non a tutti, apparsa del tutto inopinata per le ragioni che ufficialmente l ‘hanno accompagnata.

Sulla stampa (e, quindi, all’opinione pubblica), invero, tale sostituzione è stata presentata come conseguenza del rifiuto da parte dell’On. Scotti di accettare la regola della incompatibilità tra il ruolo di ministro e quello di parlamentare per la prima volta introdotta (o, come già accennato sopra, quanto meno applicata: v., infatti, dichiarazioni del teste De Mita secondo cui, in realtà, tale regola era sempre esistita ancorché mai applicata ed anzi, come è emerso dalle deposizioni di tanti importanti esponenti dell’epoca di quei Partito, addirittura ignorata nella sua stessa esistenza) dalla Direzione della Democrazia Cristiana in occasione della formazione del nuovo Governo nei giugno del 1992.

E tale rifiuto di sottomettersi a tale regola fu certamente manifestato dall’On. Scotti nei giorni immediatamente precedenti la formazione del detto Governo, sia con dichiarazioni pubbliche, sia nei colloqui con coloro che, per il Partito della Democrazia Cristiana (in primis, ma non soltanto, il Presidente ed il Segretario), si stavano concretamente occupando di definire la delegazione dei Ministri.

Sennonché, l’On. Scotti, poi, non fu conseguentemente estromesso da quel Governo, ma, come dallo stesso riferito, senza che egli avesse mai manifestato alcuna disponibilità (ma sul punto, si vedrà più avanti quanto dichiarato dall’On. Forlani e da altri testi) tanto da apprenderlo ascoltando la dichiarazione pubblica del Presidente del Consiglio incaricato all’uscita dell’incontro col Capo dello Stato (v. testimonianza Scotti sopra riportata), fu designato quale Ministro degli Esteri.

Ora, poiché anche per quest’ultimo ruolo valeva la regola dell’incompatibilità sancita dalla Direzione del Partito, è apparso subito evidente agli occhi di tutti gli osservatori politici, dell’opinione pubblica e, persino, dello stesso Scotti (v. ancora testimonianza già citata), che vi erano altre non dichiarate ragioni che avevano indotto la Democrazia Cristiana a volere la sostituzione di Scotti presso il Ministero dell’Interno con altro esponente del medesimo Partito appartenente ad altra “corrente” (l’Ono Mancino).

Ebbene, è stato giocoforza in tale contraddittorio contesto ricollegare quella sostituzione alla situazione di almeno apparente isolamento del Ministro dell’Interno Scotti, maturato già da diversi mesi (quanto meno dal marzo 1992 quando vi era stata la sua audizione parlamentare a proposito degli allarmi allora diramati), di cui si è detto sopra.

Sennonché, l’istruttoria dibattimentale espletata in proposito, non ha consentito di pervenire ad una certa e così netta conclusione di causa e effetto.

Invero, sono emersi, da un lato, alcuni contraddittori comportamenti dell’On. Scotti di seguito alla sua designazione come Ministro degli Esteri e prima che, infine, fossero formalizzate le sue dimissioni.

Se è vero, infatti, che l’On. Scotti, come dallo stesso dichiarato, ebbe a presentare immediatamente al Presidente del Consiglio Amato la lettera di dimissioni, accettando, poi, su invito di questi a soprassedervi per far fronte ad alcuni imminenti impegni di politica internazionale […], è però, altresì, vero che, in realtà, poi l’On. Scotti aveva formalizzato anche una richiesta di dimissioni dalla carica di parlamentare pervenuta […] alla Camera dei Deputati l’11 luglio 1992, successivamente, però, revocata contestualmente alla comunicazione di avere rassegnato, invece, le dimissioni da Ministro degli Esteri […].

Dall’altro lato, invece, sono emersi dalle deposizioni di altri esponenti della Democrazia Cristiana protagonisti di quelle vicende elementi che effettivamente, se non sono sufficienti a provare in termini di certezza (per la contraddittorietà dei ricordi dei testi anche su circostanze fondamentali), non consentono, comunque, di escludere che alla decisione di sostituire 1’On. Scotti quale Ministro dell’Interno abbiano quanto meno concorso questioni piuttosto collegate alle dinamiche interne alla Democrazia Cristiana ed ai rapporti di forza tra le sue “correnti” ed i relativi esponenti.

Peraltro, le incertezze sopra ricordate non sono state chiarite, ma anzi forse  ancor più acuite, dalla deposizione del teste Forlani, all’epoca segretario del Partito della Democrazia Cristiana e, dunque, principale artefice delle designazioni per la nuova compagine ministeriale […]

La testimonianza del teste Forlani sopra riportata, infatti, pur nella spiegazione del percorso tutto interno al partito della Democrazia Cristiana che condusse a designare Mancino quale Ministro dell’Interno nel nuovo governo, non aiuta a superare la contraddittorietà delle risultanze sopra ricordata, perché, l’accettazione, addirittura di buon grado […], che, secondo, appunto, il teste Forlani, Scotti avrebbe in ultimo manifestato riguardo alla nomina a Ministro degli Esteri, appare del tutto in contrasto, non soltanto con la testimonianza dello stesso Scotti, il quale, invece, ha negato di avere mai dato la disponibilità alla nomina e di avere saputo della sua designazione prima dell’annuncio formale della composizione del nuovo Governo fatto dal Presidente del Consiglio Amato, ma anche con il dato fattuale della lettera di dimissioni da Ministro, già nella immediatezza della nomina presentata da Scotti, seguita dall’invito del Presidente del Consiglio Amato di soprassedervi sino alla conclusione di alcuni imminenti impegni internazionali.

Analoga contraddittorietà si riscontra anche riguardo alla corrispondente deposizione del teste Pomicino, secondo il quale, addirittura, Scotti “scelse” di andare al Ministero degli Esteri [

Anche in questo caso, poiché la “scelta” di Scotti, se vi è effettivamente stata, è maturata nelle ore immediatamente precedenti al varo del nuovo Governo (tutti i testi informati di tali vicende, infatti, hanno riferito i frenetici contatti protratti si sino a tutta la notte tra il 28 e il 29 giugno 1992), resterebbe senza una adeguata spiegazione la lettera di dimissioni scritta da Scotti lo stesso 29 giugno 1992 […], fatto che, invece, appare coerente con la “sorpresa” di essere stato nominato Ministro degli Esteri raccontata dallo stesso Scotti.

Ugualmente non appare di aiuto, nel senso richiamato, neppure la testimonianza dell’allora Presidente del Consiglio Giuliano Amato, secondo cui, infatti, l’indicazione dei Ministri Scotti e Mancino, rispettivamente per i dicasteri degli Esteri e dell’Interno, è maturata esclusivamente nell’ambito del partito della Democrazia Cristiana cui “spettavano” quelle designazioni [..

Certo, non può non suscitare perplessità, che il teste Giuliano Amato abbia detto di non ricordare nulla delle polemiche, pubbliche e con ampio risalto sulla stampa (basti ricordare l’intervista del giornalista Giuseppe D’Avanzo a Scotti pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” il 21 giugno 1992), che accompagnarono un’ipotizzata sostituzione dei Ministri Scotti e Martelli, impegnati in una manifesta azione di contrasto alla mafia e particolarmente esposti su tale fronte ancor più dopo la strage di Capaci, in vista della formazione del nuovo Governo, né che tali temi non siano stati oggetto di alcuna valutazione, lasciando prevalere le esigenze di equilibrio interne di un partito della coalizione, ma è, però, anche vero che, veniva proposto in sostituzione di Scotti un politico stimato e di riconosciuta capacità […], per il quale, al di là del segnale che determinati ambienti avrebbero potuto, eventualmente anche ingiustificatamente ma oggettivamente, percepire, non v’era alcuna ragione di dubitare che avrebbe proseguito l’azione di contrasto al fenomeno mafioso con altrettanta fermezza del suo predecessore […].

A ciò si aggiunga, poi, che non è neppure da escludere che possa essersi, in effetti, verificato quanto ipotizzato dallo stesso Giuliano Amato sia pure sulla base di generiche “voci” che circolavano all’epoca e cioè che, di fronte ad un iniziale rifiuto di Scotti di rinunciare al ruolo di parlamentare, il partito della Democrazia Cristiana avesse designato al Ministero dell’Interno Nicola Mancino e soltanto successivamente avesse deciso di mantenere comunque Scotti nel Governo […], rinviando ad un momento successivo la questione dell’incompatibilità (che, d’altra parte, riguardava anche altri Ministri), cosi che fu giocoforza, stante l’impegno già assunto con Mancino, dirottare Scotti ad altro Ministero, peraltro, di maggior “peso”, nella speranza che ciò lo inducesse a rinunziare alla sua opposizione.

Si vuole dire in altre parole che non vi sono elementi, sulla base di quelle dichiarazioni del Mancino alla Commissione Parlamentare Antimafia, per collocare gli accadimenti riferiti nella esatta sequenza temporale e ciò, quindi, in particolare, anche rispetto al prospettato avvicendamento del Ministro Scotti al Dicastero dell’Interno, in ipotesi, già eventualmente deciso per quelle ragioni connesse agli aggiustamenti degli equilibri interni alle correnti del partito della Democrazia Cristiana.

[…] Resta da esaminare, allora, l’episodio dell’incontro tra Calogero Mannino e Giuseppe Gargani di cui ai paragrafi 3.2 e 3.3, che rafforza indubbiamente l’intuizione accusatoria del P.M., ma che, per quanto si dirà, non può ritenersi definitivamente decisivo per individuare, in termini di certezza ed univocità, la ragione della sostituzione del Ministro Scotti.

Orbene, deve, innanzi tutto, rilevarsi che, alla stregua delle risultanze probatorie acquisite, non può residuare alcun dubbio sul fatto che la preoccupazione del Mannino per la deposizione di De Mita riguardasse la questione dell’avvicendamento del Ministro Scotti con Mancino, dal momento che è stato lo stesso Gargani […] a confermarlo […].

Tale conclusione, d’altra parte, è avvalorata anche dal fatto che In quell’occasione il medesimo Mannino ebbe a fare riferimento “al figlio di Ciancimino che ha detto la verità” e, quindi, a Massimo Ciancimino, il quale, in effetti, aveva, tra l’altro, dichiarato di avere saputo in anticipo dal padre che Scotti, con il quale Vito Ciancimino non riteneva possibile alcun dialogo, sarebbe stato sostituito da Mancino quale Ministro dell’Interno (v. dich. Massimo Ciancimino sopra riportate nella Parte Seconda della sentenza, Capitolo 2).In proposito, occorre, però, precisare e ribadire che le richiamate dichiarazioni di Massimo Ciancimino, per il mancato superamento del necessario vaglio preliminare, non possono minimamente utilizzarsi e, in concreto, non si utilizzano in questa sede nel loro intrinseco contenuto, ma solo nella loro oggettiva esistenza utile per comprendere il senso dell’iniziativa del Mannino, tanto più che anche in questo caso Massimo Ciancimino potrebbe avere sfruttato, per sorreggere le sue ardite sovrastrutture di fantasia (v. Parte Seconda della sentenza), o, più probabilmente, le conoscenze acquisite successivamente sulla vicenda in questione, ovvero anche, al più, in ipotesi, una eventuale conoscenza sulla imminente nomina di Mancino già all’epoca trasmessagli dal padre Vito Ciancimino (al quale, d’altra parte, non mancavano di certo i referenti all’interno della Democrazia Cristiana).

Tuttavia, alla stregua delle risultanze sinora esposte, non v’è dubbio che il riferimento fatto in quella occasione da Mannino, peraltro, avallato dallo stesso Gargani con la sola eccezione del giudizio di veridicità delle relative dichiarazioni,[…], conferma ulteriormente quale fosse la ragione del timore del Mannino, quello di essere in qualche modo collegato alla sostituzione del Ministro Scotti.

Da ciò, dunque, deve necessariamente ricavarsi che Mannino temeva in qualche modo quanto avrebbe potuto dichiarare il teste De Mita riguardo all’avvicendamento tra Scotti e Mancino.

Ora, un simile timore, tanto più che in quel momento non era stata ancora mossa alcuna contestazione al Mannino, può trovare giustificazione, sotto il profilo logico, solo ed esclusivamente in un coinvolgimento personale di quest’ultimo nella detta vicenda e, quindi, nella preoccupazione che tale coinvolgimento fosse scoperto con la imminente testimonianza di De Mita.

Allora, se così è, è giocoforza ritenere che Mannino fosse a suo tempo in qualche modo intervenuto nei confronti di De Mita per perorare la scelta di un nuovo Ministro dell’Interno meno intransigente nel contrasto alle organizzazioni mafiose rispetto a Scotti e ciò, d’altra parte, del tutto coerentemente con le risultanze già esposte nel precedente Capitolo 2 riguardo al timore del Mannino medesimo, dopo l’omicidio di Salvo Lima, di essere a sua volta ucciso e alla conseguente sua convinzione che soltanto un attenuazione del rigore nei confronti del fenomeno mafioso che aveva caratterizzato l’azione dei Ministri Martelli e Scotti (grazie anche alla decisiva spinta di Giovanni Falcone) gli avrebbe consentito di avere salva la vita.

[…] In altre parole, la Corte ritiene che neppure l’episodio dell’incontro tra Mannino e Gargani, seppur ricostruito nei termini prima esposti, consenta di superare definitivamente e senza possibilità di dubbio la contraddittorietà delle complessive risultanze e, quindi, di attribuire la sostituzione di Scotti in via esclusiva al desiderio di Mannino e/o di altri di un ammorbidimento della linea governativa della fermezza per favorire i contatti già intrapresi dai Carabinieri con i vertici mafiosi.

Ma, pur dovendosi necessariamente raggiungere la conclusione che, anche a causa delle testimonianze spesso lacunose e contraddittorie di molti testi, come già detto sopra, non è stato possibile acquisire sufficienti elementi a sostegno della tesi dell’Accusa secondo cui il Ministro dell’Interno Scotti venne deliberatamente sostituito per volere di coloro che all’interno della Democrazia Cristiana (Mannino, ma anche il Presidente della Repubblica Scalfaro, […]) auspicavano un ammorbidimento della politica di forte e intransigente contrasto al fenomeno mafioso sino ad allora dal predetto Ministro propugnata al fine di evitare ulteriori aggressioni da parte delle organizzazioni mafiose allo Stato e (forse ancor più) l’uccisione di taluni di essi (come era già avvenuto per l’On. Lima e si temeva per altri, tra i quali, innanzitutto, lo stesso On. Mannino), va, in ogni caso, evidenziato che quel rileva nel presente processo è […] che, l’assenza di una comprensibile e pubblica esplicitazione delle reali ragioni di quella sostituzione […], autorizzava tutti coloro che vivevano e osservavano dall’esterno quegli accadimenti a ritenere, indipendentemente da colui che da quel momento avesse assunto l’incarico, che si volesse a quel punto cambiare la linea politica del Ministero dell’Interno e, quindi anche, per un verso, l’organizzazione mafiosa “cosa nostra” a ritenere che un qualche effetto per essa favorevole era stato prodotto dalla strategia culminata sino ad allora nella strage di Capaci e che vi era la possibilità di “trattare” per ottenere qualche beneficio in cambio della cessazione della strategia stragistica, e, per altro verso […], taluni esponenti delle Forze dell’Ordine a ritenere che si potesse a quel punto portare avanti una linea investigativa (non apprezzata – e che, quindi, non sarebbe stata mai avallata – da Scotti) di ricerca di contatti con i vertici dell’organizzazione mafiosa per raggiungere il medesimo obiettivo della cessazione delle uccisioni di esponenti politici e delle Istituzioni eventualmente mediante la cattura di quegli esponenti mafiosi che ne apparivano essere gli istigatori (Riina ed i suoi più fidati sodali).

Certo, come evidenziato anche dal Pubblico Ministero in sede di esame di alcuni dei testi di cui si è dato conto in questo Capitolo, se è vera la ricostruzione operata in questa sede da tal uni esponenti della Democrazia Cristiana esaminati in qualità di testimoni, è certamente grave che il principale Partito protagonista della politica dell’epoca, all’indomani della strage di Capaci, la cui efferatezza non aveva precedenti nella storia repubblicana, abbia inserito la “casella” del Ministero dell’Interno nell’ordinaria “spartizione” di poltrone che caratterizzava la formazione dei Governi, senza minimamente preoccuparsi […].

Si vuole dire, in sostanza, che anche addivenendo ad una ricostruzione della vicenda che escluda la più grave ipotesi accusatoria della deliberata e consapevole sostituzione del Ministro Scotti per attenuare la frontale contrapposizione dello Stato all’organizzazione mafiosa con il fine, se non di far salva la vita a tal uni esponenti politici che temevano di soccombere per mano mafiosa, quanto meno di far cessare quell’aggressione di tipo terroristico che impediva il normale svolgersi della vita del Paese e rischiava conseguentemente di indebolire il Partito che storicamente ne assumeva la responsabilità, comunque, non viene meno, in termini di rilievo quanto meno oggettivo, l’effetto sopra ricordato sia sul fronte della percezione dei mafiosi, sia su quello della percezione di tal uni apparati investigativi, che, convergentemente, come è emerso incontestabilmente all’esito dell’istruzione dibattimentale, a quel punto hanno iniziato a cercarsi reciprocamente per addivenire ad un soddisfacente accordo che potesse produrre benefici risultati per le contrapposte esigenze.

Quali siano stati gli effetti prodotti da tali contatti sarà oggetto di successiva analisi in altro apposito Capitolo.


I ricordi sbiaditi di Ciriaco De Mita  – All’udienza del 25 settembre 2014 è stato esaminato, in qualità di testimone, Ciriaco De Mita, il quale, in sintesi, ha, innanzitutto, riferito riguardo sia agli incarichi ricoperti nel Partito della Democrazia Cristiana sia agli incarichi di governo […], specificando di avere militato, in particolare, nella “corrente” del predetto partito politico indicata come “sinistra di base” unitamente, tra gli altri, all’On. Gargani ed al Sen. Mancino, nonché dopo un convergenza con altre “correnti”, all’On. Mannino […].

Il teste, poi, ha riferito più specificamente sui suoi rapporti con l’On. Gargani […], con il Sen. Mancino […], con l’On. Scotti (“Ma il rapporto con Scotti credo che cominci negli anni sessanta. No, pressappoco, però è stato sempre un rapporto di conoscenza più che di solidarietà …. … … facevo fatica a recuperare nella memoria a quale corrente appartenesse.. … … Lui le ha attraversate un po’ tutte, rendendo difficile anche la collocazione, aveva una volatilità frequente, però il rapporto personale, almeno finché poi c’è stata la Democrazia Cristiana, c’era”) e con l’On. Lima (“Rapporti personali no, lo conoscevo, l’ho incontrato quando qua il Partito è entrato in difficoltà, all’inizio della mia esperienza, quando fu cambiata la classe dirigente, fu eletto Orlando Sindaco. lo mi sono occupato della D.C. in maniera rilevante, come per le regioni di confine. Nelle elezioni regionali dell’85 io svolgevo funzione politica, non giudiziaria, però valutando alcuni fenomeni che non erano da me condivisi introdussi la regola che i Consiglieri Regionali che avessero avuto tre legislature non erano ricandidabili … … … La organizzazione del Partito era, come dire, molto discussa, si verificavano casi di non delimitazione di confine tra le attività politiche e attività censurabili dal punto di vista del costume, della moralità. […] Le sto spiegando che introducendo quel criterio io non ho fatto riferimento ai rappresentanti di corrente. Evidentemente poi nelle nuove candidature certo che ci saranno state anche indicazioni di persone politicamente collegate a Lima, ma io avevo necessità di cambiare classe dirigente e non, come dire, di distinguere le persone. E lui era parlamentare europeo, quindi non rientrava nelle mie competenze, almeno finché io sono stato segretario della D. c.. “).

Indi, il teste ha riferito di un incontro avuto con il Dott. Falcone pochi giorni dopo l’omicidio dell’On. Lima, allorché il predetto lo aveva messo sull’avviso paventando che, dopo tale omicidio, la mafia avrebbe alzato ancor più il livello dello scontro con lo Stato (” .. . quando Lima è stato ucciso io sono stato chiamato, attraverso un Magistrato amico, da Falcone perché voleva parlarmi … ….. Dopo alcuni giorni, non. .. Eravamo alla vigilia della campagna elettorale, per la verità pensavo che fosse funzionale a qualche altra ragione, non all’informazione. E dissi che ero fuori Roma. Siccome ha insistito, mi sembrò scortese non trovare una ragione e gli dissi che io passavo per Roma, credo il 15 di marzo, quindi pochi giorni dopo l’uccisione, e concordammo di vederci. Lui gentilmente venne a prelevarmi all’Hilton, dove io ero, entra in macchina con me e dall’Hilton all’Eur mi dà la sua spiegazione sull’uccisione di Lima e mi dice: preparatevi perché la mafia dopo la sentenza della Cassazione che confermava la procedura inaugurata da lui, deve organizzarsi e per organizzarsi eleverà il livello di scontro con lo Stato …. … … E io gli obiettai, cioè gli obiettai, pensai sì, ma Lima non era un uomo simbolo come Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, e lui mi rispose: Lima non è mafioso … … … Poi gli chiedo: ma lei queste cose perché le dice a me? Non sono Presidente del Consiglio, non sono un Ministro di Grazia e Giustizia. E lui mi disse: le dico a lei perché è una persona che stimo. Poi gli chiedo: ma me lo dice perché ha qualche sospetto sulla mia incolumità? lo mi ero molto occupato della Sicilia … … … E dice: dovete prepararvi all’elevazione dello scontro tra mafia e Stato. E io gli dico: ma perché queste cose non le scrive? Disse: perché in questo momento non passano … “), precisando di avere, poi, parlato di tale colloquio con alcuni colleghi di partito quali Orlando, Mattarella e Mancino[…] e con il direttore del quotidiano La Repubblica Scalfari […], ma non con il Ministro dell’Interno Scotti, né col Ministro della Giustizia Martelli (“Onestamente no perché, come dire, il colloquio è diventato angoscioso quando hanno ammazzato Falcone. Quando me l’ha raccontata in me ha suscitato molta curiosità e debbo dire che trovavo la sua diagnosi degna di attenzione, ma eravamo in campagna elettorale e poi quando Falcone è stato ucciso bisognava fare il nuovo Governo.[…]”).

Il teste, quindi, ha negato di avere mai saputo dell’allarme per l’ordine democratico lanciato dal Ministro dell’Interno Scotti e dal Capo della Polizia e della conseguente audizione parlamentare dei predetti nel marzo 1992 […].

Poi il teste ha ricostruito la vicenda della elezione del Capo dello Stato nel maggio 1992 […]. Ancora il teste ha raccontato che anche dopo la strage di Capaci non ebbe in alcun modo ad interessarsi delle conseguenze di quell’efferato delitto e delle misure che il Governo ebbero ad adottare, essendosi in quel periodo concentrato esclusivamente sulla formazione del nuovo Governo (“P. M DI MATTEO : – Senta, poc’anzi lei ha, con una espressione molto forte, ha detto che la sensazione che già le aveva provocato il contenuto dell’incontro con Giovanni Falcone diventò poi angosciosa dopo l’uccisione di Giovanni Falcone. Io le chiedo: proprio alla luce della strage di Capaci, che già per le sue modalità rappresentava un innalzamento, un primo adempimento purtroppo, una prima verifica della giustezza dell’analisi di Giovanni Falcone, si avvio anche all’interno del partito una discussione per approfondire questa escalation criminale, l’allarme di una ulteriore prosecuzione della strategia anche con il Ministro degli Interni Scotti?; DICH DE MITA : – lo ho presente e teniamo presenti entrambi, cioè il percorso che c’era, Falcone è stato ucciso un giorno prima dell’elezione del Capo dello Stato. Eletto il Capo dello Stato sono iniziate le consultazioni per la formazione del Governo, che furono accompagnate dalle vicende che conosciamo tutti e si dà l’incarico all’Onorevole Amato. Quindi la discussione all’interno della D.C è stata fatta sulla formazione del Governo .. “), riferendo, quindi, come si pervenne alla indicazione del Sen. Mancino quale nuovo Ministro dell’Interno […], né riguardo all’appello sottoscritto da un gruppo di parlamentari a favore della conferma del Ministro dell’Interno Scotti pubblicato sul quotidiano il Popolo e ripreso da altri quotidiani nazionali […].

D’altra parte, il teste ha riferito che, per l’impressione che ebbe, il Ministro Scotti era soprattutto interessato a mantenere l’immunità parlamentare (“Se io poi debbo, come dire, dire la mia opinione, a Scotti interessava la conservazione dell’immunità, non la scelta … “), aggiungendo di non sapere se la nomina di Mancino al Ministero dell’Interno sia stata voluta dal Presidente Scalfaro […], poi, però, in parte correggendo tale dichiarazione a seguito di contestazione del P.M. (”[…] P. M. DI MATTEO : – Scalfaro voleva Mancino Ministro o Mancino Ministro dell’Interno?; DICH DE MITA : – Ministro dell’Interno, non Ministro”).

Il teste ha ancora espressamente ribadito che la sostituzione di Scotti venne ampiamente discussa in presenza di quest’ultimo senza che venissero rappresentate esigenze di continuità con l’opera intrapresa dal Ministro dell’Interno […].

In proposito il teste ha anche riferito sulla regola della incompatibilità tra ministro e parlamentare, a suo dire da sempre esistente in quel partito anche se fino ad allora raramente applicata […], ribadendo, che nel decidere l’avvicendamento di Scotti, non si tenne minimamente conto dell’azione di governo sino ad allora da questi svolta e dei provvedimenti straordinari che il medesimo aveva ritenuto di adottare per contrastare la gravità della minaccia mafiosa che aveva raggiunto il suo apice con la strage di Capaci, ma soltanto delle contemperamenti imposti dai rapporti all’interno del Partito […].

Comunque, il teste non è stato in grado di collocare correttamente nel tempo la strage di via D’Amelio (“P. M DI MATTEO : – Senta. lei quindi … Lei poi ricorda quando intervenne la strage di Via D’Amelio?; DICH. DE MITA : – La data precisa no … . ….. È avvenuta d’estate. credo il mese d’estate. l’anno dopo di Falcone”), aggiungendo di non essersi interessato neppure dopo questa delle questioni concernenti la trasformazione in legge del decreto sul 41 bis (“P. M DI MA TTEO : – Avvenne 57 giorni dopo. forse un po’ di distrazione, diciamo, c’era. non avvenne l’anno dopo, 57 giorni dopo. Le voglio chiedere se dopo che avvenne la strage di Via D’Amelio il 19 luglio del 92 si pose un problema politico per la conversione in Legge del 41 bis. Non ne ha ricordo? Non ha ricordo.; DICH. DE MITA : – lo non mi occupavo di questi problemi”).

In sede di controesame, quindi, sempre in sintesi, De Mita ha aggiunto:

– di non avere parlato con Mannino del colloquio avuto con il Dott. Falcone […];

– che il Dott. Falcone in quel colloquio aveva iniziato la sua riflessione muovendo dalla sentenza del maxi-processo (“L’inizio della sua riflessione era dopo la sentenza della Corte di Cassazione che ha avallato le procedure, la mafia ha avuto un colpo duro da quel processo e allora ha bisogno di riorganizzarsi e per riorganizzarsi eleverà lo scontro a livello dello Stato, non più sul territorio”);

– di non avere avvertito alcun mutamento di linea politica del Governo conseguente alla nomina di Mancino quale Ministro dell’Interno […];

– che nella nomina di Scotti a Ministro degli Esteri era implicito che avrebbe dovuto dimettersi da parlamentare […];

– di non avere mal avuto cognizione di trattative tra rappresentanti delle Istituzioni e mafiosi (“Ma che io sia stato a conoscenza, abbia avuto sospetti o abbia rilevato comportamenti che avallassero una cosa del genere no”);

– che Scotti non espresse riserve per il ruolo di Ministro degli Esteri, ma chiese espressamente di restare al Ministero dell’Interno […].

3.1.4.1 PRIME CONSIDERAZIOI SULLA TESTIMONIANZA DI CIRIACO DE MITA

Appare necessario anticipare qualche breve considerazione riguardo alla testimonianza appena riportata. Non competono a questo Collegio valutazioni di carattere etico sui testimoni e, pertanto, ci si astiene dal fame. Tuttavia, appare veramente arduo esaminare le dichiarazioni rese dal teste De Mita disgiungendole dalla valutazione, inevitabilmente negativa per quanto si dirà, della condotta tenuta dal predetto nel 1992 come dallo descritta e riferita.

E’ appena il caso di ricordare che in quel periodo si sono verificati eventi di assoluta gravità (alcuni, sotto tale profilo, senza precedenti nella storia repubblicana) che hanno inciso anche – e forse incidono ancora – nell’ordinario e ordinato evolversi della vita democratica del Paese.

Nel marzo del 1992 v’è stato l’omicidio dell’On. Lima (esponente della Democrazia Cristiana la cui importanza trascendeva i confini locali per il peso che rivestiva nella corrente di quel Partito facente capo al Presidente del Consiglio allora in carica) da tutti recepito, oltre che in termini punitivi nel confronti del detto parlamentare, anche come risposta dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” allo Stato per la conclusione del c.d. “maxi-processo”; nel successivo maggio 1992 v’è stata la strage di Capaci, della cui gravità non sembra necessario aggiungere alcunché, seguita, a breve distanza di tempo nonostante il timore generalmente manifestato, dalla strage di via D’Amelio.

Ebbene, in tale contesto, già nell’immediatezza dell’assunzione dell’esame testimoniale, ha destato particolare sconcerto che uno dei più importanti esponenti politici dell’epoca, già Presidente del Consiglio dei Ministri ed, in quel frangente, Presidente del Partito della Democrazia Cristiana che ancora costituiva il principale architrave della vita democratica del Paese e del Governo in carica, secondo quanto riferito in questa sede, abbia relegato i suddetti avvenimenti in secondo piano rispetto al suo principale interesse indirizzato a risolvere le problematiche della formazione di un nuovo governo che tenesse conto del peso delle “correnti” interne al Partito e delle aspirazioni di alcuni altrettanto importanti esponenti politici.

E’ apparso veramente singolare che il teste, ancora secondo quanto dallo stesso riferito, pur dopo l’omicidio Lima e gli avvertimenti personalmente rivolti gli dal Dott. Falcone, si sia del tutto disinteressato delle denunce del Ministro dell’Interno (appartenente al medesimo Partito) e del Capo della Polizia e delle diffuse polemiche che ne conseguirono con ampio risalto sia in sede parlamentare, sia sulla stampa nazionale; e, ugualmente, sconcerta forse ancora di più che, pur dopo la strage di Capaci, il teste, come emerge dalle sue dichiarazioni, si sia nella stessa misura disinteressato delle conseguenze di un così grave evento (si ripete, senza precedenti anche per le modalità organizzative indicative di un rilevante spiegamento di forze e di una micidiale potenza criminale) e della necessità di adottare urgentemente provvedimenti di contrasto della strategia mafiosa che dessero il segno della capacità dello Stato di reagire e di respingere un siffatto attacco.

Ma il teste ha riferito (v. paragrafo precedente), appunto, di non essersi minimamente interessato di tutto ciò e di avere, pertanto, del tutto ignorato le iniziative del Governo allora in carica (compreso l’urgente emanazione del decreto legge dell’8 giugno 1992, nonostante le molte polemiche che lo seguirono anche in questo caso con ampio risalto sulla stampa), essendo del tutto concentrato sulla attività interna del Partito e sulle trattative in corso all’interno di questo e con le formazioni politiche alleate, per la formazione del nuovo Governo (ovviamente nella sola ottica del soddisfacimento delle pretese dei maggiorenti della Democrazia Cristiana e non certo di quella del superiore interesse del Paese che quel Governo avrebbe dovuto guidare nella temperi e di quel momento storico).

E sorprende ancora massimamente che il medesimo teste abbia riferito di non avere in alcun modo percepito quelle manovre che miravano a delegittimare il Ministro Scotti e che ebbero risalto persino nell’organo di stampa ufficiale della Democrazia Cristiana (Il Popolo), asseritamente neppure letto da colui che pure ricopriva la carica di Presidente del Partito editore di quel giornale.

In sostanza, dalla testimonianza qui in esame la figura dell’On. De Mita emerge come quella di un di un soggetto totalmente estraniato da tutto ciò che accadeva in quei mesi del 1992 (tanto che, pur essendo apparso in questa sede lucidissimo e capace di elaborate argomentazioni nonostante l’età non più giovane, espressamente richiesto nel corso del suo esame, ha collocato la strage di Via D’Amelio addirittura ad un anno di distanza dalla strage di Capaci) che in quel momento aveva come sua unica preoccupazione la soddisfazione ed il mantenimento degli equilibri interni del Partito, ancorché, a tutti gli osservatori esterni, tali manifestati interessi che animarono allora il De Mita appaiano oggettivamente risibili al cospetto di quegli avvenimenti prima ricordati.

Ma qui, come detto, si rischia di trascendere nel giudizio morale della persona e della sua condotta ed è necessario, allora, fermarsi e limitarsi, quindi, a prendere atto, in termini oggettivi, dei fatti riferiti dal teste, inquadrandoli e valutandoli nel contesto delle altre risultanze processuali.

Orbene, allora, il nocciolo della testimonianza del De Mita è costituito dalle affermazioni secondo le quali né il Ministro Scotti, né altri ebbero a rappresentargli l’opportunità di confermare quel Ministro per dare un segno di continuità alla linea politica di rigore nel contrasto alla criminalità mafiosa e lo stesso Scotti, prima della formazione del nuovo Governo, fu informato, accettandolo, del trasferimento dal Ministero dell’Interno a quello degli Esteri.

Tali sono i fatti riferiti che saranno, quindi, valutati nel prosieguo ai fini della ricostruzione della vicenda oggetto del presente capitolo, senza, tuttavia, tralasciare, tanto più alla luce delle considerazioni appena esposte, le risultanze sul tentativo di influenzare la testimonianza del De Mita di cui si dirà più avanti nel paragrafo 3.3.


Le proposte del generale a Luciano Violante  – Come si è visto, il teste Luciano Violante ha confermato, ripetutamente e senza titubanze, che Mori ebbe a chiedergli di incontrare in modo riservato Vito Ciancimino (v. dichiarazioni Violante sopra già riportate: ” .. il Generale Mori venne a trovarmi dicendomi che Ciancimino intendeva avere un colloquio con me, ma con me, non con la Commissione, riservato …. …….. lo dissi che non facevo colloqui riservati, chi voleva essere sentito era sentito dalla,Commissione facendo una richiesta formale … …….. Dunque, lui mi dice questo, primo che Ciancimino è libero e abita a Roma dalle parti di Piazza di Spagna. Secondo, appunto che vuole parlarmi. ma riservatamente…. .. ..

…. probabilmente avrebbe chiesto qualcosa … … … Avrebbe chiesto qualcosa e se non erro in questo momento, insomma, sono queste le cose di fondo di questo colloquio che non fu … ……. Non mi precisò che cosa, né io chiesi perché non avevo interesse al colloquio personale … ……. No, perché non avevo interesse al colloquio, né avevo interesse ad approfondire una negoziazione che non mi interessava insomma …. ……… Sì, io ho il dovere di dire la verità .. ; P. M TERESI ” – Sì. Lei ricorda … Ah, no, certo. Però nella sua difesa lei questa cosa la fa presente, che c’è una contestazione da parte sua sulla versione di Mori.. . .. .. .Io dico che Ciancimino mi voleva incontrare per un colloquio riservato, il Colonnello Mori ha detto nella sua memoria che invece Ciancimino era disponibile subito ad essere sentito in Commissione, era questa la sostanza del contrasto … ….. E lo conferma oggi? Questo volevo sapere; DICH. VIOLANTE “- Certo”).

La richiesta di un colloquio riservato con Vito Ciancimino, è stata, invece, negata dall’imputato Mori, secondo il quale, peraltro, i documenti prodotti in allegato alle dichiarazioni spontanee rese ali ‘udienza del 21 gennaio 2016, dimostrerebbero che l’On. Violante aveva appreso della richiesta di audizione di Ciancimino già prima dell’arrivo della lettera di quest’ultimo (che, infatti, venne protocollata il 29 ottobre 1992), e che, quindi, Violante era stato informato da Mori soltanto di tale volontà del Ciancimino e non già, appunto, come invece testimoniato dallo stesso Violante, di una richiesta di incontro riservato.

In realtà, i documenti prodotti ed acquisiti agli atti, a parere della Corte, non sono idonei a smentire il teste Violante.

La sintetica verbalizzazione della Riunione del 27 ottobre 1992 non consente, infatti, di escludere che Violante abbia informato l’Ufficio di Presidenza proprio della lettera che egli aveva ricevuto, fatto che, d’altra parte, appare già confermato dal riferimento alla rinunzia di Cianci mino alla presenza delle televisioni che effettivamente era contenuta nella lettera in questione.

D’altra parte, deve rilevarsi che, come risulta dai documenti prodotti in atti, nelle due facciate della busta contenente la lettera non v’è alcun timbro di arrivo o di protocollo, che, come detto, risulta essere stato apposto, invece, direttamente sulla lettera.

Inoltre, sulla detta busta non v’è alcun timbro di spedizione postale.

Ne consegue che, poiché la busta era indirizzata al Presidente della Commissione e dovendosi per ciò escludere che qualcuno diverso dal destinatario possa averla aperta precedentemente, appare del tutto ovvio concludere:

– che inizialmente tale busta contenente la lettera datata 26 ottobre 1992, senza transitare dall’Ufficio Protocollo (che, altrimenti, vi avrebbe apposto il timbro di arrivo), sia stata direttamente portata a mano da un incaricato di Vito Ciancimino (nella specie, verosimilmente, il figlio Massimo Ciancimino che in quel periodo sbrigava tutte le incombenze per conto del padre), lasciandola nella portineria di Palazzo San Macuto, sede della Commissione Parlamentare Antimafia;

– che, quindi, la detta busta sia stata consegnata direttamente al Presidente Violante che ne era il destinatario;

– che, pertanto, quest’ultimo l’abbia pnma aperta e letta, informandone la Commissione nella seduta del 27 ottobre 1992;

– che, infine, soltanto successivamente la medesima lettera (si ripete, già aperta e, quindi, letta dal destinatario e da questi comunicata ali ‘Ufficio di Presidenza) sia stata trasmessa all’Ufficio competente per la sua protocollazione (dovendosi escludere che tale protocollazione possa essere già stata fatta nella portineria di Palazzo San Macuto, poiché, come si è detto, nella busta non v’è indicato alcun protocollo), a quel punto avvenuta il 29 ottobre 1992, dal momento che il detto Ufficio non avrebbe di certo potuto retrodatare la sua registrazione, essendo stati, ovviamente, nel frattempo protocollati in continuità altri documenti.

Di ciò, peraltro, appare ben consapevole anche lo stesso Presidente Pisanu, il quale, infatti, nella nota inviata all’Avv. Pietro Milio, appunto, riferisce espressamente “che dell’arrivo della lettera è stata data comunicazione nell’ufficio di Presidenza del 27 ottobre 1992”.

Dai documenti prodotti dalla difesa dell’imputato Mori sopra citati, dunque, non può ricavarsi alcuna smentita alle dichiarazioni dell ‘Ono Violante, risultando, anzi, rafforzata l’ipotesi che quest’ultimo ebbe ad informare l’Ufficio di Presidenza della richiesta di audizione formalmente avanzata da Vito Ciancimino a mezzo lettera e ciò indipendentemente dall’esattezza o meno del ricordo del medesimo Violante riguardo ad un secondo incontro con Mori ricompreso nel periodo tra il giorno del primo, in occasione del quale egli fu informato della richiesta di interlocuzione riservata del Ciancimino (verosimilmente il 20 ottobre 1992), e il giorno in cui gli fu consegnata la lettera di quest’ultimo (verosimilmente nella stessa data del 26 ottobre 1992 nella quale fu scritta tale lettera o, al più, il successivo giorno 27 ottobre 1992), anziché, come sostenuto da Mori sulla base di una annotazione riportata nella sua agenda, in data 28 ottobre 1992 (allorché, però, Mori ebbe a consegnare a Violante la copia della bozza del libro di Ciancimino).

Ed in proposito, è opportuno evidenziare anche che nell’agenda cui si è riferito Mori per datare gli incontri con Vito Ciancimino sono ovviamente annotati gli incontri dello stesso Mori, ma non certo anche quelli che eventualmente De Donno abbia potuto avere con lo stesso Ciancimino senza la presenza di Mori ovvero i contatti che comunque, direttamente o indirettamente, lo stesso De Donno, artefice del collegamento sin dalla sua instaurazione, potrebbe avere avuto, appunto, con Vito Ciancimino, facendo, poi, da tramite tra quest’ultimo e Mori.

Per completezza, poi, riguardo ancora alle dichiarazioni spontanee rese dall’imputato Mori all’udienza del 21 gennaio 2016 a proposito della testimonianza dell’On. Violante e sopra già interamente riportate, va detto che, contrariamente a quanto sostenuto dal predetto imputato, il fatto che egli abbia informato Violante dei suoi incontri con Ciancimino non necessariamente è in contraddizione con la ricostruzione accusatoria che egli contesta, poiché, nell’ipotesi, appunto, della “trattativa” segreta intavolata tramite il Ciancimino, se questi avesse chiesto – come in effetti ha chiesto secondo il teste Violante – un incontro diretto e riservato con quell’esponente delle Istituzioni, l’imputato Mori non avrebbe potuto di certo evitare di informare lo stesso Violante dei suoi incontri con Ciancimino a meno di non rinunciare a dare corso alla sollecitazione di quest’ultimo e, quindi, all’ulteriore prosieguo della “trattativa” medesima che ineludibilmente richiedeva contraccambi reciproci.

Peraltro, va ricordata, in proposito, l’assoluta segretezza mantenuta da Mori sino ad allora (e che avrebbe poi mantenuto per molti anni ancora) sui suoi incontri con Vito Ciancimino verso l’Autorità Giudiziaria, tanto da non averne fatto cenno neppure quando alla Procura di Palermo era subentrato il nuovo Procuratore.

In occasione della testimonianza resa il 22 gennaio 2016, Gian Carlo Caselli, infatti, ha riferito che allorché egli si era insediato quale nuovo Procuratore della Repubblica di Palermo, Mori e De Donno gli avevano soltanto segnalato che Ciancimino, nel frattempo detenuto, intendeva parlargli (” … mi si dice il signor Ciancimino vuole parlare con lei perché ha delle cose interessanti da dire .. “) e di avere, quindi, appreso dei pregressi incontri dei predetti Mori e De Donno con Ciancimino soltanto da quest’ultimo […], circostanza fattuale che fa venire meno la giustificazione dell’imputato Mori secondo cui egli, quando aveva incontrato Ciancimino, non si fidava della Procura di Palermo ed intendeva, quindi, attendere il nuovo Procuratore.

Ed allora, non può non osservarsi che, proprio il fatto che l’imputato Mori si sia fatto portavoce del Ciancimino parlando con Violante (oltre che con gli altri “referenti politici” di cui ai paragrafi precedenti) nonostante la segretezza mantenuta sino ad allora sui suoi incontri con Ciancimino tanto da non averne fatto alcun cenno ali’ Autorità Giudiziaria, rafforza inevitabilmente, anche in questo caso, la tesi che, sia pure nell’ottica di una contropartita, Mori intendeva assecondare (ed ha, di fatto, almeno in quel caso – ma v’è anche l’episodio del passaporto prima esaminato – assecondato) le richieste che gli provenivano dalla controparte.

Inoltre, qui va, altresì, evidenziato il fatto che Mori, che pure dichiaratamente intendeva avvalersi delle prerogative riconosciute dall’art. 203 c.p.p. relativamente al Ciancimino, tanto, come detto, da non rivelare quei suoi contatti neppure all’Autorità Giudiziaria, pur tuttavia, ha svelato il nome del suo asserito confidente all’On. Violante e ciò, a seguire il ragionamento difensivo dell’imputato Mori, senza alcuna logica e comprensibile ragione (oltre che con un’ intrinseca contraddittorietà rilevata, come si è visto sopra, anche dal suo interlocutore secondo quanto da questi pure testimoniato allorché ha osservato che quella giustificazione di Mori con riferimento all’art. 203 c.p.p. “oggettivamente appare contraddittoria, in quel contesto mi apparve, come dire, comunque io c ‘ho una clausola, come dire, formale di salvaguardia, no? In ragione è questa, ma comunque una clausola formale di salvaguardia”, laddove, nel contempo, Mori gli aveva detto di non avere informato l’A.G. Dei suoi incontri con Vito Ciancimino perché “si trattava di una questione politica”): se lo scopo di Vito Ciancimino fosse stato solo quello di essere formalmente audito dalla Commissione Parlamentare Antimafia, e non già soltanto dal suo Presidente in forma riservata, non v’era alcun motivo per il quale Mori avrebbe dovuto rivelare a Violante i suoi incontri segreti col medesimo Ciancimino, il quale ben avrebbe potuto, come poi effettivamente ha fatto, inviare direttamente la lettera con la sua richiesta, appunto, di formale audizione.

In altre parole, si vuole dire che, per la sola richiesta di una formale audizione presso la Commissione Antimafia da parte di un soggetto politico ampiamente noto per i suoi rapporti con la mafia, non vi sarebbe stata alcuna logica ragione per indurre Mori a svelare a Violante la sua fonte confidenziale ed i suoi incontri con la stessa, che intendeva mantenere assolutamente in quel momento segreti tanto da non averne riferito in alcun modo – formale o informai e – alla autorità giudiziaria, al solo fine di perorare quella richiesta o, ancor meno giustificatamente, di anticipare a Violante quella richiesta poi formulata per iscritto da Ciancimino.

A ciò si aggiunga, ancora, che, se solo quello fosse stato l’interesse di Mori (anticipare o perorare la richiesta di Ciancimino di formale audizione in Commissione), l’imputato avrebbe potuto attendere le determinazioni della Commissione Antimafia e, poi, semmai, se fossero state negative, intervenire per sollecitare l’accoglimento della richiesta, rinviando a questo momento, soltanto eventuale (perché non v’era ragione di ritenere che la Commissione avrebbe rifiutato l’audizione di Ciancimino una volta che questi avesse rinunziato ad imporre la presenza delle televisioni), la rivelazione dei suoi incontri segreti col Ciancimino.

In conclusione, dunque, deve ritenersi provato – in forza della deposizione resa dal teste Violante, della cui attendibilità, d’altra parte, anche per la sua notoria storia personale e per il suo disinteresse nella questione, non v’è minimamente ragione di dubitare – che effettivamente Mori ebbe a sollecitare al medesimo Violante un incontro personale e riservato con Ciancimino.

Ed allora, se così è, appare del tutto evidente che anche tale episodio smentisce la tesi riduttiva degli imputati sul ruolo di Vito Ciancimino e sulle dichiarate finalità dei contatti con quest’ultimo, mentre è, invece, totalmente coerente con la necessità di assecondare quell’interlocutore, non già per avere informazioni confidenziali di sorta, ma per dimostrare allo stesso che quei Carabinieri che lo avevano contattato erano in grado di (ed intendevano effettivamente) coinvolgere esponenti delle Istituzioni a vari livelli (come si è visto, Ministro della Giustizia, Presidente del Consiglio dei Ministri e Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia), così da dare credibilità alla richiesta di dialogo indirizzata, tramite Vito Ciancimino, ai vertici mafiosi.


Gli incontri al Ministero della Giustizia –  E’ opportuno, innanzitutto, dare conto delle risultanze riguardo all’approccio fatto da De Donno e Mori con la Dott.ssa Liliano Ferraro, già vice direttore generale e poi, dall’agosto 1992, direttore generale degli Affari Penali presso il Ministero della Giustizia, iniziando dalla testimonianza che quest’ultima ha reso in questo processo.

Deve premettersi, però, che qui di seguito si darà conto di tutti i temi affrontati da Liliana Ferraro nel1a sua deposizione testimoniale […], perché sin d’ora utili per formulare alcune considerazioni di carattere generale sul1e dichiarazioni nel tempo rese dalla Ferraro che non possono non suscitare, come si vedrà, forti perplessità sul1a condotta dal1a stessa tenuta nella col1aborazione richiestale per la ricostruzione processuale degli accadimenti.

La teste Liliana Ferraro, esaminata il 16 giugno 2016, in sintesi, ha riferito: di non avere avuto significativi rapporti con De Donno che aveva conosciuto in occasione di un viaggio col Dott. Falcone […], mentre aveva avuto modo di incontrare più spesso il Col. Mori pur non avendo con lo stesso alcuna confidenza (“P.M TARTAGLIA – Sempre con riferimento a quel momento temporale, lei aveva invece rapporti di conoscenza, confidenza o altro con Mario Mori?; DICH. L. FERRARO – Di conoscenza sì, confidenza no […]”);

– che, dopo la morte del Dott. Falcone, De Donno si recò a trovarla al Ministero informandola che stavano tentando di contattare Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo e chiedendole di informare di ciò il Ministro Martelli, cosa che ella accettò di fare anche se riteneva che il punto di riferimento di quell’iniziativa avrebbe dovuto essere l’A.G. e, specificamente, il Dott. Borsellino (“In quei giorni dopo la morte del Dottor Falcone veniva a trovarmi al Ministero una marea di gente, da persone che venivano dall’estero a persone, collaboratori del Dottor Falcone che magari non avevo neppure mai conosciuto… .. … Uno di questi incontri… una di queste persone fu il Capitano De Donno che mi venne a salutare e che, come ho ripetuto in alcune altre occasioni, mi colpì perché piangeva, era molto commosso. Io avevo verificato in passato, l’ho ricordato prima, che era molto in confidenza con il Dottor Falcone, si davano del “tu “, mi disse che erano disperati perché non avevano punti di riferimento, ritenevano di non avere più possibilità di andare avanti, che però avrebbero fatto di tutto per tentare di scoprire gli assassini del Dottor Falcone, che in questa ottica avevano – lui usava il plurale – avuto l’idea di… poiché in passato lui aveva incontrato Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo … aveva avuto l’idea di cercare di vedere se il padre del Ciancimino, essendo stato condannato, essendo stato … oramai aut… voleva fare un salto di collaborazione, quindi poteva dare delle notizie a aiutare a trovare gli assassini del Dottor Falcone. Mi chiese in quella circostanza, il tempo è passato, so che molti ci lavorano e ci hanno lavorato sopra … mi chiese di dirlo al Ministro Martelli. E io dissi che lo avrei sicuramente informato il Ministro Martelli, come era mia abitudine, per tutta quella che era l’attività che io svolgevo, che però questa loro iniziativa, che appartiene ad una iniziativa investigativa chiaramente, però aveva un unico punto di riferimento a mio avviso, che era il punto di riferimento obbligatorio. A parte l’Autorità Giudiziaria … ma l’Autorità Giudiziaria per me era Paolo Borsellino, che era non solo l’Autorità Giudiziaria ma era diciamo quello che … era l’erede di Giovanni Falcone, per me era automatico … “);

– che De Donno parlò al plurale, ma non specificò cosa essi avevano già fatto, ma solo che era loro intenzione raggiungere Vito Ciancimino attraverso il figlio Massimo […];

– di non ricordare più se De Donno parlò di stragi (“P.M TARTAGLIA – Questo sul proposito, comunque sull’attività in corso, è molto importante anche che lei ci riferisca quello che le fu detto da De Donno sulla finalità di questa iniziativa …. .. … La domanda specifica è questa, se De Donno le disse che questa iniziativa di contatto con i Ciancimino avesse dei collegamenti con la questione delle stragi; DICH. L. FERRARO – Guardi, ci ho pensato tantissimo, questa cosa delle stragi nasce anche da una… credo di avere anche una spiegazione del perché io ho parlato di strage, quando ho riferito questa cosa … …. …. DICH. L. FERRARO – Io non lo ricordo con precisione che cosa … chiedo scusa, ma non ricordo con precisione se mi parlò di stragi e di omicidi … sicuramente … credo che c’era stato un omicidio … a parte l’omicidio Lima c’era stato l’omicidio ad Agrigento, un tenente o un carabiniere… … . … Parlava di varie cose, può darsi che abbia usato “stragi” … non lo so con certezza; P.M TARTAGLIA – …. io le chiedo di ricordare se lei ricorda che De Donno quando le fece questo discorso parlò di esigenza connessa alla strage o allo stragismo o ad altra espressione che eventualmente lei ricordi; D/CH. L. FERRARO – Non lo ricordo con precisione; P.M TARTAGLIA – E allora io su questo punto … faccio riferimento, Presidente e signori difensori, al verbale del 17 novembre del 2009 pomeridiano, si tratta in particolare del confronto tra la Dottoressa Liliana Ferraro e l’Onorevole Claudio Martelli, è la pagina 02 del verbale … … . …. Per quel che riguarda il contenuto del colloquio avuto col De Donno la Dottoressa Ferraro dichiara: «È possibile che abbia utilizzato in occasione delle conversazioni telefoniche da ultimo avute col Dottor Martelli il termine “fermare lo stragismo” per indicare le finalità che il R.O.S. intendeva ottenere con la collaborazione di Ciancimino, ma intendendo comunque riferirsi all’escalation di violenza, di cui peraltro parlava sempre il Dottor Falcone dopo l’omicidio Lima, che aveva portato proprio all’omicidio dell’Onorevole Lima ed alla strage di Capaci»; DICH. L. FERRARO – Confermo nel senso che … esattamente quelle parole”);

– che in tempi più recenti, nel 2009, Martelli le aveva telefonato per avere conferma del suo ricordo e lei lo aveva, però, corretto quanto alla interlocutrice che era stata, appunto, lei e non già la Dott.ssa Pomodoro […], parlando, poi, forse, di stragismo […];

– di ricordare, comunque, che De Donno disse che intendevano acquisire elementi di conoscenza da Ciancimino […] e che ella non chiese spiegazioni, limitandosi ad invitarlo a rivolgersi al Dott. Borsellino […];

– che, per quel che ricorda, i Carabinieri non avevano ancora parlato con il Dott. Borsellino […];

– che disse anche a De Donno che riteneva non necessario avvertire anche il Ministro, cosa che, comunque, avrebbe fatto […];

– che, in sostanza, i Carabinieri volevano un sostegno politico stante la caratura del personaggio Ciancimino […], pur non avendo approfondito tale aspetto […];

– che pur ritenendo la cosa di nessuna importanza, aveva ritenuto doveroso informare il Ministro per fargli sapere che i Carabinieri stavano facendo di tutto per scoprire gli assassini del Dott. Falcone […]; […]

– che è possibile che avesse parlato a Martelli del sostegno politico richiesto dai Carabinieri […];

– di ritenere di avere, allora, riferito dettagliatamente a Martelli il colloquio con De Donno […];

– di non ricordare quando avvenne il colloquio con De Donno, ma che dalle ricostruzioni successivamente operate questo avvenne nei giorni tra il trigesimo della strage di Capaci ed il giorno 28 giugno in cui, secondo quanto risultante da una agenda del Dott. Borsellino, aveva incontrato quest’ultimo […];

– che De Donno non fece altri nomi, ma che ella pensò ovviamente al ROS […];

– di ricordare di avere parlato con Martelli in quella stessa settimana probabilmente prima di parlare con il Dott. Borsellino[…];

– che il Ministro Martelli si irritò molto (“P.M TARTAGLIA – Ricorda quale fu la reazione del Ministro Martelli quando lei riferì questa circostanza?; DICH. L. FERRARO – Si irritò molto… … . .. Perché lui diceva che questi si intromettevano in indagini che avrebbe dovuto fare la D.I.A. “), invitandola a parlrne con Borsellino (“«Fai benissimo a parlare con Borsellino»”);

– che l’incontro del 28 giugno 1992 col Dott. Borsellino fu concordato perché anche il predetto aveva necessità di parlarle […] e, comunque, ella non aveva ravvisato particolare urgenza di riferire quanto appreso da De Donno […];

– che l’incontro avvenne in una saletta riservata della Polizia a Fiumicino […] ed ella riferì quanto detto da De Donno (“lo ho riferito al Dottor Paolo Borsellino esattamente quello che abbiamo detto qui, quello che all’epoca ricordavo, quello che mi aveva detto il Capitano De Donno… … . ..io ho riferito tutto al Dottor Paolo Borsellino”), anche della richiesta di sostegno politico, e Borsellino rispose che ci avrebbe pensato lui (“P.M TARTAGLIA – Riferì anche della richiesta di sostegno politico?; DICH. L. FERRARO – Assolutamente sì. E il Dottor Paolo Borsellino mi rispose … questo l’ho ricordato sempre e mi colpì … «Ci penso io»”);

– che il Dott. Borsellino non disse né le fece capire se fosse stato già informato di quei fatti […];

– che il Dott. Borsellino non le parlò di incontri avuti di recente con De Donno e Mori […], ma le chiese di ricostruire la vicenda dell’invio al Ministero, da parte della Procura di Palermo, del rapporto “mafia-appalti” (“Lui volle che io gli raccontassi nuovamente tutto il percorso che lui aveva conosciuto attraverso quello che gli aveva detto Giovanni Falcone, dell’arrivo del rapporto al Ministero di Grazia e Giustizia. Lui sapeva che io conoscevo questo percorso perché glielo aveva detto il Dottor Falcone … cioè questo rapporto era stato inviato … era arrivato al Ministro Martelli e il Dottor Falcone era appena partito per Palermo, dalla segreteria del Ministro avevano avvertito il Dottor Falcone che c’era questo faldone che … “) e si parlò anche di colloqui investigativi in relazione a Mutolo (“P.M TARTAGLIA – Si parlò anche di colloqui investigativi?; DICH. L. FERRARO – Col Dottor Paolo Borsellino abbiamo parlato … gli ho riferito della visita di De Donno, del rapporto mafia – appalti, dei colloqui investigativi, ma con riferimento a Mutolo, perché c’era il problema di andare a sentire Mutolo. Mutolo voleva essere sentito soltanto dal Dottor Paolo Borsellino e il Procuratore della Repubblica di Palermo aveva invece delegato prima altro Magistrato da solo, la richiesta del Dottor Paolo Borsellino, ed era la ragione per la quale poi mi aveva chiamata, quindi mi ha spiegato che mi sollecitava a scendere a Palermo per questa ragione, cioè per andare a parlare anch’io con il Procuratore della Repubblica, che era il Dottor … … …. Giammanco … che era il Dottor Giammanco, per dirgli che era opportuno che il colloquio investigativo lo facesse il Dottor Paolo Borsellino, in quanto il primo contatto con Mutolo lo aveva avuto il Dottor Falcone e aveva garantito il Dottor Falcone a Mutolo che sarebbe stato affidato a persone di fiducia”);

– di essere abbastanza sicura di avere detto anche al Dott. Borsellino di avere parlato col Ministro Martelli (“lo sono abbastanza sicura di avere detto che avevo parlato col Ministro, non lo so se ho detto a Paolo Borsellino anche della reazione del Ministro Martelli. Questo non lo ricordo”);

– che quell’anno, nell’autunno, ebbe altri incontri con Mori e De Donno […], il ricordo di uno dei quali le fu sollecitato ancora da Martelli […] e che potrebbe essere certamente quello annotato nell’agenda del Gen. Mori alla data del 21 ottobre 1992 […] ed anche in questo caso sicuramente sollecitato dallo stesso Mori (“P.M TARTAGLIA – Lei è in grado di ricordare innanzitutto se questo incontro fu cercato da Mori, fu cercato da altri o fu cercato da lei?; DICH. L. FERRARO – Da me sicuramente no. Sicuramente fu cercato o da Mori o … cioè fu cercato da loro”);

– che a tale incontro era probabilmente presente anche De Donno e si parlò della richiesta di Vito Ciancimino per il rilascio del passaporto […];

– che anche tale incontro, come il precedente, avvenne nel suo ufficio[…];

– di non ricordare in dettaglio tale richiesta, ma di avere, comunque, invitato i Carabinieri a rivolgersi alla A.G. […];

– di non ricordare se chiese ai Carabinieri perché si rivolgessero a lei […];

– che anche in questo caso percepì la singolarità di quella richiesta, tanto da riferirla al Ministro, anche se probabilmente i Carabinieri non la informarono che a carico di Ciancimino vi era un processo pendente […];

– di non avere saputo nulla di quanto era avvenuto dopo l’incontro di De Donno del giugno precedente riguardo a Ciancimino, tanto che poi si stupì della richiesta di colloquio investigativo che il ROS avanzò pochi giorni dopo l’arresto di Riina (”Non ho mai saputo niente, tant’è vero che ho anche dichiarato che mi stupii anche quando dopo la cattura di Riina mi arrivò una richiesta dei R.O.S., sei giorni dopo o sette giorni dopo, di un colloquio investigativo e io mi domandai per quale ragione facessero questa cosa”);

– che con Mori e De Donno si parò anche di colloqui investigativi per il fatto che essi sollecitavano che questi potessero essere estesi anche ad altri non appartenenti ai reparti specializzati del ROS, dello SCO e del GICO […];[…]

– che ella era titolare della delega del Ministro per i colloqui investigativi (“Ebbi l’incarico del Ministro di dare i colloqui investigativi, la delega del Ministro per la concessione del colloquio investigativo”) e, per tale ragione, ricevette il 20 gennaio 1993 la richiesta del ROS, a firma Subranni, di un colloquio investigativo con Vito Ciancimino […];

– che rimase stupita da tale richiesta (“Ho già detto che mi sono stupita molto … … …. ho detto che mi stupì moltissimo …. … …. Perché era otto giorni dopo la cattura… … . .. cinque giorni dopo la cattura di Riina, l’ho vissuta come la conferma che non avevano concluso niente … … …. Parliamo di Ciancimino, Pubblico Ministero, non parliamo della cattura di Riina. La cattura di Riina era avvenuta per quello che io avevo appreso attraverso un’operazione fatta dai Carabinieri con Di Caprio e tutto il gruppo che aveva lavorato giù a Palermo. Questo io ho saputo”);

– che non era infrequente che le questioni carcerane passassero anche dall’ufficio deli Affari Penali e che, per tale ragione, espresse, nella qualità di Direttore del detto Ufficio, il 12 agosto 1992, un parere contrario alla proposta del Direttore del DAP Amato di applicazione generalizzata in alcune carceri del regime del 41 bis comma l […];

– che probabilmente apprese già all’epoca della mancata proroga dei provvedimenti di 41 bis del novembre 1993, per quel che ricorda, attribuita all’intendimento di allentare la tensione carceraria, cui ella manifestò contrarietà […];

– di avere conosciuto il dotto Di Maggio dopo la morte del Dott. Falcone, anche se questi, in precedenza, gli aveva prospettato di chiamarlo a collaborare con lui alla Direzione Affari Penali del Ministero, cosa che l’aveva stupita essendo a conoscenza dei trascorsi rapporti non buoni tra gli stessi […];

– che dopo la morte del Dott. Falcone, quindi, Di Maggio si recò a trovarla al Ministero per proporsi ancora agli Affari Penali […];

– che dopo molto tempo, nel 1993, Di Maggio tornò, dicendole, però, che si erano create le condizioni per la sua destinazione al DAP […];

– che, per quel che ricorda, Di Maggio disse che aveva parlato col Ministro Conso […]e che, però, anche il Presidente Scalfaro era informato […];

– che in quel primo colloquio Di Maggio si era riferito genericamente al settore carcerario senza riferimenti al ruolo di direttore o vice direttore del DAP di cui parlò successivamente

[– che Di Maggio le chiese conferma della sua mancanza di titoli, o per meglio dire di anzianità, per ricoprire il ruolo di vice direttore del DAP e le chiese come ovviare […];

– che Di Maggio le chiese di aiutarlo a preparare una bozza del provvedimento di nomina da sottoporre, poi, al Consiglio dei Ministri […];

– che tale bozza fu, quindi, preparata nel suo ufficio con l’aiuto anche del Dott. Loris D’Ambrosio […];

– che non vi sarebbe stato bisogno di alcunché, invece, se Di Maggio fosse andato alla Direzione degli Affari Penali o all’Ufficio Detenuti […];

– che D’Ambrosio non le aveva mai esternato le perplessità sul provvedimento di nomina di Di Maggio cui aveva fatto cenno nella intercettazione del colloquio avuto il 25 novembre 2011 con Mancino […];

– di avere ritenuto che fu Di Maggio a chiedere di andare al DAP poiché non v’era più Falcone agli Affari Penali […];

– che la predisposizione della bozza del decreto di nomina le fu sollecitata soltanto da Di Maggio come favore personale […] per il quale ella non informò alcuno […] anche perché Di Maggio le aveva detto che aveva concordato con Conso quel trasferimento e che il Presidente Scalfaro era informato […];

– che dopo la mancata proroga dei 41 bis del novembre 1993 aveva, quindi, chiesto spiegazioni a Di Maggio e questi le aveva detto che gli “avevano preso la mano” […];

– che Di Maggio non specificò a chi si riferisse, ma aggiunse che erano “uno peggio dell’altro” […];

– di essere a conoscenza che Di Maggio aveva rapporti con ufficiali già del ROS quali Bonaventura e con lo stesso Mori col quale andava a cena […];

– che quando era stata sentita il 25 gennaio 2012 non ricordava nulla della vicenda della nomina di Di Maggio che aveva potuto ricostruire soltanto successivamente quando era divenuta pubblica e, quindi, nota, nel giugno 2012, l’intercettazione della conversazione D’Ambrosio-Mancino […];

– di non sapere spiegare perché, dopo avere elaborato il ricordo, non si fosse spontaneamente ripresentata alla A.G. per rettificare le precedenti dichiarazioni […];

– che quando arrivò al Ministero il plico contenente il rapporto “mafia-appalti” trasmesso dalla Procura di Palermo il Dott. Falcone la pregò di esaminarlo per riferirgli […], ma poi la richiamò dicendole che non era più necessario perché aveva saputo di cosa si trattava e che occorreva, quindi, preparare una lettera del Ministro per restituire il plico alla Procura di Palermo […];

– di avere riferito dell’incontro con De Donno soltanto nel 2009 perché aveva dimenticato quell’episodio, anche se precedentemente ne aveva parlato anche col Dott. Chelazzi in occasione di una testimonianza pur se in tale occasione ciò non era stato verbalizzato […];

– che, infatti, quando il 10 maggio 2002 il Dott. Chelazzi le aveva fatto domande sulla questione carceraria, poi, il verbale era stato redatto soltanto in modo parziale e, quindi, era stato interrotto per un impegno dello stesso Dott. Chelazzi che si era, quindi, ripromesso di richiamarla un’altra volta […];

– di non ricordare se riferì al Dott. Chelazzi anche della richiesta del passaporto per Ciancimino […];

– che il verbale riassuntivo fu fatto subito senza alcun cenno alla vicenda De Donno per mancanza di tempo […];

– di non sapere spiegare come mai non ebbe subito a ricordarsi della vicenda De Donno-Mori quando, durante la registrazione, il Dott. Chelazzi le fece una domanda specifica proprio sulle frequentazioni ministeriali di Mori […];

– che nell ‘incontro del 28 giugno 1992 il Dott. Borsellino le aveva fatto molte domande sulla vicenda dell ‘arrivo del plico con il rapporto “mafia-appalti” al Ministero […];

– che nella stessa occasione aveva telefonato al Procuratore Giammanco per avvertirlo che voleva incontrarlo per parlargli dei colloqui investigativi […];

– che il giorno dopo rappresentò a Giammanco l’opportunità che fosse delegato al Dott. Borsellino l’interrogatorio di Mutolo, ma Giammanco si mostrò in disaccordo, anche se, poi, aveva accettato di delegare Borsellino insieme, al Dott. Aliquò […];

– che la notte successiva alla strage di via D’Amelio il Direttore del DAP Amato le disse che non condivideva il provvedimento di trasferimento dei detenuti nelle carceri e che non spettava a lui predisporre il decreto, tanto che dovette ella predisporre quel decreto e farlo firmare al Ministro all’aeroporto di Palermo […];

– di avere percepito una modifica della linea tracciata dal Dott. Falcone già subito all’arrivo del Ministro Conso […];

– che la decisione del trasferimento dei detenuti nella notte successiva alla strage di via D’Amelio fu presa con l’accordo di tutti i Ministri presenti […];

– che soltanto Nicolò Amato espresse contrarietà […] anche parlando personalmente col Ministro Martelli […];

[…]  – che il tentativo di agganciare Vito Ciancimino era funzionale alla cattura degli assassini del Dott. Falcone […];

– di non ricordare la data in cui avvenne l’incontro con i Carabinieri per la questione del passaporto di Ciancimino[…];

– che Mori in sostanza le chiese quale fosse la procedura attraverso la quale Ciancimino avrebbe potuto ottenere il passaporto […];

– che anche se giudicò il colloquio con Mori relativo al passaporto di Ciancimino di nessuna rilevanza, ritenne, comunque, di riferirlo a Martelli perché la questione riguardava Palermo [

LA VALUTAZIONE DELLA TESTIMONIANZA DI LILIANA FERRARO

Prima di esaminare le risultanze delle dichiarazioni rese da Liliana Ferraro nella parte qui rilevante relativa ai due incontri del giugno e dell’autunno 1992 che ella ebbe con De Donno e Mori, rinviando, invece, al prosieguo l’esame di altre controverse questioni pur rilevanti ai fini della complessiva ricostruzione degli accadimenti, succedutisi tra il 1992 e il 1993, che è necessaria in relazione alla specifica formulazione dell’imputazione di cui al capo A) della rubrica di cui in epigrafe (tra le quali anche quello della nomina del Dott. Di Maggio quale vice direttore del D.A.P. di cui pure si tratterà approfonditamente), è opportuno formulare sin d’ora alcune considerazioni di carattere generale sulla predetta deposizione della teste Ferraro, che, per certi versi, è apparsa sorprendente soprattutto per il rapporto “storico” dalla stessa intrattenuto con il Dott. Falcone e che avrebbe dovuto portarla a fornire, tempestivamente e in modo assolutamente spontaneo, informazioni, che, quale che possa essere la loro considerazione, comunque, nell’intento degli investigatori che se ne occupavano (o le ricercavano), erano dirette a meglio ricostruire quei contesto che ha preceduto e seguito le stragi di Capaci e di via D’Amelio, oltre che le successive stragi dei 1993.

Ed invece è emerso dalle contestazioni effettuate dal P.M. all’udienza del 16 giugno 2016 di cui prima si è dato conto che la Dott.ssa Ferraro soltanto il 14 novembre 2009, per la prima volta e soltanto dopo che ne aveva riferito Claudio Martelli (v. testimonianza di questi prima pure riportata), ritenne di dovere riferire gli incontri avuti con i Carabinieri del ROS nel corso dei quali si parlò di contatti con Vito Ciancimino.

Né può sostenersi che quegli episodi fossero per lei privi di rilevanza e che, quindi, li avesse totalmente dimenticati sino ad allora (e, d’altra parte, che, invece, fossero ben presenti nella sua mente è dimostrato anche dal fatto che, sebbene colta alla sprovvista in strada con una telefonata, non ebbe alcuna esitazione a ricordarli, correggendo anzi il diverso ricordo di Martelli, quando questi la chiamò per avere, appunto conferma del suo ricordo: v. testimonianza Martelli sul punto già prima riportata), perché la stessa Ferraro ha riferito che le sovvennero già spontaneamente nel 2002 allorché era stata esaminata dal Dott. Chelazzi proprio su vicende evidentemente connesse.

Ed occorre dire che la ricostruzione operata dalla Ferraro quando era nota soltanto la verbalizzazione riassuntiva di tale atto investigativo compiuto dinanzi al Dott. Chelazzi (secondo la quale ella ebbe, in realtà, a riferire quegli episodi a quest’ultimo ancorché gli stessi non vennero verbalizzati per mancanza di tempo) appare veramente poco credibile: dalla trascrizione della registrazione integrale ora acquisita dal P.M. e, quindi, contestata alla teste nella predetta udienza del 16 giugno 2016, emerge che già nel corso di quell’esame il Dott. Chelazzi ebbe a fare alla Ferraro dirette e specifiche domande, in generale, sulle “frequentazioni ministeriali” di Mori nel 1992 e, più specificamente, sulla visita di Mori in data 21 ottobre 1992 […], ottenendo, a registratore acceso, una risposta assolutamente evasiva (“«Adesso io non ricordo perché venne, però io conoscevo il Colonnello Mori, tra l’altro avevo la delega per i colloqui investigativi anche, quindi può essere stato per una qualsiasi cosa, ma anche per una chiacchierata»”), così che appare inverosimile che soltanto dopo la conclusione tanto della registrazione quanto della successiva verbalizzazione riassuntiva la Ferraro, come ella ora afferma, si sia ricordata delle dette frequentazioni e le abbia riferite al Dott. Chelazzi.

D’altra parte, a riprova di tale inverosimiglianza, v’è la circostanza che il Dott. Chelazzi, il cui scrupolo investigativo aveva pochi pari e che attribuiva a quelle frequentazioni ed ai contatti Mori-Ciancimino particolare importanza nel contesto delle sue indagini, non richiamò più la Ferraro per verbalizzare quelle dichiarazioni, da questa asseritamente rese in modo informale, nei molti mesi che ancora trascorsero prima del suo improvviso decesso e nonostante ancora nei giorni antecedenti a tale infausto evento si stesse occupando a tempo pieno della C.d. “trattativa” e di Mori (v., sul punto, anche le dichiarazioni del teste Alfonso Sabella).

Ma ancora più eclatanti appaiono le “dimenticanze” della Ferraro quando venne esaminata dal P.M. il25 gennaio 2012.

Anche in questo caso il P.M. ebbe a farle domande dirette e specifiche stavolta sulla nomina di Di Maggio a vice direttore del DAP nonostante non avesse l’anzianità professionale (essendo ancora “magistrato di tribunale”) per ricoprire tale ruolo e ciò sulla base di quanto precedentemente riferito da altro teste, il magistrato Calabria, in sede di Commissione Parlamentare Antimafia (di questa vicenda, come anticipato, si parlerà ampiamente nel prosieguo).

Ebbene, a fronte di tale richiesta specifica e precisa del P.M. (“Pubblico Ministero: «E questo problema di Di Maggio come venne superato?»”), la Ferraro, che, come ha poi dichiarato, era stata direttamente investita della questione dallo stesso Di Maggio ed aveva avuto un ruolo diretto e di primo piano nella sua risoluzione, addirittura ha riferito di avere appreso di come era stato superato quel problema soltanto leggendo informazioni su internet (“Ferraro: «Con … ecco, però, ripeto, questo l’ho visto su internet»”), ribadendo di non ricordare altro nonostante le fosse stato poi chiesto se in qualche modo ella era stata coinvolta in quella vicenda (“Pubblico Ministero: «E lei ebbe in quel momento in relazione a quella soluzione di nomina del Dottor Di Maggio … …. … Venne coinvolto in qualche modo?» Ferraro: «Che io ricordi no. Tra l’altro, ripeto, non ricordavo neppure… non ricordo, ecco, non ricordo neppure … non ricordavo neppure e non ricordo che c’era questa perdita delle funzioni giudiziarie”).

Orbene, anche in questo caso appare assolutamente incredibile che, a fronte di quelle specifiche ed inequivoche sollecitazioni, la Ferraro potesse non ricordare che, invece, come detto, era stata la principale artefice della soluzione trovata, essendo stata direttamente e personalmente investita della questione proprio da Di Maggio, e che addirittura nel suo ufficio era stata predisposta la bozza del decreto poi sottoposto alla approvazione del Consiglio dei Ministri e che, però, poi, si sia ricordata di quanto accaduto soltanto pochi mesi dopo quando era emerso che il fatto era ormai noto per averne parlato Loris D’Ambrosio in una conversazione intercettata ed a quel punto resa pubblica.

D’altra parte, è significativo che la Ferraro, magistrato, che pure aveva decisamente negato il proprio coinvolgimento in quella vicenda in una testimonianza resa alla A.G. nell’ambito di importanti indagini, non si sia, a quel punto, spontaneamente presentata alla medesima o ad altra A.G. per rettificare le erronee informazioni precedentemente rese.

Ora, si è ritenuto opportuno formulare le suddette considerazioni perché, pur senza volere ritenere che, come adombrato dal P.M. attraverso alcune domande, quelle reticenti dichiarazioni possano essere conseguenza del rapporto in qualche modo instaurato dalla Ferraro con i Servizi di Sicurezza di questo Paese quale consulente del competente Dipartimento presso la Presidenza del

Consiglio diretto dal Sottosegretario Gianni Letta, non v’è dubbio che traspare dalla testimonianza della Ferraro un atteggiamento complessivamente ambiguo che fa il paio con l’evidente tentativo di minimizzare gli approcci del ROS con Vito Ciancimino.

Basti qui considerare, In proposito, ma di ciò si darà conto più approfonditamente più avanti, di quanto riferito riguardo alle motivazioni sia della prima sollecitazione di De Donno del giugno 1992 (far sapere al Ministro Martelli che il ROS si stava prodigando per scoprire gli assassini di Falcone, come se qualcuno potesse dubitare che, in quel momento, tutte le Forze dell’Ordine stessero profondendo il massimo impegno per raggiungere quell’obiettivo), sia, ancor più, della seconda visita fatta da Mori in cui si parlò del passaporto per Ciancimino, quasi, a sentir la Ferraro, soltanto a livello conoscitivo dell’iter della pratica necessaria e non già, come non pare possa dubitarsi perché non vi sarebbe altrimenti alcuna logica spiegazione, per sollecitare in qualche modo un intervento al fine di agevolare quel risultato.

D’altra parte, se i termini dei colloqui poi riferiti dalla Ferraro a Martelli fossero stati quelli oggi raccontati e minimizzati, pur se si volesse prescindere da quanto diversamente dichiarato dallo stesso Martelli (v. sopra), non si comprenderebbe l’estrema irritazione di quest’ultimo raccontata dalla medesima Ferraro, irritazione ben comprensibile, invece, se il primo colloquio avesse avuto ad oggetto, come appunto riferito da Martelli, la richiesta di una “copertura politica” e il secondo il rilascio di un passaporto in favore di Vito Ciancimino. Ma di ciò, come detto di parlerà più diffusamente esaminando il complesso delle risultanze probatorie.


Paolo Bellini e i “piani alti” dello Stato E’ necessario, però, a questo punto, ancora prima di affrontare il tema delle risposte date da Riina alle sollecitazioni che gli pervennero tramite Vito Ciancimino, esaminare anche un’altra vicenda che in parallelo si svolse nella stessa estate del 1992.

Ci si intende riferire a quel tentativo di trattativa tra le cosche mafiose ed i Carabinieri portato avanti da Paolo Bellini, “un ambiguo personaggio legato ad ambienti dell’estrema destra eversiva” […]. Anche su tale vicenda è stata svolta un’intensa attività istruttoria di cui deve darsi conto, muovendo proprio dalle dichiarazioni rese dal Bellini.

[…] L’esame ha preso le mosse dall’avvio della collaborazione iniziata, prima, come testimone di giustizia affidato al Servizio centrale di protezione, e poi come collaboratore di giustizia, tra il 1999 ed il 2002 […]. Nell’ambito della detta collaborazione il Bellini ha riferito spontaneamente di omicidi commessi per conto proprio e di omicidi commessi per la ‘ndrangheta, quale consigliere killer della ‘ndrina; questi ultimi omicidi sono stati commessi nel territorio di Reggio Emilia […].

Bellini ha chiarito, quindi, come era iniziata la sua appartenenza alla ‘ndrangheta, allorché, dopo un arresto subito a Firenze per un omicidio, si era trovato in cella, nel carcere di Prato, con tale Vasapollo Nicola, inserito in una “famiglia” di Cutro, Dragone, un clan calabrese, e che viveva a Reggio Emilia, avendo ivi anche parenti; il Vasapollo conosceva i trascorsi criminali del Bellini e gli aveva chiesto uno scambio di favori, il Bellini avrebbe dovuto uccidere una persona per conto della ‘ndrangheta e questa avrebbe ucciso una persona per conto del Bellini […].

Indi, il Bellini ha raccontato dei periodi di latitanza trascorsi all’estero, in particolare in Brasile dove si era recato dopo un delitto grazie all’appoggio fornitogli da Avanguardia Nazionale e, in particolare, dalla sezione di Massa Carrara di Pietro Fioroni, che gli aveva procurato un passaporto falso per consentirgli l’espatrio, mentre, poi, in Brasile egli non aveva più avuto contatti con tale organizzazione ed aveva utilizzato documenti con una identità brasiliana ottenuti sfruttando una legge locale […].

Bellini ha riferito ancora più dettagliatamente dei suoi rapporti con Avanguardia Nazionale, fondata da Stefano delle Chiaie, che Belllini, però, non aveva mai conosciuto, avendo avuto contatti solo con la sezione di Massa Carrara […].

Bellini si è soffermato, a questo punto, sulla sua detenzione a Sciacca negli anni ’80 con il nome falso utilizzato in Brasile, ovvero Roberto Da Silva, fin dal primo arresto di Firenze per furto di opere d’arte […].

Bellini, quindi, ha riferito dei suoi rapporti con Antonino Gioè, da lui conosciuto in carcere a Sciacca nel periodo di detenzione tra il 1981 e il 1982, dopo il proprio trasferimento da Firenze […], precisando che inizialmente anche il Gioè lo conosceva con l’identità falsa di Roberto Da Silva, ma che, poi, egli gli aveva comunicato la sua vera identità in occasione del trasferimento a Palermo […] ove già si trovava Gioé, che, peraltro, in quella occasione gli ebbe a dare l’impressione di essere già precedentemente a conoscenza di quel trasferimento In particolare, egli aveva confidato al Gioè di essere italiano e questi gli aveva risposto che lo aveva già intuito, ma che per riservatezza non gli aveva chiesto niente […], mantenendo, da quel momento, i contatti col Gioé anche per via epistolare quando entrambi erano stati trasferiti in altri carceri […].

I contatti con Gioè, quando entrambi erano ormai liberi, erano ripresi nel 1991, forse dicembre, allorché Bellini si era recato in Sicilia per effettuare il recupero crediti o la gestione degli stessi per conto della propria azienda Finbelco e, dovendo, in particolare, recuperare due crediti, uno su Palermo e uno su Catania del notevole importo di circa tre miliardi di lire provenienti da forniture dentistiche e non sapendo con quali soggetti si sarebbe dovuto confrontare in Sicilia, aveva pensato di contattare il Gioè per chiedergli informazioni sui debitori ed eventualmente un aiuto per quell’attività di recupero; pertanto, dopo essere sbarcato a Messina, nell’intento di recarsi ad Altofonte per rintracciare il Gioè di cui non aveva il numero di telefono, aveva preso l’autostrada per Catania e, il 6 dicembre 1991, si era fermato a dormire ad Enna nell’albergo principale, Hotel Sicilia, negando, nonostante le domande incalzanti del Pubblico Ministero, di avere avuto altre ragioni per raggiungere Palermo attraverso l’autostrada da Catania e per effettuare quella sosta ad Enna […].

Da Enna Bellini aveva telefonato a casa di Gioé e gli aveva risposto la moglie di quest’ultimo informandolo che il marito si trovava presso il distributore di carburanti da lui gestito […], ove forse lo aveva raggiunto il giorno dopo […] e gli aveva esposto le ragioni del suo viaggio […].

Tale versione dei fatti è stata ribadita dal Bellini nonostante le contestazioni del Pubblico Ministero che ha invitato più volte il teste a spiegare come mai si fosse recato in Sicilia senza preventivo contatto con i clienti e senza preventivo contatto con il Gioè, con il rischio quindi di fare un viaggio a vuoto […].

Bellini, poi, ha riferito dei suoi successivi viaggi in Sicilia ancora per incontrare  Gioé, ma, questa volta, per ragioni diverse relative ad una vicenda di droga ed al recupero di opere d’arte trafugate dal museo di Modena, che, poi, aveva avuto ben altri sviluppi […].

In particolare, Bellini ha, innanzitutto, ricordato di avere contattato Gioè probabilmente dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio […], poiché, precedentemente, sia l’Ispettore Procaccia della Polizia che conosceva da tempo, sia il M.llo Tempesta del Nucleo Tutela Patrimonio Artistico che aveva conosciuto tramite un ricettatore di San Benedetto del Tronto, tale Agostino Valorani, lo avevano interpellato per il recupero delle opere d’arte rapinate qualche mese prima alla Pinacoteca di Modena […].

Bellini ha riferito, quindi, che, manifestando il proprio sentimento di sconcerto per le stragi in cui avevano perso la vita Falcone e Borsellino, aveva proposto al M.llo Tempesta di infiltrarsi in “cosa nostra” […].

L’epoca di tale incontro è stato oggetto di specifica contestazione del P.M., a seguito della quale Bellini ha dichiarato che il riferimento alle elezioni politiche del 1992 che aveva fatto in occasione del suo esame del 29 novembre 1994 riguardava l’incontro con l’ispettore Procaccia (d’altra parte, facilmente databile in relazione ad un articolo apparso sui giornali emiliani, dallo stesso Bellini sollecitato, relativo alla pubblicità del suo interessamento per il recupero delle opere d’arte della Pinacoteca di Modena) e non quello con il Maresciallo Tempesta, che, invece, doveva collocarsi o dopo entrambe le stragi o almeno dopo la strage di Capaci […].

Bellini ha anche raccontato che il M.llo Tempesta gli aveva fornito alcune fotografie raffiguranti opere d’arte rubate poste all’interno di una busta gialla intestata “Nucleo Tutela Patrimonio Artistico” o “Patrimonio Artistico” affinché egli potesse interessarsi al recupero attraverso i suoi contatti con mafiosi siciliani e veneti […].

Bellini ha, quindi, riferito di un successivo incontro col M.lIo Tempesta avvenuto, dopo che questi aveva parlato con il Col. Mori, in agosto a Roma presso un distributore di benzina sul raccordo anulare ove il Tempesta era arrivato a bordo di una autovettura Fiat Uno rossa turbo con un collega, che però era stato fatto allontanare durante il loro colloquio privato, e lo aveva informato dell’autorizzazione data dal Col. Mori senza la quale egli non avrebbe proceduto nell’intento di infiltrarsi in “cosa nostra” […].

Bellini non ha saputo indicare quanto tempo fosse trascorso tra il primo incontro con il Tempesta ed il secondo presso l’autogrill […], ma ha ribadito che il M.llo Tempesta gli disse che il Col. Mori aveva autorizzato l’operazione […] e che per infiltrarsi avrebbe potuto sfruttare la vicenda del furto delle opere della Pinacoteca, pur raccomandandogli di non prendere con i mafiosi impegni che poi non si sarebbero potuto rispettare e chiedendogli, nella occasione, se egli faceva parte dei servizi segreti […].

Bellini ha aggiunto che ad Antonino Gioè, non potendo dire che la vicenda del recupero delle opere d’arte interessava i Carabinieri, sfruttando il timbro del Ministero dei Beni Culturali apposto sulla busta gialla contenente le fotografie, aveva detto che la richiesta di informazioni ed il recupero delle opere interessava sia i politici locali di Modena, sia, su contestazione del P.M., il Ministero dei Beni Culturali […], negando, però, di avere fatto al Gioè il nome di Spadolini, che peraltro non conosceva, perché sarebbe stato un’arma a doppio taglio qualora fosse stato richiesto in cambio proprio qualche favore da realizzare attraverso l’intervento di quel politico […].

Nel secondo incontro, invece, Gioè gli aveva consegnato un foglio con alcuni nomi di soggetti ai quali far avere gli arresti domiciliari o ospedali eri, che egli non conosceva, ma che avevano allarmato il M.llo Tempesta quando gli aveva consegnato quel biglietto per farlo avere al Col. Mori […]. Bellini, poi, su suggerimento del M.llo Tempesta, al fine di mantenere aperto quel canale di contatto, aveva detto al Gioé che, forse, soltanto per uno o due di quei nomi si poteva vedere di ottenere gli arresti domiciliari […], anche perché lo stesso Gioè non gli aveva proposto la cosa in termini assoluti […].

Bellini ha, altresì, raccontato che anche Gioè, non ricorda se nel secondo o terzo incontro, gli aveva consegnato alcune fotografie di opere d’arte, che avrebbero potuto recuperare, diverse da quelle rapinate a Modena e che egli aveva consegnato al M.llo Tempesta […], precisando, poi, che si trattava di quadri rubati in Sicilia […] e che, d’altra parte, lo stesso Gioè era in possesso di opere d’arte,tra cui un trittico di particolare valore, detenute presso una sua casa ancora in costruzione, che gli aveva mostrato […].

Bellini ha detto di non ha ricordare, però, ove aveva incontrato il M.llo Tempesta per consegnargli il bigliettino con i nomi e la busta con le fotografie delle opere d’arte che aveva ricevuto da Gioè […].

Ancora Bellini ha ribadito che il M.llo Tempesta non intendeva far da referente e che per tale ragione gli aveva rappresentato che sarebbe stato contattato da qualcuno del ROS, anche se sino a quel momento ciò non era avvenuto […], avendo già parlato con il Col. Mori […] e per tale ragione invitandolo a mantenere aperto il canale con i mafiosi[…].

Bellini, poi, ha ricordato che tale incontro presso la cava era avvenuto dopo che egli aveva riportato al Gioé la risposta parzialmente negativa del Tempesta sui cinque nomi contenuti nel biglietto e che, proprio in occasione dell’incontro presso la cava, Gioè si era lamentato della poca serietà dei suoi interlocutori istituzionali ed aveva fatto un cenno ad un possibile attentato ai danni della Torre di Pisa (“lo mi ricordo che gli ho dato la risposta per quel che mi avevano detto, cioè che non si poteva, praticamente, per tutte queste persone, che però forse, sempre questo forse, suggeritomi tra l’altro da Tempesta, si poteva vedere per una forma più leggera ospedaliera, per uno o due di quei nominativi. Tutto qua. Si è preso atto, poi non se ne parlò più. Poi ci fu cava

Buttidda dove Gioè mi disse che quella gente non era gente seria, che comunque così, “che ne direste se un giorno scomparisse la Torre di Pisa” e non su sollecitazioni mie, ma parole sue, testuali, verbali, che io poi ho riferito subito al maresciallo Tempesta”), sollecitando il suo parere […]. Ancora ai fini della collocazione temporale di tale incontro Bellini ha riferito che subito dopo egli aveva telefonato al Ministero dei Beni Culturali per rintracciare il M.llo Tempesta, presentandosi a chi gli aveva risposto con il solito pseudonimo di “Aquila Selvaggia” 

[…] In proposito, dopo esplicita contestazione, il Bellini ha confermato quanto già dichiarato al P.M. di Firenze il 7 giugno 1997 […], pur non riuscendo a collocare con certezza nel tempo l’occasione in cui aveva avuto quel colloquio con Gioé […] anche se, d’altra parte, negli ultimi mesi del 1992 il discorso sull’ipotizzato scambio tra opere d’arte e arresti ospedalieri per qualche esponente mafioso si era, di fatto, ormai concluso, a dire del Gioé, per la poca serietà degli interlocutori istituzionali […] e non per l’instaurarsi di altra trattativa con i “piani alti” dello Stato […].

La circostanza che di tale trattativa con i “piani alti” dello Stato fosse stata riferita dal Bellini per la prima volta soltanto quando era stato esaminato in sede di udienza preliminare è stata, quindi, oggetto di contestazione da parte del P.M. […] ed in tale contesto Bellini ha riferito che, però, della questione aveva già parlato con un giornalista dopo una deposizione di Brusca a Firenze ed in tale occasione Bellini aveva suggerito al giornalista di chiedere a Brusca della seconda trattativa di cui egli aveva appreso dal Gioé, come risultava dagli articoli di stampa pubblicati da quel giornalista […].

[…] Bellini ha ricordato, quindi, di essere rientrato dal Portogallo intorno a giugno 1993 e che dopo qualche giorno era stato arrestato […]. Il Bellini, inoltre, ha riferito di avere appreso dalla stampa della lettera lasciata dal Gioè e che nella stessa veniva fatto il suo nome […] e che il Gioé si era sbagliato nell’indicarlo come creditore, essendo egli debitore del Gioè […], mentre il fratello citato dal Gioè doveva essere verosimilmente la persona che si era presentata ai familiari del Bellini […].

Ancora riguardo a quella lettera, Bellini ha confermato di avere effettivamente svolto un ruolo da infiltrato […] e che la conoscenza della verità attribuitagli dal Gioé doveva riferirsi a ciò che, infine, egli stava raccontando a proposito della seconda trattativa […].

Bellini, invece, ha dichiarato di ignorare chi fosse quel Domenico Papalia citato dal Gioè, pur non escludendo di averlo potuto conoscere durante qualche detenzione carceraria (“non ho mai parlato con Antonino Gioè di boss della ‘Ndrangheta, lui non sapeva che io facevo parte di ‘ndrina, non conosco persone che potessero essere in contatto della ‘Ndrangheta con Antonino Gioè […]”).

Bellini, poi, ha riferito di un colloquio avuto con Gioé a proposito dell’omicidio Lima allorché il predetto gli aveva detto che con l’uccisione di Lima si erano raggiunti due risultati, quello di eliminare chi non aveva rispettato i patti a Roma in relazione al maxi-processo e quello di mandare un messaggio a Giulio Andreotti […].

Quanto a nuovi referenti politici a cui eventualmente aveva fatto riferimento il Gioè, il Bellini ha chiarito che questi gli aveva parlato dell’aiuto dato al Partito Socialista durante le elezioni e dei collegamenti con la massoneria di Trapani […].

Bellini, quindi, ha detto di non ricordare di avere mai parlato con Gioè della strage di via D’Amelio, anche se, dopo tale strage, aveva notato che Gioè appariva cambiato, molto nervoso, agitato e temeva di morire in un conflitto a fuoco o in carcere […].

Quanto alla sigla Falange Armata, Bellini ha riferito di averne sentito parlare soltanto sulla stampa, non ricordando se ne avesse parlato con Gioè […] e ignorando, comunque, se tale organizzazione sia effettivamente esistente […].

[…] Bellini ha ribadito ancora che era stato Gioè a ipotizzare attentati verso monumenti (“lo non ho mai avanzato di queste cose, fu Antonino Gioè che mi disse molto stizzito… innanzitutto bisogna precisare che era il momento in cui, secondo loro, non c’era la possibilità di una trattativa reale, e lui mi disse: “Quella è gente che non è seria “, riferita a quelli che io … chi praticamente mi mandava per fare il recupero delle opere. E lui mi proferì proprio la frase precisa “Che ne diresti se un giorno scomparisse o saltasse o si sgretolasse la Torre di Pisa? “, fu lui, non fu io certamente”) e che, quando, dopo le stragi, egli aveva proposto al M.llo Tempesta di infiltrarsi in “cosa nostra” quest’ultimo gli aveva detto che ne avrebbe dovuto parlare con il Col. Mori […].

[…] Bellini, poi, ha detto di non avere mai conosciuto Giovanni Brusca e di non sapere cosa dichiarato dal predetto a proposito del “papello”, pur non escludendo di avere letto qualche notizie di stampa sul punto […].

Ancora, Bellini ha ricordato che, sia pure genericamente, Gioè gli aveva riferito di una trattativa che loro stavano conducendo con americani forse parenti di Riina […] di cui aveva già fatto cenno nel medesimo verbale del 20 novembre 2011 […].

Sul motivo per quale il riferimento alla trattativa con i piani alti sia stato fatto dal Bellini solo nei verbali dell ‘anno 200 l resi innanzi al Dott. Ingroia ed invece non ne abbia parlato nei precedenti interrogatori innanzi ad altre autorità, Bellini ha risposto che tali specifiche domande gli sono state poste in quella sede per la prima volta e che, comunque, vi era anche una ragione di prudenza come per la vicenda del Carabiniere […], precisando, poi, che della trattativa con i “piani alti” e del filone americano aveva parlato con il Gioè in occasioni diverse […], avendo fatto diversi viaggi in Sicilia e avendo parlato con il Gioè di tante cose, compresi problemi personali e familiari, nel 1992 […].

[…] Bellini ha detto, poi, di avere saputo di alcuni viaggi in Inghilterra del Gioé […].

* * *  […] Successivamente, invece, all’udienza del 17 aprile 2014, col consenso delle parti, sono state, altresì, acquisite le seguenti quattro informative di P.G. Relative ad attività di ricerca di riscontri alle dichiarazioni del Bellini prodotte dal P.M. alla precedente udienza del 10 aprile 2014.

In particolare, l’informativa della Questura di Firenze – D.LG.O.S. in data 7 aprile 1994 con relativi allegati, dalla quale risulta, tra l’altro, che: – sono state accertate due presenze Di Bellini Paolo presso il Motel Agip di Palermo, la prima il 6 agosto 1992 e la seconda il 30 dicembre 1992, in entrambi i casi da solo;

– è stato accertato che il Bellini, ancora da solo, ha soggiornato presso l’Hotel Sicilia di Enna il giorno 6 dicembre 1991, contestualmente alla presenza di Giammanco Vincenzo (nato a Palermo il 24 ottobre 1956) e di Inguì Francesco (nato a Marineo il 15 ottobre 1952);

– il Bellini ha soggiornato presso l’Hotel Calura di Cefalù l’ 11 luglio 1992 ed è stato accertato che “nello stesso contesto temporale” ha soggiornato presso l’Hotel Baia del Capitano di Cefalù “l’estremista di destra Coletti Duilio”, mentre presso I ‘Hotel Calura hanno soggiornato il 27 luglio 1992 Maiorana Alberto e il 30 luglio 1992 Cacciola Biagio Renato, “entrambi con precedenti per reati di natura eversiva”.

L’informativa della D.I.A. n. 125/RM3°SETT/H2-24/4746 in data 7 giugno 1996, alla quale è allegata, innanzi tutto, una scheda “biografico-criminale di Bellini”, dalla quale, tra l’altro, risulta:

– che il nominativo del predetto era emerso perché citato da Gioé Antonino nello scritto redatto in occasione del suo suicidio il 29 luglio 1993 ed il medesimo era stato, poi, identificato su indicazione di La Barbera Gioacchino;

– che Bellini era “segnalato come pluripregiudicato e pericoloso estremista di destra militante prima nel Fronte della Gioventù e poi ad Avanguardia Nazionale”, che “nel 1977 aveva iniziato la sua latitanza fuggendo in Brasile ave aveva assunto il nome di Roberto Da Silva”, rientrando in Italia il 16 giugno 1977; […].

Gli elementi probatori raccolti non hanno sicuramente consentito una compiuta ricostruzione dell’intera vicenda emersa a seguito delle dichiarazioni rese da Paolo Bellini e ciò, da un lato, per i contrasti su alcuni punti (anche non secondari) di tali dichiarazioni con quelle del teste Tempesta, e, dall’altro, per i contrasti tra queste ultime dichiarazioni e quelle, rimaste senza contraddittorio, dell’imputato Mori.

A ciò si aggiunga che le conoscenze dei collaboratori di Giustizia sopra ricordati sono tutte necessariamente parziali, perché l’unico altro vero protagonista della vicenda è stato Antonino Gioé, che, però, si è suicidato prima di potere essere interrogato (anche) su tali fatti.

In ogni caso, però, la rilevanza di tale vicenda in questo processo è alquanto limitata perché, per quanto è emerso, del tutto parallela e non collegata alla vicenda della “trattativa” sollecitata attraverso Vito Ciancimino e, soprattutto, a differenza di questa, priva di concreto sbocco.

Tuttavia alcuni spunti di quanto emerso riguardo alla “vicenda Bellini” sono utili a comprendere meglio ciò che in parallelo avveniva riguardo ai fatti più propriamente oggetto di questo processo.

Sul fronte di “cosa nostra” v’è, innanzitutto, la conferma che in quella fase (estate del 1992) Riina aveva deciso di aprire alle sollecitazioni che da più parte gli provenivano (o che, quanto meno, gli apparivano provenire) per metterle a frutto ed ottenere benefici per l’organizzazione mafiosa da lui guidata che gli avrebbero, tra l’altro, consentito di riacquistare il prestigio interno intaccato dalla conclusione per lui negativa del “maxi processo” e di riaffermare anche nei confronti dello Stato il potere che per molti decenni (sino ai primi anni ottanta) “cosa nostra” aveva esercitato incontrastata.

Si è visto sopra, infatti, che l’iniziativa partita dal Bellini e la proposta di operare per ottenere benefici per importanti esponenti dell’associazione mafiosa anche particolarmente vicini ai “corleonesi” fu portata direttamente alla conoscenza di Riina e Bagarella da Brusca e che Riina autorizzò l’eventuale “scambio” tra quei benefici e la riconsegna di opere d’arte per il cui recupero si adoperò.

V’è da dire che si trattava di un canale, comunque, diverso da quello apertosi con l’approccio di De Donno con Vito Ciancimino, dal momento che, per quanto emerso, né Brusca e, quindi, né Riina ebbero a sapere che il M.llo Tempesta si era rivolto, o aveva intenzione di rivolgersi, al Col. Mori.

Tutti i collaboranti esaminati hanno confermato che, appunto, si trattava di due canali di “trattativa” del tutto diversi, anche se certo non può essere dubbio che il canale Bellini, per quanto sicuramente secondario e del tutto ipotetico rispetto a quello principale certamente più autorevole per la caratura di Vito Ciancimino, abbia confermato nel Riina l’intendimento delle Istituzioni di venire a patti con lui (“si sono fatti sotto”).

Sul fronte opposto v’è la conferma, anche in questo caso, di una condotta non soltanto “opaca”, ma addirittura contra legem, del Col. Mori, il quale, infatti, pur promettendo al M.llo Tempesta che si sarebbe attivato per approfondire l’iniziativa del Bellini, ebbe ad evitare, come nel caso dei contatti con Vito Ciancimino, di lasciare qualsiasi traccia documentale, sia dissuadendo il M.llo Tempesta dal redigere una relazione di servizio[…], condotta che vanifica il tentativo della difesa dell’imputato Mori di “scaricare” sul Tempesta la relativa omissione […], sia, soprattutto, trattenendo per sé un documento che certamente costituiva “corpo di reato”.

Ci si intende riferire a quel bigliettino con annotati i nomi dei mafiosi detenuti oggetto della richiesta di benefici penitenziari, che, secondo Bellini, era stato redatto di proprio pugno da Gioé […] e che il M.llo Tempesta ha riferito di avere consegnato al Col. Mori (sul punto, come si è già detto sopra, la testimonianza del M.llo Tempesta è confortata da quanto quest’ultimo ebbe allora a riferire a Bellini secondo quanto questi ha, a sua volta, raccontato: “… un biglietto ……. ….. che io ho consegnato al maresciallo Tempesta, il quale mi ha detto che l ‘aveva consegnato al colonnello Mori…”).

Peraltro, la consegna di tale bigliettino a Mori è stata riferita da quest’ultimo già con la testimonianza che ebbe a rendere dinanzi alla Corte di Assise di Firenze il 7 giugno 1997 nel procedimento n. 12/96 R.G. a carico di Bagarella ed altri […] e poi ancora confermata con le dichiarazioni spontanee rese dal medesimo imputato in questo processo il 26 giugno 2014[…] e, quindi, riconosciuta anche dalla sua difesa in sede di discussione (v. ancora trascrizione discussione all’udienza del 9 marzo 2018).

Eppure, il Col. Mori, pur trattenendo a sé quel biglietto manoscritto o, comunque, non conservandolo […] ha omesso, oltre che di sequestrare un documento costituente corpo del reato, sia di informare l’Autorità Giudiziaria, sia, comunque, di svolgere qualsiasi indagine, certamente doverosa, diretta a individuare l’autore di quello scritto e, quindi, i soggetti (Gioé e coloro  che lo supportavano in quell’iniziativa) partecipi dell’associazione mafiosa “cosa nostra” nel cui interesse quel medesimo biglietto era stato redatto e consegnato al Bellini.

Ed è appena il caso di osservare che, di certo, una simile indagine non poteva di certo apparire impossibile (ancor meno ad un navigato ed esperto investigatore qual era già all’epoca il Col. Mori), non essendo ovviamente difficile (ove anche non si fosse voluto utilizzare la collaborazione offerta dal Bellini) seguire i movimenti del Bellini medesimo per individuare il suo contatto con gli ambienti mafiosi ed eventualmente, a quel punto, identificare l’autore dello scritto mediante accertamento grafico, fatto che, peraltro, non è secondario rilevarlo, avrebbe consentito di disarticolare già nell’estate del 1992 una delle “famiglie” mafiose (quella di Altofonte) più vicine e fedeli ai “corleonesi”, partecipe di efferati crimini già compiuti (la strage di Capaci) e di ulteriori progetti criminosi già allora in cantiere (basti pensare al progettato attentato al Dott. Grasso poi non portato a termine, nell’autunno del 1992, soltanto per difficoltà tecniche: v. dichiarazioni di Gioacchino La Barbera).

[…] Ora, in assenza di qualsiasi spiegazione da parte dell’interessato [Mori ndr.] (che non può essere certo quella dell’impraticabilità della richiesta veicolata dal Bellini, né la personalità di quest’ultimo in assenza di qualsiasi indagine finalizzata a verificare se questi avesse o meno effettivamente millantato i contatti con esponenti mafiosi), è inevitabile ritenere che il Col. Mori, a costo di violare i suoi più elementari doveri (persino, come si dirà meglio più avanti, il sequestro di un “corpo di reato” assimilabile ad un “mini papello” di richieste di provenienza mafiosa e ciò in palese contrasto con quanto dallo stesso affermato per negare di essere stato mai in possesso dell’altro “papello”, allorché, infatti, ha dichiarato dinanzi alla Corte di Assise di Firenze che tale documento “non è mai passato per le mie mani, perché altrimenti sarebbe agli atti in qualche Procura”), non abbia voluto che la vicenda interferisse con quel tentativo già in corso (il 25 agosto 1992, data dell ‘incontro del Col. Mori con il M.llo Tempesta, vi erano stati numerosi incontri di De Donno con Vito Ciancimino ed almeno un incontro del Col. Mori col medesimo Vito Ciancimino secondo quanto riferito dagli stessi imputati) di interloquire con i vertici dell’associazione mafiosa che evidentemente si prospettava fruttuoso e che sarebbe stato inevitabilmente interrotto da una azione investigativa diretta a colpire coloro che, sia pure attraverso una diversa via, si ponevano nel solco della “trattativa” con le Istituzioni.

In sostanza ed in conclusione, dalla “vicenda Bellini” si ricavano, oltre che alcune considerazioni sulla condotta dell’imputato Mori che, come detto, saranno successivamente sviluppate esaminando più specificamente la posizione del predetto […], anche la conferma del mutamento della situazione di contrapposizione allo Stato da parte dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” che precedentemente si era cristallizzata con la strage di Capaci e, conseguentemente, dell’intendimento di Riina di accettare le richieste di dialogo che via via gli pervenivano ad iniziare da quella, più concreta e riscontrata, veicolatagli da Vito Ciancimino.


Il “papello” e le condizioni per la pace  Si è già visto, altresì […] che, però, già dopo la strage di Capaci che, a quel momento, aveva costituito il culmine di tale furente reazione, Salvatore Riina raccoglie le sollecitazioni che gli provenivano da più parti, ma soprattutto quella veicolata da Vito Ciancimino da lui ritenuta  più concreta per la diretta richiesta di indicare le sue condizioni per far cessare il “muro contro muro”, e decide di “accettare la trattativa” e di dettare, appunto, le sue condizioni.

E queste, conseguentemente, non potevano che riguardare il problema dei detenuti, diventato il suo principale problema dopo l’esecuzione delle condanne del “maxi processo” nei confronti di un numero sino ad allora senza pari di associati mafiosi, molti dei quali appartenenti al gotha di “cosa nostra”, problema poi ulteriormente aggravato dalla prospettata riapertura delle carceri nelle isole e dalla prima introduzione di un regime carcerario individuale più rigoroso mediante l’introduzione del secondo comma all’art. 41 bis O.P. (v. D.L. 8 giugno 1992 n. 306) successivamente attuati dopo la strage di via D’Amelio.

Era inevitabile, dunque, che proprio la questione dei detenuti fosse al centro dei “desiderata” di Salvatore Riina anche per governare il malcontento che si era creato all’interno di “cosa nostra” e che rischiava di indirizzarsi nei suoi confronti per effetto delle assicurazioni sull’esito del “maxi processo” che egli, per anni, fidandosi dei suoi referenti politici, aveva dispensato.

E, come si vedrà, la questione dei detenuti costituirà il filo rosso che lega tutte le azioni di “cosa nostra” anche negli anni successivi al 1992.

Ma che già sin dai primi momenti di tale mutamento di strategia da parte di Riina (da quella vendicativa a quella “trattati vista”), avvenuto in conseguenza delle sollecitazioni di dialogo pervenutegli, al centro dei pensieri (e, quindi, delle richieste) di quest’ultimo vi fosse il problema dei detenuti, trova conferma nelle dichiarazioni di Giovanni Brusca.

Quest’ultimo, infatti, ha, innanzitutto, riferito che, appunto, allorché alcuni soggetti istituzionali “si erano fatti sotto”, Riina aveva risposto rivolgendo loro un “papello” di richieste […].

Ora, tralasciando per il momento la questione “papello” inteso come documento scritto cui si è già fatto cenno sopra nella Parte Seconda della sentenza dedicata alla valutazione delle dichiarazioni di Massimo Cianci mino e sulla quale si tornerà nelle conclusioni del presente Capitolo, tanto più che Brusca non ha mai visto, se effettivamente esistente come documento scritto, il “papello”, rileva che, secondo quanto riferito dal detto collaborante (in questa sede anche imputato) tra le richieste del Riina v’erano la revisione del “maxi processo” (v. sopra, nonché, nel seguito: ” … quando io parlavo con Totò Riina si parlava della revisione del Maxiprocesso…”) e, in generale, benefici per i detenuti […], nonché l’eliminazione dell’ergastolo […].

Come si vede, dunque, si trattava di richieste tutte più o meno direttamente connesse, appunto, all’esito del “maxi processo” che aveva scatenato la furia di Riina e, quindi, dirette a rimediare alle conseguenze carcerarie che ne erano derivate per molti mafiosi.

E va detto che sul tema del “maxi processo” si rinviene un riscontro già nella testimonianza di Roberto Ciancimino, il quale, sentito all’udienza dell’11 dicembre 2015, ha riferito che il padre Vito ebbe a raccontargli di avere ricevuto una lettera con la quale, tra l’altro, per fermare le stragi, si prospettava in contropartita, appunto, la revisione del “maxi-processo” (v. testimonianza di

Roberto Ciancimino citata: “Mio padre ottenne un permesso per arrivare a Palermo. Venuto a Palermo mi racconta questo episodio e mi racconta … Mi disse che voleva vedere che aria tirava a Palermo. Poi mi riferì di avere ricevuto una lettera scritta in cui si diceva che per … Mi riferì mio padre, perché non ho visto niente, mi disse che per fermare le stragi bisognava arrivare alla revisione del Maxi Processo … “), aggiungendo, peraltro, che, ancorché poi in concreto gli fu detto soltanto della revisione del “maxi processo”, il padre gli aveva parlato di più richieste da parte dei mafiosi (“Mi ha parlato di richieste assurde, però a me mi parlò solo della revisione… … …Assurde … … Richieste, al plurale…. … …Mi parlò di richieste, però… … …Parlò al plurale, però mi parlò specificamente solo della revisione perché voleva illustrato, insomma … …… Tecnicamente cosa era la revisione”).

V’è, poi, un ulteriore non necessario riscontro utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno che ne hanno chiesto l’acquisizione ex art. 468 comma 4 bis c.p.p., nella convergente testimonianza resa da Giovanni Ciancimino all’udienza del 20 febbraio 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo Sezione Quarta Penale nel processo a carico di Mori e Obinu, poiché anche il predetto teste, avvocato così come il fratello Roberto prima citato, ha riferito che ugualmente il padre Vito gli aveva chiesto notizie sulla praticabilità della richiesta di revisione del “maxi processo” consultando nel contempo un foglio scritto di cui era in possesso […].

Il tema carcerario, unitamente ad altri più risalenti pure interessanti i mafiosi (leggi su “pentiti” e sequestri di beni, argomento quest’ultimo di cui pure Vito Ciancimino ebbe a parlare al figlio Giovanni come da questi riferito in occasione della testimonianza prima ricordata che, però, si ribadisce, è utilizzabile soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donna), è presente anche nelle dichiarazioni rese da Salvatore Cancemi sin dalle sue prime propalazioni sia con riferimento alla vicenda dei quadri, perché le “persone alle quali dovevano essere fatte vedere le fotografie potevano far uscire dal carcere Pippo Calò, Bernardo Brusca, forse anche Gambino Giacomo Giuseppe, ed altri importanti personaggi di cosa nostra” ed erano in grado “di fare levare l’ergastolo, nel senso di ottenere una modifica legislativa ed inoltre potevano influire per cambiare la legge sui pentiti e anche la legge sulla confisca dei beni, sia con riferimento ad un altro specifico incontro successivo alla strage di Capaci in occasione del quale Riina aveva, appunto, specificato, sia pure riferendosi, secondo Cancemi, ad altri soggetti (Dell’Utri e Berlusconi, però non citati nelle iniziali dichiarazioni), quali richieste intendeva avanzare […].

Ora, a prescindere dalla citazione di Dell’Utri e Berlusconi, come detto, del tutto tardiva e, quindi, di per sé sospetta, quel che rileva è, comunque, la conferma che in quel periodo Riina aveva a cuore, appunto, tra le altre cose, soprattutto le problematiche concernenti i detenuti.

Ma, in ogni caso, un ‘ulteriore conferma si può trarre dalle dichiarazioni di altro collaborante, Naimo Rosario, per il quale, a differenza che per Cancemi, si è già pervenuti ad un giudizio di sicura attendibilità intrinseca […].

Naimo, infatti, ha raccontato di un incontro che ebbe intorno al mese di ottobre 1992 con Riina, il quale gli manifestò l’intendimento, appunto, di “aiutare i carcerati” .

In particolare, Naimo ha riferito che Riina, prendendo lo spunto dal paventato allontanamento del Dott. Cinà per recarsi in America, gli aveva detto di essere in attesa di ricevere qualche beneficio che avrebbe aiutato i detenuti […].

Peraltro, lo stesso Naimo nel medesimo periodo aveva avuto conferma del fatto che in “cosa nostra” si era in attesa di ricevere notizie riguardo ai detenuti anche da un sodale particolarmente vicino a Riina e cioè dal noto Salvatore Biondo (”[…]….Il Biondo mi disse, dice: Sarò, dice, stiamo aspettando da un momento all’altro notizie di… Qualche notizia buona che possano … Che ci possano aiutare a sti disgraziati. per sta gente che è in galera con il 4 l bis. Dice: aspettiamo da un momento all’altro buone notizie. Questo è ciò che mi disse, Io ci ho detto: speriamo… “).

Dunque, dalle dichiarazioni di Rosario Naimo, fondate su due diverse fonti, si trae conferma, non soltanto del contenuto delle richieste di Salvatore Riina, ma, altresì, del fatto che nell’autunno del 1992 quest’ultimo era in attesa di una risposta e che, quindi, precedentemente, quelle richieste erano state già inoltrate per il tramite del Dott. Cinà, del quale, infatti, lo stesso Riina paventava l’allontanamento che avrebbe reso più difficoltoso il dialogo intrapreso.

E se il Dott. Cinà era stato il tramite delle richieste del Riina, allora, deve giocoforza concludersi che, come già rilevato sopra sulla base del complesso delle risultanze probatorie di cui si è dato conto nei Capitoli precedenti, il canale utilizzato dal medesimo Riina e sul quale questi faceva affidamento non era, in quel momento, di certo quello indicato (peraltro in modo tardivo e sospetto da Cancemi) di Dell’Utri e Berlusconi (i quali, d’altra parte, in quell’anno erano ancora lontani dall’assumere responsabilità di governo), ma piuttosto quello ritenuto concreto ed attuale di Vito Ciancimino, il quale soltanto, infatti, a seguito della sollecitazione al dialogo con i vertici mafiosi ricevuta dai Carabinieri, si era, appunto, rivolto al Dott. Cinà per fare da tramite con Salvatore Riina.

In estrema sintesi, dunque, emerge dal compendio probatorio indicato che Riina già nell’autunno del 1992, in risposta alla sollecitazione veicolatagli da Vito Ciancimino, aveva condizionato la cessazione della strategia stragi sta al ricevimento di benefici a vario titolo interessanti i detenuti di “cosa nostra” e che il medesimo, in quel periodo, era in attesa di una risposta che si augurava positiva a riprova della affidabilità e serietà che egli aveva attribuito alla sollecitazione derivante dalla iniziativa dei Carabinieri allorché questi avevano contattato Vito Ciancimino.

V’è da dire, poi, per completezza, che tali conclusioni appena sintetizzate hanno trovato un (ancorché non necessario) riscontro anche nelle dichiarazioni di Pino Lipari prima in dettaglio già analizzate (v. sopra Capitolo 10).

Quest’ultimo, infatti, a sua volta ha dichiarato che tanto Vito Ciancimino quanto Cinà gli dissero che le richieste di Riina ricevute dallo stesso Vito Ciancimino attraverso il Dott. Cinà concernevano, appunto, tra l’altro, la revisione di processi, l’ergastolo ed il 41 bis […].

Ancora per completezza, va, infine, aggiunto che il medesimo contenuto delle richieste del Riina è stato riferito anche da Giuseppe Di Giacomo ancorché le dichiarazioni di quest’ultimo debbano essere vagliate con rigore per la loro tardività. […]

Qui è sufficiente ricordare che anche Di Giacomo, secondo quanto asseritamente raccontatogli direttamente dal Cinà, ha riferito che le richieste del Riina riguardavano il 41 bis e l’ergastolo (v. dich. Di Giacomo: “Tra le altre cose, esternò il fatto che, dice, pago il papello che scrisse o cristiano, perché noi in quel caso u cristiano era espressamente rivolto, era un appellativo convenzionale, al Totò Riina … … … come se c’è, diciamo, nei suoi confronti un peso, un fardello non indifferente per quello che fece precedentemente quando scrisse e rappresentò il papello, diciamo, quelle richieste scritte, no? Dice io pago anche quel prezzo, per aver scritto questo papello. Che poi in vari punti diciamo ne parlammo, che rivedeva il 41 bis. l’ergastolo, che rappresentò … O cristiano era Totò Riina, in quel caso noi lo menzionammo come u cristiano”).

E’ opportuno, a questo punto, esaminare meglio la questione del “papello”.

Nel presente processo il “papello” è stato documentaI mente identificato dalla Pubblica Accusa in uno scritto contenente un’elencazione di richieste (“1- Revisione Sentenza Maxi Processo; 2- Annullamento Decreto Legge 41 bis; 3- Revisione Legge Rognoni – La Torre; 4- Riforma Legge Pentiti; 5- Riconoscimento Benefici Dissociati – Brigate Rosse – Per condannati di mafia; 6- Arresti Domiciliari dopo 70 anni di età; 7- Chiusura Super Carceri; 8-Carcerazione vicino le case dei familiari; 9- Niente censura posta familiari; 10- Misure Prevenzione – sequestro – non familiari”) consegnato da Massimo Ciancimino agli inquirenti e, quindi, prodotto agli atti di questo processo (n. 3 della produzione documentale del P.M. all ‘udienza del 26 settembre 2013).

Orbene, nella Parte Seconda della presente sentenza dedicata alla valutazione delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ancorché non sia stato possibile accertare l’autore della grafia di tale documento (v. esito analisi scientifica sulle comparazioni effettuate di cui hanno riferito gli esperti incaricati nei termini già sopra riportati), si sono già manifestati forti dubbi sulla sua autenticità, se non la certezza della sua falsità, tenuto conto delle accertate falsificazioni che con sicurezza possono, invece, addebitarsi a Massimo Ciancimino (v. sopra).

La valutazione di autenticità del documento in questione, in ogni caso, è rimasta rimessa esclusivamente alle dichiarazioni del Massimo Ciancimino, le quali, peraltro, a prescindere dal giudizio di complessiva inattendibilità cui si è pervenuti nella citata Parte Seconda della sentenza, anche sul punto appaiono comunque caratterizzate da numerose oscillazioni ed incertezze nella ricostruzione dell’iter, che, a partire dal rinvenimento del documento medesimo, ha condotto sino alla sua tardiva consegna alla A.G. dopo molti precedenti interrogatori.

Si vuole dire, in sostanza, che, pur in assenza di elementi indicativi di una falsificazione di tale documento (ed, in effetti, nella Parte Seconda, Capitolo 4, si è visto che tali elementi sono assenti, trattandosi, con elevata probabilità, di una prima fotocopiatura di un originale eseguita con toner in uso sino alla metà degli anni novanta e con carta compatibile con l’epoca interessata), il fatto stesso che il documento medesimo sia stato consegnato (con le contorte modalità di cui si è detto) da Massimo Ciancimino e che possa identificarsi col “papello” soltanto per le parole di quest’ultimo, costituisce un ostacolo insormontabile alla conclusione – ancora sostenuta dal P.M. nella sua requisitoria all’udienza dell’11 gennaio 2018 – che possa trattarsi del “vero papello”.

E, d’altra parte, se effettivamente dovesse, invece, trattarsi del “vero papello”, ci si troverebbe ancora di fronte al frutto avvelenato della scellerata condotta di Massimo Ciancimino che impedisce in radice di utilizzare persino quel nucleo di fatti veri sui quali egli ha, poi, ricostruito le fantasiose e non più distinguibili sovrastrutture di cui si è detto sopra nella Parte Seconda della sentenza.

In ogni caso, la convinzione della Corte – certamente soggettiva perché non fondata sul documento in sé, ma influenzata dalla sua provenienza da un soggetto totalmente inaffidabile qual è Massimo Ciancimino – appare suffragata anche dalle parole di Salvatore Riina in occasione di uno dei colloqui intercettati di cui si dirà più avanti nella Parte Quinta della sentenza e cui, quindi, qui si rinvia.

Ciò premesso, si è pure, però, già precisato che la probabile falsità del detto documento (così come per gli altri di cui, invece, la falsità è certa) non significa che Vito Ciancimino non sia stato effettivamente destinatario di richieste (eventualmente anche scritte: v. dichiarazioni di Roberto Ciancimino e Pino Lipari) dei vertici mafiosi quali, almeno in parte, quelle contenute nel “papello” esibito da Massimo Ciancimino e qui acquisito agli atti, poiché la falsificazione documentale è stata utilizzata dal predetto imputato/dichiarante per supportare le sovrastrutture artificiosamente e artatamente aggiunte (v. sopra Parte Seconda della sentenza) alle conoscenze che egli aveva potuto acquisire negli anni sia dal padre sia da altri soggetti, quali, ad esempio, Brusca Giovanni, che, in proposito, aveva reso dichiarazioni sin dal 1996 anche in questo caso abilmente (?) sfruttate dal medesimo Ciancimino.

Ed è proprio Brusca, infatti, che, ben prima di Massimo Ciancimino, ha riferito di un “papello di richieste” che Riina avrebbe rivolto a coloro che, tramite Vito Ciancimino, lo sollecitavano a porre termine alla strategia stragi sta iniziata nel 1992 […].

E’ bene, però, precisare che Brusca non ha mai visto un “papello” inteso come documento scritto da recapitare agli interlocutori del Riina (v. ancora dich. Brusca: ” .. . che io non ho visto, non ho letto e non ho partecipato alla stesura … “) e che l’espressione utilizzata dal Riina (“Gli ho fatto un papello così di richiesta “), nel linguaggio corrente, non è riferibile necessariamente ad un documento scritto, usando si notoriamente tale espressione, più in generale, per indicare una sfilza di richieste quand’anche soltanto oralmente rivolte.

Ne consegue che non v’è neppure certezza che sia mai esistito un documento scritto di pugno di Riina (evenienza, peraltro, esclusa dallo stesso Riina: v. intercettazione dell’8 novembre 2013 di cui si dirà meglio nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo l), ovvero da questi dettagliatamente dettato ad altri, direttamente recapitato (tramite Cinà) a Vito Ciancimino, non potendo neppure escludersi, infatti, che il biglietto che, invece, Cancemi ha detto di avere visto nelle mani di Riina (v. dich. Cancemi già sopra riportate: ” …. aveva una specie di, un biglietto nelle mani, una cosa, un pezzo di carta nelle mani, mi ricordo, si .. “), se tale dichiarazione è vera (non essendovi riscontri), fosse soltanto un semplice appunto personale del Riina medesimo, tanto più che la formulazione delle richieste era in quel momento ancora in itinere […].

V’è soltanto Lipari che, per essergli stato riferito da Ciancimino, ha riferito di un documento scritto recapitato a quest’ultimo, dal Cinà, all’interno di una busta (v. dich. Lipari: “P. M DI MATTEO : – … Ciancimino le disse cosa conteneva questa busta?; DICH. LIPARI GIUSEPPE : – Sì, mi fece una … Un accenno me lo fece, quelle cose che abbiamo detto, 41 bis, ergastoli, beni, cose … … … diceva che era… Anche lui pensava che era una richiesta eccessiva perché… . … … Papello, lo ha chiamato Papello, questo Papello lo ha chiamato”), ma, in proposito, non potrebbe neppure escludersi che si sia trattato, in questo caso ed in ipotesi, di una annotazione del Cinà su quanto oralmente rappresentatogli da Riina, così come, d’altra parte, sembra ricavarsi anche dalla confidenza fatta dal medesimo Cinà a Giuseppe Di Giacomo secondo quanto da quest’ultimo riferito in questo dibattimento (v. dich. Di Giacomo: “… Dice io pago anche quel prezzo, per aver scritto questo papello… “).

Ne consegue che, in proposito, non appaiono neppure dirimenti le dichiarazioni testimoniali rese da Roberto Ciancimino e Giovanni Ciancimino […].

Il primo, Roberto Cianci mino, esaminato all’udienza dell’ 11 dicembre 2015, ha riferito, sì, che il padre, allorché gli aveva raccontato degli incontri avuti con i Carabinieri, gli aveva, altresì, raccontato che, dopo avere attivato i suoi contatti, aveva ricevuto una lettera con la quale, tra l’altro, per fermare le stragi si prospettava in contropartita la revisione del “maxi-processo”, condizione dal padre stesso ritenuta irrealizzabile […], ma, anche specificamente sollecitato, ha ribadito di non avere visto quella lettera (”No. non l’ho vista. me ne ha solo riferito”) che il padre aveva ricevuto dopo che aveva contattato un “amico degli amici” […].

In proposito, infatti, il padre gli aveva soltanto detto che la lettera conteneva richieste assurde, parlandogli, però, poi, soltanto della revisione del “maxiprocesso” […], ancorché il padre gli avesse parlato di richieste al plurale […].

Il secondo, Giovanni Ciancimino (le cui dichiarazioni, si ripete, sono utilizzabili – e, dunque, vengono qui concretamente utilizzate – soltanto nei confronti degli imputati Subranni, Mori e De Donno), allorché venne esaminato quale testimone in data 20 ottobre 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo nel processo a carico di Mori e Obinu, ha, invece, riferito che una volta il padre gli aveva chiesto cosa fosse la revisione del processo penale […] e se fosse possibile la revisione del “maxi

processo” […], tirando fuori subito dopo dalla tasca un foglio di carta (“Disse: “Ah, va bene, va bene”, e aveva … e aveva tirato dalla tasca un pezzo di carta, un pezzo di carta arrotolato o mò dei temi o dei compiti, che si entrano magari durante gli esami, sa questo … questa specie di… come se fosse … il rotolo, il classico rotolo”) e chiedendogli anche della confisca dei beni […].

Il detto teste, nella stessa occasione, ha ribadito che il padre, durante quel colloquio, aveva consultato un solo foglio di carta […].

In sostanza, come si vede, se certamente le predette testimonianze supportano ulteriormente tutte le risultanze sin qui esposte ed anche il racconto di Pino Lipari, le stesse non appaiono utili a confermare che vi sia stato un “papello”, inteso come documento scritto da Salvatore Riina o chi per lui e, soprattutto, per quel che qui rileva, che tale “papello” possa identificarsi con il documento scritto consegnato da Massimo Ciancimino di cui si è già detto nella Parte

Seconda di questa sentenza, non potendo escludersi che lo scritto di cui hanno parlato i predetti Lipari e Roberto Ciancimino (nonché, con i limiti di utilizzabilità indicati, Giovanni Ciancimino) sia un documento diverso successivamente distrutto da Vito Ciancimino e, quindi, “ricostruito” dal figlio Massimo nella sua accertata foga di accreditarsi come depositario di tutti segreti del padre.

Ma in ogni caso, quel che qui occorre evidenziare è che non è certo necessario accertare se Riina abbia effettivamente scritto o fatto scrivere un “papello” inteso come documento cartaceo contenente le sue richieste, ma va soltanto accertato che il medesimo Riina, eventualmente anche soltanto oralmente […], abbia posto le condizioni per l’abbandono della strategia mafiosa e che tali condizioni siano state via via trasmesse ed inoltrate sino al destinatario finale (ai fini della configurabilità del reato contestato in questa sede, il Governo della Repubblica).

Finora è stata raggiunta la prova sulla formulazione – e sull’inoltro – da parte di Riina, attraverso il canale Ciancimino apertosi a seguito dell’iniziativa dei Carabinieri, di alcune espresse condizioni cui eventualmente subordinare la cessazione della contrapposizione totale di “cosa nostra” allo Stato.

Si vedrà nel seguito se potrà ritenersi ugualmente provato che le condizioni poste da Salvatore Riina per conto di “cosa nostra” siano effettivamente giunte sino alla cognizione del loro destinatario finale (individuato dallo stesso Riina nel Governo: v. intercettazione del 18 agosto 2013 di cui si dirà meglio più avanti e più specificamente nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo I).

Nel frattempo, però, è opportuno sin d’ora verificare se tali condizioni possano effettivamente qualificarsi come minacce, essendo questo l’indefettibile presupposto logico dell’imputazione di cui al capo A) qui in esame.

La violazione dell’art. 338 c.p.p. addebitata agli odierni imputati al capo A) della rubrica è stata formulata con riferimento ad una soltanto delle due modalità consumative, quella della minaccia (non essendo stato contestato, invece, l’uso della violenza), che nella sua materialità consiste nella condotta di prospettare ad altri un male futuro.

Poiché, pertanto, la minaccia integra l’elemento costitutivo della fattispecie criminosa qui in esame, è opportuno formulare alcune considerazioni di carattere generale, appunto, in tema di minaccia, per poi verificare se le richieste formulate da Riina in risposta alla sollecitazione dei Carabinieri veicolatagli da Vito Ciancimino siano qualificabili come minaccia.

Orbene, al predetto fine, non può che muoversi dalla specifica previsione della condotta delittuosa punita dall’art. 612 C.p.

In quest’ultima fattispecie, come è noto la minaccia viene conformata come reato formale di pericolo che si consuma già allorché il mezzo usato per attuarla abbia in sé l’attitudine a intimorire il soggetto passivo e cioè a produrre l’effetto di diminuirne la libertà psichica e morale di autodeterminazione. Peraltro, è pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina che per la consumazione del reato non occorra che il predetto effetto si verifichi in concreto, essendo sufficiente che la minaccia sia stata percepita dal soggetto passivo (ma quest’ultimo aspetto, quello del raggiungimento del destinatario finale-soggetto passivo, come anticipato nel paragrafo che precede, si vedrà nel prosieguo ).

[…] Ed è opportuno, altresì, sin d’ora precisare che è pure possibile che la minaccia sia esercitata da un terzo o per il tramite di un terzo, il quale, se consapevole, ne risponderà a titolo concorsuale secondo la regola generale dell’art. 110 C.p.

La minaccia deve avere ad oggetto, poi, un male ingiusto e, quindi, antigiuridico nel senso di contrarietà rispetto all’ordinamento giuridico, […].

Si tratta, in sostanza, di ciò che, in termini comuni (ma non estranei ad alcuni ordinamenti giuridici vigenti in altri Paesi) viene definito “ricatto” (ed è appena il caso di evidenziare che, come si vedrà, non a caso questo è proprio il sostantivo utilizzato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, allorché è stato esaminato in qualità di teste all’udienza del 28 ottobre 2015, per definire la condotta attribuita alle cosche mafiose dopo le stragi del luglio 1993).

Ed allora, se questi sono i parametri che individuano la minaccia penalmente sanzionabile, non può essere minimamente dubbio che essi ricorrano in concreto nel caso delle richieste prospettate da Salvatore Riina, nell’interesse di “cosa nostra”, quali condizioni per porre termine alla contrapposizione frontale con lo Stato e, quindi, per porre termine alle stragi ed ali ‘uccisione di ulteriori uomini delle Istituzioni (sia che fossero ritenuti “nemici”, sia che fossero, invece, ritenuti “amici traditori” da punire).

Ed invero, all’indomani della strage di Capaci che aveva manifestato alla massima potenza la capacità di “cosa nostra” di colpire in ogni luogo anche gli uomini più protetti, non v’è dubbio che la sola prospettazione da parte di Riina di richieste da soddisfare cui egli condizionava il non compimento di ulteriori stragi, era assolutamente idonea ad intimorire i destinatari e, quindi, a diminuire la libertà psichica e morale di autodeterminazione degli stessi.

I destinatari, infatti, venivano posti di fronte alla alternativa tra subire o correre il rischio di subire il male prospettato (le ulteriori possibili stragi ed uccisioni) ovvero sottrarvisi realizzando la condotta richiesta loro dal Riina nel tentativo di coartarne la volontà ed ottenere un aliud facere.

Ugualmente, non può di certo minimamente dubitarsi che sia stato prospettato dal Riina un “male ingiusto” e che, al fine della sussistenza di tale presupposto, è, altresì, irrilevante che le condotte pretese (in ipotesi anche i provvedimenti diretti ad attenuare il rigore della carcerazione) fossero in astratto leciti nel senso della loro conformità alle potestà riconosciute ai destinatari della minaccia, dal momento che è l’intervento intimidatorio di un soggetto privo di un qualsiasi titolo legittimante che è, in ogni caso, contra jus.

In conclusione, dunque, possono già ravvisarsi nella condotta del Riina (e, quindi, di coloro che hanno moralmente o materialmente concorso in essa sotto il profilo della istigazione, codecisione, condivisione od attuazione esecutiva), consistita nella prospettazione di condizioni per la cessazione della contrapposizione frontale con lo Stato e delle stragi ed uccisioni già decise in conseguenza di questa, gli estremi della minaccia punibile penalmente se portata (o, comunque, pervenuta) a conoscenza del soggetto passivo.

Quest’ultimo profilo attinente alla concreta configurabilità del reato, come detto, sarà esaminato nel prosieguo.

Prima, infatti, è necessario esaminare un’altra vicenda, pure introdotta nel presente processo, che ha segnato un punto di svolta nelle dinamiche interne a “cosa nostra” e che dalla Pubblica Accusa è stata in qualche modo collegata alla “trattativa” (così come altre due vicende, quella del mancato arresto di Benedetto Santapaola a Terme Vigliatore e quella del mancato arresto di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, entrambe temporalmente successive e che saranno, quindi, esaminate separatamente più avanti) in forza di alcune singolari “anomalie” investigative (ulteriori rispetto a quelle già sopra evidenziate nel Capitolo 6 di questa Terza Parte della sentenza) che in qualche modo hanno visto protagonista soprattutto l’imputato Mario Mori.


Tutti i misteri del covo di Totò Riina   Si tratta di un vicenda che è stata oggetto di un processo penale a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio già definito con sentenza passata in giudicato. Ed è bene, pertanto, muovere dalle risultanze di tale sentenza ritualmente acquisita agli atti del presente processo.

Dalla sentenza del Tribunale di Palermo Sezione Terza Penale del 20 febbraio 2006 pronunziata nei confronti dell’odierno imputato Mario Mori, come detto divenuta irrevocabile, concernente la vicenda della mancata perquisizione della villa nella quale abitava Salvatore Riina all’epoca del suo arresto e con la quale il detto Mori ed il coimputato Sergio De Caprio sono stati assolti perché il fatto non costituisce reato dal delitto di favoreggiamento personale aggravato, si ricava, innanzi tutto, in termini di fatto, per quel che può rilevare in questo processo, che:

– la individuazione della villa all’interno di un residence con ingresso nella via Bernini di questa città e la perquisizione della stessa sono stati effettuati per la prima volta il 2 febbraio 1993, trovando l’immobile svuotato da ogni cosa, con i mobili accatastati e le pareti ritinteggiate;

– all’epoca del fatto il comandante del ROS era il Gen. Antonio Subranni ed il vice comandante operativo era il Col. Mori;

– nel luglio 1992, secondo quanto riferito dall’allora Col. Sergio Cagnazzo (cfr. deposizione resa all’udienza dell’ l giugno 2005), all’epoca vicecomandante operativo della Regione Sicilia, si tenne una riunione presso la Stazione dei Carabinieri di Terrasini, cui parteciparono il comandante di quella stazione M.llo Dino Lombardo, il superiore gerarchico di quest’ultimo, Cap. Baudo, all’epoca comandante della stazione di Carini, il Magg. Mauro Obinu, in servizio al ROS, i Capitani Sergio De Caprio e Giovanni Adinolfi, al fine di costituire una squadra, composta sia da elementi del ROS che della territoriale, che avrebbe dovuto occuparsi in via esclusiva delle indagini finalizzate alla cattura di Salvatore Riina;

– vi fu, poi, una seconda riunione nel mese di settembre, cui parteciparono i medesimi Col. Cagnazzo, M.llo Lombardo, Magg. Obinu, Cap. De Caprio ed il M.llo Pinuccio Calvi, in servizio presso la prima sezione del ROS, nella quale il Lombardo indicò in Raffaele Ganci, a capo della famiglia mafiosa del quartiere denominato “Noce” di Palermo, e nei suoi figli le persone più vicine al Riina in quel momento, in quanto incaricate di proteggerne la latitanza;

– Baldassare Di Maggio venne arrestato a Borgomanero, a seguito di una perquisizione e del conseguente rinvenimento di un’arma, in data 8 gennaio 1993 e, condotto in caserma, ebbe a parlare col Gen. Delfino, comandante della Regione Piemonte e Valle d’Aosta dei Carabinieri;

– il 9 gennaio 1993 Di Maggio ebbe ad indicare come accompagnatori del Riina Raffaele Ganci e Giuseppe (detto Pino) Sansone, nonché alcuni luoghi in cui egli in passato lo aveva incontrato, oltre ad altri due soggetti che lo frequentavano, tale Vincenzo De Marco (che abitualmente, a suo dire, accompagnava i figli del Riina) e tale Salvatore Biondolillo (successivamente identificato in Biondino Salvatore, soggetto in compagnia del quale Riina venne, poi, arrestato il 15 gennaio 1993);

– 1’11 gennaio 1993 Di Maggio fu trasferito a Palermo e custodito in caserme dei Carabinieri;

– tra i luoghi indicati da Di Maggio, vi era anche un casolare sito nel Fondo Gelsomino in Palermo, nel quale, in particolare, egli aveva incontrato cinque anni prima Riina insieme a Raffaele Ganci;

– il 13 gennaio 1993 fu individuato il complesso residenziale ove abitavano i Sansone e, specificamente, quel Pino Sansone indicato da Di Maggio;

– il giorno 14 gennaio 1993 venne posizionato dai Carabinieri un furgone, dotato di telecamera interna, a circa una decina di metri dal cancello, di tipo automatico, che consentiva sia l’ingresso che l’uscita delle autovetture dalla via principale al viale interno del residence, conducente alle varie villette di cui era costituito;

– quella stessa sera, visionando le cassette con le registrazioni, Baldassare Di Maggio riconobbe, nelle immagini che stava visionando, uno dei figli di Salvatore Riina, la moglie “Ninetta” Bagarella e l’autista Vincenzo De Marco;

– l’indomani mattina fu ripreso il servizio di osservazione, notando, alle ore 8.52, Salvatore Biondino che entrava nel complesso e ne usciva alle ore 8.55 in compagnia del Riina, seduto sul lato passeggero, riconosciuto da Di Maggio che si trovava all’interno dello stesso furgone;

– informato immediatamente via radio, il Cap. De Caprio con i suoi uomini procedeva all’arresto del Riina e del Biondino alle ore 9.00 su v.le Regione Siciliana, altezza P.le Kennedy, a circa 800 metri di distanza dal complesso di via Bernini;

– il furgone rimase sul posto, con ancora all’interno Di Maggio, sino alle ore 16,00 e quella stessa sera, secondo quanto riferito dai testimoni M.lli Santo Caldareri e Pinuccio Calvi, il Cap. De Caprio espresse l’intenzione di non proseguire il servizio l’indomani per ragioni di sicurezza del personale impiegato;

– nella conferenza stampa il Gen. Cancellieri ebbe a riferire la versione concordata, secondo cui il Riina era stato intercettato, casualmente, a bordo della sua auto guidata da Salvatore Biondino, mentre transitava sul piazzale antistante il Motel Agip;

– il Dott. Luigi Patronaggio, pubblico ministero di turno, già nella mattinata del 15 gennaio 1993, aveva, d’accordo con il nuovo Procuratore della Repubblica appena insediatosi, il Dott. Giancarlo Caselli, predisposto i relativi e necessari provvedimenti per procedere alla individuazione della villa all’interno del residence ed alla sua perquisizione e, a tal fine, era stata già disposta la costituzione di due squadre, con gli uomini dei gruppi l e 2 del Nucleo Operativo guidati dal Magg. Balsamo e dal Cap. Minicucci, i quali avrebbero dovuto procedere dapprima agli accertamenti sui luoghi ed in seconda battuta, una volta, appunto, individuata la villa, alla perquisizione di questa;

– le due squadre rimasero in attesa per tutta la mattina, ma non si procedette alla perquisizione in considerazione della richiesta del Cap. De Caprio prima e del Col. Mori poi, di soprassedere all’operazione al fine di non pregiudicare possibili sviluppi investigativi;

– già il 16 gennaio 1993 il Commissariato di P.S. di Corleone comunicò il rientro a Corleone dei familiari di Riina e lo stesso giorno alcuni i giornalisti, sulla base di una confidenza del Magg. Ripollino, avevano individuato il residence di via Bernini;

– in data 21 gennaio 1993 si procedette, con ampio spiegamento di forze e risalto mediatico, alla perquisizione del Fondo Gelsomino, di cui, in precedenza (nel corso delle indagini che infine avevano condotto all’arresto del Riina) era stata verificata l’assenza di elementi collegabili alla presenza del Riina medesimo;

– infine, in data 2 febbraio 1993 si procedette alla individuazione ed alla perquisizione, da parte del Nucleo Operativo dei Carabinieri, della villa in cui aveva abitato Riina con la sua famiglia, constatando, secondo quanto riportato nella sentenza in esame, “l’esistenza di: un guardaroba blindato ali ‘interno della camera da letto matrimoniale; ali ‘altezza del pianerottolo, una intercapedine in cemento armato di forma rettangolare di mt. 3×4 di larghezza e 75 cm di altezza, chiusa da un pannello di legno con chiusura a scatto e chiavistello; nel sottoscala, a livello del pavimento, una botola lunga circa mt 2 chiusa da uno sportello in metallo con serratura esterna; nel vano adibito a studio, una cassaforte a parete chiusa che, aperta dall ‘adiacente vano bagno, risultò vuota”.

* * *   Dalla predetta sentenza, quindi, risulta che il Tribunale, pur riscontrando in astratto gli elementi materiali del contestato reato di favoreggiamento personale aggravato, ebbe, tuttavia, ad assolvere gli imputati Mori e De Caprio per l’assenza dell’elemento psicologico del reato medesimo, stante, in particolare, ma, in estrema sintesi, per quel che interessa in questa sede, l’impossibilità di risalire alla causale della condotta degli imputati suddetti in considerazione anche della contraddittorietà tra l’ipotesi che tale condotta fosse riconducibile ad un accordo con l’associazione mafiosa e il fatto che, però, quest’ultima aveva proseguito nella sua strategia stragistica e progettato di uccidere il Cap. De Caprio.

* * *  Prima di proseguire nell’esame delle risultanze sulla vicenda in esame, è opportuno precisare che, fermo il principio del “ne bis in idem”, non v’è alcuna preclusione nel valutare i fatti sopra esposti ed anche la condotta degli stessi imputati di quel processo se rilevanti per l’accertamento del diverso reato per il quale si procede in questa sede […].

[…] Deve, peraltro, tenersi conto che la valutazione dei fatti da parte del Tribunale di Palermo si è basata, anche riguardo alla ricerca della possibile causale delle condotte esaminate, su un compendio probatorio del tutto esiguo ed assolutamente limitato rispetto a quello che in questa sede è stato possibile acquisire all’esito di una istruttoria dibattimentale di ben altra ampiezza e che consente, oggi, di valutare collegamenti e interezioni tra l’episodio oggetto di quel giudizio e innumerevoli altri eventi, sia antecedenti che successivi, in grandissima parte non conosciuti e, comunque, non esaminati in quella sede.

[…]  Il teste Gian Carlo Caselli, che ebbe ad insediarsi quale Procuratore della Repubblica di Palermo proprio lo stesso giorno, il 15 gennaio 1993, nel quale venne catturato Salvatore Riina, esaminato all’udienza del 22 gennaio 2016, riguardo alla vicenda oggetto del presente Capitolo, in sintesi, ha riferito:

– che nel dicembre 1992, prima di prendere servizio a Palermo, era stato contattato dal Gen. Delfino per informarlo dell’arresto e della collaborazione di Baldassare Di Maggio ed egli, non sapendo allora dei non buoni rapporti intercorrenti tra Delfino e Mori, aveva organizzato un incontro coinvolgendo quest’ultimo ed attivandosi subito per informare anche i magistrati di Palermo e per fare trasferire Di Maggio a Palermo al fine di individuare l’abitazione di Riina (” … il CSM mi ha nominato, non sono ancora arrivato … …… Un giorno il Generale Delfino, comandante non so se Brigata, Divisione, comunque Comandante dei Carabinieri in Piemonte e Valle d’Aosta, mi dice venga da me, che ho una cosa da dirle. Ci vado e mi dice di Baldassare Di Maggio inteso

Balduccio, arrestato a Borgo Manero, disponibilità di questo Balduccio Di Maggio a dare elementi per la cattura di Salvatore Riina. In quel giorno io avevo appuntamento con il Colonnello, o Capitato anche lui, Secchi, uno dei … Un braccio destro, tanti erano i bracci destri del Generale Dalla Chiesa all’epoca del terrorismo, dell’anti terrorismo. E Secchi ne aveva, quando avevamo organizzato il pranzo, detto: guarda che c’è … …… Che a Torino c’è anche Mori, se non c’è niente in contrario, direi anche a Mori di venire a pranzo. Dico questo perché quando Delfino mi dice di Balduccio e di Salvatore Riina, la prima cosa, automaticamente, io sono ingenuo, non sapevo che tra Delfino e Mori c’era lo stesso rapporto che c’è tra il diavolo e l’acqua santa .. … … E allora dico: Generale, so che c’è a Torino il Colonnello, Generale Mori, Colonnello credo, Mori, che è a capo comunque, di fatto dirige il Ros di Palermo, mi sembra che lo dobbiamo chiamare subito. Delfino non fa una piega, come se fossi io l’Ufficiale superiore, telefona a Mori, lo fa cercare e

Mori arriva. Mori racconta … Mori ascolta il racconto che Delfino aveva già fatto a me, dopo di che intervengo io, non ero ancora Procuratore, i miei limiti di manovra sono molto ristretti, telefono a Vittorio Aliquò dicendogli: guarda, Vittorio, c’è questa novità importante, organizzati subito tu con i colleghi, quelli che crederai per seguire la vicenda. Dopo di che telefono mi sembra al Capo della Polizia per dire senza dire come e perché, ci sarebbe bisogno di un aereo speciale, per i trasporti speciali, per un viaggio da Torino a Palermo, senza dire chi, come, quando e perché. Il Capo della Polizia mi dice sì. E allora Di Maggio parte in aereo speciale da Torino per Palermo, a Palermo stabilisce il contatto con il Ros di Palermo e il lavoro del Ros è seguito fin da subito da Vittorio Aliquò non so bene con chi. Ecco, tutto qua”);

– che egli in occasione della mancata sorveglianza dell’abitazione di Riina aveva riposto massima fiducia sulla sollecitazione a non procedere alla perquisizione fatta dal Cap. De Caprio certamente in accordo con Mori (“Ma ripeto, dopo l’episodio, come dire, terribile della mancata sorveglianza, più che mancata perquisizione del covo di Riina, l’insistenza questa volta né di De Donno, né di

Mori, l’insistenza del Capitano Ultimo, un eroe nazionale in quel momento, lui aveva messo le manette a Riina, lui, lui, lui ripetutamente dice: non andate a perquisire. Noi eravamo con il predellino sull’auto, ecco, per così dire, con il piede sul predellino dell’auto. Lui dice non andate a perquisire perché rischiamo di rovinare una indagine, una operazione molto più vasta che deve rimanere coperta per il momento. E io mi fido di De Caprio, perché era l’eroe nazionale, così considerato da tutti e da molti ancora oggi, che aveva arrestato Riina. Come mi fido di lui, conseguentemente non potevo non fidarmi… O qualcuno mi dice De Caprio ha avuto l’ordine preciso … Sicuramente De Caprio agiva in sintonia con i suoi superiori e però, ecco, io mi sono fidato di De Caprio e quindi questa fiducia si è, per così dire, riverberata anche successivamente sul colpo di appartenenza di De Caprio, con delle riserve, delle riserve… Con dei punti di domanda dentro di me, con una amarezza profonda, però, ecco, senza qualcosa che potesse toccare … Quando cinque anni dopo emergeranno elementi, allora lei lo sa meglio di me, dottor Teresi, prenderemo posizione allora, dopo, quando emergeranno nuovi, concreti elementi nell’ipotesi dell’accusa”);

– che gli era stata assicurata la sorveglianza dell’abitazione di Riina (“Era scontato, il Procuratore della Repubblica non sospende la perquisizione se non c’è una vigilanza sull’obiettivo, altrimenti il Procuratore della Repubblica dovrebbe cambiare mestiere. Aliquò ha seguito questa vicenda, Aliquò aveva degli appunti particolareggiati e quindi … Di più, un elemento che può essere utile, ad un certo punto l’Arma Territoriale, non ricordo in che giorno, viene da me e mi dice: facciamo una azione diversiva su Fondo Gelsomino, si chiamava così, perché si stanno troppo avvicinando al covo e c’è il rischio che le nostre attività siano compromesse.. .. . .. Allora io ordino, o dico a qualcuno di predisporre, probabilmente lo dico a qualcuno, la così detta operazione Gelsomino e loro fanno un’imponente manifestazione di presenza sul posto per distogliere l’attenzione … Se questo non significa che la stessa Arma Territoriale era convinta che il covo veniva sorvegliato, non so cosa altro (PAROLA INCOMPRENSIBILE) convincere. Tant’è che io non ho il minimo dubbio”);

– di non avere avuto alcun chiarimento diretto in occasione dei successivi incontri con Mori (”Non mi sembra, del resto sarebbe stato assolutamente inutile perché quello che un Carabiniere scrive nelle relazioni di servizio che ci ha mandato su nostra domanda, è in suo punto di vista e non lo cambierà mai neanche cascasse il mondo”), col quale, d’altra parte, non aveva particolare confidenza […], non ricordando neppure di averlo conosciuto durante il periodo in cui aveva svolto le funzioni di giudice istruttore a Torino […];

– che il Dott. Patronaggio era pronto ad intervenire per procedere alla perquisizione della abitazione di Riina, ma poi era stato convinto a desistere da De Capri o per conto del ROS (“… ricordo che il dottor Patronaggio, d’accordo con me, stava per intervenire. Ricordo che, l’ho già detto prima, siamo stati convinti, fortemente convinti… … Ultimo non parlava a titolo personale … … Si è messo in prima fila, per così dire, sicuramente”).

Anche Giovanni Brusca, nelle udienze dell’Il e del 12 dicembre 2013, ha reso dichiarazioni riguardo alla vicenda in esame, dichiarando, in particolare:

– che egli non conosceva il luogo in cui Riina trascorreva la latitanza in quel periodo, ma sapeva soltanto che della stessa si occupavano i Sansone (“Questa volta, al contrario delle altre volte, non sapevo l’ubicazione, però sapevo chi stava in mano ai Sansoni sapevo bene o male la zona dell’Uditore, però non ero stato mai a casa sua, in quest’abitazione …….. …. Sì, sino a quella … un’altra casa dell’Uditore, un attico, a Mazara del Vallo, a San Giuseppe Jato, a Borgo Molara, conoscevo tutti”) e che, comunque, Riina disponeva sempre di cassa forti o nascondigli per i suoi documenti, come egli stesso aveva potuto constatare allorché gli aveva fatto visita in precedenti abitazioni; […]

– che egli il giorno dell’arresto di Riina si trovava ad attenderlo, per un incontro, nei pressi di un bar a San Lorenzo […];

– che successivamente si era occupato anche di far sgomberare l’appartamento di Riina (“Sempre io, mi sono interessato, parlando con Bagarella di potere prelevare quelle che erano le vettovaglie, vestiti, argenteria, quello che si poteva recuperare. M’incontro con Angelo La Barbera, che a sua volta era il capo famiglia dei Buscemi, dei Sansoni, e gli dico: “Angelo, vediamo di potere risolvere questo problema” e lui si interessa a fare sgombrare tutto e mi fa avere solo l’argenteria, tutto il resto, c’erano pellicce, c’era biancheria, il corredo di madre, cioè, tutto quello che c’era mi hanno detto che l’avevano bruciato. Quando ho detto questa cosa a Bagarella si è un po’ adirato, arrabbiato, dice: “Che avevano la rogna? Si spaventavano a uscire … ” In particolar modo per il corredo di famiglia fatto a mano, lenzuola e tutta ‘sta roba qua … … …. Quello dei familiari in giornata, allo stesso di … l’arresto, lo stesso giorno di Riina, cioè quando poi tutte le televisioni hanno parlato che la sera stessa si recò a Riina e noi l’abbiamo fatto intorno alle sei e mezzo, le sette di pomeriggio, già all’imbrunire ……….. .Invece per quanto riguarda il fatto di togliere le cose io mi sono incontrato con Angelo La Barbera dopo tre, quattro giorni, quando poi realmente l’hanno fatto non glielo so dire, a distanza di tempo mi ha detto che l’unica cosa che avevano conservato era l’argenteria, tutto il resto l’avevano bruciato”)

– che era stata, invece, sempre ritenuta infondata la voce che attribuiva l’arresto di Riina a Provenzano […];

[…] Antonino Giuffré, esaminato nelle udienze del 21, 22 e 28 novembre 2013, riguardo alla vicenda qui in esame, in sintesi, ha dichiarato:

– che nell’ambito di “cosa nostra” si riteneva che Riina fosse stato “venduto” e che, pertanto, la perquisizione della sua casa fosse stata appositamente evitata per evitare di sequestrare documenti […];

– che, dunque, la cattura di Riina, in sostanza, era stata “comprata” dallo Stato (“Diciamo quella parte di Stato che, per alcuni versi diciamo che avevano avuto una vicinanza con Cosa Nostra, diciamo quello spezzone di Stato. Alcuni indubbiamente operando in buona fede, altri convincendo, ricattando altri, e altri in assoluta mala fede. Quindi per eliminare questo attacco, cioè, che si è permesso il Riina di sferrare contro il potere, quel potere politico. Non parlo di tutto il potere politico, ma per una parte del potere politico che aveva avuto un ruolo nell’appoggiare Cosa Nostra. Poi, successivamente le stragi perché sono state fatte? Sono state fatte appositamente per indurre anche in buona fede quella parte di Stato onesto, chiamiamola ragione di Stato, chiamiamola come vogliamo, per indurlo appositamente a porre fine a questa cosa. Quindi la consegna, il prezzo da pagare con la messa a parte di tutta quella frangia violenta di Cosa Nostra che aveva attaccato direttamente lo Stato e tante persone che con lo Stato e con le stragi non c’entravano, e quindi per indurre quella parte di Stato che non era completamente diciamo… Per ricattare, diciamo, con la forza, con la violenza lo Stato sano italiano”) quando Provenzano aveva deciso che fosse più utile la strategia della “sommersione”[…];

– di non sapere chi sia impossessato dei documenti che si trovavano nella abitazione di Riina al momento del suo arresto e di avere soltanto ipotizzato che potessero essere pervenuti a Mat1eo Messina Denaro […];

non v’è dubbio che la condotta posta in essere dai Carabinieri allora guidati dall’odierno imputato Mori in occasione dell’arresto di Salvatore Riina desti nell’osservatore esterno profonde perplessità mai chiarite.

Da ultimo possono richiamarsi, in proposito, le considerazioni della Corte di Appello di Palermo che ebbe a valutare anche tale aspetto delle complessive condotte dell’imputato Mori nel processo conclusosi con l’assoluzione di quest’ultimo per il reato di favoreggiamento della latitanza di Provenzano.

Nella sentenza del 19 maggio 2016 della Corte di Appello di Palermo, divenuta irrevocabile 1’8 giugno 2017 ed acquisita agli atti di questo processo, infatti, al riguardo si legge: “Orbene, col senno di un osservatore esterno che a distanza di tempo si posiziona in un punto di osservazione svincolato dalla giustificabile concitazione del momento, la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo. Preme, comunque, sottolineare al riguardo che la scelta condivisa di non perquisire immediatamente il covo blindandola con un servizio di osservazione esterno all’ingresso del complesso edilizio appare davvero singolare ove si consideri che il detto servizio anche ove fosse stato mantenuto per qualche giorno ancora non avrebbe evitato che qualcuno dall’interno provvedesse a “ripulire” la villetta, cosa che, con tutto il comodo possibile, fu effettivamente fatta.

Altra circostanza che il collegio ritiene di sottolineare concerne l’affermazione contenuta in sentenza secondo la quale la decisione di abbandonare il servizio di osservazione fu presa dal De Caprio, senza che il Mori ne fosse informato, come precisato in udienza dal predetto teste.

Orbene, appare davvero difficile credere che una decisione di tale importanza non fosse stata comunicata al Mori che era il “dominus” dell’operazione. tenuto conto che ancor più difficile appare che egli non se ne sia mai interessato, se non quando a distanza di più di un mese fu chiamato dal Procuratore Caselli a renderne conto.

Ancor più difficile da spiegare, e a ben guardare nemmeno l’ha spiegato lo stesso Mori, appare il fatto che la cessazione del servizio non fu comunicato tempestivamente all’A.G.

Invero, la giustificazione fornita: l’essersi mosso “in uno spazio di autonomia decisionale consentito” appare davvero inadeguata, in specie ove si consideri che il servizio venne tolto poche ore dopo la decisione di effettuarlo come contraltare alla mancata immediata perquisizione dell’abitazione. Cosa possa essere in quel limitato frangente di tempo essere accaduto di tanto importante da smettere di dar corso ad una decisione presa di comune accordo con l’A.G. è cosa che la Corte non riesce a spiegarsi e. a ben vedere in maniera specifica non l’hanno spiegato nemmeno gli imputati”.

In ogni caso, però, alla stregua della sentenza definitiva pronunziata dal Tribunale di Palermo prima ricordata, deve, innanzitutto, prendersi atto che è stato escluso, sotto il profilo della carenza dell’elemento soggettivo del reato allora contestato, che Mori e De Caprio, omettendo di perquisire l’abitazione nella quale Riina trascorreva la sua latitanza, abbiano voluto favorire altri esponenti dell’associazione mafiosa “cosa nostra”.

E, tuttavia, anche la conferma della condotta materiale ravvisata in quella stessa sentenza evidenzia la grave anomalia che in quella occasione ebbe a verificarsi per l’improvvida condotta degli imputati, essendo quello l’unico caso nella storia della cattura di latitanti appartenenti ad una associazione mafiosa (ma anche di latitanti responsabili di altri gravi reati) in cui non si sia proceduto all’ immediata perquisizione del luogo in cui i latitanti medesimi vivevano al fine di reperire e sequestrare eventuali documenti utili per lo sviluppo di ulteriori indagini quanto meno finalizzate alla individuazione di favoreggiatori (si veda, in proposito, anche la meraviglia manifestata da Salvatore Riina nelle intercettazioni dei suoi colloqui in carcere di cui si darà ampio resoconto più avanti nella Parte Quinta della presente sentenza per il fatto non soltanto che la sua abitazione, appunto, non venne perquisita, ma anche che così fu consentito ai suoi nipoti di svuotarla e ripulirla interamente).

E tale anomalia appare ancora più grave se rapportata alla figura di quel latitante, cioè di Salvatore Riina, che in quel momento era indiscutibilmente il ricercato numero uno al mondo per essere a capo dell’organizzazione criminale allora più potente e pericolosa e responsabile di delitti tra i più efferati mal commessi (da ultimo le stragi di Capaci e via D’ Amelio).

Né vale rilevare, in proposito, che, come si vedrà nella Parte Quinta della sentenza, Riina, conversando con Lo Russo, abbia escluso che nella cassaforte della propria abitazione (di cui conferma l’esistenza) vi fosse documentazione di qualsiasi tipo (v. intercettazione del 10 agosto 2013: Ma io non … ….. … unn ‘aveva niente… … … e io non ho mai detto a nessuno che haiu documento… … …documenti importanti non l’avevo e non li tenevo … ” e intercettazione del 29 agosto 2013: … io onestamente … devo dire la verità, un scriveva nenti e un tineva nenti dintra a casa … …. … perché non scriveva io … … … e picchì c’è … c’era a mente … … …… io … io cose importanti non … non … non ne aveva e si l’aveva l’aveva ‘nta mente …… … e mi tineva ‘ntesta … “), poiché, tale affermazione, oltre che in sé inverosimile, è smentita incontestabilmente dal fatto che al momento dell’arresto indosso al Riina vennero rinvenuti anche alcuni “pizzini” (v. sentenza del 20 febbraio 2006, dalla quale si ricava anche la gravità degli effetti di quella mancata perquisizione a prescindere dalla riconosciuta assenza di prova sul dolo degli imputati), così che la stessa affermazione va ricondotta ad una sorta di autocelebrazione ed autoesaltazione del personaggio.

Certo, in astratto, la decisione di non procedere immediatamente alla perquisizione della abitazione di Riina avrebbe potuto pur trovare giustificazione in una strategia attendista finalizzata alla individuazione ed all’arresto di correi quale quella prospettata da Mori (e dal suo subordinato De Caprio), ma ciò solo nel contesto di una effettiva sorveglianza dell’abitazione del Riina che avrebbe potuto, comunque, preservare ciò che in tale abitazione era custodito.

Ma, come si è visto, in realtà, quello stesso giorno, a distanza di poche ore dall’arresto del Riina, senza che fossero in alcun modo informati i magistrati della Procura di Palermo, quel servizio di osservazione fu rimosso senza alcuna comprensibile motivazione, perché, quali che fossero le ragioni addotte a sostegno di tale decisione[…], a questa avrebbe dovuto, comunque, conseguire l’immediata perquisizione dell’abitazione di Riina (che non era certo difficile individuare all’interno del complesso di via Bernini a costo di perquisire tutte le certo non molte ville, appena nove, site al suo interno).

Ma ciò non fu fatto, tanto che, non soltanto nell’immediatezza fu possibile prelevare i familiari del Riina per farli rientrare a Corleone, ma, addirittura, dopo alcuni giorni dall’arresto del Riina, fu possibile per esponenti mafiosi accedere all’abitazione di quest’ultimo per svuotarla completamente (v. anche intercettazione Riina del 10 agosto 20 I 3 di cui si dirà meglio nella Parte Quinta della sentenza).

Nessuna spiegazione minimamente convincente di tale defaillance investigativa è stata mai data da Mori (v. quanto osservato in proposito anche dalla Corte di Appello di Palermo con la sentenza sopra richiamata), tanto da non riuscire mai a superare le perplessità sia degli altri corpi investigativi (v., ad esempio, quanto alla Polizia, le perplessità del Questore La Barbera riferite dal giornalista Guglielmo Sasinini all’udienza del 2 luglio 2015: ” … con La Barbera c’era un rapporto decisamente più amicale…. …. . … mi disse non mi convincerà mai questa storia perché non perquisirono il covo di Riina insomma, questa era la…”), sia dei magistrati della Procura di Palermo, per i quali, come ben rappresentato in dibattimento da uno dei più illustri ed esperti di essi, la mancata perquisizione della abitazione di Riina, nonostante il trascorrere degli anni, è rimasta sempre una “ferita ancora sanguinante” (v. deposizione del Dott. Giuseppe Pignatone all’udienza del 14 gennaio 2016: “Certamente quello che io le posso dire è che il Ros ha continuato a svolgere indagini con la Procura di Palermo, questo è fiuori discussione, anche importanti. Quali fossero i rapporti personali non lo so ovviamente, tra il dottore Caselli, il Colonnello Mori, o Generale che fosse all’epoca, Mori e gli altri. Che la vicenda mancata perquisizione del covo di Riina sia rimasta una ferita aperta per la Procura di Palermo, certe volte sanguinante, certe volte meno, è altrettanto vero e credo notorio. Dopo di che il fatto istituzionale è un’altra cosa e quindi le indagini, anche indagini molto importanti dei Carabinieri, ci sono state anche in quegli anni.. … …sui rapporti personali, ovviamente insisto, non so cosa dire. Sui rapporti istituzionali, che erano quelli di cui ho parlato sette anni fa e quello che ho detto oggi, cioè le indagini venivano svolte, non è che, come a volte è successo anche in altre Procure, una Procura decide di non avere più indagini con un determinato ufficio di Polizia, questo non è avvenuto. Anche nel 93 stesso, il Ros ha continuato a lavorare e a fare indagini di alto livello e di grande importanza con la Procura di Palermo, e questo è quello che ho definito allora istituzionale. Dopo di che, oggi forse sono stato con un aggettivo un po’ più, diciamo, fantasioso. Quello che intendo dire è che dal 93 in poi nessuno, credo, di noi della Procura di Palermo ha mai chiuso completamente la vicenda covo di Riina. Poi ci sono momenti in cui… Non è che nessuno di noi se l’è mai dimenticata. mandata in un archivio mentale e mai… È una cosa che abbiamo vissuto, dopo di che ognuno di noi ha le sue idee in materia, il processo sappiamo tutti come è finito e ci sono stati poi momenti di polemica giornalistica che non riguardano credo il 95, credo siano successive, ed è quello che … In quella dichiarazione ho detto alti e bassi e oggi ho detto una ferita certe volte sanguinante. Mi pare che il concetto sia identico…”).

Ed allora, se così è, escluso, in dovuto ossequio al giudicato, l’intento favoreggiatore nei confronti di esponenti mafiosi (e, tra questi, quindi, anche del Provenzano secondo quanto, invece, ipotizzato in questa sede dalla Pubblica Accusa), e dovendosi, nel contempo escludere che una simile defaillance investigativa possa essere dovuta ad incapacità professionale del Mori per la sua storia personale, non può, però, farsi a meno di saldare l’anomala omissione della perquisizione alle condotte, anche omissive, già esaminate sopra nel Capitolo 6 e, quindi, inquadrare anche tale omissione nel contesto delle condotte del Mori dirette a preservare da possibili interferenze la propria interlocuzione con i vertici dell’associazione mafiosa già intrapresa nei mesi precedenti.

E’ logico ritenere, in sostanza, in mancanza di altre plausibili spiegazioni, che, pur in assenza di qualsiasi preventivo accordo con Provenzano o con altri a questo vicini e di una volontà riconducibile al reato di favoreggiamento, si volesse lanciare un segnale di disponibilità al mantenimento (o alla riapertura) del dialogo nel senso del superamento della contrapposizione frontale di “cosa nostra” con lo Stato precedentemente culminata nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Ed, infatti, tale singolare “anomalia” investigativa, proprio perché costituente un unicum, è stata immediatamente colta e percepita non soltanto direttamente da Salvatore Riina […], ma, più in generale anche nell’ambito di “cosa nostra”, così come risulta dalle dichiarazioni dei collaboratori prima ricordate, tanto che si cominciarono a formulare le più disparate ipotesi su di essa tutte connesse ad un possibile accordo o tradimento interni e, soprattutto, emersero in forma esplicita le perplessità di tal uni sulla strategia portata avanti da Riina e si iniziarono a formare due distinti schieramenti, il primo dei quali ebbe il sopravvento nella immediatezza, mentre il secondo, anche per il sopravvenuto arresto dei principali esponenti dell’ala contrapposta, prevalse negli anni successivi. Di ciò si parlerà nel Capitolo che segue.


I due “partiti” mafiosi dopo le stragi   Si è già visto che Salvatore Riina fu, di fatto, il vero artefice di tutte le decisioni strategiche assunte da “cosa nostra” riguardo alle risposte ed alle reazioni da opporre al grave colpo subito dalle cosche mafiose per effetto delle condanne inflitte all’esito del “maxi processo” (v. sopra Capitolo 2 di questa Terza Parte della sentenza).

Certo, tutte le decisioni, come pure si è visto sopra, venivano comunicate nelle riunioni degli organi di vertice dell’associazione mafiosa e, quindi, da questi ratificate e fatte proprie, ma spesso nel silenzio dei presenti che non avevano il coraggio – né la forza – di opporsi al volere di colui che, dopo la seconda guerra di mafia dei primi anni ottanta, aveva, di fatto, assunto, inizialmente con il suo alter ego corleonese Bernardo Provenzano e poi progressivamente in modo sempre più autonomo ed egemonico, l’effettiva direzione dell’associazione mafiosa (si vedano, in proposito, anche le intercettazioni dei colloqui in carcere di Salvatore Riina di cui si dirà approfonditamente nella Parte Quinta della sentenza, Capitolo 1).

Al volere del Riina, dunque, soprattutto, devono essere ricondotti sia la contrapposizione stragista allo Stato, sia, dopo la strage di Capaci, l’almeno apparente disponibilità al dialogo finalizzata ad ottenere benefici per gli associati mafiosi, accompagnata, però, pur sempre da ulteriori manifestazioni di forza che potessero indurre lo Stato a cedere alle sue richieste.

In tale ottica, e anche di ciò si è detto sopra nel Capitolo 4 di questa Terza Parte della sentenza, si inquadra la strage di via D’Amelio, ma non solo.

Pur “accettando la trattativa” (v. sopra Capitoli 5-9), infatti, Riina, per evitare che la stessa si arenasse, continua nella sua strategia di attacco allo Stato, cui vanno ricondotti, oltre che la strage di via D’Amelio di cui si è detto, anche il tentato omicidio del Commissario Calogero Germanà nel luglio 1992 […] e l’uccisione di Ignazio Salvo nel settembre 1992 (v. sentenze in atti), oltre che alcuni progetti omicidiari dell’autunno 1992 per varie evenienze fortunatamente non portati a termine (tra questi soprattutto quelli ai danni del Dott. Pietro Grasso e, dopo la sospensione del primo progetto del luglio 1992, ancora dell’On. Calogero Mannino di cui hanno riferito, anche in questo dibattimento, alcuni di coloro che ne furono incaricati, successivamente divenuti collaboratori di Giustizia […]).

La spirale senza prevedibile fine della violenta reazione voluta da Salvatore Riina, unitamente alla conseguenze negative che in quel momento si erano manifestate soprattutto con l’irrigidimento delle condizioni carcerarie dei detenuti di “cosa nostra” (tale questione sarà oggetto di successivo specifico esame in successivi Capitoli), aveva determinato in una parte di “cosa nostra” malcontento e disapprovazione per quella strategia, che, tuttavia, non aveva trovato alcuno sbocco in aperte manifestazioni di dissenso sino all’arresto di Riina per timore delle usuali violente reazioni che questi, come da molti riferito anche in questo dibattimento, non disdegnava certo di adottare, non soltanto nei confronti di coloro che gli erano “nemici”, ma persino nei confronti di coloro che pure gli manifestavano amicizia se solo avessero osato dissentire dal suo volere.

Soltanto dopo l’arresto di Riina, dunque, v’è un chiaro ed aperto confronto tra due opposte fazioni interne a “cosa nostra” per decidere quale strategia portare avanti e cioè se proseguire nell ‘attacco frontale allo Stato sino a che questo, piegandosi, non avesse accolto le condizioni poste da Riina (v. sopra Capitolo 12) così ribadendo la supremazia di “cosa nostra”, ovvero adottare la diversa strategia della “sommersione”, in attesa che la reazione dello Stato si attenuasse, di modo da riprendere le “ordinarie” attività e la convivenza (rectius, connivenza) che avrebbero consentito il più tranquillo protrarsi degli affari illeciti propri dell’associazione mafiosa (traffico di stupefacenti, estorsioni, accaparramento di lavori e fondi pubblici e così via).

Nel dibattimento sono state acquisite, in proposito, molteplici e concordi fonti di prova di cui si dirà qui di seguito […].

[…] Tra le dette fonti di prova acquisite nel corso del dibattimento si vuole qui iniziare proprio dalle dichiarazioni rese da Giovanni Brusca, perché queste, come già sopra accennato, grazie ad un inatteso, imprevedibile e straordinario riscontro per bocca direttamente di Salvatore Riina, assurgono già da sole a piena prova dei fatti oggetto del presente Capitolo.

Ma è bene muovere da ciò che Brusca ha raccontato riguardo alle dinamiche interne a “cosa nostra” successive all’arresto di Salvatore Riina.

Ebbene, nel corso del suo esame nelle udienze dell’11 e 12 dicembre 2013 Brusca, in sintesi, ha riferito:

– che dopo il suo arresto, Riina gli fece comunicare, per il tramite del figlio Giovanni, la volontà di proseguire nella strategia stragista (“…l’unico messaggio da parte di Totò Riina, con il figlio Giovanni, di continuare nelle stragi, no gli attentati, Magistrati e politici locali”);

– che, però, già poco dopo l’arresto di Riina, v’era stata una prima riunione di esponenti dell’associazione mafiosa per decidere il da farsi ed in tale occasione Raffaele Ganci aveva mosso critiche all’operato del Riina medesimo e successivamente aveva riferito a Giuseppe Graviano che anche Brusca, che, invece, era rimasto semplicemente silente, condivideva tali critiche (“Allora, nell’immediato, come avevo accennato stamattina, la prima riunione che io faccio la faccio con Raffaele Ganci, Biondino, Biondo Salvatore “il Corto”, Cancemi Salvatore e Angelo La Barbera che io non avevo mai visto nelle fasi esecutive, attenzione, quando si stabiliva il da farsi. Quindi io in quella fase mi limito solo ad ascoltare e il primo che rinnega l’operato di Totò Riina e lo critica in maniera molto… non dice parole, però che non condivideva la sostanza, gli effetti o quello che stava facendo, fu Raffàele Ganci, dice: “Ormai quello che abbiamo fatto fatto, sbagliato o giusto non lo so, però ci dobbiamo calmare”. Quindi il primo che si defila dal progetto di andare avanti, quelle che erano le indicazioni di Riina. Queste parole che io solo li ascolto, Raffaele Ganci li tramuta, li trasferisce a Giuseppe Graviano dicendo che io ero d’accordo a questa fase di stallo ed io … “), tanto che, poi, egli aveva dovuto spiegare a Bagarella, che per quel comportamento silente lo aveva rimproverato, che non era intervenuto in quella occasione per ragioni di prudenza, ma che condivideva la volontà del medesimo Bagarella di portare avanti la strategia stragista (“…Bagarella è venuto da me rimproverandomi, dice: “Ma tu, come, ti sei ritirato indietro in questa strategia?” Ci dissi: “No, io non mi sono ritirato indietro, se facciamo un confronto, chi sbaglia paga, io mi sono limitato ad ascoltare, non ho parlato perché c’era Angelo La Barbera e non sapevo se sapeva, se non sapeva, cosa gli avevano detto, io prima di avventurarmi su fatti che non mi riguardano ci vado un po’ cauto, quindi facciamo un confronto che io non intendo … cinque minuti nella fase più convincente di andare avanti quella che era la strategia di Totò Riina”);

– che, nel frattempo, sempre a seguito dell’arresto di Riina, v’era stata una riunione della “famiglia” mafiosa di Corleone nella quale Bagarella aveva offerto a Provenzano di prendere il posto di Riina purché concordasse con lui (Bagarella) qualsiasi decisione così come prima Riina concordava il da farsi con lo stesso Provenzano (” ….. Allora, io ho saputo che avevano avuto, al solito loro, dopo l’arresto di Riina, una riunione della famiglia di Corleone per stabilire chi doveva prendere il posto di Totò Riina. Allora per rispetto e per garanzia Bagarella ha detto: “Lo prendi tu, Bernardo Provenzano, però, al solito, prima che tu prendi impegni con chicchessia devi concordare con me “. Cioè, prima Riina-Provenzano, ora Provenzano-Bagarella”);

– che successivamente, dopo la riunione che Brusca aveva fatto con Raffaele Ganci e gli altri e il conseguente chiarimento che il medesimo Brusca aveva avuto con Bagarella, entrambi questi ultimi si erano recati a incontrare Bernardo Provenzano per decidere sulla prosecuzione della strategia stragi sta (“… Era successo che nel frattempo, dopo l’arresto di Riina io faccio un ‘altra riunione con Raffaele Ganci, Angelo La Barbera, Raffaele Ganci e Angelo La Barbera … … .. Dopo questa riunione, che poi vi spiego il motivo, a causa di … in base a questa discussione, questa con Provenzano fu oggetto di discussione tra me e Bagarella, dopodiché siamo andati da Provenzano per stabilire la strategia stragista, se continuare o meno con quello che stava portando avanti Totò

Riina. Bernardo Provenzano pensava che lui aveva preso non solo il mandamento di Corleone, ma pensava di essere diventato il capo provincia, aveva in sostanza preso il ruolo di Salvatore Riina”) e, quindi, ad informarlo che avevano deciso di portare avanti tale strategia per far sì che coloro che già

“si erano fatti sotto” con Riina, tornassero a trattare (“…Allora proprio io gli ho detto … ci dissi: “Guardi, ci sono persone che sono venute … si sono fatte sotto, quindi noi vorremmo portare questa cosa avanti affinché questi tornano”. Bagarella e lui non è che mi hanno risposto e hanno detto: “Ah, sì?” Provenzano, Bagarella mi asseconda e dice: “Noi vogliamo andare” a questa strategia stragista ancora da stabilire gli obiettivi e via dicendo”);

– che allora Provenzano aveva manifestato apertamente il proprio disappunto dicendo che non avrebbe saputo come giustificarsi con gli altri esponenti mafiosi a lui vicini che già si erano detti contrari a proseguire nella strategia di Riina, ma, poi, di fronte all’attacco anche canzonatorio e provocatorio di Bagarella che, per il tono, aveva sorpreso lo stesso Brusca, il Provenzano non aveva avuto la forza di opporsi al volere di Bagarella (“[…] Provenzano, come ho detto poco fa, quando abbiamo avuto quel confronto dopo l’arresto… … …. … subisce, subisce la volontà di Bagarella e di tutto il resto. Però non è che era allo scuro, sapeva quello che stavamo facendo … …… Sono stato io per primo a parlare del cosiddetto … che si sono fatti sotto. È avvenuto a Belmonte Mezzagno, oggetto poi di sopralluogo con le Forze di Polizia, con la DIA, che li ho individuati, quindi è stato individuato e trovato, credo che siamo febbraio, marzo, dopo l’arresto di Riina … …. … Che Bernardo Provenzano non era d’accordo con la strategia stragista, quella portata avanti da Totò Riina, al solito suo voleva fare le cose, ma sempre in modo con effetti meno… meno … Non mi viene la parola, meno … … …. Eclatanti, dimostrativi e andare avanti. Invece Bagarella dice: “No, noi andiamo avanti, non facciamo niente in Sicilia, però al nord possiamo fare quello che vogliamo e tu ti metti il cartello e ci scrivi «lo non so niente»”…. …. … Ma totale provocazione e un. per dire: “Sei miserabile “, in sostanza, dice: “Noi andiamo avanti, tu al solito tuo”, tutte e due le cose”);

– che, in tale contesto, fu deciso dallo stesso Brusca, da Bagarella e da Messina Denaro di spostare il luogo degli attentati al di fuori dalla Sicilia […];

– che, comunque, la finalità degli attentati nel continente era sempre quella di indurre i politici a trattare sulle richieste di Riina (“Era la finalità a far ritornare questi… appunto questi attentati al nord sono tutti finalizzati a fare tornare questi a trattare. Questi contatti che aveva avuto Riina … …. … che si erano bloccati. a un dato punto dice: “Sono assai”, poi non ha avuto modo di potere specificare. Con Riina erano assai e cioè qualche cosa gliela potevano dare, poi non so gli sviluppi dove sono arrivati, so solo che con Bagarella, con Provenzano prima e con Bagarella dopo questi attentati erano per fare riaprire questo dialogo. Costringere chi era di competenza a o trovare un altro soggetto o andare a trovare a Totò Riina in carcere, un po’ come ai tempi della guerra … tra le Seconda Guerra Mondiale”);

* * * Orbene, come si è già anticipato, il racconto del Brusca ha trovato un inatteso, imprevedibile e straordinario riscontro riguardo al dissenso di Provenzano sulla decisione di proseguire la strategia stragista anche dopo l’arresto di Riina proprio nelle parole di quest’ultimo intercettate il 18 agosto 2013 all’interno del carcere nel quale era detenuto.

[…] In proposito, a prescindere dagli altri molteplici elementi che ne confermano genuinità, può già anticiparsi che anche il passo dell’intercettazione qui in esame costituisce da solo una incontestabile ed insuperabile conferma, poiché, Riina, nel raccontare al suo interlocutore l’episodio che di seguito sarà ricordato e soprattutto quello specifico particolare di cui si dirà, non poteva di certo sapere – e prevedere – che tale particolare sarebbe stato, poi, raccontato anche da Brusca nel successivo dicembre di quell’anno in questo dibattimento e ove, invece, fosse stato a conoscenza dell’analoga dichiarazione già precedentemente resa dal Brusca in altre occasioni, giammai, evidentemente, avrebbe volutamente e falsamente confermato una circostanza riferita dal predetto collaborante che il Riina ha sempre avversato, tanto da definirlo nelle stesse intercettazioni un “pallista”.

E, nel contempo, poiché quando Brusca ha raccontato a sua volta il medesimo particolare della vicenda non era ancora noto il contenuto delle intercettazioni di Riina, l’intercettazione costituisce un incontestabile riscontro della attendibilità del Brusca medesimo che fa assurgere la sua propalazione sul fatto qui in esame al rango di piena prova senza necessità di ricercare ulteriori riscontri (che pure, però, vi sono, come si vedrà esaminando le dichiarazioni di altri collaboratori di

Giustizia) e ciò tanto più se si considera che, come risulta dalla sentenza in atti della Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998, Brusca ebbe a raccontare l’episodio di cui si dirà (sia pure con qualche oscillazione sul fatto di essere stato presente al colloquio tra Bagarella e Provenzano) non soltanto in quel processo, ma addirittura sin dagli interrogatori dell’ Il agosto 1996 e del 10 settembre 1996 e, quindi, sin dall’inizio della sua collaborazione con la Giustizia.

Ci si intende qui riferire soprattutto a quel passo delle dichiarazioni di Brusca nel quale riferisce la reazione canzonatoria e provocatoria di Bagarella al tentativo di Provenzano di prendere le distanze, insieme ai suoi alleati con i quali altrimenti non avrebbe saputo come giustificarsi, dalla decisione comunicatagli dallo stesso Bagarella e da Brusca di proseguire nella strategia stragista.

Ebbene, a fronte della titubanza manifestata da Provenzano[…] ed all’imbarazzo di questi per le spiegazioni che avrebbe dovuto dare, appunto, ai suoi alleati, Bagarella, secondo quanto raccontato da Brusca, ebbe ad apostrofare Provenzano dicendogli “Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: «lo non so niente»”[…].

Ebbene, balza del tutto evidente l’assoluta coincidenza di tale racconto del Brusca con quel passo di un’intercettazione effettuata all’interno del carcere nel quale era detenuto Riina, allorché quest’ultimo, a sua volta, racconta al suo interlocutore le perplessità che Provenzano aveva manifestato sulla strategia stragista.

Riina, infatti, ad un certo punto racconta di avere invitato il Provenzano a mettersi un cartellino al collo con la scritta “io non ne so niente” (v. intercettazione del 18 agosto 2013[…]).

E’ appena il caso di evidenziare che, ovviamente, Riina in quel momento era detenuto e, quindi, non aveva colloqui diretti con Provenzano, ma ciò non era certamente d’ostacolo per veicolare i suoi voleri attraverso i familiari che andavano al colloquio in carcere con lui, prima fra tutti la moglie Antonietta Bagarella, che, essendo sorella di Leoluca Bagarella, non aveva di certo alcuna difficoltà a comunicare al fratello il volere del marito.

Ed, infatti, è proprio Leoluca Bagarella che, evidentemente facendo le veci del cognato detenuto, apostrofa Provenzano esattamente con quella frase pronunziata da Riina.

In ogni caso, per la precisione del riscontro, non può minimamente dubitarsi che Riina, tramite i familiari comuni con Bagarella, sia stato esattamente informato del colloquio intercorso tra quest’ultimo e Provenzano in ordine alla strategia futura di “cosa nostra”.

Si tratta, dunque, di un riscontro straordinario ed eccezionale che ha una triplice valenza, perché contemporaneamente comprova:

– la genuinità delle intercettazioni […] perché giammai Riina, che ha sempre avversato Brusca in quanto divenuto collaboratore di Giustizia e che lo ha definito nel corso delle stesse intercettazioni un “pallista”, avrebbe falsamente confermato la veridicità di un episodio già riferito da Brusca ove fosse stato a conoscenza delle precedenti propalazioni dello stesso, mentre in caso contrario (mancata conoscenza da parte di Riina della precedente analoga dichiarazione di Brusca) non avrebbe potuto, in quel momento, Riina, sapere e prevedere ciò che soltanto alcuni mesi dopo Brusca, alla presenza dello stesso coimputato Riina, avrebbe raccontato in questo dibattimento;

– l’attendibilità di Brusca non essendo nota, quando questi ha raccontato quel fatto in questo dibattimento, l’intercettazione in questione e non potendo, ovviamente, prevedere il medesimo Brusca, quando per la prima volta ebbe a raccontare lo stesso episodio nell’interrogatorio dell’11 agosto 1996 […], che ben diciassette anni dopo avrebbe trovato una conferma nelle parole dell’irriducibile Salvatore Riina;

– e, infine, soprattutto la formazione all’ interno di “cosa nostra” di due opposte fazioni sull’opportunità di proseguire nella strategia stragi sta, la prima facente capo a Provenzano che, tuttavia, in quella prima fase non aveva potuto opporsi al volere dei fedelissimi del Riina, e la seconda facente capo a quest’ultimi e, quindi, innanzitutto a Bagarella, che, in virtù del suo rapporto parentale, rappresentava, di fatto (al di là della soltanto formale investitura a Provenzano della guida dei “corleonesi”), la continuità operativa del volere del Riina.

* * *  Peraltro, come si è già anticipato, la formazione di quei due schieramenti emerge anche dalle dichiarazioni di altri collaboratori di Giustizia che ne hanno riferito nel dibattimento e, principalmente, per la profondità e la diretta fonte delle sue conoscenze, dalle dichiarazioni di Antonino Giuffrè.

[…] Ed invero, in occasione dell’esame effettuato nelle udienze del 21, 22 e 28 novembre 2013, Giuffré, riguardo alle dinamiche successive all’arresto di Riina, in sintesi, ha riferito:

– che dopo l’arresto di Salvatore Riina cominciò a delinearsi un cambio di strategia del quale egli prese contezza allorché ebbe ad incontrare Bernardo Provenzano a Belmonte Mezzagno […];

– che in occasione di tale incontro egli, infatti, rimase sorpreso dal nuovo atteggiamento di Provenzano, prima non certo alieno alle violenze, che, però, in quel momento gli prospettò la necessità della “sommersione” e, quindi, di porre termine alla contrapposizione frontale con lo Stato […];

– che Provenzano, pertanto, in quel periodo subiva il volere di Bagarella (“Diciamo che per lo stesso Provenzano, il 93 non sarà … il 93 e il 94 non sarà un periodo tranquillo, perché troverà in Luchino Bagarella diciamo la persona che lo contrasta abbastanza bene, anche nei suoi movimenti il Provenzano diciamo che è limitato, tanto è vero che come ho detto in altre circostanze il Bagarella e il Brusca, nell’ambito della Regione Siciliana, vanno prendendo sempre più spazio, vanno prendendo sempre più consensi su Trapani, con Matteo Messina Denaro su Agrigento con un Fragapane che è l’ultimo dei provinciali nominati da Riina, quindi prima con Fragapane e poi con Fanara”), il quale, di fatto, aveva assunto il ruolo di Riina per la prosecuzione della strategia stragista insieme ai suoi più stretti alleati, Brusca e Graviano […];

– che Provenzano, tuttavia, per non fare definitivamente prevalere Bagarella nella guida di “cosa nostra”, continuava a dialogare con lo stesso Bagarella […];

[…] Come si vede, dunque, v’è piena coincidenza nel racconto del Giuffré riguardo agli schieramenti già indicati da Brusca, al ruolo-guida assunto di fatto da Bagarella dopo l’arresto di Riina ed alla accettazione, più o meno forzata, del volere di Bagarella da parte di Provenzano, il quale, però, nel contempo, con i suoi alleati propugna la linea della “sommersione” che, tuttavia, riuscirà a fare prevalere soltanto dopo l’arresto dei principali oppositori (Graviano nel 1994, Bagarella nel 1995 e Brusca nel 1996).

[…] Tra gli altri elementi di prova ugualmente confermativi delle risultanze appena esposte (che, come detto, però, sono già autonomamente sufficienti per provare i fatti nel senso sopra riferito), v’è, innanzitutto, la conferma, anche da parte di Gioacchino La Barbera, che effettivamente Brusca ebbe ad incontrare Provenzano e che all’esito di tale incontro era stato deciso di andare avanti con la strategia stragista […].

[…] L’accertata contrapposizione creatasi all’interno di “cosa nostra” dopo l’arresto di Riina, o, per meglio dire, l’emergere di una opposizione alla strategia stragi sta di Riina sino al predetto momento rimasta pressoché silente e latente, dimostra, indirettamente ma con ineludibile forza logica, l’esattezza della ricostruzione sin qui operata anche con specifico riferimento alla c.d. “trattativa” accettata dal medesimo Riina e, soprattutto, per quel che rileva in questa sede in relazione al reato contestato, la formulazione di richieste alla cui soddisfazione veniva condizionata la cessazione della strategia stragi sta e, quindi, in definitiva, la minaccia indirizzata da “cosa nostra” nei confronti del Governo cui quelle richieste erano inevitabilmente indirizzate.

Si vuole dire, in altre parole, che se, dopo l’arresto di Salvatore Riina, una parte di “cosa nostra”, quella più fedele a quest’ultimo capeggiata dal cognato Leoluca Bagarella, intendeva portare avanti la strategia stragi sta (cosa che, poi, è effettivamente accaduta con le gravissime stragi del 1993) per far sì che coloro che già “si erano fatti sotto” con Riina tornassero a riprendere i contatti e, comunque, di fronte alla ripresa delle stragi, accogliessero le condizioni della cessazione della contrapposizione frontale poste dal medesimo Riina, significa inevitabilmente, sotto il profilo logico, che tali condizioni erano state già effettivamente e concretamente comunicate da Riina ai suoi interlocutori.

Significa, cioè, che Riina aveva, appunto, accettato la “trattativa” (nel senso, ovviamente, non di un possibile “patteggiamento” assolutamente contrario alla sua mentalità […]) che, a prescindere da quali fossero le intenzioni dei promotori, di fatto, gli era stata sollecitata tramite Vito Ciancimino ed aveva, quindi, appunto, posto le sue condizioni per porre termine alla contrapposizione frontale con lo Stato decisa e scatenata dopo la conclusione del maxi processo.

Significa ancora, dunque, che Riina aveva già effettivamente minacciato i suoi interlocutori istituzionali (si vedrà nel prosieguo, come anticipato, se tale minaccia abbia raggiunto i suoi destinatari finali inevitabilmente individuabili nel Governo della Repubblica che disponeva dei poteri esecutivi necessari) delle implicite conseguenze negative che sarebbero derivate per lo Stato ove non fossero stati adottati i provvedimenti, soprattutto attinenti, in senso lato, alla situazione carceraria dei detenuti di “cosa  nostra”.


Le bombe in Continente del 1993  Già nell’estate del 1992 si comincia a fare strada in “cosa nostra” l’idea che, oltre a colpire – e dopo avere già colpito – uomini simbolo delle Istituzioni (quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), il potere “contrattuale” di “cosa nostra” si sarebbe ancor più accresciuto se fossero stati presi di mira monumenti al di fuori del territorio siciliano e, quindi, nel continente.

Sotto altro profilo, peraltro, tale “idea”, seppur personalmente non condivisa dal Riina nella parte in cui si escludeva la Sicilia e, soprattutto, Palermo per gli attentati […] tanto che sarà attuata fuori dal territorio siciliano soltanto dopo che questi sarà arrestato, appare del tutto consequenziale alla finalità comunque già balenata nella mente del Riina, quella di costringere le Istituzioni a concedere i benefici cui lo stesso Riina condizionava la cessazione della contrapposizione frontale che aveva dato luogo già alle stragi del 1992.

Infatti, il messaggio che si intendeva inviare sarebbe stato meglio e più direttamente percepito dal Governo della Repubblica (ineludibile interlocutore delle richieste di “cosa nostra”, essendo a questo in primo luogo riconducibile la linea di rigore carcerario già attuata subito dopo la strage di via D’Amelio) se le nuove stragi fossero state compiute in danno di monumenti e ancor più se non nella periferica Sicilia nella quale confinare il “problema mafia”, ma nelle principali città della Nazione, fatto che, nel contempo, per la reazione dell’opinione pubblica, inevitabilmente più diffusa anche in settori che fino ad allora avevano guardato con distacco, per la sua lontananza, al fenomeno mafioso, avrebbe con maggiore forza potuto indurre, appunto, il Governo a a cedere al ricatto e attenuare quindi l’azione di contrasto alla mafia

Un’importantissima conferma di tale nuova linea nella strategia di “cosa nostra” si ricava già nella dichiarazioni di un collaboratore di Giustizia appartenente ad altra organizzazione di tipo mafioso, Salvatore Annacondia.

[…] Nel corso dell’esame dell’ Annacondia è stato acquisito, col consenso delle parti, il Resoconto della audizione del predetto dinanzi la Commissione Parlamentare di Inchiesta sul fenomeno della mafia in data 30 luglio 1993 allorché venne sentito per acquisire infonnazioni sulla criminalità pugliese.

Nel corso di tale audizione Annacondia spiega le ragioni e le modalità del suo “pentimento” (pag. 2475 e segg.) e, dopo avere ampiamente parlato di affari criminali della sua organizzazione, ad un certo punto (pag. 2504), il Presidente della Commissione chiede all’Annacondia se ha saputo degli attentati che vi erano stati in quei giorni in Italia e se ne avesse mai sentito parlare. Annacondia, tra l’altro, dichiara: “Signor presidente, non volli verbalizzare una certa cosa perché una persona può essere presa per un megalomane, ma feci un colloquio investigativo con il dottor Alberto Maritati nel quale io accennai ad attacchi e stragi ai musei. Ne parlai appunto con il dottor Maritati; PRESiDENTE: Quando?; SALVATORE ANNACONDIA: Alcuni mesi fa; PRESIDENTE: Può spiegare alla Commissione questa cosa?; SALVATORE ANNACONDIA: Ultimamente ai carceri dell’Asinara e di Rebibbia sono stati fatti gli stessi ragionamenti e gli accordi erano quelli oramai. Si doveva lanciare un piccolo segnale, ma il segnale grosso si doveva lanciare dopo il 20 luglio, se avessero rinnovato il 4i bis che scadeva il 20 luglio. Non è che non volevo verbalizzare questo fatto, ma non me la sentivo di farlo perché mi auguravo che non succedesse niente. Ne parlai poi con l’investigatore, il dottor Maritati, che mi venne ad ascoltare: tutti gli attacchi bisognava farli ai musei .. .. … Perché il museo fa parte della città, del paese, della storia. E adesso che sono passati all’attacco di più possono esserci grosse stragi, perché questa è gente.. .. … perché i prossimi attacchi, di cui si parlò, saranno diretti alla Sardegna … .. … Bisogna attaccare la Sardegna perché c’è l’Asinara, perché i turisti non devono andare più, perché la distruzione ai musei.. … …Su queste stragi non faccio supposizioni: a me tocca parlare, signor presidente, poi, le indagini sono affidate a voi. Vi dico che va cercato neI4i-bis; ……. .. PRESIDENTE: Può spiegare bene tra chi avvenivano i discorsi relativi agli attentati ai musei?; SALVATORE ANNACONDIA: E’coperto, signor presidente; PRESiDENTE: Non tra quali persone fisiche. Appartenenti a quali organizzazioni?; SALVATORE ANNACONDIA: Campania e Sicilia; PRESIDENTE: Se invece il 4i-bis fosse stato revocato non ci sarebbero stati gli attacchi ai musei. E lei dice che però, se la cosa va avanti, questi alzano il tiro; SALVATORE ANNACONDIA: Si, perché tutti sapevano che il 20 luglio sarebbe stato revocato”.

Più avanti (pag. 2537) il Commissario Fausti ritorna sull’argomento chiedendo maggiori precisazioni e “se ha avuto l’opportunità di esprimere queste preoccupazioni in altri colloqui con i magistrati inquirenti”. Annacondia aggiunge: “No, sto parlando adesso che sto fuori, che sto verbalizzando. Dissi ad un maggiore che non intendevo verbalizzare perché non mi sentivo di dire certe cose che potevano sembrare allucinogene. Il maggiore riferì queste mie parole al dottore Maritati. Quando mi è arrivata la prima notizia, è stato all’Asinara; per quel poco che stessimo all’Asinara, si parò del più e del meno, che bisognava .. e i napoletani dall’altra sezione, perché noi stavamo in una sezione dove eravamo pugliesi, calabresi e siciliani, era la prima sezione, mentre alla seconda sezione erano tutti napoletani.

OMISSIS stessa fonte, seppi pure di là che quanto prima si doveva iniziare a mettere qualche bomba a qualche museo … … … Perché già c’erano i guai di queste due stragi che erano avvenute a Palermo e allora le bombe si dovevano mettere davanti ai musei e non nelle ore che potevano causare la strage … … … Però posso dire che a Maritati dissi proprio che entro il 20 di luglio, se non veniva abolito questo 41-bis, ci sarebbero state delle stragi e degli attacchi ai musei, perché colpendo il museo colpisce il cuore dello Stato, colpisce l’amore degli italiani, colpisce l’opinione pubblica; …… …. PRESIDENTE: .. E si era anche parlato di fare attentati fuori dalla Sicilia? Questi attentati ai monumenti?; SALVATORE ANNACONDIA: Si, perché non è che in Sicilia ci siano bei monumenti. I monumenti belli sono a Roma, a Firenze, a Milano”.

* * * Orbene, rinviando, innanzitutto, a quanto già rilevato riguardo alla attendibilità generica del predetto collaborante (v. sopra Parte Prima della sentenza, Capitolo4, paragrafo 4.1), peraltro neppure contestata dalle difese (v., ad esempio, trascrizione della discussione della difesa degli imputati Subranni e Mori all’udienza del 9 marzo 2018), va osservato che il contributo conoscitivo offerto dall’ Annacondia appare di estrema importanza perché risalente ad epoca in cui non era ancora emersa all’esterno la strategia mafiosa diretta a condizionare l’azione del Governo al fine di attenuare gli effetti del rigore carcerario deciso e pianificato all’indomani della strage di Capaci e poi attuato all’indomani della strage di via D’Amelio.

Annacondia ha riferito di avere avvisato coloro che si occupavano della sua sicurezza dopo la decisione di collaborare con la Giustizia e, poi, anche il Dott. Maritati dell’intendimento di “cosa nostra”, in accordo con le altre organizzazioni mafiose campane, calabresi e pugliesi, di compiere attentati a monumenti proprio per ottenere la modifica del regime del 41 bis.

Ora, seppure non v’è un diretto riscontro delle confidenze anticipatamente fatte dall’Annacondia ai predetti soggetti rispettivamente nel gennaio e nel maggio del 1993, v’è, però, un importantissimo e sicuro riscontro, ancorché di natura indiretta, nel fatto che il predetto abbia, comunque, con certezza esplicitato quell’intendimento di “cosa nostra” già il 30 luglio 1993 in occasione della sua audizione dinanzi alla Commissione Parlamentare Antimafia.

Invero, in proposito rileva, da un lato, il fatto che l’ Annacondia nella detta occasione non ha esitato ad indicare coloro che erano stati destinatari delle sue precedenti confidenze, così esponendosi al rischio, se non avesse detto il vero, di essere smentito e che, però, nessuna smentita è sopravvenuta, tanto che la propalazione dell’Annacondia è stata persino ripresa nella relazione redatta dal CESIS il 6 agosto 1993 nella quale, tra l’altro, si legge: “Le voci raccolte nel circuito carcerario dal pentito Annacondia sull ‘intendimento di effettuare attentati terroristici confermerebbero la determinazione di questi ambienti a reagire ali ‘attuale situazione, ritenuta disarticolante delle strutture criminali”; e, dall’altro, che, peraltro, ancora il 30 luglio 1993 (data dell’esternazione dell’Annacondia) non v’era alcuna certezza investigativa né sugli attentatori di Roma e Milano (e prima di Firenze), né sul movente di tali attentati ai monumenti, tanto che da molti anche qualificati investigatori si tendeva ad accreditare una pista internazionale.

Soltanto successivamente sarebbe emersa la riconducibilità degli attentati di Firenze, Roma e Milano a “cosa nostra” e ciò, dunque, rafforza in modo determinante l’attendibilità del racconto fatto dall’Annacondia sulla matrice mafiosa e sulla causale dei detti attentati, perché antecedente, comunque, anche a volere prendere a riferimento la data del 30 luglio 1993 anziché quelle delle precedenti informai i confidenze, alla gran mole di acquisizioni probatorie che soltanto successivamente avrebbero definitivamente accreditato quella matrice mafiosa e quella causale (v. sentenze di Firenze di cui si dirà più avanti).

Se così è, allora, deve ritenersi provato (non essendo, comunque, contestato dalle difese: v. trascrizione citata dell’udienza del 9 marzo 2018) che già nel settembre 1992 (e, quindi, in epoca certamente coincidente, anche a volere accreditare i tempi indicati da Mori e De Donno, con le sollecitazioni al dialogo dei Carabinieri pervenute a Riina per il tramite di Vito Ciancimino) “cosa nostra” ebbe a programmare la nuova strategia diretta a “uscire” dal territorio siciliano ed a colpire obiettivi che, per la loro notorietà anche internazionale e per la conseguente risonanza degli attentati, sarebbero serviti a far comprendere al Governo della Repubblica che soltanto con l’accettazione delle condizioni poste dall’organizzazione mafiosa sarebbero potuti cessare la contrapposizione frontale e, quindi, le stragi.

Le propalazioni dell’ Annacondia confermano, poi, che la principale delle condizioni poste da “cosa nostra” concerneva il regime del 41 bis e che, quindi, il messaggio ricattatorio della detta organizzazione mafiosa era indirizzato proprio al Governo della Repubblica cui competeva tanto l’applicazione che l’eventuale modifica di quel rigoroso regime carcerario.

[…] Che le stragi del 1993 fossero finalizzate a rafforzare il ricatto che “cosa nostra” aveva indirizzato nei confronti del Governo della Repubblica sin dall’estate dell’anno precedente allorché Riina aveva dettato le condizioni alle quali avrebbe potuto porre termine alle stragi, emerge con assoluta chiarezza, non soltanto dal complesso degli elementi probatori già sopra esaminati, ma anche dalle sentenze che, con giudizi ormai irrevocabili, si sono pronunziate su tutti gli attentati compiuti dall’associazione mafiosa in quell’anno al di fuori del territorio siciliano.

Tutte tali sentenze sono state acquisite nel corso del dibattimento e possono essere, dunque, utilizzate nei limiti già indicati nella Parte Prima, Capitolo 3, paragrafo 3.1 di questa sentenza cui si rimanda.

Ci si intende qui riferire, innanzitutto, alla sentenza della Corte di Assise di Firenze del 6 giugno 1998 che per prima ha colto il nesso sussistente tra lo stato di “sofferenza” dei mafiosi per le condizioni carcerarie determinatesi dopo le stragi del 1992, alcune “improvvide iniziative” verificatesi nella stessa estate del 1992, il ricatto di “cosa nostra” allo Stato (per ottenere la modifica del regime del 41 bis, la chiusura delle carceri nelle isole e la modifica della legge sui “pentiti”) e, infine, l’attacco “in grande stile” lanciato dall’organizzazione mafiosa contro quest’ultimo nel 1993 per piegare definitivamente la controparte ed ottenere i benefici richiesti.

Si legge, invero, tra l’altro, in proposito, nella richiamata sentenza (v. pago 889): “Dall’esame di questo insieme di elementi si comprende che mai, prima del mese di luglio ’92, vi fu “attenzione “, da parte di esponenti mafiosi siciliani, verso il patrimonio artistico e storico nazionale; che la reazione statale alle stragi del 1992 (soprattutto a quelle di Capaci e via D’Amelio) determinò uno stato di “sofferenza” nei singoli e nei gruppi che componevano l’universo mafioso siciliano; che, lentamente, si fece strada nella mente di alcuni mafiosi l’idea di ricattare lo Stato attraverso la minaccia alle persone e ai beni culturali; che alcune improvvide iniziative “istituzionali” rafforzarono questo convincimento; che nell’aprile 1993, per la prima volta in questo Paese (e, probabilmente, per la prima volta in Europa), prese corpo la risoluzione criminosa di un attacco in grande stile allo Stato, per piegarlo, con la forza, agli interessi della consorteria criminosa di appartenenza (la “mafia “).

Lo scopo di questa campagna fu, genericamente, quello di ricostituire condizioni di “vivibilità” per l’associazione. Lo scopo generale prese corpo in una pluralità di scopi specifici e, in taluni casi, soggettivi. Scopi specifici furono l’abrogazione della normativa penitenziaria contemplante l’isolamento carcerario dei mafiosi; la chiusura di alcune carceri “speciali” (Pianosa e l’Asinara); la sterilizzazione della normativa sui “collaboratori di giustizia “; l’avvilimento della cultura dell’antimafia mediante l’eliminazione di un giornalista (a torto o a ragione, non interessa) considerato esponente di quella cultura” .

La Corte di Assise di Firenze, poi, non manifesta alcun dubbio nel ravvisare gli effetti perversi che l’iniziativa del ROS intrapresa attraverso Vito Ciancimino, indipendentemente dalle sue ragioni e pur attenendosi alla sola ricostruzione operata in quella sede dai testimoni Mori e De Donno (per la quale, tuttavia, la Corte non ha omesso di rilevare alcune contraddizioni, leggendosi a pago 954: “non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992 – secondo le parole del gen. Mori – si sia potuto presentare a “cosa nostra” per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-/0-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di “Show down “, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo”), aveva determinato in “cosa nostra”: secondo quella Corte “rafforzò, nei capi mafiosi dell’epoca, il convincimento che la strage fosse pagante” (v. ancora pago 954).

Ed ancora più chiara, sul punto, è la medesima sentenza laddove, nel prosieguo afferma che l’iniziativa del ROS nelle persone di un suo capitano, quindi De Donno, del suo vice comandante, quindi Mori, e del suo comandante, quindi Subranni, avendo tutte le caratteristiche della “trattativa”, aveva definitivamente convinto i capi mafiosi che le ulteriori stragi avrebbero portato vantaggi all’organizzazione mafiosa nel senso dell’accoglimento delle condizioni poste dai capi medesimi per la cessazione delle stragi medesime: “Ugualmente senza rilievo (nel presente giudizio) è accertare quali fossero le finalità concrete che mossero un alto ufficiale del ROS a ricercare un contatto con Vito Ciancimino.

Se, cioè, la finalità era quella di intavolare una vera e propria “trattativa “, ovvero solo quella di sfruttare un canale per carpire notizie utili all’attività investigativa. Questa differenza, infatti, interesserà sicuramente chi dovrà esprimere un giudizio sugli uomini del ROS, ma non chi (come questa Corte) dovrà esprimere un giudizio su chi stava dall’altra parte dell’iniziativa.

Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra “. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto questi aspetti vanno detto senz’altro alcune parole non equivoche.’ l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa “; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fil quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione” (pag. 954 cit.).

Analoghe conclusioni sul collegamento tra la richiesta dei mafiosi di eliminazione del regime del 41 bis e le stragi del 1993 e, ancor prima, quale postulato necessario, alla C.d. “trattativa” dell’estate del 1992 sono state raggiunte all’esito di un più recente processo per le medesime stragi continentali svoltosi nei confronti di altro imputato individuato successivamente.

Ci si intende riferire alla sentenza pronunziata dalla Corte di Assise di Appello di Firenze il 24 febbraio 2016 con la quale Tagliavia Francesco è stato condannato, appunto, per le stragi del 1993.

Tale sentenza è divenuta irrevocabile in data 20 febbraio 2017 ed è stata acquisita ali ‘udienza del 23 febbraio 2017. In essa, alle pago 118 e segg., riguardo al “movente della strategia stragista”, si legge: “Va qui richiamata l’approfondita motivazione, conseguente all’altrettanto approfondita istruzione dibattimentale, che la sentenza di primo grado in sintonia con precedenti pronunce, riserva all’individuazione del movente delle stragi e a quello, strettamente connesso, della cd. trattativa Stato-mafia. Su quest’ultimo argomento condivisibilmente il primo giudice si è astenuto dall’emettere valutazioni definitive, consapevole della necessità di ulteriori esplorazioni investigative necessarie e opportune dato che per la sua vischiosità, il tema mal si prestava a essere compiutamente e definitivamente accertato nell’ambito della istruzione dibattimentale, connotata dal principio del contraddittorio, da maggior rigidità procedimentale e dalla pubblicità della fase dibattimentale in corso (v. sentenza di primo grado pago 426-511).

Pur tuttavia si può considerare come dato storicamente e processualmente raggiunto, che la strategia stragista, strumento del tutto inconsueto per la compagine mafiosa tradizionalmente interessata più al controllo del territorio e di attività illecite lucrose, abbia rappresentato un salto di qualità strategico con l’attingimento di obiettivi diversi ed indifferenziati rispetto alla eliminazione di specifici avversari soggettivamente individuati, rispondente dunque non solo a impulsi utilitaristici di natura vendicativa, ma al raggiungimento di obiettivi di natura terroristica. All’elaborazione di tale strategia si giunse tuttavia per gradi, intravedendosi un vero e proprio distacco dal perseguimento dell’obiettivo immeditato, solo dopo il fallito attentato a Costanzo che effettivamente si colloca in posizione intermedia. Lo scopo prefissato di tutto ciò è stato individuato, attraverso puntigliosa ricostruzione nel corso della istruttoria dibattimentale di primo grado del presente procedimento, e da quelle dei processi che l’hanno preceduta, nell’eliminazione dell’art 41 bis dell’ordinamento penitenziario, all’epoca di recente conio, che oltre a rendere realmente più penosa la permanenza dei boss in ambito carcerario, avrebbe soprattutto scardinato il sistema comunicativo fino ad allora vigente, impedendo il flusso di contatti e dunque il mantenimento della influenza malavitosa ali ‘esterno dei boss detenuti, fino a quel momento garantita dalla permeabilità dell’istituzione carceraria nella concreta gestione.

Tutto ciò era già emerso per bocca dei collaboratori che avevano reso dichiarazioni accreditate dalle pronunce irrevocabili sulle stragi, richiamate dettagliatamente a pag. 430 della motivazione della sentenza di primo grado. La finalità ricattatoria è stata poi riversata da collaboratori anche nel corso del presente processo, Di Filippo Pasquale, Ciaramitaro Giovanni, Cannella Tullio, Pietro Romeo e Giovanni Brusca. Ed infine anche da Gaspare Spatuzza.

Altro dato acquisito al processo è poi l’interesse e la vicinanza manifestati dai vertici mafiosi e profusi in raccomandazioni di voto, sul partito di Forza Italia (v. dichiarazioni di Brusca Giovanni, Grigoli Salvatore e Cannella Tullio) , dopo la rinuncia alla istituzione di una nuova formazione politica di diretta emanazione mafiosa, “Sicilia Libera”.

Molto più complessa e non definitiva invece è la conclusione alla quale si può pervenire nei limiti del presente processo. in ordine alla esatta individuazione dei termini e dello stadio raggiunto dalla cd. Trattativa, la cui esistenza comprovata dall’avvio poi interrotto di iniziali contatti emersi tra rappresentanti politici locali e delle istituzioni e vertici mafiosi. è però logicamente postulata dalla stessa prosecuzione della strategia stragista: il ricatto non avrebbe difatti senso alcuno se non ne fosse scaturita la percezione e la riconoscibilità degli obiettivi verso la presunta controparte.

In altri termini la pressione e le retrostanti pretese alla cui soddisfazione era legata la cessazione degli attentati terroristici dovevano essere chiaramente comprese dagli interlocutori. Si può dunque considerare provato che dopo la prima fase della cd. trattativa avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via d’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso lo natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione. Il programma delittuoso non si arrestò a maggior ragione dopo l’arresto di Riina la cui determinazione stragista fu raccolta da Bagarella”.

La stessa sentenza prosegue, poi, con altre considerazioni concernenti fatti non ancora esaminati in questa sentenza (dal mancato rinnovo dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis al successivo fallito attentato allo Stadio Olimpico di Roma, sino ai contatti, attraverso Vittorio Mangano, con Dell’Utri) e che, pertanto, saranno riprese soltanto successivamente.

Quel che qui rileva, intanto, è che nei processi conc1usisi con le sentenze sopra citate sono stati acquisiti molteplici elementi probatori che confortano e confermano gli elementi acquisiti in questa sede, che, a loro volta, provano, oltre ogni ragionevole dubbio, gli effetti che quell’improvvida iniziativa dei Carabinieri ebbe nel tramutare la pregressa strategia mafiosa di totale ed incondizionata contrapposizione allo Stato decisa dopo la sentenza del “maxi processo” in quella nuova di sfruttare la debolezza oggettivamente manifestata dallo Stato (perché, per i mafiosi, Mori rappresentava, appunto, lo Stato, stante ciò che lo stesso Mori aveva fatto loro intendere) allorché aveva chiesto loro quali fossero le condizioni per porre termine alle stragi e, quindi, stabilire, appunto, tali condizioni (prime delle quali non potevano che essere il miglioramento della condizione carceraria e l’eliminazione dell’ergastolo) e, poi, “ricordarle” ancora con le successive stragi del 1993 al fine di piegare definitivamente la resistenza dello Stato.


I negoziati con la mafia passo dopo passo  Si è visto sopra,[…], che può ritenersi provato, oltre ragionevole dubbio, che fu proprio l’improvvida iniziativa dei Carabinieri del R.O.S. ad indurre Riina a tentare di sfruttare ai propri fini quel segnale di debolezza delle Istituzioni che gli era pervenuto già dopo la strage di Capaci.

Costituisce, infatti, dato assolutamente incontestato ed incontrastato che già nei giorni immediatamente successivi alla detta strage il Cap. De Donno, su disposizione del suo superiore Col. Mori, ebbe a contattare Vito Ciancimino.

Ciò, infatti, risulta inequivocabilmente dalle dichiarazioni rese dagli stessi Mori e De Donno già nella testimonianza nel processo di Firenze.

Il detto momento iniziale dei contatti con Ciancimino, peraltro, viene sostanzialmente confermato da Mori e De Donno anche in una più recente conversazione telefonica intercettata 1’8 marzo 2012 ed acquisita agli atti, nonostante, tuttavia, i predetti, essendo in quel momento già nota l’indagine ed avendo la chiara consapevolezza di potere essere, appunto, intercettati […], tentino di ridimensionare tali contatti al fine di escludere il collegamento tra la propria iniziativa e l’uccisione del Dott. Borsellino (v. intercettazione citata quando, ad un certo momento, De Donno dice:”Quindi non siamo noi. Cioè, ammesso che i nostri contatti volessero essere ipotizzati come trattativa, non siamo noi, perché giugno … lui lo sa a giugno e noi a giugno non stavamo ancora a parlare con Ciancimino … …….. ma loro l’unico riferimento che fanno a noi è il fatto che dice che Borsellino sapeva della … dei contatti del ROS, perché glielo dice la Ferraro … ……. però, voglio di’ sono i contatti, cioè noi non stavamo discutendo con Ciancimino, quindi non si può ipotizzare che fosse quello … “; mentre Mori, ben consapevole, come si vedrà più avanti, a differenza di De Donno, degli sviluppi successivi di quei contatti, fa un fugace ma significativo riferimento all’avvicendamento al D.A.P. di cui si dirà nel Capitolo successivo: “ma no, ma il problema è questo … io penso che questo dipenda dal fatto che loro individuano a giugno il problema, quando viene tolto Amato e messo Capriotti, no? Che poi il 26 di giugno fa quel documento e innova un pochettino…”).

Ma, in ogni caso, che la finalità di quei contatti con Ciancimino fosse quella di utilizzare quest’ultimo (se non esclusivamente, quanto meno anche) quale canale di collegamento con i vertici mafiosi per sondare gli intendimenti degli stessi e tentare di porre termine a quell’attacco frontale che appariva foriero di ulteriori gravissimi lutti, risulta inequivocabilmente dimostrato dai contatti pressoché parallelamente intrapresi degli stessi Mori e De Donno con l’eventuale controparte istituzionale dei mafiosi e, dunque, con soggetti (la Dott.ssa Ferraro e la Dott.ssa Contri) in grado di informare (come in effetti fecero) rappresentanti del Governo principalmente interessati (rispettivamente il Ministro della Giustizia e il Presidente del Consiglio) per ottenere la relativa e necessaria “copertura politica” (v. Parte Terza, Capitolo 6 e, per alcune più specifiche conclusioni, il paragrafo 6.3).

Di ciò si è dato ampiamente conto nei Capitoli precedenti.

Sotto altro profilo, invece, risulta provato che certamente Vito Ciancimino ebbe ad informare Riina già sin dal suo primo approccio con il Cap. De Donno (dunque a giugno 1992), tanto da essere subito “delegato” a portare avanti quel contatto ancor prima che subentrasse anche il Col. Mori (fatto, poi, come pure si è già visto sopra, oggetto di ulteriore “informativa” di Vito Ciancimino ai vertici mafiosi e di ulteriore “autorizzazione” ad andare avanti nella prospettata richiesta di “trattativa”: v. Parte Terza, Capitolo 5 e, per alcune più specifiche conclusioni, il paragrafo 5.7.3).

Orbene, se queste sono le risultanze che possono già ritenersi assodate, perde allora pressoché rilevanza ricostruire in termini di certezza temporale i successivi sviluppi dei fatti appena ricordati, sui quali, invece, non è stato possibile acquisire elementi di altrettanta sicura certezza temporale.

E ci si intende riferire, da un lato, al momento in cui Mori ebbe, poi, personalmente a sollecitare a Vito Ciancimino una “trattativa” con quelle parole esplicite già più volte ricordate (“Ma signor Ciancimino, ma cos’è questa storia qua? Ormai c’è muro contro muro. Da una parte c’è Cosa Nostra, dall’altra parte c’è lo Stato? Ma non si può parlare con questa gente?”) e, dall’altro, al momento in cui a Mori fu comunicata dallo stesso Vito Ciancimino l’accettazione della “trattativa” da parte dei vertici mafiosi (” … quelli accettano lo trattativa … “).

Sull’esatta collocazione temporale di tali sviluppi fattuali, invero, v’è contrasto anche per le ambigue risultanze degli scritti e delle dichiarazioni di Vito Ciancimino e per talune (almeno apparenti) contraddizioni della ricostruzione offerta da Mori e De Donno, alcune delle quali ben messe in evidenza già anche dalla Corte di Assise di Firenze con la sentenza prima ricordata del 6 giugno 1998.

Ed in proposito non è secondario rilevare che un seppure indiretto riscontro della incompletezza – se non della quanto meno parziale falsità – della ricostruzione degli accadi menti operata da Mori e De Donno nel processo di Firenze che ha dato luogo alle contraddizioni ed alle incongruenze evidenziate dalla Corte di Assise, si rinviene in quello scritto di Vito Cianci mino classificato “06” di cui si è già detto sopra nel Capitolo 5, paragrafo 5.7.2.

E’ bene premettere che si tratta di un manoscritto originale a matita attribuito a Vito Ciancimino […]. In tale scritto Vito Ciancimino annota di essere stato citato per deporre in quel medesimo processo di Firenze dalla difesa degli imputati, che, informata dai “clienti”, voleva così “sbugiardare” Mori e De Donno (v. scritto citato nel quale, tra l’altro, si legge: ” .. . sia Mori che De Donna hanno reso falsa testimonianza al processo di Firenze, a cui sono stato chiamato a testimoniare. In sostanza, la difesa degli imputati, appunto perché informate dai loro clienti, volevano che io deponessi per sbugiardare i Carabinieri, Col. Mori e Cap. De Donno … “).

Ora, è stato riscontrato, non soltanto che effettivamente Vito Ciancimino fu citato per deporre nel processo di Firenze e che lo stesso non rispose avvalendosi della relativa facoltà, ma soprattutto che Vito Ciancimino fu citato su richiesta dei difensori degli imputati Salvatore Riina e Giuseppe Graviano.

Conseguentemente, erano questi ultimi i “clienti” che avevano informato rispettivi difensori e che volevano “sbugiardare” Mori e De Donno per quanto già testimoniato in quel processo.

Ciò consente di escludere che l’episodio sul quale, secondo Vito Ciancimino, Mori e De Donno, avevano “reso falsa testimonianza al processo di Firenze” fosse quello della richiesta del passaporto (stante il riferimento pure contenuto in quel manoscritto alla revisione del processo dallo stesso Ciancimino “battezzato del passaporto”) o altro attinente personalmente ai rapporti tra i predetti e di dedurre, per ineludibile conseguenza logica, che doveva allora necessariamente trattarsi di fatti attinenti, sì, ai detti rapporti, ma che avevano coinvolto Riina e Graviano consentendo loro di venire a conoscenza e, dunque, fatti attinenti allo svolgimento della “trattativa” in maniera “falsa” testimoniati a Firenze da Mori e De Donno.

In ogni caso, va aggiunto che neppure appare utile, al predetto fine della collocazione temporale della “trattativa”, la testimonianza di Roberto Ciancimino perché questi ha potuto soltanto collocare nel periodo successivo alla strage di via D’Amelio il momento in cui il padre Vito ebbe a dirgli di avere avuto contatti con il Col. Mori e il Cap. De Donno (“Guardi, io non posso collocare nel tempo l’incontro tra mio fratello, mio padre e i Carabinieri. Io posso collocare nel tempo sicuramente quando mio padre mi ha informato di questi colloqui, che è stato sicuramente dopo le stragi mafiose, la strage Borsellino. Però quando mi ha informato non mi ha detto … … …. Ha detto ho avuto questi contatti per questo e questo … …… mio padre non ha detto li ho incontrati il giorno dopo, quindi non glieli so collocare. lo sono stato informato dopo”).

Più utile appare, invece, la testimonianza resa da Giovanni Ciancimino il 20 ottobre 2009 dinanzi al Tribunale di Palermo, la cui trascrizione è stata acquisita su richiesta, ex art. 468 comma 4 bis C.p.p., degli imputati Subranni, Mori e De Donno e che, dunque, però, è utilizzabile solo nei confronti degli stessi.

Giovanni Ciancimino, che in questa sede si è avvalso della facoltà di non rispondere in quanto fratello dell’imputato Massimo Ciancimino, in quel processo, infatti, ritenne di testimoniare ed ha, quindi, raccontato che egli ebbe ad incontrare il padre Vito a Roma dopo circa venti o venticinque giorni dalla strage di Capaci e che fu in quella occasione che il padre gli riferì di essere stato contattato da importanti personaggi altolocati per trattare con l’« altra sponda» con ciò riferendosi ai mafiosi (”[…] P. M DOTT. DI MATTEO: ”Lei cosa intese con riferimento ”per contattare quelli dell’altra sponda “?; DICH. CIANCIMINO G.NNI: ”Intesi la mafia. Intesi questo, intesi la mafia… … …. “L’altra sponda “, lui spesso usava il termine “altra sponda” … … … Era un suo termine, non e’ un termini che lui disse… … . … Quella volta per la prima volta, perché, le ripeto Dottore, lui non usava mai la parola mafia, mafiosi, raramente. E lì litigammo furiosamente … ……. “E’ una cosa che può agevolare tutti”, lui ribadiva, perché io subito manifestati la mia … invece lui era sicuro di quello che … lui era sicuro di quello che faceva, era molto pieno di se, era molto sicuro, era molto convinto. Tant’è che io… io non ero solito, diciamo, avere contrasti con mio padre, perché raramente avevo … anche perché mio padre era un personaggio che raramente si poteva contraddire su tutte le tematiche, non so se. Non era un persona con cui normalmente si poteva dialogare e quindi discutere serenamente, lo dico … perché lui così, e io litigai furiosamente, tant’è che me ritornai …. … … Come, litigammo furiosamente, litigammo furiosamente, e lui mi disse: “io sono stato condannato a dieci anni, vuoi che mi faccio dieci anni di carcere? “, a me vuoi che mi faccio, e che cosa c’entro io, non so se. “lo se entro di nuovo in carcere questa volta muoio, non sono in grado di sopportare una condanna di questo tipo”. E io ci dissi: “ma scusa ma io che cosa, perché non sono io il tuo interlocutore”, non so se… .. . …. Ma io ero convinto … … …. Che lui intendesse dire che lui avrebbe potuto avere dei benefici. Dei benefici, tant’è che era ringalluzzito”) o, anzi, per meglio dire, che il padre più che parlare di contatti, aveva fatto riferimento ad un incarico ricevuto (”[…] DICH CIANCIMINO G.NNI: ”Incaricato, si, investito, lui … io ebbi la sensazione che lui …… … … Si, incaricato, incaricato. Lui ha avuto un compito, io ero convinto che lui… lui diede la sensazione di avere avuto. di essere stato investito di un compito e di potere trarre benefici … “), dicendosi, poi, assolutamente certo che tale colloquio fosse avvenuto prima della strage di via D’Amelio […] anche perché egli fu poi toccato particolarmente da tale strage dal momento che lavorava, in quel periodo, a stretto contatto col fratello di Agnese Borsellino (“DICH. CIANCIMINO  G.NNI: ”La strage di via D’Amelio a me mi tocco profondante anche più delle altre persone perché io fui colpito particolarmente da vicino da questa cosa, da questa tragedia … … … Fui colpito molto da vicino …. … …. Si. si. A parte lo sdegno che ovviamente hanno tutti per questa cosa, ma io oltre allo sdegno fui colpito da vicino … … … E glielo dico subito perché io quando ero all’ufficio legale della Cassa di Risparmio il mio, che poi il mio maestro tra l’altro, perché era più grande di me, é il capo … Noi eravamo divisi in settori all’ufficio legale, il capo del mio settore era l’avvocato Ninni PlRAINO, fratello di AGNESE BORSELLINO. Persona con cui io praticamente stavo a contatto otto ore. Io qualsiasi cosa, qualsiasi parere, qualsiasi cosa la sottoponevo a lui. Io … era il mio diretto superiore. Persona, tra l’altro squisita.[…]”).

Ugualmente utile appare, al fine qui in esame, anche la testimonianza di Fernanda Contri già sopra riportata nel Capitolo 6, paragrafo 6.2.1 cui si rinvia.

Ma, in realtà, l’individuazione più precisa dei dati temporali presenta, in questa sede, scarsa rilevanza ai fini della verifica dell’ipotesi accusatoria oggetto della contestazione di reato formulata nei confronti degli imputati qui giudicati, poiché, come pure si è voluto già precisare sin dagli esordi di questa Parte Terza della sentenza (v. Capitolo I), tale contestazione non concerne tanto la “trattativa” (che, in sé, infatti, non ha rilevanza penale), quanto piuttosto la minaccia rivolta dall’organizzazione mafiosa al Governo della Repubblica, dal momento che è tale minaccia che, se sussistente, integra la fattispecie criminosa prevista dall’art. 338 c.p.

Allora, se così è, appare del tutto evidente che ai fini della prova della detta fattispecie criminosa rileva soltanto accertare se una minaccia sia stata effettivamente formulata dall’organizzazione mafiosa e, in caso positivo, se sul fronte opposto, tal uno abbia eventualmente istigato o sollecitato tale minaccia o eventualmente anche soltanto rafforzato il proposito delittuoso minaccioso, nonché, infine, in caso di positivo esito della predetta verifica, se la minaccia, o attraverso gli stessi che l’avevano istigata ovvero attraverso altri soggetti, abbia in qualche modo raggiunto il suo destinatario individuato nel Governo della Repubblica, così integrando tutti gli elementi richiesti dalla norma penale.

Ora, si è visto che finora risulta provato:

– che l’organizzazione mafiosa, nel periodo compreso tra la fine del mese di giugno e l’inizio del mese di luglio (v. Parte Terza, Capitolo 12), ebbe a effettivamente a comprendere che avrebbe potuto utilizzare la grande manifestazione di forza, culminata nella strage di Capaci e che di lì a poco avrebbe potuto replicare con quella che poi sarebbe stata la strage di via D’Amelio (v. anche Parte Terza, Capitolo 4), per mitigare gli effetti per lei sfavorevoli della sentenza del maxi processo e, più in generale, della forte azione di contrasto, che, grazie all’opera incessante di Giovanni Falcone, lo Stato aveva intrapreso, e, dunque, per imporre a quest’ultimo, dalla posizione di forza raggiunta, la concessione di benefici soprattutto attinenti al tema carcerario (dal ritorno a quelle condizioni carcerarie che in passato avevano reso assolutamente sopportabile la detenzione dei mafiosi consentendo loro anche di continuare i propri affari illeciti e persino di mantenere i ruoli direttivi nell’organizzazione, sino alla eliminazione della pena dell’ergastolo che avrebbe reso per tutti possibile la speranza di un non lontano ritorno allo stato di libertà);

– che la ragione di tale mutata strategia, rispetto a quella di totale ed assoluta contrapposizione frontale precedentemente perseguita con scopi principalmente vendicativi e di imposizione di un primato incondizionato nel territorio siciliano controllato dall’organizzazione mafiosa (v. Parte Terza, Capitolo 2, paragrafo 2.1, nonché intercettazioni dei colloqui in carcere del Riina di cui si dirà più avanti nella Parte Quinta della sentenza), fu quella improvvida iniziativa dei Carabinieri (subito compresa da Vito Ciancimino e, quindi, riferita ai vertici mafiosi), perché questa fu percepita dalla medesima organizzazione come un segno di debolezza dello Stato e di disponibilità ad un dialogo che avrebbe potuto ragionevolmente consentire l’ottenimento di quei benefici sopra ricordati (v. ancora Parte Terza, Capitolo 12);

– che, dopo l’ulteriore segnale di forza lanciato dall’organizzazione mafiosa con la strage di via D’Amelio, il proposito “trattativista” e, quindi, la decisione di dettare le proprie condizioni per la cessazione della strategia stragista fu definitivamente rafforzato dall’ulteriore intervento del Col. Mori, il quale, ancor dopo (e nonostante) la detta gravissima strage di via D’Amelio che avrebbe dovuto determinare esclusivamente una risposta di tipo fortemente repressivo, aveva, invece, ribadito, peraltro questa volta espressamente, la volontà di instaurare un dialogo con i vertici mafiosi, proponendosi quale rappresentante delle Istituzioni a ciò autorizzato e delegato ovvero, quanto meno, ma ciò era già del tutto sufficiente per rafforzare quel proposito criminoso, facendo credere ai suoi interlocutori di essere stato effettivamente autorizzato e delegato (v. dichiarazioni dello stesso Mori);

– che tale ulteriore iniziativa del Mori aveva, quindi, indotto i vertici mafiosi a ritenere “percorribile” quella strada che avrebbe condotto ad ottenere gli auspicati benefici per l’organizzazione mafiosa e, dunque, anche al fine di superare la stasi nella “trattativa” che si era determinata dopo la formulazione delle proprie condizioni cui non era stata data alcuna risposta, a programmare ulteriori attacchi allo Stato, prima, negli ultimi mesi deI 1992, ancora in Sicilia (ad iniziare dall’uccisione del Dott. Grasso) che non si realizzarono per ragioni diverse, e, successivamente, dopo l’arresto di Riina, dovendosi comporre in qualche modo la volontà dei più stretti alleati di quest’ultimo con la volontà contraria di Bernardo Provenzano (v. ancora intercettazioni dei colloqui in carcere di Riina che saranno riportate nella Parte Quinta della sentenza), al di fuori della Sicilia e con il diverso obiettivo dei monumenti per costringere il Governo della Repubblica a riprendere il dialogo che appariva interrotto, piegandone definitivamente la resistenza all’accoglimento delle condizioni imposte già dal Riina.

Per l’effetto, in conclusione, non può che rilevarsi che non è necessaria, ai fini della verifica dell’ipotesi di reato contestata agli imputati, l’esatta collocazione temporale degli accadimenti succedutisi a partire dall’estate del 1992 quando risulti, comunque, accertata, oltre che ovviamente la minaccia rivolta dai vertici mafiosi allo Stato sotto forma di condizioni per la cessazione della contrapposizione frontale decisa in conseguenza dell’esito del “maxiprocesso”, la condotta dei soggetti che prima hanno istigato e sollecitato il detto proposito criminoso della minaccia e, poi, lo hanno altresì rafforzato così contribuendo alla sua ulteriore attuazione, con la precisazione, peraltro, che ciascuna delle due condotte prima delineate, sia quella istigatrice e sollecitatrice, sia, se successiva, quella agevolatrice e rafforzatrice del proposito criminoso, è idonea, di per sé, ad integrare la fattispecie concorsuale nel reato di minaccia che, poi, si sarebbe consumato successivamente con la percezione da parte del suo destinatario finale (il Governo della Repubblica, destinatario, infatti, espressamente individuato, come si vedrà meglio più avanti nella Parte Quinta della sentenza, dallo stesso Salvatore Riina in un colloquio in carcere intercettato il 18 agosto 2013: “…io o’ guviernu c’è vinniri (inc.) muorti c ‘è vinniri, o’ guviernu muorti c ‘hannu a dari…”).


Il cambio improvviso del capo delle carceri   Come si è già anticipato, taluni imputati contestano l’assioma da cui muove la Pubblica Accusa secondo cui il Direttore del D.A.P. Amato, dopo le stragi del 1992, in piena sintonia col Ministro Martelli, fosse strenuo fautore dell’applicazione del regime del c.d. 41 bis e, più in generale, della instaurazione di un regime carcerario di particolare rigore nei confronti dei detenuti più pericolosi ed, in primis, tra questi, proprio degli appartenenti all’associazione mafiosa resasi responsabile di quei efferati delitti.

Tale contestazione delle difese muove, invece, a sua volta, innanzitutto dalle dichiarazioni rese proprio dal Ministro Martelli già in altre sedi (infatti, specificamente contestate al teste Amato in sede di controesame) secondo cui Amato sarebbe stato, appunto contrario alla riapertura dei carceri di Pianosa e Asinara, al trasferimento dei detenuti deciso la notte successiva alla strage di via

D’Amelio e al regime del c.d. 41 bis, nonché, più in generale, all’eccessivo rigore carcerario nei confronti dei mafiosi, tanto da essersi sottratto dalla firma dei decreti di applicazione del 41 bis delegati dal Ministro al D.A.P. e da avere esplicitamente sollecitato una revisione in senso meno afflittivo del regime carcerario con l’appunto indirizzato al Ministro Conso il6 marzo 1993.

Orbene, quanto al primo punto, quello relativo alle pregresse dichiarazioni del Ministro Martelli sopra sintetizzate, va registrata, innanzitutto, la replica, a tratti veemente, del teste Amato che ha contestato puntigliosamente in fatto le affermazioni dell’ex Ministro, sentendosi addirittura “offeso” dalla ricostruzione degli avvenimenti successivi alle due stragi del 1992, per essersi egli, piuttosto, prodigato sia per la riapertura delle carceri di Pianosa e Asinara (“… la cosa che abbiamo fatto, che io ho fatto, è stata quella di riaprire … naturalmente c’è statala necessità di un certo periodo di tempo, Asinara e Pianosa … … … È stata una mia iniziativa. Cioè io ho preso, le dico subito, ho preso un Ispettore molto esperto degli istituti di pena, che era il dottor Ciccotti, Raffaele Ciccotti, un vecchio Ispettore, persona molto esperta, l’ho mandato immediatamente a Pianosa e all’Asinara perché mi indicasse i lavori che erano necessari fare per riadattare queste due isole, che avevamo abbandonato, a finalità penitenziarie, soprattutto per la riapertura dei reparti di massima sicurezza. Fornelli all’Asinara e la sezione Agrippa a Pianosa …. … … La prima cosa che noi abbiamo fatto è stata quella di riattivare le isole a fini penitenziari, l’isola di Pianosa e l’isola dell ‘Asinara, questo è quello che abbiamo fatto …….. Martelli era d’accordo su questo, era d’accordo”), sia per il trasferimento immediato dei detenuti ristretti nel carcere dell’Ucciardone nel corso della notte tra il 19 ed il 20 luglio 1992, smentendo, poi, quanto a quest’ultimo accadimento, che egli possa essere stato assente o non raggiungibile (“Poi il 19 luglio c’è stata la strage di via D’Amelio, mi pare il 19 luglio … . …. E io ricordo che la notte fra il 19 e il 20 luglio, cioè morto Borsellino e gli uomini della sua scorta, io passai, ricordo perfettamente, la notte in bianco, con i miei collaboratori al Ministero della Giustizia e ci siamo sentiti con il ministro Martelli. Il quale mi disse: “Mettimi in condizione di fare un atto politico significativo di risposta immediata alla strage di via D’Amelio”. E allora quello che facemmo fu che io telefonai, parlammo con il Direttore dell’Ucciardone, mi pare fosse Rizza, adesso però posso pure sbagliarmi, perché son passati più di vent’anni, e gli ho detto: “Senti, dammi, prepariamo insieme un elenco “, credo di cinquantacinque detenuti, che stavano all’Ucciardone, particolarmente pericolosi, e ho portato, ho predisposto il decreto e il Ministro lo ha firmato … … … Li abbiamo trasferiti a Pianosa e credo abbiamo subito contestualmente applicato il 41 bis. Io ricordo che la notte fra il 19 e il 20 mi sono occupato di questo. Infatti io ho qui… poi se la Corte vuole posso darle questa documentazione, questo è il provvedimento di trasferimento dei detenuti a Pianosa, che è stato predisposto, e difatti il Direttore del carcere, dopo il provvedimento di Martelli di trasferimento immediato a Pianosa di questi cinquantacinque detenuti … perché in questi cinquantasette giorni tra Falcone e Borsellino Pianosa era pronta ad accogliere i primi detenuti. Avevamo fatto con grande urgenza i lavori necessari, mentre credo che l’Asinara è stata pronta qualche giorno dopo di Pianosa”) e rivendicando l’indispensabile apporto proprio del D.A.P. da lui diretto per l’individuazione sia dei detenuti da trasferire dall’Ucciardone nella immediatezza, sia di quelli cui applicare il regime del 41 bis […].

D’altra parte, che il Ministro potesse effettivamente fare tutto da solo o solo con il proprio Ufficio di Gabinetto ed il proprio staff senza passare attraverso un intervento del D.A.P. quanto meno per individuare materialmente i nominativi dei detenuti da trasferire, oltre che inverosimile, appare smentito dallo stesso Capo di Gabinetto dell’epoca, la Dott.ssa Pomodoro, la quale, infatti, in proposito ha riferito che immediatamente dopo la strage di via D’Amelio, appunto, il Ministro Martelli si mise in contatto con l’Ufficio di Gabinetto e con il D.A.P. per preparare i decreti di trasferimento dei detenuti dall’Ucciardone poi firmati quella stessa notte (“… posso dirle che il Ministro Martelli, saputo della strage di Via D’Amelio, si mise in contatto con gli uffici oltre che del Gabinetto anche del Dipartimento e pretese che venisse messo in atto il provvedimento di cui lei sta parlando. Il provvedimento, come lei sa, fu firmato dal Ministro nella notte all’aeroporto, anzi all’alba all’aeroporto. Poi il provvedimento non poteva non essere predisposto dall’ufficio, dal dipartimento penitenziario, perché lì erano i dati relativi a questo personale. Venne predisposto e fu portato alla attenzione del Ministro quando il Ministro ritornò da Palermo;…P. M DI MATTEO: ”…. Venne predisposto quindi dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria materialmente; DICH. POMODORO: ”Certo, certo, non poteva dire diversamente”).

E non appare certo verosimile che, in un frangente così grave, gli Uffici del D.A.P. possano essersi attivati senza che il suo Direttore ne fosse quanto meno informato.

Claudio Martelli, d’altra parte, sentito nel corso del presente dibattimento, pur collocando Amato, così come, peraltro, anche il Capo della Polizia Parisi, tra coloro che avevano manifestato perplessità sulla riapertura delle carceri di Pianosa e Asinara […] e confermando, in generale, le perplessità dello stesso Amato sull’utilità del regime del 41 bis […], tuttavia, ha sostanzialmente ridimensionato il tenore delle dichiarazioni sulla “assenza” di Amato nella notte successiva alla strage di via D’Amelio.

Martelli, infatti, ha precisato che in quel momento gli fu detto dalle Dott.sse Pomodoro e Ferraro soltanto che Amato non era rintracciabile e che, pertanto, egli non ha ragione per dire che quest’ultimo non avesse voluto firmare i provvedimenti di trasferimento dei detenuti nelle isole […].

Ora, delle dichiarazioni della Dott.ssa Pomodoro si è già detto prima.

Quanto alle dichiarazioni della Dott.ssa Ferraro, sono state già sopra evidenziate, esaminando la vicenda dei suoi incontri con De Donno e Mori a proposito dei contatti con Vito Ciancimino, le gravi perplessità che le stesse hanno suscitato in questa sede nella Corte (v. sopra Capitolo 6, paragrafo 6.1.3).

E tali perplessità sussistono anche riguardo a quanto dichiarato dalla Ferraro sugli accadimenti della notte successiva alla strage di via D’Amelio.

La Ferraro, infatti, in sintesi, sul punto, ha dichiarato, da un lato, che ella stessa ebbe quella notte a parlare con Amato e che questi si era, appunto, rifiutato di predisporre i decreti di trasferimento dei detenuti, tanto che fu ella stessa, poi, materialmente a predisporli e farli firmare al Ministro (“La notte della strage del Dottor Borsellino il Dottor Amato, quando lo chiamai per incarico del Ministro Martelli dalla Prefettura di Palermo, mi disse che non condivideva quel trasferimento immediato, che comunque non spettava a lui di scrivere il decreto. Poi io lo passai al Ministro, alla fine il decreto l’ho scritto io … … …. Lo ha firmato i Ministro all’aeroporto di Palermo. […]”) e ciò su indicazione di quest’ultimo appena informato della contrarietà che Nicolò Amato, contattato telefonicamente, aveva manifestato (“…quando lo chiamai mi disse che non era d’accordo. E alla mia insistenza, e nella seconda telefonata, mi pare di ricordare che disse che comunque non era competenza sua di scrivere il decreto … per il trasferimento. Non parliamo di 41 bis, noi parliamo di trasferimento …. … … Per cui il Ministro Martelli mi chiese: «Sei in grado tu di scriverlo?» lo dissi: «Sì, basta che ho un posto dove consultare le norme e una macchina da scrivere, poi lo scriviamo. Se la decisione del Governo è questa, si fa». E quindi loro sono andati, come dicevo prima, a casa Borsellino e io ho scritto il decreto”), ma, poi, la Ferraro ha anche aggiunto che, in sua presenza, il

Ministro Martelli aveva parlato con Amato […].

Orbene, come si vede, v’è un insanabile contrasto tra la Ferraro, da un lato, secondo la quale Amato fu rintracciato e si rifiutò di collaborare per il trasferimento dei detenuti nelle isole e Martelli e Pomodoro dall’altro, secondo i quali, invece, non fu possibile rintracciare Amato.

In ogni caso, la Ferraro è stata inequivocabilmente smentita da Martelli, che pure non può sospettarsi di atteggiamento benevolo nei confronti di Amato come si evince dal complesso delle sue dichiarazioni, sul fatto che quest’ultimo fu rintracciato ed ebbe a rifiutarsi di collaborare, circostanze che Martelli altrimenti avrebbe ben ricordato e riferito, tanto più se, come raccontato dalla Ferraro, in quell’occasione egli avesse effettivamente parlato direttamente con Amato.

D’altra parte, appare inverosimile, come già sopra rilevato, che, secondo quanto testimoniato dalla Ferraro, addirittura, non soltanto Amato, ma tutti gli uffici del DAP possano essere stati esautorati nella predisposizione dei provvedimenti di trasferimento dei detenuti e che questi possano essere stati elaborati del tutto autonomamente in Prefettura a Palermo con l’ausilio del solo Capo di Gabinetto del Prefetto e senza neppure che fossero coinvolti il Direttore o il Vice Direttore (entrambi pure inverosimilmente non “rintracciabili” secondo la Ferraro) della Casa Circondariale di Palermo “Ucciardone” presso la quale era allocata la maggior parte dei detenuti da trasferire […].

La stessa Dott.ssa Pomodoro, infatti, ha rappresentato l’indispensabile apporto degli uffici del D.A.P. […]. Non resta, quindi, che prendere atto degli stessi dubbi infine manifestati dalla Ferraro sui suoi attuali ricordi (“Questo ricordo. Poi se il Ministro Martelli ricorda un’altra cosa io a questo punto non so più che cosa ricordo .. “).

Ma, a prescindere dallo specifico episodio della notte successiva alla strage di via D’Amelio, nonché da quanto riferito da Martelli sulle perplessità manifestate da Amato in generale sul regime del 41 bis e, per contro, dalle stesse dichiarazioni di quest’ultimo riguardo al suo intervento sollecitatorio nel confronti del primo per pervenire, dopo la strage di Capaci, alla modifica dell’art. 41 bis in senso più restrittivo e rigoroso […], emerge con chiarezza soprattutto dalla documentazione acquisita agli atti che il Direttore Amato non fosse contrario, nella immediatezza delle stragi, alla applicazione del più rigoroso regime carcerario nei confronti dei mafiosi.

Ci si intende riferire, in particolare, all’«Appunto per il Signor Capo di gabinetto dell’On. Ministro» trasmesso dal Direttore Generale del D.A.P. Nicolò Amato in data 30 luglio 1992 (doc. S.a della produzione del P.M. Del 26 settembre 2013).

[…] Come si vede, dunque, il 30 luglio 1992, undici giorni dopo la strage di via D’Amelio e quel trasferimento dei detenuti di cui si è detto, il Direttore Amato, non soltanto, ribadiva l’adesione alla pregressa determinazione di applicare in via d’urgenza il regime del 41 bis a circa 400 detenuti, riservandosi, anzi, di proporre ulteriori applicazioni del regime speciale ad personam di cui al secondo comma dell’art. 41 bis […], ma, addirittura, proponeva una più estesa applicazione del regime carcerario più rigoroso utilizzando lo strumento del primo comma dell’art. 41 bis in un

“Circuito Penitenziario Speciale” comprendente ben 121 istituti penitenziari, con il concreto effetto, a prescindere dai regimi restrittivi individuali da mantenere ed, anzi, come detto, incrementare, che circa cinquemila detenuti che sarebbero stati assegnati a quegli istituti (e, tra questi, tutti i detenuti per mafia) sarebbero stati, di fatto, soggetti ad un regime carcerario pressoché analogo a quello conseguente ai decreti individuali ex art. 41 bis comma secondo […].

Ulteriore conferma riguardo alla piena condivisione da parte del Direttore Amato del più rigoroso regime carcerario da applicarsi ai mafiosi, si trae, poi, dal successivo “Appunto per il Signor Capo di gabinetto dell’On. Ministro” trasmesso dal predetto il 24 agosto 1992 dopo avere appreso delle perplessità sollevate dal Direttore Generale Reggente degli Affari Penali del Ministero della

Giustizia Dott.ssa Liliana Ferraro con altro “Appunto per il Signor Capo di Gabinetto dell’On. Ministro” a sua volta inviato il 12 agosto 1992 […], avendo il Direttore Amato, tra l’altro, scritto: “Con l’appunto n. 289 del 30 luglio 1992 si è proposto di applicare il regime di cui al primo comma dell’articolo 41 bis della legge n. 354 del 1975 a sezioni e parti di istituti penitenziari ….. destinate alla custodia dei detenuti più pericolosi …. La proposta … .integra dunque con coerenza un progetto di gestione penitenziaria già disposto dall’Onorevole Ministro – e interamente condiviso da questo Dipartimento – avviato con la emanazione di alcuni decreti con cui un analogo regime – anzi un regime ancora più restrittivo – è stato applicato a diverse centinaia di detenuti lato sensu mafiosi …….. …. Ma in entrambe le ipotesi ……. Gli effetti consistono sempre nella sospensione di alcune delle normali regole di trattamento ….. Ed anche i presupposti sono equivalenti … ……. Un tale regime penitenziario più restrittivo appare giusto ed opportuno applicarlo a tutti i detenuti lato sensu mafiosi ….. Si è dunque pensato di distinguere, nell’ambito dei circa 5 mila detenuti lato sensu mafiosi, quelli di maggiore rilievo, i c.d. capi, applicando ad essi il regime restrittivo in forma personale e più rigorosa ai sensi del secondo comma dell ‘art. 41 bis, e gli altri, ai quali il regime restrittivo verrebbe applicato in forma lievemente meno rigorosa e con riferimento agli spazi nei quali saranno custoditi. Da qui la proposta del 30 luglio .. …. .. .In conclusione, la proposta del 30 luglio riguarda una questione di estrema delicatezza, che concerne la politica della gestione penitenziaria …. Appare, pertanto, necessario che la questione stessa venga portata direttamente all’alta valutazione politica dell’Onorevole Ministro. Tanto più che, come è noto alla S. v., le assicurazioni fornite all’Onorevole Minsitro in occasione di una riunione da lui presieduta l’11 agosto, potrebbero averlo convinto che il decreto stesso sia già in attuazione” .

Come si vede, dunque, anche in tal caso, Nicolò Amato, non soltanto ha ribadito di condividere la linea di rigore intrapresa d’intesa col Ministro Martelli […], ma ha insistito affinché il regime carcerario speciale analogo a quello di cui all’art. 41 bis comma secondo […] fosse, di fatto e in concreto, applicato a tutti i detenuti per mafia […].

Né appare possibile ricavare una ipotetica dissociazione del Direttore Amato dalla applicazione del regime del 41 bis dalla circostanza che i decreti emessi direttamente dal D.A.P. su delega del Ministro Martelli dal settembre 1992 furono firmati dal Vice Direttore Fazzioli.

Invero, in proposito, occorre rilevare non soltanto che lo stesso Fazzioli ha negato che in proposito vi sia stata alcuna divergenza con Amato e più in generale tra il D.A.P. e il Ministro sul trasferimento dei detenuti o sull’applicazione del 41 bis […], ma, soprattutto, che la predetta delega, in forza della quale vennero emessi, poi, oltre cinquecento decreti applicativi del regime del 41 bis, venne sollecitata dallo stesso Amato […] e sarebbe, pertanto, del tutto illogico, a prescindere da quanto dichiarato dal medesimo Amato, che quest’ultimo, eventualmente contrario ad applicare il regime del 41 bis, abbia, però, addirittura sollecitato la delega al suo ufficio e, poi, comunque, quanto meno consentito, pur potendo ovviamente opporsi o impartire una diversa direttiva, che un numero così rilevante di decreti applicativi di quel regime fossero effettivamente emessi in un breve lasso di tempo.

Ugualmente, l’evidente schieramento del Direttore Amato in favore di un regime di rigore carcerario idoneo ad interrompere qualsiasi contatto dei detenuti mafiosi tra di loro e con l’esterno, a parere di questa Corte, appare confermato anche da una attenta lettura del documento del 6 marzo 1993, pure, invece, citato dalle difese di alcuni degli imputati per sostenere la contrarietà di Amato al detto regime.

[…] Orbene, in sostanza, dal documento di Nicolò Amato si ricava che quest’ultimo si è posto, innanzitutto, il problema della provvisorietà proprio della disciplina del 41 bis e della conseguente necessità di pensare per tempo ad interventi legislativi che potessero soddisfare le medesime esigenze di sicurezza perseguite col D.L. del giugno 1992 con un carattere questa volta di definitività.

Così, mentre si proponeva l’abbandono dei decreti emessi nella situazione di emergenzialità del luglio-novembre 1992, però, nel contempo, si prevedeva, da un lato, il concentramento dei detenuti mafiosi o comunque criminalmente più pericolosi in alcuni istituti specificamente individuati ed attrezzati (quelli di Asinara, Pianosa, Cuneo, Ascoli Piceno e Spoleto), e, dall’altro, l’introduzione per legge di una serie di misure idonee a recidere del tutto ogni possibilità di collegamento degli stessi con i sodali e con le organizzazioni di provenienza, delineando, per l’effetto, in concreto, un regime di certo complessivamente più penalizzante per tali detenuti rispetto a quello loro applicato con i decreti emergenziali prima ricordati.

[…] Più in generale, poi, si coglie dalla lettura del documento in esame la costante attenzione del Direttore Amato nel distinguere sempre, nell’ineluttabile “revisione” dei decreti applicativi del regime del 41 bis, i detenuti più pericolosi (mafiosi, sequestratori di persona, narcotrafficanti), cui, comunque, assicurare – questa volta, come detto, con carattere di definitività – un regime carcerario di assoluto rigore, che, seppur depurato da inutili limitazioni, non avrebbe potuto di certo considerarsi meno afflittivo per i detti detenuti più pericolosi e, in particolare, per quel che qui rileva, per i detenuti di mafia, i quali, sarebbero stati stabilmente reclusi in carceri lontane dai luoghi di residenza, senza la benché minima possibilità di comunicare né tra loro, né con l’esterno a causa della sollecitata integrale registrazione dei loro colloqui.

[…] Ciò, peraltro, senza dimenticare neppure la soddisfazione per la sostituzione di Amato espressa nella telefonata del 14 giugno 1993 dalla sedicente “Falange Armata”, sigla nata nel mondo carcerario e di cui ebbe ad avvalersi anche “cosa nostra”, come si vedrà nel successivo Capitolo 34 […].

La ricerca delle ragioni che diedero luogo nel giugno 1993 alla sostituzione del Direttore del D.A.P. Amato è stata oggetto di un’ampia attività istruttoria, all’esito della quale può, innanzitutto, ritenersi accertato che tale sostituzione fu voluta – e, di fatto, imposta al Ministro Conso ed al Presidente del Consiglio Ciampi – dall’allora Presidente della Repubblica Scalfaro.

Tale risultanza emerge, innanzitutto, dal puntuale racconto del teste Fabbri, vice Cappellano generale delle carceri, il quale, infatti, ha riferito non soltanto che fu Scalfaro a comunicare a lui e a Mons. Curioni, in occasione di una visita al Quirinale, che Amato sarebbe stato sostituito […], ma che addirittura Scalfaro ebbe ancora in loro presenza a telefonare al Ministro Conso per preannunziargli la visita dei Cappellani proprio per individuare con questi il sostituto di Amato […].

Il teste, inoltre, ha riferito, da un lato, che tale colloquio col Presidente Scalfaro avvenne in prossimità dell’effettiva sostituzione di Amato […] e, dall’altro, che il Ministro Conso, quando i

Cappellani si recarono da lui, fu preso quasi dallo sconforto per quella decisione che avrebbe dovuto prendere e ciò a riprova che la stessa gli era stata sostanzialmente imposta da Scalfaro […].

D’altra parte, ancora secondo il teste Fabbri, lo stesso Ministro Conso in quella occasione disse espressamente che la sostituzione di Amato era voluta dal Presidente Scalfaro […].

Tale testimonianza conferma, quindi, quanto già dichiarato dallo stesso Nicolò Amato, il quale ha, a sua volta, riferito che il Segretario Generale della Presidenza della Repubblica Gifuni ebbe a dirgli che, appunto, la sua sostituzione era stata decisa dal Presidente Scalfaro[…].

Il teste Gifuni, pur non ricordando tale specifica interlocuzione con Amato[…] ha, però, confermato che la sostituzione di quest’ultimo fu voluta dal Presidente Scalfaro […] il quale, quindi, propose che Nicolò Amato, appunto, venisse sostituito col Dott. Capriotti che lo stesso Scalfaro già conosceva […]. Il teste Gifuni, peraltro, ha confermato anche che la decisione di quella sostituzione non fu estemporanea […]

In tale contesto, quindi, certamente sorprende la dichiarazione sopra già riportata resa dal Presidente Scalfaro il 15 dicembre 2010 (verbale acquisito quale atto divenuto irripetibile a seguito del sopravvenuto decesso del teste), allorché il predetto ha riferito di non sapere nulla riguardo all’avvicendamento al vertice del D.A.P. tra il Dott. Nicolò Amato e il Dott. Adalberto Capriotti (”Nulla so in ordine ali ‘avvicendamento avvenuto a/ vertice del D.A.P. tra il dr. Nicolò Amato e il dr. Adalberto Capriotti nel giugno 1993. Nessuno mi mise al corrente delle motivazioni che portarono a tale avvicendamento”), che, ove si volesse escludere la consapevole reticenza del teste, può trovare una qualche giustificazione soltanto nella dimenticanza degli accadimenti a causa del lungo tempo trascorso o di patologie dovute all’età avanzata.

Questa Corte, non avendo potuto procedere all’esame diretto del teste, non ha elementi sufficienti per propendere per la prima piuttosto che per la seconda delle ipotesi, tanto più che, per la prima, quella della consapevole reticenza, depone sicuramente la cura – se non la preoccupazione – con la quale il detto teste, in assenza e prima di qualsiasi domanda o cenno, ha spontaneamente escluso la sussistenza, non soltanto di una qualsiasi possibile “trattativa tra Stato e mafia” (“Voglio subito precisare che, più in generale, sia quando ero ministro della Repubblica Italiana che successivamente ricoprendo la carica di Presidente della Repubblica, nessuno mi ha mai messo al corrente né io ebbi altrimenti notizie di alcun genere cu presunte trattative tra lo Stato e la criminalità organizzata”), ma anche il possibile legame tra il regime del 41 bis e le stragi del 1993 […]; per la seconda ipotesi, quella dell’effettivo offuscamento se non cancellazione del ricordo, depone, invece, il fatto che il teste non abbia neppure ricordato gli accadimenti della notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 (“Non ricordo se durante la notte tra il 27 e il 28 luglio 1993 si tenne, presso la sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri, una riunione straordinaria del Consiglio Supremo di Difesa … … …. Nell’immediatezza di quegli attentati l ‘On. Ciampi, allora Presidente del Consiglio, non mi espresse il suo convincimento ci,.ca un concreto pericolo di colpo di stato”), che, per la loro tragicità, si prestavano ad imprimere un ricordo indelebile nelle menti dei protagonisti […].

Ma, in ogni caso, quali che siano le ragioni che hanno indotto Scalfaro a negare di avere conoscenze in ordine all’avvicendamento di Amato, non v’è dubbio che alla stregua delle chiare testimonianze sopra ricordate (Fabbri, Amato e Gifuni, riscontrate, peraltro, ampiamente, quanto meno sul contesto, da quelle dei numerosi magistrati e funzionari del D.A.P. pure esaminati come testi nel corso del dibattimento) deve, con certezza, ricondursi alla volontà del Presidente Scalfaro la sostituzione dell’allora Direttore del D.A.P. Amato.

Tale risultanza, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa degli imputati Subranni e Mori in sede di discussione alle udienze del 15 e 16 marzo 2018 (v. trascrizione in atti), non è in contrasto con l’annotazione del Presidente Ciampi, […], della richiesta di Amato di avere un nuovo incarico, poiché tale richiesta, alla stregua del complesso delle risultanze acquisite, va letta, non già quale causa dell’avvicendamento del medesimo Amato, ma quale effetto della già adottata decisione, evidentemente ben compresa da quest’ultimo, di un prossimo avvicendamento già deciso, che, in effetti, di lì a poco fu attuato.

L’annotazione in questione, infatti, coincide con la richiesta di conferma delle voci che già circolavano riguardo alla sua sostituzione che Nicolò Amato ha riferito di avere fatto al Presidente Ciampi[…]. Può ragionevolmente ritenersi che tutte tali voci siano nate proprio dalla totale assenza dell’esternazione delle reali ragioni di quella sostituzione che sfuggivano alla comprensione dei più.

Così iniziarono a formularsi le più svariate ipotesi, che, però, possono oggi con certezza qualificarsi come infondate.

[…] E’ evidente, quindi, che già allora, nel mese di febbraio 1993, si era già prospettata in termini di assoluta concretezza (come dimostrato, poi, dagli eventi successivi e, in particolare, dall’effettiva nomina del Di Maggio, quale vice direttore del DAP, non promanante dal nuovo Direttore Capriotti) la volontà di sostituire Amato, volontà che, anche in questo caso, stante le risultanze che si ricavano dalle dichiarazioni del teste Fabbri prima già richiamate, non può che farsi risalire al Presidente della Repubblica Scalfaro, il quale, proprio in quei giorni aveva ricevuto il minaccioso esposto a firma dei sedicenti familiari dei detenuti di Pianosa.

Certo, non vi sono elementi sufficienti per concludere che il nome di Di Maggio fosse stato già fatto in quel frangente dal Presidente Scalfaro, ma – alla luce della testimonianza Canali – vi sono fondate ragioni per ritenere che, quanto meno nell’orbita di quei soggetti istituzionali che potevano orientare le determinazioni del Presidente Scalfaro (in primis, il Capo della Polizia Parisi, che, infatti, come si vedrà nel Capitolo successivo, interverrà in tal senso e in modo determinante sicuramente nel successivo mese di giugno), si fosse già pensato di ricorrere al Dott. Di Maggio per sostituire (di fatto, al di là della nomina a Direttore del meno vigoroso Dott. Capriotti) il Dott. Amato.

E’ inevitabile chiedersi, dunque, perché in quel momento si voleva il Dott. Di Maggio anziché il Dott. Amato e perché, poi, in effetti, si giunse in qualche modo a affidare al Di Maggio un ruolo di assoluto rilievo nella politica carceraria del D.A.P.

Una prima risposta sulla ragione della sostituzione di Amato voluta dal Presidente Scalfaro, in realtà, si ricava già dalle dichiarazioni del teste Gifuni, il quale, nel confermare che il Presidente Scalfaro non aveva in simpatia Amato e che, dunque, con questi non aveva rapporti cordiali, tuttavia si è lasciato quasi sfuggire un cenno al fatto che Scalfaro fosse insofferente verso le posizioni di

Amato ritenute “dure” (” … aveva una certa, come dire, insofferenza alle posizioni molte volte dure, non voglio definire forse troppo arroganti, del Dottor Nicolò Amato, quindi certamente c’era questa non simpatia, via, diciamo così”).

Ed una conferma assolutamente illuminante della volontà di attenuare quelle posizioni “dure” sul regime carcerario che animava il Presidente Scalfaro si trae, in modo certamente definitivo, oltre che dalla individuazione del sostituto del Direttore del D.A.P. nella persona del Dott. Capriotti, le cui posizioni ben diverse da quelle di Amato erano note (ed, in proposito, più avanti si vedrà la nota da questi redatta il 26 giugno 1993), soprattutto da un’annotazione rinvenuta sull’agenda dell’anno 1993 dell’allora (dall’11 maggio 1993) Presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi […].


La “distensione” e il ministro Conso  II “manifesto” del nuovo indirizzo che i rinnovati vertici del D.A.P. Intesero adottare all’indomani del loro insediamento si rinviene in un “appunto” per il Capo di Gabinetto del Ministro datato 26 giugno 1993 (Doc. 5c della produzione del P.M. del 26 settembre 2013 acquisito con ordinanza del 17 ottobre 2013).

[…] E’ stato acquisito al fascicolo del dibattimento un “Appunto per il Signor Capo di Gabinetto dell’On. Ministro” a firma del Direttore Generale del D.A.P. Capriotti datato 26 giugno 1993 avente ad oggetto “Regime detentivo speciale ex art. 41 bis, n. 2, vigente ordinamento penitenziario. Eventuale proroga. Proposte” nel quale si legge: “Dal prossimo mese di luglio inizieranno a scadere i decreti ministeriali a suo tempo emessi per la sottoposizione di alcuni detenuti al regime speciale in oggetto indicato. Appare quindi opportuno rappresentare alla S. v., un riepilogo relativo a tale situazione. I detenuti attualmente sottoposti a regime speciale sono n. 909. […]

Più delicata e più complessa invece è la situazione dei soggetti (alla data del 25.6.1993 n. 536) sottoposti a regime speciale con decreto ministeriale a firma dell’On.le Ministro.

Di regola sono detenuti di particolare pericolosità, con posizione di preminenza nell’ambito dell’organizzazione criminale di appartenenza, capaci, se ristretti negli istituti ubicati nelle sedi di origine o comunque in istituti non adeguati, di ripristinare in qualche modo il controllo del territorio e quindi i traffici illeciti e la preparazione ed esecuzione di cruenti atti criminali.

E, per altro verso, non si può ignorare che tale regime detentivo speciale ha contribuito in modo significativo allo sviluppo di numerose attività di indagine giacché proprio alcuni detenuti ad esso sottoposti hanno deciso di collaborare con le Autorità giudiziarie e di Polizia.

Nel periodo che va dal 20 luglio al 15 settembre 1993 scadranno i provvedimenti relativi a n. 400 di questi detenuti. E’ quindi necessario ed urgente individuare un indirizzo unitario, all’esito delle valutazioni tecniche e politiche, relativo alla opportunità di prorogare o meno tale regime detentivo ad alle eventuali modalità da seguire. […]”.

Orbene, appare del tutto evidente che già all’indomani del suo insediamento, il nuovo vertice del D.A.P., in linea con il “mandato” di attenuare in qualche modo il rigore carcerario sostanzialmente ricevuto dal Presidente della Repubblica Scalfaro su sollecitazione del Capo della Polizia Parisi (il quale, d’altra parte, come si ricava dal precedente “appunto” a firma di Nicolò Amato del 6 marzo 1993[…]”), delinea e sottopone al Ministro un nuovo indirizzo di politica carceraria certamente meno rigoroso se è vero che la finalità dichiarata era quella di “non inasprire inutilmente il “clima” ali ‘interno degli istituti di pena”.

Infatti, con quel documento si propone al Ministro di non rinnovare, senza alcuna preventiva verifica e, quindi, senza alcun aggiornamento delle relative posizioni, tutti i decreti (relativi a ben 373 detenuti) che erano stati firmati, a decorrere dal settembre dell’anno precedente, dal Direttore Generale o dal Vice Direttore Generale del Dipartimento su delega del Ministro, mentre per gli altri decreti, quelli che erano stati firmati dal Ministro, si propone, invece, a parte la riduzione della durata dell’applicazione del regime del 41 bis da un anno a sei mesi, la preventiva richiesta di collaborazione alla D.N.A., alla D.I.A., al Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale Polizia Criminale – ed all’Ufficio Coordinamento dei Servizi di Sicurezza degli II.PP. al fine della acquisizione di notizie utili per individuare eventuali soggetti per i quali non fosse stata più necessaria la sottoposizione al regime speciale, prefiggendosi, comunque, però, l’obiettivo di ridurre di circa il 10% il numero dei soggetti sottoposti al regime speciale aggravato, di modo da lanciare “un segnale positivo di distensione”.

Appare del tutto evidente, in sostanza, dalla lettura del predetto atto di indirizzo proposto al Ministro il mutamento dell’ottica che sino ad allora aveva condotto alla applicazione ed al mantenimento del regime carcerario di estremo rigore: non più quella della tutela delle esigenze primarie di sicurezza necessarie per interrompere i collegamenti tra i detenuti e l’organizzazione criminale di appartenenza responsabile di efferati delitti e, nel contempo, della necessità per Istituzioni di dare una forte risposta che potesse far comprendere alle organizzazioni mafiose l’improduttività dell’attacco sferrato contro lo Stato, facendone derivare soltanto conseguenze negative che potessero dissuaderle dalla prosecuzione dell’attacco medesimo; ma, adesso, al contrario, quella della sostanziale “mano tesa” delle Istituzioni, che, a fronte di quell’escalation di violenza senza precedenti culminata, neppure un anno prima, nella strage di via D’Amelio e, poi, ripresa ancora neanche un mese prima con la strage di via Georgofili a Firenze del 27 maggio 1993, che aveva visto perire persino una bambina (di 9 anni) e una neonata (di appena 50 giorni), e senza dimenticare tutti gli altri non meno gravi fatti delittuosi del periodo intermedio (dalla uccisione di agenti della polizia penitenziari a sino all’attentato – per fortuna non riuscito – ai danni del giornalista Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993 nella via Fauro a Roma), proponeva ora di ridurre, quanto meno nel numero dei soggetti destinatari, il regime di rigore carcerario con il solo fine di lanciare “segnali di distensione” e di “non inasprire il clima”.

Ed è bene precisare che tale mutamento, contrariamente a quanto sostenuto dalle difese degli imputati, non può attribuirsi al mutamento della giurisprudenza della magistratura di sorveglianza sull’applicazione del regime del 41 bis, che, infatti, non viene in alcun modo citato nel documento qui in esame quale ragione delle determinazioni proposte.

[…] Ciò detto, deve chiedersi se tale programma sia attribuibile al (solo) Dott. Capriotti che ebbe a firmare il documento, perché se così fosse troverebbe smentita la conclusione del Capitolo precedente.

Il Dott. Calabria, vice direttore dell’Ufficio detenuti del D.A.P., sentito il 20 febbraio 2015, il cui nome è annotato nel documento in alto a destra, ha spiegato che quel documento certamente venne redatto, come di consueto stante la materia, nell’ambito dell’Ufficio Detenuti, ma, altrettanto certamente, su indicazione dei vertici del D.A.P. (sia il Direttore Capriotti che il Vice Direttore

Di Maggio) e dopo averlo con questi concordato, tanto che il funzionario incaricato – in questo caso, appunto, lo stesso Dott. Calabria – vi apponeva la propria firma per conferma che il testo redatto corrispondesse alle indicazioni ricevute e per consentire, nel contempo, ai vertici del D.A.P. di individuare l’interlocutore per eventuali correzioni […].

Come si vede, dunque, il Dott. Calabria, che, stante la sigla apposta su quel documento deve individuarsi quale funzionario incaricato di sovraintendere alla sua redazione da parte dei dipendenti dell’Ufficio Detenuti, non ha manifestato alcun dubbio sul fatto che la paternità del documento medesimo debba farsi risalire non solo al Direttore Capriotti che, ovviamente, per il suo ruolo lo sottoscrisse, ma espressamente anche al Vice Direttore Di Maggio.

Ciò indipendentemente da quanto il medesimo Dott. Calabria, poi, a conferma, ha ricavato da un’annotazione nel documento (in alto a destra), nella quale ha egli ha ritenuto di riconoscere la grafia di Di Maggio e che, ancora secondo il teste, avrebbe, appunto, confermato che quest’ultimo ebbe a concordare con quanto scritto al Ministro[…].

E deve dirsi, in proposito, che, ancorché il Dott. Calabria abbia erroneamente individuato la grafia del Dott. Di Maggio, la conclusione da lui tratta è stata, comunque, confermata da Livia Pomodoro, Capo di Gabinetto del Ministro, allorché ha riconosciuto la propria grafia.

All’udienza del 27 febbraio 2015, infatti, anche alla predetta teste è stato mostrato l’appunto per il Ministro del 26 giugno 1993 con l’annotazione a margine di cui si è detto, in forza della quale la teste medesima ha dichiarato che doveva necessariamente da questa ricavarsi che ella aveva informato il Ministro e che questi, poi, le aveva restituito il documento, dicendole di restare in attesa di ulteriori informazioni già richieste al Dott. Di Maggio […].

Ed è opportuno, in ogni caso, evidenziare sin d’ora, per dirimere qualsiasi dubbio sulla annotazione a margine del documento in esame e sulla ventilata ipotesi che Di Maggio possa essere poi intervenuto sul Ministro quando questi decise nel luglio 1993 di disattendere i suggerimenti del D.A.P. e di prorogare i decreti in scadenza, che, se ciò fosse effettivamente accaduto, il Ministro Conso se ne sarebbe ricordato e lo avrebbe riferito, cosa che, invece, come si vedrà, non è accaduta, avendo quest’ultimo fatto riferimento esclusivamente alla sua preesistente convinzione sulla “necessità di mantenere fermo il 41 bis e di rinnovare i decreti…”.

[…] D’altra parte, la conoscenza e la condivisione del documento in esame da parte del Dott. Di Maggio si ricava anche da un altro appunto datato 14 luglio 1993 rinvenuto al D.A.P. di cui ha riferito il teste Sebastiano Ardita all’udienza dell’11 dicembre 2014.

In particolare, il detto teste ha riferito che, a seguito di una ricerca sollecitata dal Dott. Chelazzi, aveva, altresì, reperito un appunto del Dott. Di Maggio datato 14 luglio 1993, mostratogli e da lui riconosciuto […], nel quale si faceva riferimento all’opportunità di “sottoporre a controllo preventivo anche le posizioni attenuate” […].

Il teste, quindi, ha detto che la generica espressione prima ricordata non è del tutto chiara e richiede un’interpretazione […]. Ma la Corte non ha dubbi che si tratta di un’espressione che deve essere necessariamente collegata all’«appunto» per il Ministro del 26 giugno 1993 nel quale, come si è già visto sopra, proponendo di non prorogare il regime del 41 bis per i detenuti già sottoposti al detto regime con i decreti adottati dal Direttore o dal vice Direttore del D.A.P. su delega del Ministro, si escludeva persino qualsiasi preventiva verifica delle singole posizioni.

A ciò si riferisce l’appunto del 14 luglio 1993 nel quale, evidentemente, Di Maggio recependo l’indicazione del Ministro Conso, invita gli Uffici sottordinati (nella specie l’Ufficio Quarto) ad effettuare i “controlli preventivi” (quindi, la preventiva richiesta alle Forze dell’Ordine) anche per “le posizioni attenuate” (quindi, quelle di cui ai decreti adottati Direttore o dal vice Direttore del D.A.P. su delega del Ministro), spiegando la contraddittorietà di tale nuovo suggerimento (“bisognerebbe sottoporre a controllo preventivo anche le posizioni attenuate”) rispetto a quanto indicato nel documento del 26 giugno 1993, con il volere del Ministro (“l’Onorevole Ministro è d’accordo”).

Ma quel che, in ogni caso, qui rileva è che anche tale appunto autografo del Dott. Di Maggio datato 14 luglio 1993 conferma che quest’ultimo era stato pienamente coinvolto nell’iniziativa condensata nel documento del 26 giugno 1993, tanto da parlarne egli stesso con il Ministro (coerentemente, d’altra parte, al suo ruolo di effettivo “capo” operativo del D.A.P.), facendo derivare, poi, da tale colloquio, neppure una disposizione imperativa per gli Uffici a lui sottoposti, ma soltanto quel suggerimento (“bisognerebbe sottoporre a controllo preventivo anche le posizioni attenuate”) che denota già da solo la condivisione della diversa indicazione del documento del 26 giugno 1993, semmai soltanto da integrare – in modo meramente eventuale, come dimostrato dall’uso del condizionale da parte del Di Maggio – con il “controllo preventivo” delle singole posizioni.

Si ha la conferma, allora, che Francesco Di Maggio, se non ispirò il contenuto di quel documento, cosa che certamente appare più probabile per essersi egli insediato al D.A.P. di fatto ancor prima di Capriotti e per il suo carattere dominante di cui si è detto, certamente, comunque, quanto meno concordò sul suo contenuto.

D’altra parte, appare veramente inverosimile e improbabile che il Dott. Capriotti, appena immessosi in quella funzione e del tutto spaesato per il repentino e da lui non previsto catapultamento in quel ruolo di Direttore del D.A.P., nei pochissimi giorni intercorsi prima del 26 giugno, possa avere elaborato quel nuovo indirizzo da sottoporre al Ministro Conso.

Al contrario, ben più verosimile e probabile appare, invece, che possa essere stato il Dott. Francesco Di Maggio a dare quel nuovo indirizzo sia perché, come si è detto, già insediatosi al D.A.P. ancora prima del Dott. Capriotti e con più tempo a disposizione, quindi, per elaborarlo, sia, soprattutto, perché, a differenza del Dott. Capriotti, Francesco Di Maggio già preparava il suo arrivo al D.A.P. Da diversi mesi, almeno dal mese di febbraio precedente, e, dunque, sicuramente aveva avuto modo di acquisire adeguata cognizione della situazione a quel momento esistente riguardo alla gestione dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis.

Ma quel che rileva è che, chiunque ne sia stato l’autore e ispiratore, Di Maggio abbia condiviso il contenuto programmatico di quel documento, dal quale non risulta si sia mai dissociato.

D’altra parte il nuovo indirizzo era certamente in linea e coerente con le ragioni che avevano indotto il Presidente della Repubblica Scalfaro, su sollecitazione del Capo della Polizia Parisi, a fare proprio il nome di Di Maggio al Presidente del Consiglio Ciampi.

Si vuole dire, in altre parole, che, se ricondotto quel documento (quanto meno anche) al volere del Dott. Di Maggio come sembra non possa esservi dubbio alla stregua delle risultanze prima esposte, nello stesso non può che rinvenirsi l’immediata esecuzione ed attuazione del “mandato” che gli si era inteso attribuire da coloro che ne avevano propugnato la nomina.

[…] Si è già visto sopra che, come riferito dal teste Calabria, a quell’«Appunto» che delineava la nuova linea del D.A.P. di gestione dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis in vista dell’approssimarsi delle prime scadenze annuali di tali provvedimenti non seguì alcuna espressa risposta di condivisione, recepimento o respingimento da parte del suo destinatario, il Ministro della Giustizia Giovanni Conso […].

E ciò consente di escludere, quindi, anche che quel mutamento di indirizzo fosse stato concordato dai vertici del D.A.P. con il Ministro o che, addirittura, fosse stato sollecitato da quest’ultimo ai medesimi vertici del D.A.P.

Due diverse acquisizioni probatorie confermano inequivocabilmente ed incontestabilmente tale affermazione.

Innanzitutto, vi sono le stesse trancianti dichiarazioni rese dal Ministro Conso alla Direzione Distrettuale Antimafia di Firenze in data 24 settembre 2002 di cui si è già fatto cenno sopra.

[…] Il secondo elemento confermativo, invece, è di tipo fattuale: il Ministro Conso disattese del tutto quei suggerimenti condensati nel documento del 26 giugno 1993 procedendo a prorogare, già in data 16 luglio 1993, tutti i decreti che sarebbero scaduti tra il 20 e il 21 luglio successivi, con esclusione soltanto di quei detenuti (appena 19 su 244) per i quali la posizione giuridica era mutata e vi erano, pertanto, profili formali che ostavano alla proroga.

Ed è significativo anche che tale proroga della quasi totalità dei decreti in scadenza sia stata decisa, contrariamente a quanto suggerito dai vertici del D.A.P. col documento del 26 giugno 1993, senza neppure interpellare la Direzione Nazionale Antimafia ed i responsabili delle Forze dell’Ordine ai fini dell’aggiornamento delle posizioni di quei detenuti.

Insomma, non v’è dubbio che sino a quel momento, mentre il “nuovo” D.A.P. nelle persone di Capriotti e Di Maggio suggeriva di lanciare “segnali di distensione” e di “non inasprire il clima” intraprendendo il nuovo corso voluto dal Presidente Scalfaro, il Ministro della Giustizia Conso reiterava la linea “dura” confermando quella del suo predecessore Martelli […].

In sostanza, fino a quel momento, la minaccia mafiosa, al cui centro vi era la questione carceraria e che pure aveva iniziato a farsi strada raggiungendo, attraverso il Capo della Polizia Parisi, il Presidente della Repubblica Scalfaro, non aveva ancora raggiunto il Governo nella persona del Ministro Conso.

Ciò, d’altra parte, conformemente all’indirizzo del Presidente del Consiglio Ciampi, che, appena due giorni prima di quell’«appunto» del D.A.P. Del 26 giugno 1993 che, ovviamente a sua insaputa, inopinatamente intendeva lanciare “segnali di distensione”, annotava sulla sua agenda, a seguito di un colloquio con il Direttore della D.I.A. De Gennaro, la necessità, ancora dopo la strage di

Firenze, di proseguire nella “linea della fermezza” (v. annotazione alla pagina del 24 giugno 1993 dell’agenda del Presidente Ciampi: “sostanzialmente fiducioso. I vari attentati, da quelli in Sicilia dello scorso anno a Firenze sono della stessa matrice (confermo tecniche e informativa). Continuare nella linea di fermezza “).


Il 41 bis e quella brutta aria  La linea del D.A.P. dopo la nomina dei nuovi vertici esposta nel documento del 26 giugno 1993 era stata nell’immediato sostanzialmente disattesa dal Ministro della Giustizia Conso, il quale, non condividendola […], provvide, di fatto, a prorogare pressoché in blocco (salvo limitate eccezioni determinate da sopravvenuti ostacoli formali), tutti i decreti applicativi del regime del 41 bis in scadenza tra il 20 e il 21 luglio 1993 senza neppure quella preventiva interlocuzione con le Forze dell’Ordine suggerita dal D.A.P. nel citato documento.

Ciò nonostante, all’indomani delle bombe del 27 luglio 1993 – e, peraltro, dopo, che quello stesso giorno il Vice Direttore Di Maggio si era incontrato con il Col. Mori per parlare del problema dei detenuti mafiosi (v. annotazione alla pagina del giorno 27 luglio 1993 dell’agenda di Mori: “Dal dr. Di Maggio (problema detenuti mafiosi)” sulla quale si tornerà) – il D.A.P., nonostante non vi fosse stato alcun recepimento della direttiva del 26 giugno 1993 da parte del Ministro, in vista della scadenza di un altro gruppo di provvedimenti applicativi del regime del 41 bis prevista per la data del 24 agosto 1993, si attiva chiedendo questa volta, con una nota del 29 luglio 1993 dell’Ufficio Detenuti (si tratta di una nota non acquisita agli atti, ma il cui contenuto si ricava pressoché integralmente dal verbale delle sommane informazioni rese da Loris D’Ambrosio alla Procura di Firenze il 28 maggio 2002 prodotto dalla difesa degli imputati Subranni e Mori all’udienza del 10 ottobre 2013), il preventivo parere alla Direzione Nazionale Antimafia e alle varie Forze dell’Ordine, nell’ottica evidente di limitare la proroga ai casi assolutamente necessari, rappresentando che la “delicata situazione generale” imponeva, sì, da un lato, di soddisfare le esigenze di sicurezza, ordine pubblico e contrasto alla criminalità organizzata, ma, dall’altro, però, anche “di non inasprire inutilmente il < > all’interno degli istituti di pena”.

Come si vede, dunque, all’indomani delle stragi della fine di luglio 1993, il D.A.P., nonostante le precedenti contrarie determinazioni del Ministro e, probabilmente per la prima volta (secondo quanto si ricava dall’esame del Dott. D’Ambrosio di cui si è detto, nel quale lo stesso teste sottolinea, poi, anche la natura politica di quella iniziativa: “…è una scelta politica che fa il

Dipartimento .. “), riprende ancora l’indirizzo programmatico esposto nel documento del 26 giugno 1993 nell’intento ivi dichiarato di dare “un segnale positivo di distensione” e di “non inasprire il clima”.

Non solo, ma con la citata nota del 29 luglio 1993 il D.A.P., nella medesima ottica, trasmette persino l’elenco dei decreti scaduti il 20 e 21 luglio 1993 già prorogati dal Ministro e per i quali, dunque, non vi sarebbe stata alcuna necessità di aggiornare le posizioni dei singoli detenuti, così che appare chiaro l’intento sottostante di pervenire eventualmente alla revoca di taluna di quelle proroghe indiscriminate che evidentemente avevano contrariato il D.A.P. […].

E ciò nonostante, in quegli stessi giorni, il Vice Direttore del D.A.P. Di Maggio proclamasse in sede di Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica la necessità di mantenere fermo il regime del 41 bis.

Ciò conferma che alla linea “ufficiale” del D.A.P., che, in quel momento e nel contesto di quelle riunioni del Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica ai cui partecipanti era ben chiara l’assoluta necessità, dopo le bombe del 27-28 luglio 1993, di non dare segnali di cedimento sul fronte dell’applicazione del regime carcerario più rigoroso, non poteva che essere nel senso della fermezza, si contrapponeva, nella pratica, una linea più accomodante che mirava, invece, proprio a lanciare quei segnali di ripensamento del regime carcerario più rigoroso col dichiarato fine di “non inasprire il clima” nelle carceri e, quindi, di ottenere, piegandosi, di fatto, al “ricatto” della mafia, che questa recedesse dalla strategia stragista.

[…] Si è fatto cenno sopra, peraltro, anche all’intervista rilasciata da Di Maggio il 22 agosto 1993 (v. sopra Capitolo 23, paragrafo 23.4), che, sia pure in modo non esplicito, lasciava, comunque, trasparire un approccio alla questione del 41 bis non proprio in linea con l’assoluta fermezza proclamata in sede di Comitato Nazionale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica dallo stesso Di Maggio.

E che tale linea “non ufficiale” cominciasse a prendere piede si può ricavare indirettamente anche dalla nota a firma del Dott. Di Maggio indirizzata alla Procura di Palermo il 28 agosto 1993 (v. produzione della difesa di Subranni e Mori in data 8 ottobre 2015) nella quale, tra l’altro, si legge: “…concordo sulla opportunità che del gruppo di lavoro faccia parte un magistrato della Procura

Distrettuale Antimafia. Resto in attesa della designazione e mi riservo di comunicare la data del programmato primo incontro”.

Da tale nota può ricavarsi, infatti, che, ad un certo momento, la Procura di Palermo, uno degli uffici più esposti sul fronte del contrasto al fenomeno mafioso, ebbe a indicare al D.A.P. l’opportunità di coinvolgere un magistrato di quella Procura in un apposito gruppo di lavoro presso il D.A.P. con l’evidente intento di interloquire in occasione delle scadenze annuali dei decreti di proroga.

[…] Ora, l’esame congiunto e complessivo dei documenti sopra indicati, dimostra che la Procura di Palermo, che non era stata direttamente coinvolta in occasione della scadenza dei decreti del 24 agosto (perché la nota del 29 luglio 1993 era stata inviata soltanto alla D.N.A. e alle Forze dell’Ordine), venuta a conoscenza di quella determinazione del D.A.P., si è immediatamente attivata, per rimediare a quel mancato coinvolgimento ed al rischio di una indiscriminata riduzione dei decreti applicativi del regime del 41 bis (sul punto e sulle “preoccupazioni” della Procura di Palermo si veda anche la testimonianza del Procuratore Aggiunto Vittorio Aliquò sulle notizie che cominciavano a giungere riguardo alle proroghe dei decreti: “Sì, agli inizi sicuramente era rigorosa, perché molte di quelle criticità sembravano più o meno bloccate e quindi era molto rigorosa.

Successivamente ci fu un momento di discussione sulle proroghe, se era lecito o non lecito prorogarle, se era opportuno o non era opportuno e mi arrivò anche qualche notizia che mi diceva che forse il Ministro era disponibile a ridurre fortemente o a eliminare questa … Per noi era una norma utile, utilissima anzi, per cui aspettavamo con preoccupazione una manifestazione … … … Non me lo ricordo precisamente come si è arrivato, non me lo ricordo, ricordo due cose, che c’era una discussione diciamo in vari. .. Su vari piani, per cui io lo seppi avendolo appreso nell’ambiente proprio … Mi pare che sia stato Di Maggio a suo tempo a dirmelo che era … A darmi un primo accenno, poi per cui questo discorso si era cominciato a diffondere, questa notizia. Ne parlammo … Ne parlai io con Caselli, che era lui contrario a una sospensione di questo sistema, perché il sistema dava dei buoni risultati, però come sia nato a distanza di tanti anni… … … .. Probabilmente non lo posso dire con certezza, ma molto probabilmente era lui, perché di solito parlavo con lui”), chiedendo la costituzione di un gruppo di lavoro apposito presso il D.A.P. stesso, tanto che, dopo la riunione tenutasi il 7 settembre 1993, l’Ufficio Detenuti, a differenza di quanto fatto il 29 luglio 1993, questa volta, appunto, con nota del 21 settembre 1993, chiede direttamente alla Procura di Palermo gli aggiornamenti sulla situazione di tredici detenuti per i quali il decreto applicativo del 41 bis sarebbe scaduto il successivo 21 ottobre 1993.

Tuttavia, la nuova prassi sarebbe stata a breve sostanzialmente privata di qualsiasi efficacia in relazione ad un ben più consistente numero di detenuti per i quali, già dal primo giorno del successivo mese di novembre 1993, sarebbero venuti a scadenza i decreti applicativi del regime del 41 bis.

[…] Si è appena evidenziato che la necessità di motivare singolarmente provvedimenti di proroga per ciascuno dei detenuti cui erano rivolti, sopravvenuta a seguito della pronunzia della Corte Costituzionale ricordata sopra nel Capitolo 22, paragrafo 22.1, avrebbe naturalmente richiesto che fossero acquisite informazioni tempestivamente, di modo da consentire l’elaborazione delle singole motivazioni prima della scadenza di ciascun decreto.

[…] Ciò, però, poi non è avvenuto per un rilevante e ben più consistente numero di decreti che sarebbero venuti a scadenza già nei primi giorni di novembre 1993. Si tratta complessivamente di n. 334 decreti in scadenza che il Ministro Conso, andando di contrario avviso all’orientamento sino a quel momento propugnato, non avrebbe più prorogato.

[…] Ebbene, prima di esaminare più dettagliatamente tale mancata proroga di decreti applicativi del regime del 41 bis, deve evidenziarsi che, come emerso nel corso dell’istruttoria dibattimentale, per tale consistente numero di decreti in scadenza la richiesta di parere venne inoltrata dal D.A.P. soltanto il 29 ottobre 1993 (pervenendo alla Procura di Palermo, peraltro, soltanto nella seconda mattinata del giorno successivo, sabato 30 ottobre) a fronte della scadenza in data l novembre 1993 (quindi, appena dopo due giorni costituiti, peraltro, dalle giornate di sabato 30 e domenica 31 ottobre) di ben novanta di tali decreti, seguita dalla scadenza in data 6 novembre 1993 (quindi, appena sette giorni dopo) di ulteriori settantasette decreti e, ancora, in data 10 novembre 1993 (dopo dodici giorni) di altri 59 decreti e, pertanto, della scadenza di un numero di decreti complessivamente pari a duecentoventi sei […].

In proposito, il teste Andrea Calabria all’udienza del 20 febbraio 2015, dopo avere confermato di avere scritto egli, dopo una decisione dell’Ufficio, quella richiesta di informazioni datata 29 ottobre 1993 in vista della decisione sulla proroga o meno dei decreti con scadenza dall’l novembre successivo[…], non ha saputo spiegare, però, perché tale richiesta fu fatta soltanto pochi giorni prima delle prime scadenze dei decreti, non escludendo neppure che ciò possa essere derivato da una decisione dei vertici del D.A.P. […], tanto più che egli in quel periodo stava già iniziando a trasferire ad altri le proprie competenze in vista del suo trasferimento […].

Incalzato, inoltre, il teste ha aggiunto di non sapere, in realtà, se antecedentemente alla richiesta del 29 ottobre 1993 fossero state già fatte altre richieste di informazioni agli uffici interessati […] ed ha escluso, però, con certezza che potessero esservi state richieste soltanto informali così come verbalizzato in occasione di un suo precedente esame […].

Su tale vicenda ha riferito in questa sede anche il teste Vittorio Aliquò, all’epoca procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo. Il detto teste, in particolare, ha riferito che, appunto, soltanto alla vigilia della scadenza dell’l novembre 1993 pervenne alla Procura di Palermo una lettera con la quale si chiedeva il parere riguardo alla proroga del regime del 41 bis per un rilevante numero di detenuti, i cui nomi, peraltro, erano contenuti in un elenco allegato senza alcuna specificazione neppure dell’ufficio di Procura di riferimento, così da rendere impossibile una risposta motivatamente dettagliata […].

Ed infatti, come ancora riferito dal teste Aliquò, fu necessariamente data un risposta di contrarietà alla non proroga in termini di assoluta generalità anche per la sensazione di cedimento che la diversa determinazione avrebbe inevitabilmente procurato […].

Ora, alla stregua della scelta temporale della richiesta di informazioni in vista di una scadenza che, essendo annuale, non maturava di certo all’improvviso, non può minimamente dubitarsi che la stessa sottintendeva già la chiara intenzione del Ministro di non prorogare in blocco quei decreti, così che quella tardiva richiesta serviva soltanto a “mettere a posto le carte” acquisendo il parere degli Uffici interessati, ma, nel contempo, impedendo di fatto a questi di potere fornire elementi che avrebbero ostacolato o, comunque, reso più difficoltosa l’attuazione di quell’intendimento del Ministro.

E che effettivamente tale intendimento fosse già maturato è stato confermato anche dallo stesso teste Vittorio Aliquò, il quale, infatti, ha riferito che, almeno quindici o venti giorni prima del 30 ottobre 1993, il Dott. Di Maggio, col quale aveva avuto modo di parlare personalmente, già gli aveva anticipato quell’intendimento del Ministro di non prorogare il regime del 41 bis […].

D’altra parte, anche l’annotazione del Di Maggio a margine della risposta della Procura di Palermo in data 30 ottobre 1993 depone nel senso di una già presa decisione di non prorogare i decreti in scadenza, laddove da essa sembra ricavarsi o che Di Maggio neppure fosse a conoscenza della pur tardiva richiesta del D.A.P. alla Procura della Repubblica […] e che, quindi, egli neppure si era posto il problema di richiedere le informazioni per l’eventuale proroga, essendo ciò del tutto inutile in conseguenza della decisione già assunta, ovvero, al più, ove la successiva annotazione sullo stesso documento debba riferirsi alla prima, che il Di Maggio sia stato ben consapevole di tale tardiva nota […]”.

Ciò rende vano il tentativo delle difese di “addebitare” alla Procura di Palermo la mancata proroga di quei decreti anche per non avere successivamente inviato le informazioni richieste, neppure per quei decreti che sarebbero scaduti dopo qualche tempo e per i quali sarebbe stato possibile, pertanto, inviare le informazioni.

[…] Lo “spessore criminale-mafioso” dei detenuti che beneficiarono della mancata proroga di cui al paragrafo precedente è stato oggetto di una lunga e ripetuta diatriba tra Accusa e Difesa durante tutto l’arco dell’istruttoria dibattimentale.

In proposito, ali ‘udienza del 12 gennaio 2017, è stato esaminato il teste Salvatore Bonferraro, sostituto commissario in servizio presso la D.I.A. sin dal 1992, il quale ha riferito:

– di avere individuato gli esponenti criminali di maggiore rilievo per i quali nel novembre 1993 non era stata prorogata l’applicazione del regime del 41 bis O.P. […], accertando, poi, se a taluni di questi fosse stato successivamente riapplicato il regime medesimo […];

– di avere, così, individuato numerosi soggetti appartenenti a “cosa nostra” in quell’elenco di 334 detenuti […];

[…] – che tutti i soggetti dell’elenco relativo alla mancata proroga del regime del 41 bis avevano già una significativa caratura criminale tanto che, appunto, erano stati già sottoposti a quel regime […].

Nella medesima udienza del 12 gennaio 2017, nel corso dell’esame del predetto teste Bonferraro, è stata, poi, acquisita, con l’accordo delle parti, un’informativa redatta dalla D.I.A. di Palermo il 16 marzo 2012 nella quale vengono indicati i principali e più importanti detenuti che beneficiarono della mancata proroga in questione.

Ebbene, tra detenuti appartenenti a “cosa nostra” In tale informativa sono elencati:

l) Accardo Giuseppe – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Partanna;

2) Bontempo Scavo Cesare, “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Tortorici;

3) Di Carlo Andrea – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Altofonte, fratello di Francesco Di Carlo;

4) Di Trapani Diego – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Cinisi;

5) Farinella Giuseppe – capo del “mandamento” mafioso di San Mauro Castelverde;

6) Ferrera Francesco – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Catania dei “Ferrera – Cavadduzzu'” ,

7) Fidanzati Giuseppe – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa dell’ Arenella;

8) Gaeta Giuseppe – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Termini Imerese;

9) Geraci Antonino – capo del “mandamento” mafioso di Partinico;

10) Greco Domenico – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Alcamo;

1l) Miano Luigi – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Catania;

12) Prestifilippo Giovanni – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Ciaculli e componente della “commissione”;

13) Scrima Francesco – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Porta Nuova nella quale ha ricoperto anche le cariche di “sottocapo” e di “consigliere”;

14) Spadaro Francesco – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa di Porta Nuova nella quale ha ricoperto anche la carica di “sottocapo”;

15) Spina Raffaele – “uomo d’onore” della “famiglia” mafiosa della Noce;

16) Vitale Vito – “uomo d’onore” e successivamente capo della “famiglia” mafiosa di Partinico,

Orbene, come si vede, nel predetto elenco sono ricompresi esponenti mafiosi di primo piano e di grande e notorio rilievo nell’ambito dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, primi fra tutti, Antonino (detto “Nenè”) Geraci, storico capo mafia di Partinico e Giuseppe Farinell a, storico capo mafia di San Mauro Castelverde con competenza su un vasto territorio madonita, entrambi componenti, peraltro, della Commissione Provinciale di “cosa nostra” e ciò senza tralasciare, poi, la presenza di altri esponenti mafiosi appartenenti a storiche “famiglie” dell’organizzazione mafiosa, quali Francesco Spadaro (figlio del noto Tommaso detto “Masino” Spadaro), Vito Vitale, Spina Raffaele (cognato del noto Raffaele Ganci), Francesco Scrima, Luigi Miano, Giuseppe Gaeta, Giuseppe Fidanzati, Prestifilippo Giovanni (già pure componente della “Commissione”), Diego Di Trapani e Cesare Bontempo Scavo.

Ai predetti si devono aggiungere, inoltre, Grippi Leonardo, cognato di Tagliavia Francesco condannato per la strage di via D’Amelio e per le stragi del 1993, e Giuliano Giuseppe, esponente di spicco della “famiglia” mafiosa di Brancaccio, come si è visto ricordati dal teste Bonferraro nel corso della sua deposizione.

Nella stessa informativa si dà atto che ad alcuni dei predetti soggetti il regime del 41 bis è stato successivamente ripristinato (a Miano il 2811/94; a Di Carlo e Geraci il 3011/94; a Giuliano il 30/3/94; a Farinella il 2/8/94; a Grippi il 30/11/1994; a Vitale il 27/4/98; a Bontempo Scavo nel 2001).

E, per le valutazioni che successivamente saranno fatte, è opportuno sin d’ora evidenziare che molti dei predetti soggetti (quali Nené, Geraci, Giuseppe Farinella, Francesco Spadaro, Vito Vitale, Spina Raffaele, Giuseppe Gaeta, Giuseppe Fidanzati, Prestifilippo Giovanni, Diego Di Trapani, Grippi Leonardo e Giuliano Giuseppe) sono appartenenti a “famiglie” storicamente alleate ai “corIeonesi” .

Tra i detenuti appartenenti alla ‘ndrangheta in tale informativa, invece, sono elencati nove appartenenti alle principali cosche di tale organizzazione criminale (Chindamo Giosuè, Cianci Domenico, Facchineri Michele, Ficara Giovanni, Latella Antonino, Martino Domenico, Rao Luigi, Rositano Vincenzo e Zindaro Antonino).

Nell’informativa, ancora, sono elencati anche cinque appartenenti alla “sacra corona unita” (Capriati Antonio, De Vitis Nicola, Diomede Michele, Martorana Renato, Montani Andrea e Scarcia Antonio) e dieci appartenenti alla “camorra” (Letizia Antonio, Ascione Mario, Belforte Domencio, Di Martino Leonardo, Foria Salvatore, Maiale Cosimo, Pema Clemente, Samo Giuseppe, Tolomelli Rosario e Di Girolamo Carmine).

* * * […] Orbene, indipendentemente dal “nome” dei detenuti beneficiati, va, comunque, già respinto come illogico il tentativo di minimizzare il ruolo criminale di quei soggetti come se fino a quel momento (novembre 1993) fossero degli “sconosciuti” con un modesto ruolo criminale mafioso.

Ciò perché palesemente in contrasto sotto il profilo logico, col fatto che ai detti soggetti era stato, appunto, già applicato il regime del 41 bis, riservato, sin dalla sua introduzione, ai detenuti per gravi delitti di criminalità mafiosa con la finalità di impedire i collegamenti con sodali In stato di libertà e per fronteggiare “situazioni di emergenza”.

Si vuole dire, in altre parole, che se quei soggetti fossero stati effettivamente degli “sconosciuti” con un modesto ruolo criminale mafioso non sarebbero stati destinatari, nel 1992, all’indomani delle stragi, dei provvedimenti applicativi del regime del 41 bis.

[…] Per il resto, non può non rilevarsi, soprattutto riguardo ai detenuti mafiosi, che la decisione di non prorogare il regime del 41 bis costituiva in quel momento un fatto obiettivo idoneo a far percepire ai vertici dell’associazione mafiosa “cosa nostra” una inversione di tendenza nel senso dell’alleggerimento delle dure condizioni di detenzione cui i medesimi mafiosi erano stati sino a quel momento sottoposti.

Basti considerare, infatti, che, come già anticipato sopra, non soltanto tra i “beneficiati” vi erano anche tre “storici” capi-mafia (dunque, non certo “gregari di cosa nostra” secondo la definizione della difesa dell’imputato Dell’Utri in sede di discussione all’udienza del 23 marzo 2018) […]; ma, altresì, che la maggior parte dei predetti soggetti appartenevano a “famiglie” storicamente alleate dei “corleonesi”, così che ancor più quel segnale avrebbe potuto essere percepito da coloro, appunto i “corleonesi” che in quel momento storico erano i capi incontrastati dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, nulla rilevando, ovviamente, l’osservazione della difesa degli imputati Subranni e Mori (v. trascrizione discussione all’udienza del 16 marzo 2018) che altri “capi corleonesi” (tra cui, innanzitutto, Riina) continuassero ad essere detenuti al regime del 41 bis, dal momento che quel primo pur parziale segnale di cedimento consentiva di far sperare loro che la minaccia e ancor più l’attuazione di ulteriori stragi avrebbe potuto condurre alla già richiesta definitiva abolizione del medesimo regime del 41 bis per tutti i detenuti (ed in effetti, […], nei mesi immediatamente successivi, altri attentati furono programmati e in parte attuati con tale scopo).

 

Gli “appunti” e le analisi di Gianni De Gennaro  Negli stessi giorni, il 10 agosto 1993, anche il Direttore della D.I.A. De Gennaro scriveva una nota al Ministro dell’Interno cui allegava un documento elaborato dai funzionari della D.I.A. in ordine alle stragi dei precedenti 27 e 28 luglio 1993.

[…] Nel detto «appunto», quindi, tra l’altro, si legge:

“1. Le considerazioni e le riflessioni proposte nel presente studio muovono da precisi riferimenti e da dati di fatto che, in assenza di elementi probatori certi, possono, allo stato delle indagini, indicare un’attendibile chiave di lettura ed offrire un utile quadro di riferimento tanto agli investigatori impegnati nella identificazione degli autori dei delitti, quanto alle Autorità preposte alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.

In tale ottica non si può prescindere da una sintetica rilettura delle vantazioni espresse dalla Direzione Investigativa Antimafia all’indomani delle stragi di Capaci, di Via D’Amelio e di Via Fauro.

Nel preciso convincimento che i fatti criminali di oggi trovino il loro logico presupposto nei luttuosi eventi verificatisi in Sicilia nella primavera del ’92, questa Direzione ritiene che la metodologia da seguire nel corso dell’analisi debba essere quella di un riesame, il più possibile completo, di tutti i gravi delitti che hanno insanguinato il nostro paese negli ultimi tredici mesi, alla ricerca non solo delle analogie che li colleghino tra loro, ma anche dì altri episodi e circostanze che non siano ancora apparsi direttamente interconnessi ovvero che siano sfuggiti fino ad oggi ad una organica e contestuale lettura.

2. La strage di Capaci e l’omicidio di Salvo Lima non possono non essere interpretati come due momenti significativi di una strategia di difesa di “cosa nostra”, elaborata in un momento in cui la stessa sopravvivenza dell’organizzazione era stata compromessa dalla definitività della sentenza di condanna del maxi-processo, dal crescente peso assunto dai collaboratori di giustizia, dalla sempre, più efficace risposta investigativa e dalla costante determinazione mostrata da Governo e Parlamento nel garantire l’esecuzione delle pene detentive con adeguato rigore.

Tale stato di cose ha obbligato l’organizzazione a riaffermare il proprio potere anche con reazioni violente, evitando, nel contempo, disgregazioni interne e fughe destabilizzanti.

In particolare, con l’omicidio Lima, prima tappa di un disegno criminoso di cui si conosce il momento iniziale ma non l’esito finale, “cosa nostra” ha abbandonato i vecchi legami con quei settori del mondo politico che avevano deluso le sue aspettative ed iniziato, forse, a ricercare nuovi interlocutori con i quali stabilire intese e stringere alleanze.

Con la strage di Capaci ha inoltre inteso colpire l’immagine del Giudice Falcone, ferma guida e stabile riferimento delle forze impegnate nella lotta alla mafia, nel momento in cui si prospettava, per il magistrato, la possibilità di essere nominato Procuratore Nazionale Antimafia e di costituire, quindi, un’ulteriore gravissima minaccia sia per la mafia, sia per quanti, a vario titolo, fossero ad essa collegati.

3. Già subito dopo la strage di Via D’Amelio la D.I.A. aveva prospettato l’ipotesi che “cosa nostra”fosse divenuta compartecipe di un progetto disegnato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato. Progetto inteso non già come programma definito nei particolari, bensì come disegno di massima da sviluppare nel tempo, valutando attentamente l’impatto di ciascun passaggio all’interno dell’organizzazione e sull’opinione pubblica nonché la probabilità di effetti di ritorno dannosi. Proprio a ridosso dell’eccidio di via D’Amelio, infatti, si aveva modo di rilevare che l’assenza di un’effettiva necessità nell’esecuzione del delitto ed una cadenza temporale troppo ravvicinata alla precedente strage, non giustificata da particolare urgenza, costituivano elementi sicuramente estranei al comportamento mafioso tradizionale, abituato a calibrare con attenzione le proprie azioni delittuose.

L’omicidio del Giudice Borsellino e della sua scorta, pur essendo stato consumato in un contesto operativo riconducibile all’azione della mafia, tradiva ad una attenta lettura l’intenzione dei mandanti di perseguire obiettivi che andavano al di là degli interessi esclusivi di “cosa nostra“.

Non essendo ipotizzabile che gli ideatori della strage non avessero previsto una forte reazione dello Stato da cui sarebbero derivati pesanti effetti per tutti gli affiliati, era da ritenere che il sacrificio fosse stato accettato in vista del conseguimento di obiettivi più remunerativi seppure distanziati nel tempo. Fu proprio a margine dell’attentato di Via D’Amelio che la D.I.A. prospettò, per la prima volta, in modo esplicito l’ipotesi che stesse maturando all’interno di “cosa nostra” e degli altri poteri ad essa collegati una vera e propria scelta stragista dai contorni indefiniti, ma chiaramente proiettata verso uno scontro frontale e violento con le Istituzioni.

4. Tra la strage di Via D’Amelio e quella di Via Fauro, che segna l’inizio di una nuova fase della strategia terroristica della mafia, intercorrono circa dieci mesi costellati da avvenimenti importanti e da numerosi segnali premonitori. Il primo episodio degno di nota si verifica a Palermo nel mese di settembre dello scorso anno, allorché viene ucciso con modalità operative analoghe a quelle del delitto Lima, il mafioso Ignazio Salvo. Non sono del tutto note ancora le motivazioni dell’omicidio. E’ possibile che esse fossero riconducibili a comuni regolamenti di conti tra mafiosi, ma è forse più probabile che, stante lo stretto collegamento tra Ignazio Salvo e l’onorevole Lima lo sua eliminazione possa avere avuto una correlazione con il delitto in danno del parlamentare europeo.

Nel successivo mese di novembre lo D.I.A. ha presentato al Procuratore Nazionale Antimafia una proposta per l’applicazione della misura del soggiorno cautelare nei confronti di 26 sospetti mafiosi. In quella sede, sulla scorta di dati acquisiti dal magistrato nella fase delle indagini preliminari dai quali si presagiva la realizzazione di attentati effettuati con modalità tali che inducessero ad attribuirli ad organizzazioni eversive e sulla scorta dì altre numerose e concordanti notizie fiduciarie, che segnalavano un pericoloso riarmo di “cosa nostra” e l’inizio di una serie di attentati contro aeromobili e strutture aeroportuali, veniva espressa la convinzione che la mafia si stesse preparando a porre in essere azioni criminali di devastante portata. All’inizio di quest’anno, in data successiva all’arresto di Riina, questa Direzione accertava l’esistenza di un programma di attentati contro rappresentanti delle istituzioni.

L’immediato intervento, con l’arresto di Nino Gioé e dei suoi complici, sortiva probabilmente l’effetto di impedirne la realizzazione e contribuiva verosimilmente a prolungare il periodo di silenzio, che aveva termine con l’attentato di Via Fauro in Roma. Ultimo dato di rilievo: i continui sequestri di armi operati dalle Forze dell’Ordine e le risultanze di concomitanti investigazioni, alcune delle quali ancora in corso, evidenziavano la crescente disponibilità da parte della criminalità organizzata di tipo mafioso di armamento pesante e di ingenti quantitativi di esplosivo provenienti in parte dai paesi dell’est Europa. In particolare si raccoglievano notizie, in corso di verifica, relative ad accumuli di ordigni da guerra in Calabria, in quantità certamente eccessive per la conduzione di una guerra di mafia. In proposito è appena il caso di ricordare che “cosa nostra” ha da tempo stretto legami con la ‘ndrangheta attraverso una formale affiliazione di alcuni suoi componenti. Detti legami di cui hanno ampiamente parlato diversi collaboratori di giustizia, sono stati ben evidenziati nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Reggio Calabria contro mandanti ed esecutori dell’omicidio del Giudice Scopelliti, identificati nei vertici della commissione provinciale di “cosa nostra” palermitana.

5. Ancora prima della cattura di Salvatore Riina ed esattamente nel mese di dicembre ’92, altre indicazioni utili erano venute da Tommaso Buscetta, nel corso di un’intervista rilasciata al direttore del quotidiano “La Repubblica”. Il noto collaboratore aveva, in tempi non sospetti, previsto un’orchestrata campagna di disinformazione, gestita da “cosa nostra” e da settori del mondo politico e della stampa, finalizzata a screditare il ruolo dei pentiti. Egli fondava le sue asserzioni su una diretta conoscenza dei meccanismi di “cosa nostra” e della mentalità dei corleonesi in particolare. Buscetta aveva avvertito che fino a quando detta campagna fosse stata in corso, gli attentati sarebbero stati sospesi per ricominciare poi successivamente. La ripresa della strategia stragista, secondo il pentito, sarebbe stata improntata alle metodologie proprie dei narcotrafficanti colombiani, con l’utilizzo di bombe contro innocenti e con l’attuazione di attentati contro alte cariche dello Stato.

Le previsioni del collaboratore trovano un primo ed immediato riscontro nelle dichiarazioni rese, anche in ambito processuale, da Salvatore Riina, il quale dal momento del suo arresto, inizia a lanciare messaggi delegittimanti e carichi di disprezzo nei confronti dei collaboratori di giustizia, il cui numero, intanto, andava moltiplicandosi con effetti estremamente dannosi per la struttura stessa delle cosche.

L’azione di Riina non è soltanto l’iniziativa isolata di un uomo sconfitto, bensì un preciso momento di una campagna di disinformazione più generalizzata e tendente a colpire a fondo la credibilità delle testimonianze dei pentiti ed a insinuare dubbi sulla correttezza di inquirenti e investigatori che li “gestiscono “.

Da questo clima torbido traggono origine alcune notizie assolutamente prive di fondamento pubblicate da determinati organi di stampa. Un concreto esempio è dato dall’apodittica, quanto falsa notizia secondo la quale il noto finanziere svizzero Jurgen Heer, già responsabile del settore crediti della Rothschild Bank di Zurigo e apparentemente al corrente di numerosi segreti del mondo finanziario e politico italiano (dal caso Calvi alla P2) fosse custodito dalla D.I.A., provocatoriamente definita “servizio segreto antimafia”, in una località segreta e all’insaputa dell’Autorità Giudiziaria.

Chi di tale campagna di delegittimazione si è fatta scientemente artefice e portavoce è stata in particolare l’agenzia giornalistica “Repubblica”. Detto semisconosciuto organo di stampa è giunto addirittura ad ipotizzare resistenza di una congiura internazionale ordita dalla D.I.A. e dall’U.S. Marshall Service, organismo deputato alla protezione dei testimoni negli Stati Uniti, avente lo scopo di manovrare i pentiti di mafia per fini destabilizzanti.

Secondo la prefata agenzia, la D.l.A. avrebbe esercitato la sua attività istituzionale violando apertamente con continui abusi giudiziari i diritti civili degli indagati in spregio delle norme garantiste del codice di procedura penale ed in ciò spalleggiata dai “tribunali speciali”, individuati nel sistema delle Procure Distrettuali e della Procura Nazionale antimafia. Il ricorrente richiamo strumentale al garantismo, la continua aggressione ai pentiti, il sistematico attacco contro gli organismi investigativi ed in particolare nei confronti della DIA, costituiscono il filo conduttore delle notizie pubblicate per alcuni mesi dall’agenzia “Repubblica”. Il ragionamento da quest’ultima seguito culmina con l’affermazione che la tesi sostenuta in sedi istituzionali dal direttore della D.I.A., circa la matrice mafiosa degli attentati stragisti, sarebbe stata formulata allo scopo di occultare i veri mandanti da identificare invece nei fondamentalisti islamici. Per meglio delineare il contesto cui si fa riferimento pare doveroso fare cenno ad alcune notizie apprese in via riservata, secondo le quali l’agenzia giornalistica in questione, intorno a cui gravitano personaggi già legati a Mino Pecorelli, ha come referente privilegiato il gruppo politico dell’On.le Vittorio Sbardella e come direttore Landò Dell’Amico, già legionario della Decima M.A.S. di Junio Valerio Borghese e successivamente iscritto al MS.I, al P.C.I. e al P. S. D.I. , ove ha messo a disposizione di tutti la sua professionalità di giornalista, non trascurando di esercitare, come sommessamente si mormora fra gli addetti ai lavori, anche l’attività di collaboratore del S.I.D. Gestore di case da gioco clandestine, ha collezionato anche un arresto per truffa ed uno per reati contro la persona.

E’ da rimarcare che la sequenza di azioni delegittimanti, che non trascurano di colpire direttamente anche il suo Direttore, venga attuata nello stesso periodo di tempo in cui alla D.I.A. è affidata dalle competenti Autorità Giudiziarie la conduzione di una serie di indagini estremamente delicate. La campagna di disinformazione non si limita a questa sorta di “comunicazioni interne” note

per lo più soltanto a pochi addetti ai lavori, ma prosegue oltre con la manipolazione delle notizie riguardanti il processo contro i fratelli Gambino, che si è celebrato a New York nella scorsa primavera.

Detto processo si è concluso senza alcun verdetto poiché la giuria non è stata in grado di raggiungere l’unanimità prescritta dalla legge americana, in quanto uno dei dodici giurati non aveva condiviso il giudizio di colpevolezza maturato dagli altri undici membri del collegio.

Ebbene, questa circostanza, peraltro ora soggetta a verifiche da parte dell’F.B.I. che sospetta un caso di corruzione, così come verificatosi in passato per analoghi processi di mafia, è stata falsamente presentata da una parte dei mass media italiani come un conclusivo giudizio di inattendibilità formulato dalla giustizia statunitense sui pentiti Buscetta, Mutolo e Marino Mannoia. Per tutta risposta sia i giudici americani, sia la rappresentanza diplomatica statunitense in Italia sono intervenuti con dichiarazioni dirette a ristabilire la verità.

Ciò nonostante l’azione delegittimante nel confronti dei collaboratori della giustizia, ripresa ed amplificata da organi di stampa e reti televisive, ha inizialmente raggiunto il suo scopo, creando disorientamento e confusione non solo nella pubblica opinione, ma addirittura anche all’interno della vita politico-parlamentare.

A conferma di ciò si potrebbero citare numerosi episodi, basti per tutti il caso dell’esposto presentato alla Procura della Repubblica di Roma, nello scorso aprile, dai capigruppo parlamentari democristiani per denunciare una presunta cospirazione che sarebbe stata posta in essere attraverso un uso illegittimo e strumentale delle dichiarazioni testimonia/i dei collaboratori di giustizia.

6. Alle previsioni dell’epoca, fatte da Buscetta, seguono più di recente le dichiarazioni del collaboratore Annacondia, il quale, a suo dire, sin dalla fine del ’92 avrebbe avuto modo di ascoltare, in ambito carcerario, progetti stragisti ventilati da appartenenti a “cosa nostra” e ad altre organizzazioni criminali.

E’ a tale proposito che deve essere sottolineata l’importanza assunta dal trasferimento dei boss in particolari istituti di pena, in attuazione dell’art 41 bis in virtù del quale è stato attribuito al Ministro di Grazia e Giustizia il potere di sospendere l’applicazione, per gli autori dei delitti più gravi, di alcuni benefici inerenti al trattamento penitenziario,[…]. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado di indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa. Precisi segnali provengono dall’ambiente carcerario dove è stato registrato, nel corso di recenti colloqui investigativi, un clima di crescente insofferenza verso misure restrittive sopportate con estrema difficoltà dai detenuti che ne evidenziano in ogni occasione i riflessi negativi soprattutto sui rapporti con i familiari. Anche da informazioni fiduciarie raccolte nelle carceri siciliane nelle scorse settimane si è appreso che tra i detenuti appartenenti a “cosa nostra”, specialmente di livello medio, serpeggia un diffuso malumore per il fatto di non essere più adeguatamente protetti dai vertici dell’organizzazione.

[…] La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ed il sostanziale fallimento della campagna di delegittimazione dei collaboratori di giustizia, hanno sicuramente concorso, insieme ad altri fattori, alla ripresa della stagione degli attentati. Non può non evidenziarsi che l’applicazione di una normativa estremamente rigorosa, si ricordi in proposito anche la funzione svolta dall’Art.4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario che ha denegato ai mafiosi non pentiti la possibilità di fruire dei permessi premio, delle misure alternative alla detenzione e dell’assegnazione al lavoro esterno, ha sortito nei primi dodici mesi ulteriori effetti dannosi per l’organizzazione, avendo contribuito in modo efficace a far maturare in ben tredici detenuti, sottoposti a trattamento speciale, la scelta di collaborare con la giustizia.

Partendo da tali premesse è chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla “stagione delle bombe”.

7. Dopo Via Fauro gli attentati hanno assunto le caratteristiche di avvertimenti e di intimidazioni. Le bombe, seminando vittime spesso impreviste, lanciano un segnale di grande capacità distruttiva e di efficienza organizzativa, i cui effetti appaiono volutamente circoscritti. E’ come se gli ispiratori di tale strategia avessero ritenuto di poter raggiungere i propri scopi limitandosi, in un primo momento, a fare sfoggio della propria forza e sottintendendo, al contempo, la minaccia di azioni più devastanti e sanguinose. Da Via Fauro in poi tutti gli attentati vengono eseguiti al di fuori della Sicilia e sono caratterizzati soprattutto dall’intento di suscitare il massimo clamore possibile e di creare sconcerto e disorientamento tra la gente. Scopo evidente è quello di far cadere il consenso sociale verso l’azione repressiva dello Stato contro la mafia e indurre l’opinione pubblica a ritenere troppo elevato, in termini di rischio di vite umane, il contrasto alla criminalità organizzata. Siffatta strategia è senz’altro idonea ad insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che, in fondo, potrebbe essere più conveniente abbandonare una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di “cosa nostra” a condizioni in qualche modo più accettabili da parte dei mafiosi. Un significativo precedente lo troviamo in un recente passato in Colombia, dove le continue stragi poste in essere dai trafficanti di droga costrinsero lo Stato a trattare e il Governo a modificare la legge che consentiva l’estradizione dei trafficanti negli US.A.

[…]

8. Successivamente agli attentati di Via Fauro e Via dei Georgofili sono giunti dall’interno di “cosa nostra” alcuni segnali, apparentemente slegati tra loro, che è importante riuscire a decifrare poiché si tratta di avvenimenti in qualche misura verosimilmente riconducibili al tema degli attentati e riferibili a personaggi che si ritiene possano essere inseriti nel ristretto gruppo che ha ideato e realizzato il piano stragista.

Ci si riferisce alla richiesta di Giuseppe Calò di essere ascoltato dalla Commissione Parlamentare sulle stragi, alla costituzione di Salvatore Cancemi ed al suicidio di Antonino Gioè.

Tre fatti atipici che hanno avuto tra i protagonisti i massimi esponenti della famiglia di Porta Nuova, in particolare Pippo Calò, uomo della cupola di “cosa nostra”, al centro di alcune delle vicende giudiziarie di maggior rilievo della storta recente del nostro paese: dall’affare Calvi al rapido 904. Le risultanze processuali hanno portato alla luce i suoi molteplici collegamenti con realtà criminali diverse, da quella eversiva a quella collegata al mondo affaristico internazionale. Nomi come quello di Danilo Abbruciati, dell’intera banda della Magliana, di Flavio Carboni e Francesco Pazienza si affiancano al suo in intrecci non ancora completamente chiariti in cui compaiono anche la massoneria e la criminalità organizzata napoletana.

Il primo a muoversi è proprio Pippo Calò, colui che si è sempre rifiutato di parlare con poliziotti e magistrati, che chiede di essere ascoltato dalla Commissione stragi e non, come sarebbe stato forse più logico attendersi, dalla Commissione antimafia. E’ assai probabile che il boss abbia bisogno di una cassa di risonanza attraverso la quale lanciare messaggi e avvertimenti, in linea con lo stile mafioso, senza essere costretto ad accettare un vero e proprio contraddittorio. La richiesta di audizione potrebbe sottintendere resistenza di un fermento o di contrasti all’interno del vertice della mafia, ma non si può parimenti escludere che qualcuno abbia suggerito tale iniziativa al Calò, dandogli altresì indicazioni sulle cose da dire nella sede prescelta per il suo show.

Pochi giorni prima degli attentati di Roma e Milano Salvatore Cancemi, esponente di spicco della stessa famiglia di Porta Nuova, prende a sua volta una iniziativa senza precedenti: pur essendo libero ed in grado di fronteggiare eventuali pericoli, decide di costituirsi alla polizia denunciando timori per la propria incolumità.

Cancemi non solo sceglie di non difendersi sul campo, ma addirittura, dopo essersi fatto arrestare, offre la propria disponibilità a collaborare e sin dalle prime dichiarazioni fa riferimento all’esistenza dì un profondo contrasto tra una mafia stragista ed un’altra, invece, pacifista e quasi rassegnata. Ultimo segnale, ma non meno importante, è il suicidio di Gioè pochi giorni dopo gli attentati. Il suo gesto non certamente abituale nella cultura degli uomini d’onore è chiaramente da ricollegare alle conversazioni carpitegli dagli investigatori attraverso intercettazioni ambientali, in cui egli ed i suoi complici facevano riferimento ad attentati eseguiti o in progettazione. Sul punto sono in corso approfonditi accertamenti che potranno fornire una valida e completa interpretazione del fatto. Premeva ora sottolineare soltanto l’anomalia dell’episodio, sintomo evidente di una situazione di malessere all’interno dell’organizzazione criminale.

9. Passando ora ad un esame dei delitti nella loro dinamica esecutiva, si evidenzia l’esistenza di un legame progettuale tra tutti gli attentati anche e soprattutto dalle analogie riscontrabili nel modus operandi. Il costante utilizzo di autobombe, l’impiego di rilevanti quantità di esplosivi dello stesso tipo, l’individuazione di luoghi ed orari tali da procurare il massimo della risonanza senza provocare necessariamente vittime, sono tutti elementi certi di analogia tra i fatti in esame.

Da non sottovalutare, tra l’altro, la scelta dei tempi di esecuzione che appare legata ad una concreta possibilità per i mass inedia, e in particolare per le reti televisive, di intervenire con assoluta tempestività, amplificando e drammatizzando gli effetti delle esplosioni con le riprese in diretta. Ancora un elemento comune è dato dall’assenza di rivendicazioni credibili. Una metodologia omogenea si riscontra anche nei furti delle autovetture impiegate, commessi tutti da un massimo di tre giorni ad un minimo di un giorno prima delle esplosioni. Da ciò una netta sensazione che la decisione di agire sia stata presa di volta in volta in concomitanza, forse, con fatti e circostanze esterne, che allo stato non è dato conoscere.

Ulteriore comune caratteristica si ritrova dalla strage di Via dei Georgofili in poi, laddove ci sitrova di fronte ad episodi in cui manca un obiettivo predeterminato, ma emerge con assoluta chiarezza la volontà di infondere un terrore generalizzato senza tuttavia causare preventivati danni alle persone. La collocazione degli ordigni è in tal senso sintomatica: punti situati in zone centrali di importanti città, nei pressi di luoghi molto frequentati nelle ore delle esplosioni, ma tali da non coinvolgere, se non casualmente, vittime innocenti.

Deflagrazioni, pertanto, di particolare violenza e obiettivi prescelti solo sulla base dei parametri anzidetti e non per il significato intrinseco degli stessi. Se così non fosse non si spiegherebbe la casualità delle vittime di Firenze, la cui presenza sul luogo era pressoché sconosciuta a tutti, né la collocazione dell’ordigno in Via Palestro a Milano, località con le caratteristiche volute dagli attentatori, ma profondamente differente da quelle colpite a Roma nella stessa notte e nel contesto di un unico disegno criminoso.

10. Sul piano militare il numero degli attentati, la loro distribuzione sul territorio e le modalità operative ci forniscono il quadro della forza di chi ha agito. Si tratta di elementi che conoscono le città in cui hanno operato e dove possono contare anche su di un supporto logistico, sufficientemente numerosi per attuare rapidamente una serie di attività preparatorie ed esecutive di complessa realizzazione. Emblematico il caso di Firenze in cui, dai momento del furto dell’autovettura utilizzata come autobomba a quello della deflagrazione, sono trascorse poco più di quattro ore.

In questo caso in un lasso di tempo cosi breve è stato possibile: trafugare almeno due autovetture, una da trasformare in autobomba ed una da utilizzare per allontanarsi dal luogo dell’attentato; disporre di un luogo sicuro ove nascondere le auto rubate e caricare l’ingente quantitativo di esplosivo già trasportato sul posto ed occultato; attraversare la città, per recarsi sul luogo dell’attentato con l’autovettura preparata per l’esplosione; attivare il congegno di innesco e fuggire indisturbati.

Anche negli altri casi ci si trova di fronte a gruppi operativi affiatati e, nel caso degli ultimi episodi, anche ben collegati tra loro ed in grado di agire con sostanziale simultaneità in città diverse.

Appare evidente, anche nella fase esecutiva, l’omogeneità degli attentatori e il contesto unitario delle loro azioni.

In assenza di notizie o segnali sull’esistenza di organizzazioni eversive allo stato capaci di agire a tali livelli di operatività è d’obbligo l’immediato riferimento a “cosa nostra”, unica organizzazione criminale che risulta poter disporre di una struttura dislocata in numerose regioni italiane, di un adeguato controllo del territorio, di collegamenti con la criminalità comune e con frange di quella eversiva, nonché di strumenti idonei per la realizzazione del progetto stragista.

Tralasciando, per ora, le connessioni e le saldature con camorra napoletana e ‘ndrangheta calabrese e riferendoci al centro-nord d’Italia esaminiamo alcuni fatti a sostegno di quanto affermato.

Le conclusioni del processo relativo alla strage del rapido 904, la sentenza di rinvio a giudizio pronunciata dal Giudice Istruttore di Venezia sulla “mafia del Brenta “, gli esiti delle numerose indagini condotte a Milano hanno permesso di stabilire che “cosa nostra”: per mezzo di suoi rappresentanti di rilievo, ha assunto un ruolo di preminenza nell’ambito della criminalità locale a Roma, Firenze, Milano e sull’asse Padova-Venezia; a Roma dispone di una parte della malavita locale che si identifica nella banda della Magliana e di contatti con appartenenti all’eversione di estrema destra; a Firenze e in Toscana di gruppi di estrazione siciliana e napoletana insediatisi da tempo e confluiti poi sotto la sua direzione; a

Milano, che ha ospitato personaggi del calibro di Luciano Liggìo, dei fratelli Fidanzati, dei Bono, dei Ciulla, dei Cardio, ancora oggi dispone di una parte della malavita organizzata catanese e calabrese, con un preciso riferimento ai vertici corleonesi.

E’ un quadro di riferimento chiaro di come “cosa nostra” abbia ampie possibilità di operare nelle città colpite dagli attentati, anche utilizzando risorse criminali del posto.

11. Lo scenario criminale delineato sullo sfondo di questi attentati ha messo in evidenza da un lato l’interesse alla loro esecuzione da parte della mafia e dall’altro la certezza della presenza operativa di “cosa nostra”.

Ha altresì lasciato intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze specifiche dell’organizzazione mafiosa.

Le sottili valutazioni sugli effetti di una campagna terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non appaiono essere semplice frutto della mente di un criminale comune: si riconosce in queste operazioni dì analisi e valutazione una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali.

Si potrebbe a tal punto pensare ad una aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergano finalità diverse.

Un gruppo che, in mancanza di una base costituita da autentici rivoluzionari (come, ad esempio, hanno avuto le Brigate Rosse), si affida all’apporto operativo della criminalità organizzata.

Non si tratterebbe, quindi, di una organizzazione di tipo verticistico in cui i componenti sono legati da una ideologia, da un unico progetto politico o da una disciplina dì gruppo.

Gli esempi di organismi nati da commistioni tra mafia, eversione di destra, finanzieri d’assalto, funzionari dello Stato infedeli e pubblici amministratori corrotti non mancano.

Non è da oggi che “cosa nostra”, sodalizio dalle connotazioni anche eversive, mantiene collegamenti con altre organizzazioni al fine di supportare ipotesi golpiste o azioni stragiste.

In passato sono stati accertati suoi rapporti con ambienti dell’eversione di destra: valga per tutti l’esempio, ormai giudiziariamente provato, del golpe Borghese.

Recenti indagini condotte in Calabria pongono in evidenza l’esistenza di collegamenti fra Franco Freda, all’epoca latitante, ed elementi di spicco della ‘ndragheta reggina, strettamente legati a “cosa nostra, come si evince dalla richiesta di autorizzazione a procedere contro l’On.le Romeo.

Da ultimo vi è il riscontro offerto dall’esito del procedimento penale sull’attentato al treno rapido 904 del 23.12.1984, che ha consentito di condannare affiliati a “cosa nostra” che operarono in collusione con elementi della malavita napoletana e personaggi legati a gruppi estremisti di destra. Per quanto riguarda il coinvolgimento di ambienti diversi dalla criminalità organizzata, comune ed eversiva, ci sono prove di collusioni con ambienti massonici a rischio.

Recenti indagini hanno evidenziato la presenza di uomini di “cosa nostra” nelle logge palermitane e trapanesi, senza dimenticare il ruolo chiave svolto alla fine degli anni ’70 da Michele Sindona nei contatti tra gli ispira tori di progetti golpisti ed elementi di spicco della mafia siciliana. Emerge tra tutti il caso di Stefano Bontate, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù e teorico, in seno a “cosa nostra “, dell’importanza dell’adesione di uomini d’onore alla massoneria. L’ottica del Bontate, così come testimoniato da Marino Mannoia nelle aule dei tribunali statunitensi, era quella dell’allargamento delle strategie criminali della mafia e del suo inserimento in dinamiche operative di più ampio respiro. Sulla base di tali conoscenze, tenuto conto delle severe misure normative introdotte nel nostro ordinamento e della ferma azione condotta dalla Magistratura e dalle Forze dell’Ordine contro il crimine, non si possono non rilevare le gravi ed oggettive difficoltà in cui, a vario titolo, sono venute a trovarsi diverse lobbies criminali che cominciano a temere per la loro stessa sopravvivenza.

Verosimilmente la situazione di sofferenza in cui versa “cosa nostra” e la sua disperata ricerca di una sorta di “soluzione politica”, potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un “pactum ” attraverso l’elaborazione di un progetto che tende ad intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme di impunità ovvero, fatto ancor più grave, ad innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo o comunque per garantirsi uno spazio di sopravvivenza.

Sia pure nella sua gravita e pericolosità il fenomeno è ancora oggi circoscrivibile e attaccabile, a condizione che l’attività investigativa prosegua con altrettanta efficacia e che continui con estrema determinazione l’azione di contrasto sin qui intrapresa”.

Come si vede, si tratta di un documento che si distingue per profondità, accuratezza e capacità di intuizione dell’analisi e nel quale, per la seconda volta (dopo la conferenza stampa del Gen. Cancellieri: v. sopra Capitolo 7), si torna a parlare apertamente di “trattativa” tra “cosa nostra” e lo Stato.

[…]  L’analisi della D.I.A., quindi, ancora individua nel regime di rigore carcerario e nella necessità dell’organizzazione “cosa nostra” di intervenire sullo stesso per garantire la sua stessa sopravvivenza, l’origine della nuova ondata di attentati diretti a “indurre le Istituzioni ad una tacita trattativa” […].

Ed è bene qui ricordare come nel momento in cui la D.I.A. effettuava quell’analisi (1993), ben lontane erano ancora le conoscenze sulla “trattativa” che soltanto dopo anni (nel 1997-98) sarebbero emerse prima con i memoriali Mori e poi con le testimonianze pubbliche dello stesso Mori e di De Donno […].

All’oscuro di ciò, ma anche dell’apertura del D.A.P. col documento programmatico del 26 giugno 1993 che ancora non aveva prodotto effetti avendo il Ministro prorogato i primi decreti del 41 bis […], la D.I.A. non può, comunque – ed ovviamente -, che ribadire la necessità di non cedere al

ricatto mafioso […], ricordando, peraltro, un grave e non certo edificante precedente di “trattativa”, quello che aveva indotto il Governo colombiano a modificare una legge su pressione dei trafficanti di droga […].

Ancora con grande intuito investigativo, la D.I.A. segnala due elementi […] di estrema rilevanza ai fini della comprensione dei fatti e delle conseguenze che ne deriveranno, la presentazione spontanea alle Forze dell’Ordine di un soggetto di spicco dell’organizzazione mafiosa, Salvatore Cancemi, e la riferita (da quest’ultimo) spaccatura all’interno di “cosa nostra” tra una componente “stragista” ed una “pacifista” in quel momento soccombente […].

La D.I.A., quindi, non ha dubbi sulla riconducibilità a “cosa nostra” degli attentati di Firenze, Milano e Roma […]. Come si vede, nell’analisi della D.I.A. v’è già l’intelligente lettura degli accadimenti di quel biennio e l’aderente individuazione dell’origine di essi (il “maxi processo”, l’omicidio Lima, la strage di Capaci), della svolta apparentemente anomala in qualche modo impressa dalla strage di via D’Amelio, della causa di quelli più recenti (la sollecitazione della “trattativa”) e della finalità perseguita (l’attenuazione del rigore carcerario che minava il potere dell’organizzazione mafiosa).

E, poi, v’è anche, per la prima volta, l’evidenziazione di una possibile sp