- Audio deposizioni ai processi
- Deposizione al Borsellino quater (1)
- Deposizione al Borsellino quater (2)
- Deposizione al Borsellino quater (3)
- Lettera aperta a un parroco
Pietro Aglieri nato a Palermo il 9 giugno 1959 legato a Cosa Nostra è ritenuto uno dei più spietati membri della fazione corleonese. Da giovane venne soprannominato “U signurinu“ a causa del lusso e dell’elevato costo degli abiti che amava indossare, oltre al fatto che era diplomato al liceo classico. Studiò in un seminario di Monreale e poco dopo prestò servizio militare come paracadutista della Brigata Folgore. Venne affiliato alla famiglia di Santa Maria di Gesù e, durante la seconda guerra di mafia, si legò ai Corleonesi insieme al suo capo Giovanni Bontate. Nel 1988 i Corleonesi incaricarono Aglieri di uccidere Bontate e lo premiarono nominandolo capo della famiglia di Santa Maria di Gesù ed anche capo mandamento della zona. Essendosi strettamente legato ai Corleonesi, Aglieri venne accusato di essere il mandante di numerosi omicidi (ad esempio il giudice Antonino Scopelliti ed il politico Salvo Lima). Per l’omicidio Scopelliti, Aglieri è stato poi assolto in Cassazione. Coinvolto anche nella strage di Capaci e in quella di via d’Amelio, venne arrestato a Bagheria il 6 giugno del 1997 e fu condannato all’ergastolo. Poco dopo la cattura sembrò disponibile a collaborare con la giustizia, ma alla fine rinunciò a questa opportunità.
AGLIERI: LETTERA APERTA DI UN PARROCO SICILIANO MONS. RIBAUDO, ‘SONO CONVINTO CHE LA TUA E’ VERA CONVERSIONE’ ”Caro Pietro, fratello nel Signore, sono profondamente convinto della tua conversione”. Dopo don Ignazio Aglieri, il cugino sacerdote del boss mafioso, anche un’altro prete palermitano scende in campo per attestare la buona fede del ravvedimento dell’artefice della strage di Capaci. In una lettera aperta consegnata stamattina alla madre di Pietro Aglieri, monsignor Giacomo Ribaudo afferma di ”non unirsi al coro di coloro che ti irridono perche’ hai pensato solamente ora. Intanto perche’ tutti sconosciamo il travaglio interiore che ti ha condotto a dichiarare che ti sei pentito davanti a Dio del male che hai commesso -si legge-. E poi perche’ qualsiasi conversione, sia pure sul letto di morte e anche se si fossero compiuti i piu’ efferati delitti, e’ sempre una testimonianza offerta alla causa del bene e al trionfo della giustizia”. Monsignor Ribaudo, inoltre, vuole ”congratularsi” con Pietro Aglieri perche’ con la sua ”testimonianza finalmente ha fatto comprendere in che cosa consiste il pentimento cristiano: cioe’ nel riconoscere il male compiuto agli occhi di Dio”. 19.6.1997Adnkronos
LA CAPPELLA PRIVATA Dopo aver fatto irruzione nel covo del boss Pietro Aglieri – importante esponente di Cosa Nostra, nonché uno dei mandanti per le stragi di Capaci e divia D’Amelio – le forze dell’ordine trovarono una piccola cappella privata: sei panche, un altarino con un grande crocifisso ligneo e due statue in gesso di Cristo e della Madonna.
QUELLE MESSE NEL COVO DI AGLIERI Nel covo di Pietro Aglieri alle porte di Bagheria arrivava almeno un paio di volte la settimana. Entrava da quel cancello di ferro arrugginito, saliva le scale fino alla stanza che sembrava una torretta, poi spariva per un paio d’ ore dentro la tana del latitante. E celebrava messa. Così un frate di Palermo portava la preghiera di Dio – e anche il suo personale “conforto” – a uno dei più pericolosi boss di Cosa Nostra. Il frate ha un nome (che gli investigatori tengono segreto per ragioni d’ indagine), si sa che ha una sessantina d’ anni, si sa anche che il suo convento è nel centro storico della città. Il monaco è già stato ascoltato dai poliziotti e forse anche dai magistrati, in alcune intercettazioni ambientali la sua voce pare che abbia diffuso frasi e commenti definiti – da chi li ha ascoltati – “decisamente poco evangelici”. E’ cominciata con il misterioso frate la seconda puntata della telenovela sulla crisi mistica di uno dei mafiosi più spietati e più ricchi (grazie ai suoi traffici con i Colombiani) della Sicilia. Dopo il ritrovamento di trecento testi sacri nel covo di Fondo Marino, dopo la scoperta della cappella con tanto di altare e panche per la preghiera in una stanza del suo rifugio, ecco che le “cimici” piazzate da qualche parte dagli investigatori della Squadra Mobile rivelano la presenza di un frate nella vita da ricercato di Pietro Aglieri. La divulgazione di questa notizia non ha fatto molto piacere agli investigatori e ai magistrati che, dopo la cattura del signurinu, da alcuni giorni sono sulle tracce degli uomini che per anni hanno protetto la sua latitanza. E’ stata quindi una microspia a svelare il frate amico-compagno-confessore di Pietro Aglieri. Un’ intercettazione captata nella casa di qualche fiancheggiatore, la voce e il nome del monaco, la ricerca, i primi interrogatori. E anche le prime sorprese.
Come la messa che il misterioso frate celebrava nel covo di Aglieri. Più che una cappella – dicono i poliziotti dopo aver portato là dentro un sacerdote per una “consulenza” – quella era una piccola chiesetta dove il boss avrebbe fatto, più volte, anche la comunione. Voci che si accavallano intorno al misticismo del mafioso, intorno alla sua “conversione”, intorno al suo pentimento interiore. Dell’ altro pentimento, per ora non se ne parla. Anzi. Indiscrezioni raccontano che Pietro Aglieri “vuole dimostrare la sua estraneità” alle stragi di Capaci e di via D’ Amelio. La “vicinanza” di questo boss a un frate riporta indietro il tempo, fa scoprire lontane contiguità tra i mafiosi della “famiglia” di Santa Maria del Gesù (di cui Aglieri è il capo) e certi monaci. Anche mezzo secolo fa, anche 20 anni fa, c’ era un rapporto stretto, strettissimo tra i boss di Santa Maria del Gesù e un frate diventato famoso. Si faceva chiamare Fra Giacinto, il suo vero nome era Stefano Castronovo. Era un francescano, aveva i capelli color argento e il fisico di un atleta. Una volta perquisirono il suo convento che era alle spalle di un cimitero, proprio quello di Santa Maria del Gesù: cercavano Luciano Liggio. Era un uomo diabolico Fra Giacinto: sotto il saio nascondeva una calibro 38. Era amico di don Paolino Bontate, poi diventò amico anche di suo figlio Stefano. Erano i capi mafia di Palermo prima di Pietro Aglieri. Nel suo convento – si sussurrava – ogni notte c’ erano “strani movimenti”. Si parlava di latitanti che si nascondevano nelle celle dei monaci. Si diceva pure che sotto il cimitero vero di Santa Maria del Gesù, ci fosse un cimitero di mafia: se mai avessero trovato qualche ossa o qualche cranio, nessuno si sarebbe potuto meravigliare… Tante “dicerie” su Fra Giacinto furono spazzate via il 6 settembre 1980. Si capì infatti che non erano dicerie…Entrarono in due al convento alle 8 del mattino, e chiesero del frate. Lo fecero secco mentre celebrava messa. Sotto il saio i poliziotti trovarono la sua pistola. Con il colpo in canna. Ai funerali del monaco non venne uno solo dei suoi amici mafiosi. Solo parenti da Favara, il suo paese d’ origine. E toccò al “provinciale” dei francescani l’ omelia in ricordo di Fra Giacinto. Così parlò quel giorno padre Timoteo: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. 19 giugno 1997 La Repubblica
Borsellino quater, parla Pietro Aglieri: “Non incaricammo Scarantino, non davo confidenza a gente simile “La Barbera era in malafede”. E’ la prima volta che il boss di Santa Maria di Gesù depone in un processo e ha negato di essere stato coinvolto nella strage in cuì morì il giudice e la sua scorte nel luglio 1992. Un altro boss: “Era una nullità”Pietro Aglieri “Conosco Scarantino. Era della mia stessa borgata, quella della Guadagna. Lo incontravo quasi giornalmente. Eravamo vicini di casa. Posso ribadire quanto già detto in precedenza: Scarantino non poteva essere investito da me di alcun incarico per commettere azioni rilevanti. Escludo che io nella mia posizione abbia dato confidenza a gente simile”. Comincia così la deposizione del boss Pietro Aglieri al processo Borsellino quater, in corso a Caltanissetta, che vede imputati della strage di via D’Amelio i capimafia Vittorio Tutino e Salvo Madonia e di calunnia aggravata i falsi pentiti Vincenzo Scarantino, Calogero Pulci e Francesco Andriotta. E’ la prima volta che Aglieri depone in un processo: il boss viene sentito come testimone assistito e non come imputato di procedimento connesso, quindi può solo parzialmente avvalersi della facoltà di non rispondere. Il dibattimento, che nasce dalle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza, sta facendo luce sul clamoroso depistaggio messo in essere da Scarantino e altri falsi collaboratori di giustizia costato l’ergastolo a 7 innocenti. “Non sono mai stato coinvolto nella strage di via D’Amelio nè direttamente, nè indirettamente. Mi accertai, dopo l’arresto di Scarantino, che lui non c’ entrasse nulla con il furto della 126 e mi venne escluso. Per questo ero tranquillo che non sarei stato tirato in mezzo all’ inchiesta. Cosa che poi invece accadde”. Nega di essere coinvolto nell’uccisione del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta il boss mafioso Pietro Aglieri che sta deponendo al processo Borsellino quater. “Quando arrestarono Scarantino – aggiunge – capii che qualcuno stava costruendo prove contro di me e i miei: per questo chiesi di accertare che Scarantino, che conoscevo in quanto viveva nella mia borgata, non era coinvolto nel furto della 126 (auto usata per la strage, ndr)”. Alla domanda se avesse mai parlato con Totò Riina delle accuse di coinvolgimento nell’eccidio rivolte a uomini del suo mandamento Aglieri ha risposto: “Certo non potevo andare da Riina a fare domande perchè avrei dato per scontato che lui sapeva qualcosa. Ma a me di questa strage nessuno mi aveva parlato, quindi come avrei potuto dare per presupposto che lui aveva informazioni?”. “Non ho mai pensato di dissociarmi o di collaborare con la giustizia. Ebbi un colloquio investigativo con l’allora procuratore nazionale Vigna. E gli dissi esplicitamente che non volevo nè collaborare nè dissociarmi. Allora lui mi chiese cosa si poteva fare per questa nostra terra e io risposi che non potevo prendere certe decisioni per gli altri e che casomai se c’era una possibilità era che ciascuno singolarmente dicesse ‘desisto dal continuare ad andare contro lo Stato e a delinquere’”. Precisa la sua posizione rispetto a Cosa nostra il boss Pietro Aglieri che, per la prima volta, sta rispondendo alle domande del pm in un processo. La testimonianza è in corso nell’ambito del cosiddetto Borsellino quater, processo in corso davanti alla corte d’assise di Caltanissetta. “Con Vigna – aggiunge – non si intavolò una trattativa. Io gli dissi che forse, come prevedeva la legge sul terrorismo, si poteva parlare di desistenza. La desistenza doveva servire a desistere dall’associazione, anche perchè siccome dopo il mio arresto ebbi un altro colloquio investigativo e mi dissero che nella zona di mia influenza le estorsioni erano aumentate, il mio principale interesse era quello di non associare il mio nome a queste nuove situazioni che contrastavano col mio modo di pensare. Chiunque avesse accettato la desistenza doveva anche cercare di fare opera di persuasione per evitare cose che andavano contro il popolo”. “Mai chiesi – spiega – che ci venisse tolto il 41 bis. Casomai parlai di applicazione dei benefici carcerari che valevano per i singoli detenuti”. “A un certo punto Scarantino lasciò la località protetta e tornò a casa. Io dissi che nessuno doveva toccarlo perchè era solo un povero diavolo che si era trovato in mezzo a una cosa più grossa di lui. Come si sia accusato di cose che non stavano nè in cielo nè in terra non lo so. I suoi familiari dissero che veniva sottoposto a pressioni fisiche e psichiche e chi c’è passato so a cosa mi riferisco”, ha precisato il boss durante il processo Borsellino. “Nonostante le pressioni lui resisteva – ha aggiunto – Pare che chi lo interrogava gli dicesse: ‘mentre sei qua tua moglie ti tradisce’. Credo sia stato questo il motivo che gli fece cambiare atteggiamento. Infatti la prima cosa che chiese fu di vedere i figli”. “Scarantino raccontò ai familiari – ha spiegato – che più di una volta era stato chiamato in carcere da gente in borghese che voleva indurlo a collaborare”. Il capomafia della Guadagna ha anche specificato che gli fu subito chiaro, dopo l’arresto di Scarantino, che le indagini “avevano preso una piega che faceva acqua da tutte le parti” e che l’allora capo della mobile di Palermo Arnaldo La Barbera “era in mala fede”. “Scarantino -ha affermato- era un ladruncolo e nel pomeriggio della strage si trovava in un albergo. Per noi era risaputo che l’arresto di Scarantino altro non era che un errore giudiziario e che prima o poi la verità sarebbe venuta fuori. Era evidente che qualcuno stesse costruendo delle prove contro di noi. Era scontato che Scarantino non fosse coinvolto. Essendo tuttavia un ladruncolo, poteva essere stato coinvolto nel furto di una 126 ma non sulla strage di via d’Amelio”. Fu proprio con l’arresto di Scarantino che iniziò un enorme depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Secondo Aglieri, “Scarantino inizialmente riuscì a resistere a tutte le torture fisiche e psichiche subite ma il suo punto debole era il suo essere molto legato alla moglie. Mi disse che in carcere fu contattato da persone in borghese per indurlo a collaborare e che firmò dei fogli in bianco”. A proposito dell’allora capo della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, che arrestò Scarantino e lo accusò della strage, Aglieri ha detto: “Mon riuscivamo a spiegarci perchè La Barbera e il suo pool avessero scelto questa linea che faceva acqua da tutte le parti. Era evidente -ha poi commentato- che fosse una persona in malafede”. In merito a una sua dissociazione da Cosa nostra, o come l’ha chiamata lui “desistenza”, Aglieri si è limitato a riferire di averla avviata insieme ad altri boss con l’allora procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna. “Non chiedevamo l’abolizione del 41 bis ma di ottenere solo qualche beneficio carcerario”, ha specificato. Sui suoi rapporti con Totò Riina, il boss ha preferito avvalersi della facoltà di non rispondere. “Vincenzo Scarantino era una nullità, era una persona inaffidabile. Si occupava di scippi, contrabbando di sigarette, furti e spacciava droga”. Così anche l’ex boss Carlo Greco, deponendo a Caltanissetta. Greco, rispondendo ad una domanda del pm Stefano Luciani, ha tenuto a precisare che -contrariamente alle voci circolate su di lui- non si è mai dissociato da Cosa nostra. “Mi interrogò l’allora procuratore nazionale antimafia, Pietro Vigna. Ero disponibile ad una desistenza ma il tema con Vigna in realtà non venne mai più approfondito. Questa è una storia che mi porto dentro da 18 anni. Sono contrario alla dissociazione perchè corrisponderebbe al ruolo di un pentito”, ha affermato Greco. L’ex boss ha sostenuto di non aver mai preso parte a nessuna delle riunione in cui furono decise le stragi del ’92. Il processo riprendera’ il 22 dicembre, quando sono citati a depore gli ex ufficiali dei Ros, Mario Mori e Giuseppe De Donno. 15 dicembre 2014 La Repubblica
Dentro i covi dei super boss: dalle camicie di seta di Bagarella al parco giochi di Liggio. E i Brusca guardavano il film su Falcone Pietro Aglieri
Il suo soprannome era un manifesto: «’U signurinu». In siciliano indica il rampollo di una famiglia nobile o ricca che ama vestire elegante e distinguersi dalla massa. Studiò al liceo in seminario a Monreale. Venne affiliato alla famiglia di Santa Maria di Gesù e, durante la seconda guerra di mafia, si legò ai corleonesi che lo misero a capo del clan in poco tempo facendo eliminare il precedente «padrino». In effetti di signorile questo boss di Bagheria ha avuto ben poco nella sua vita visto che è stato condannato all’ergastolo. Venne arrestato, dopo otto anni di latitanza, a Bagheria il 6 giugno del 1997: gli agenti della Squadra mobile di Palermo guidati da un formidabile cacciatore di latitanti come Luigi Savina, lo scovarono seguendo don Mario Frittitta. Il religioso, si scoprì, che raccoglieva le confessioni del boss si recava con frequenza per celebrarvi messa. Gli agenti, nel covo, trovarono centinaia di testi teologici e, soprattutto, una vera e propria cappella con tanto di altare e inginocchiatoio.
Nel covo non c’erano pistole ma centinaia di libri fra cui «I miei pensieri» di santa Teresa di Lisieux, «È magnifico essere uomini» di Kierkegaard, «Diario di un curato di campagna» di Bernanos, la biografia di santa Teresa d’Avila o testi della teologa Edith Stein («La scelta di Dio», «La mistica della croce», «Il mistero del Natale», «I sentieri della verità»), la suora carmelitana uccisa ad Auschwitz dai nazisti. Fra i volume c’era anche «Brace di sale» di don Giacomo Ribaudo che ha speso la sua vita per strappare anime ai mafiosi dalla sua parrocchia della Magione, stesso quartiere dove nacquero Falcone e Borsellino. I due si erano conosciuti in seminario a Palermo. Aglieri, una volta detenuto, chiese di iscriversi alla facoltà di Teologia di Palermo ma dall’arcivescovado la risposta fu secca: «la mafia e il vangelo sono inconciliabili. CORRIERE.IT