La lunga trattativa Stato mafia

Processo trattativa Stato-mafia

Il pomeriggio del 20 aprile 2018, la Corte di Assise di Palermo ha pronunciato la sentenza riguardo al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Condannati per minaccia aggravata a corpo politico dello Stato, artt. 338 e 339 C.p., i boss mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà rispettivamente a 28 e a 12 anni di reclusione. Marcello Dell’Utri, ex senatore di Forza Italia, Antonio Subranni e Mario Mori, ex vertici del ROS dei Carabinieri, condannati a 12 anni. L’ex colonnello dei CC Giuseppe De Donno a 8 anni. Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo già condannato per associazione mafiosa, a 8 anni per calunnia. L’ex ministro Mancino è stato assolto dall’imputazione di falsa testimonianza. È scattata la prescrizione per il pentito Giovanni Brusca.

Non luogo a procedere per Salvatore Riina e Bernardo Provenzano per morte dei rei.

Una sentenza di 5200 pagine che è davvero improbabile condensare in poche righe. Una sentenza scomoda per tanti personaggi di potere della politica. Sarà forse per questo che i nostri organi d’informazione evitano di parlarne o si limitano a qualche telegrafica informazione?

In buona sostanza il processo ha consentito di accertare incontestabilmente che tra il 1992 e il 1994 vi fu una trattativa tra organi istituzionali di alto livello e Cosa Nostra, al fine di addivenire a una sorta di pacifica convivenza e interrompere la stagione delle stragi, che era iniziata con Capaci (omicidio Falcone-cinque morti), era proseguita con Via D’Amelio (omicidio Borsellino-sei morti), poi, nel 1993 Via Fauro a Roma (tentato omicidio del giornalista Costanzo-ventiquattro feriti), Via dei Georgofili a Firenze (Torre dei Pulci-cinque morti e quaranta feriti), Via Palestro a Milano (Padiglione d’Arte Contemporanea-cinque morti e dodici feriti), Basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma (ventidue feriti). E per pura fortuna non si realizzò l’attentato più devastante allo stadio Olimpico di Roma del 23 gennaio 1994, che avrebbe dovuto sterminare un intero pullman di Carabinieri.

Il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia non ha inteso perseguire in se stesso l’accordo intervenuto tra le Istituzioni e l’organizzazione Cosa Nostra, non configurandosi in tale condotta alcuna ipotesi di reato, quanto la minaccia portata dalla mafia contro le Istituzioni, nella figura di alcuni componenti del Governo pro tempore, per esercitare su di loro un condizionamento psicologico, al fine di indurli ad assumere iniziative di natura legislativa che favorissero l’organizzazione. Ed è emerso che effettivamente la minaccia, portata avanti a mezzo degli esponenti dei Carabinieri, raggiunse il suo scopo, tant’è che comportò la sostituzione dei Ministri dell’Interno e della

Giustizia e i vertici del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) con persone più arrendevoli nella lotta contro la mafia. Ne è prova il mancato rinnovo di centinaia di provvedimenti di adozione del regime carcerario del 41bis (cosiddetto carcere duro) a carico di associati mafiosi. Che era il primo punto delle richieste formulate dal capomafia Totò Riina nel cosiddetto papello.

Ma, cosa ancora più grave, il processo ha consentito di accertare che al fine di costringere lo Stato a trattare, e mentre era in corso la trattativa, Cosa Nostra ritenne utile dimostrare sempre di più e con maggiore pervicacia la volontà stragista, affinché i destinatari si convincessero della determinazione che di essa era propria. <>, risulta aver confidato Totò Riina al compagno di socialità in carcere in una intercettazione ambientale.

La trattativa si interrompe nel 1994, con le elezioni politiche, allorché Cosa Nostra trova un definitivo interlocutore politico, che possa garantire un nuovo equilibrio al posto dei predecessori Salvo Lima, Vito Ciancimino Giulio Andreotti e altri, tramite Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri, nel nuovo partito, nel frattempo formatosi, di Forza Italia, nella persona del suo fondatore e capo Silvio Berlusconi. Personaggio peraltro già ben conosciuto e “collaudato” da Cosa Nostra per via di rapporti pregressi che risalivano agli anni settanta, avendola finanziata lautamente per circa un ventennio, come si è visto nel paragrafo a lui dedicato che precede. Anzi, in questo processo, emerge che addirittura il Berlusconi avrebbe continuato a pagare la tangente a lui imposta fin quando non furono stabiliti i patti di reciproca assistenza, cioè fino agli ultimi mesi del 1994, dunque anche nel ruolo di presidente del Consiglio dei Ministri, carica che questi aveva già assunto.

E c’è di più: nel processo emerge incontrovertibilmente che in sede di dibattimento davanti alla Corte d’Assise di Palermo i più reticenti e “smemorati” nelle dichiarazioni rese, al di là del millantatore e calunniatore Massimo Ciancimino, sono proprio i personaggi politici chiamati a testimoniare; nessuno di loro sapeva della intercorsa trattativa tra gli esponenti dei Carabinieri Subranni, Mori e De Donno e la controparte. Peraltro le poche ed oramai inevitabili ammissioni intervengono a distanza di circa vent’anni dai fatti, quando i politici vengono chiamati in causa da Massimo Ciancimino e dai pentiti.

E tra questi assumono un ruolo di rilievo due presidenti della Repubblica: Oscar Luigi Scalfaro, che è colui che promuove la sostituzione di Ministri e dei vertici del DAP con elementi più inclini alla trattativa per venire incontro ai desiderata dei vertici mafiosi; Giorgio Napolitano, che, pur di non presentarsi in un’aula giudiziaria, come si converrebbe tanto più per il primo cittadino di uno stato di diritto, si rivolge alla Corte Costituzionale per sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, ottenendo la distruzione delle registrazioni di conversazioni con il Ministro Mancino che aveva a lui chiesto l’intercessione per evitare l’imputazione, e promuove azioni disciplinari nei confronti dei Pubblici Ministeri che hanno osato chiederne l’audizione.

Questo processo non s’aveva da fare: secondo la politica (tutta) innanzitutto; secondo gli organi mediatici (quasi tutti); secondo l’opinione pubblica (in buona parte), artatamente male informata; secondo anche alcuni magistrati; e persino secondo alcuni quotati opinionisti ben addentro alle questioni di mafia: il giurista Giovanni Fiandaca e lo storico Salvatore Lupo. “Una boiata pazzesca”, “una caccia alle streghe”, “un teorema per incastrare poveri innocenti”, “un tentativo del mondo giudiziario di abbattere i pilastri della democrazia”, “magistrati arroganti, alla ricerca della prima pagina dei rotocalchi, che fanno sperperare il denaro pubblico”; sono solo alcune delle considerazioni espresse pubblicamente da rappresentanti delle aree suddette. E invece il processo si fa e riesce a dimostrare che proprio quando si è per transitare dalla Prima Repubblica, ormai in sfacelo con l’inchiesta di Tangentopoli, alla Seconda Repubblica, che i cittadini onesti auspicavano migliore della prima, ci si rende conto che l’esordio avviene all’insegna dell’immondo accordo con la mafia ed è bene accetta da questa che la tiene in pugno.

Silvio Berlusconi

Unitamente a Marcello Dell’Utri è indagato per le stragi di mafia del 1993, entrambi come possibili mandanti occulti degli attentati a Firenze, Roma e Milano. Il capo della Procura del capoluogo toscano, Giuseppe Creazzo, ha già ottenuto dal Gip la riapertura del fascicolo che era stato archiviato nel 2011. Sono stati così disposti nuovi accertamenti alla Direzione Investigativa Antimafia. Agli investigatori è stato chiesto di passare al setaccio le parole pronunciate in carcere dal boss Graviano, intercettato dai pubblici ministeri palermitani del processo sulla “trattativa Stato-mafia”, mentre parlava delle anzidette stragi con un compagno di cella nel carcere di Ascoli Piceno, forse – ma la circostanza è appunto da verificare – dell’ex Presidente del Consiglio e dell’ex senatore di Forza Italia.Aa In ogni caso risulta già accertato nel processo di Firenze che Berlusconi fu in stretti rapporti con Cosa Nostra del 1974 al 1992, per il tramite di Marcello Dell’Utri, suo socio in affari, e Vittorio Mangano, mafioso di rango, assunto ufficialmente nel ruolo di stalliere nella villa di Arcore, ma di fatto nel ruolo di protettore dell’intera famiglia di Berlusconi e, al contempo, intermediario con i vertici mafiosi. In quel periodo l’imprenditore Berlusconi pagava alla mafia una tangente di cinquecento milioni di lire l’anno, in due rate semestrali, perché venissero salvaguardati i suoi interessi imprenditoriali in Sicilia. Certo il processo potrà anche dimostrare l’estraneità del Berlusconi in ordine alle stragi del 1993 ma una cosa è però definitivamente divenuta incontestabile: egli ha pagato tangenti all’organizzazione Cosa Nostra per un ventennio e non solo nella veste di imprenditore ma anche, come più avanti si vedrà, fino ai primi mesi in cui ricopriva il ruolo di presidente del Consiglio. L’imposizione del “pizzo” ebbe a cessare quando, a mezzo di Mangano e Dell’Utri, Cosa Nostra preferì addivenire con lui a un accordo politico. Se è vero che un tale comportamento non configura alcuna ipotesi di reato è però sconcertante dover constatare che abbiamo avuto un più volte Presidente del Consiglio che ha, quanto meno, foraggiato la mafia. Nessun sussulto di dignità e di moralità, ancora comprensibile da parte propria conoscendo il personaggio, ma da parte dei colleghi di partito, che continuano a nutrirsi alla sua greppia, riconoscendone entusiasticamente il ruolo di capo. E neppure dagli avversari politici, che ancora preferiscono puntargli contro il dito per la vicenda delle “olgettine”, piuttosto che per i suoi trascorsi rapporti con la mafia, al confronto dei quali la vicenda delle “olgettine” si configura come una improvvida, deprecabile goliardata. Ma si sa che il rimestare nel trogolo di mafia e politica potrebbe prima o poi far emergere tracce di DNA appartenenti anche a propri compagni di partito, dunque meglio evitare.

Raffaele Lombardo

Più volte coinvolto in procedimenti penali, conclusisi con l’assoluzione. Assolto anche in appello da concorso esterno in associazione mafiosa, dopo la condanna in primo grado a sei anni e otto mesi nel 2014 ma condannato a due anni per corruzione elettorale aggravata dal metodo mafioso. Già presidente della provincia di Catania dal 2003 al 2008 e parlamentare europeo dal 1999 al 2008, è stato presidente della Regione Siciliana dal 2008 al 2012. Fondatore e leader del Movimento per le Autonomie.

Le parole di Nino Di Matteo, il primo requisitore al processo sulla trattativa

<<Noi non possiamo dimenticare il passato. Dobbiamo coltivare la memoria affinché non sia soltanto un puro esercizio retorico concentrato sul 23 maggio, il 19 luglio o il 6 gennaio, parlando di delitti eccellenti. Ma lo dobbiamo fare con intelligenza e con una consapevolezza precisa. Dobbiamo conoscere perché solo la conoscenza e la memoria possono contribuire a migliorare il nostro futuro. E per questo dobbiamo capire che la mafia non è solo quella macelleria criminale rappresentata dai Riina, dai Bagarella e dai Provenzano, ma si contraddistingue per quella sua tendenza ad instaurare e mantenere rapporti con il potere. E ciò è dimostrato anche da sentenze come quella Andreotti, quella Dell’Utri, Cuffaro o Contrada>>. Commentando anche la recente relazione della Commissione antimafia Di Matteo si è soffermato su quanto detto dalla Presidente Rosy Bindi. <<La Commissione ha scritto che emerge che con ogni probabilità, in riferimento alle stragi del 1992 e del 1993, Cosa Nostra non agì da sola. E c’è l’auspicio che la prossima Commissione si occupi, tra le altre cose, anche di questi aspetti per fornire al Paese una verità che sia completa. Perché la ricerca della verità passa necessariamente anche dall’analisi politica. In questo momento siamo di fronte ad una verità parziale ed una verità parziale equivale ad una verità negata>>. Ed infine conclude: <<Appartengo a quel novero di magistrati, un po’ pochini a dire il vero che considera la ricerca della verità sul passato altrettanto importante della ricerca della verità sul presente. Fino a quando ci sarà uno spiraglio per arrivare alla verità, i capitoli non possono mai essere considerati conclusi>>. A corollario della nostra carrellata, seppure sembrerebbe del tutto superfluo, nella misura in cui fatti e circostanze narrati appaiono in sé di estrema eloquenza, si impone una breve considerazione. Non è chi non veda nella esposizione degli accadimenti da circa un secolo e mezzo registrati nel nostro Paese quale sia l’effettiva essenza della mafia. Dato per certo che essa nasce in un’area geografica ben individuata per ragioni storico-sociali, che trovano anche terreno fertile nell’indole atavica dei suoi abitanti, è però doveroso chiedersi come sia stato possibile non solo la sua sopravvivenza quanto la sua evoluzione organizzativa e soprattutto territoriale, così da invadere l’intero Paese. E quali sono le ragioni che le hanno consentito di contagiare le opulenti aree del Nord, fino a spingersi ancora oltre i limiti territoriali del nostro Paese. Con buona pace di tutti coloro che, per interesse o ignoranza, ritenevano di poter contenere il fenomeno nei limiti geografici in cui aveva avuto i natali. Non ci avrei mai creduto se non l’avessi udito di persona, in diretta televisiva: <<Ma si! La mafia è un fatto siciliano, tra siciliani e dunque facciamola sbrigare ai siciliani>>, affermazione testuale pronunciata da un giornalista di primo piano nel panorama nazionale. Cogitazione semplicemente offensiva dell’intelligenza dei telespettatori. E che dire delle valutazioni espresse da qualche giornalista, oltre che da una buona parte dell’opinione pubblica del nostro acculturato Settentrione soprattutto ma anche da nostri conterranei, nel commentare l’arresto di Totò Riina nel gennaio del 1993 diffuso da tutte le emittenti televisive?:  <<Ma chi era questo il tanto decantato e sanguinario capomafia che ha tenuto sotto scacco la Sicilia per decenni? E ci voleva tanto per arrestarlo?>>. E nel 2006 la cattura di Bernardo Provenzano: <<Ma che capo mafia è uno che si rifugia in casa di un pecoraio e si nutre di cicoria e ricotta?>>. Evidentemente indotti a una tale superficiale valutazione dal solo aspetto fisico e culturale che ne denotava le origini agresti. Dimenticando che erano due tra i peggiori criminali quanto meno nel nostro Continente  e proprio loro le menti della stagione stragista, come si accerterà nel prosieguo, quali mandanti delle stragi di Firenze, Milano e Roma. Eventi che avevano messo letteralmente in ginocchio lo Stato, al cui cospetto si presentavano non tanto alla pari quanto in una posizione di supremazia, pretendendo quanto richiesto a favore dell’organizzazione da loro diretta per porre fine alle stragi. Altri hanno voluto sostenere che la mancata sconfitta della mafia è dovuta semplicemente al fatto che la maggior parte dei magistrati e delle forze di polizia non hanno mai condotto un serio ed efficace contrasto. A costoro vorremmo far rilevare che la criminalità di tipo mafioso è un fenomeno non solo criminale ma anche sociale e, in quanto tale, non può in alcun modo venire debellato dagli organi investigativi e giudiziari. Questi sono deputati a perseguire comportamenti illeciti da attribuire a ben individuati soggetti che ne sono i responsabili, applicando le leggi vigenti, e non fenomeni sociali, per i quali necessita un ben determinato indirizzo politico. Dunque la politica, coi suoi organi legislativo ed esecutivo, avrebbe dovuto intervenire nel corso degli anni con appropriati, efficaci e risolutivi provvedimenti. La qual cosa non è mai avvenuta, anzi scientemente si è fatto il contrario di quanto le esigenze  consigliassero, da parte di tutte le aree politiche dell’arco costituzionale e non, ad eccezione di occasionali e temporanee iniziative in occasione di eventi eclatanti, la cui adozione era imposta per tacitare l’opinione pubblica. Evidentemente si è sempre avuto il timore di scombinare un equilibrio che fa comodo a tutti; quell’equilibrio che consente alla politica di coltivare meglio i propri interessi di partito e personali. Se poi si aggiunge che nella commistione di interessi si inseriscono anche i potentati economico-affaristici, che hanno sperimentato la loro convenienza nei rapporti con la mafia, ne viene fuori un perfetto “comitato d’affari” praticamente istituzionalizzato, che può solo essere scalfito dalle indagini giudiziarie, ma mai debellato. Va da sé che in tale stato di cose la criminalità di tipo mafioso, con arguta intuizione, ha da sempre ben compreso l’atteggiamento della politica e la tendenza dei potentati economici ad avvicinarla, nel comune interesse. Dunque, fin quando non verrà alla luce l’identità di quelle “menti raffinatissime”, di cui parlava Giovanni Falcone dopo il fallito attentato da lui subito nella villa dell’Addaura, non se ne verrà mai fuori. Si tratta di quel tanto misterioso, cosiddetto “terzo livello”, che non si sovrappone alla mafia nella scala piramidale, giacché questa rimane comunque in una posizione di supremazia, ma di quelle entità politiche che forniscono un contributo fattuale all’organizzazione, tale da consentirle di sopravvivere sempre. I processi più importanti celebratisi nel nostro Paese in materia di mafia hanno sempre dimostrato che allorquando si era sul punto di penetrare negli ambulacri del potere politico si alzava quel “cono d’ombra” blindato e perciò insuperabile. Inoltre, mentre è stato possibile scardinare organizzazioni mafiose con l’apporto fattivo dei collaboratori di giustizia (cosiddetti pentiti), che rappresentavano il sistema mafioso dall’interno, non si sono mai visti “pentiti di Stato”. Qui, evidentemente, si procede sempre all’insegna del “sempre insieme, appassionatamente”.

Allora quali i rimedi?

Non ci rimane che ribadire quanto continuiamo a ripetere da sempre, che non è solo il pensiero di chi scrive, ma quanto vanno sostenendo personalità ben più quotate che nell’attività antimafia assumono – in alcuni casi purtroppo “assumevano” perché non sono più tra noi – un ruolo preminente. Una svolta, una vera rivoluzione culturale che non può non iniziare dalle scuole. Dunque informare ed educare le nuove generazioni a una cultura contro la mafia e contro la corruzione, per formare nuove classi dirigenti votate a quella onestà intellettuale, a quella tensione morale che consentano loro di svolgere il proprio ruolo sempre e comunque nell’interesse del Paese e della collettività. Ma nessuno può essere in grado di azzardare previsioni sul “quando” tale progetto possa vedere la sua fattiva realizzazione nel nostro sgarrupato Paese.

Giulio Andreotti l’estinto per prescrizione. Rapporti mafia politica 

E’ stato sottoposto a giudizio a Palermo per associazione per delinquere. Mentre la sentenza di primo grado, emessa il 23 ottobre 1999, lo aveva assolto perché il fatto non sussiste, la sentenza di appello, emessa il 2 maggio 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilì che Andreotti aveva «commesso» il «reato di partecipazione all’associazione per delinquere» (Cosa Nostra), «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980», reato però «estinto per prescrizione». Per i fatti successivi alla primavera del 1980 è stato invece assolto.

La sentenza della Corte di Appello di Palermo del 2 maggio 2003, in estrema sintesi, parla di una «…autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell’imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980». Interrogato dalla Procura di Palermo il 19 maggio 1993, il sovraintendente capo della polizia Francesco Stramandino, dichiarò di aver assistito il 19 agosto 1985, in qualità di responsabile della sicurezza dell’allora Ministro degli Esteri Andreotti, ad un incontro tra lo stesso politico e quello che solo successivamente sarà identificato come boss Andrea Manciaracina, all’epoca sorvegliato speciale e uomo di fiducia di Salvatore Riina. Lo stesso Andreotti ammise in aula l’incontro con Manciaracina, non potendo a quel punto negarlo, ma ebbe l’ispirazione di trovarne la motivazione con “problemi relativi alla legislazione sulla pesca”.

Pur confermando che Andreotti incontrò uomini appartenenti a Cosa nostra anche dopo la primavera del 1980, il tribunale stabilì che mancava «qualsiasi elemento che consentisse di ricostruire il contenuto del colloquio». Sia l’accusa sia la difesa presentarono ricorso in Cassazione, l’una contro la parte assolutiva e l’altra per cercare di ottenere l’assoluzione anche sui fatti fino al 1980, anziché il proscioglimento per prescrizione. Tuttavia la Corte di Cassazione il 15 ottobre 2004 rigettò entrambe le richieste confermando la prescrizione per qualsiasi ipotesi di reato fino alla primavera del 1980 e l’assoluzione per il resto. Nella motivazione della sentenza di appello si legge (a pagina 211): << Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei teriduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione>>.

Marcello Dell’Utri

Il 9 maggio 2014 la Corte di Cassazione ne conferma in via definitiva la condanna a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, avendo accertato che lo stesso  intrattenne stretti rapporti con  l’organizzazione mafiosa di Stefano Bontate, Totò Riina e Bernardo Provenzano sino alla stagione delle stragi di Falcone e Borsellino, facendo da intermediario fra esse e Silvio Berlusconi, al tempo ancora non entrato in politica.

La Cassazione ritiene pienamente confermato l’incontro del 1974, anno in cui si fa risalire l’inizio dei rapporti con la mafia, tra Berlusconi, Dell’Utri e i capimafia Francesco Di Carlo, Stefano Bontate e Mimmo Teresi in uno degli uffici del futuro presidente del Consiglio, in foro Bonaparte a Milano, dove fu presa la decisione di far giungere Vittorio Mangano presso l’abitazione di Berlusconi ad Arcore, ufficialmente nella qualità di stalliere, per garantire la protezione di Berlusconi e dei suoi familiari.

Mangano, già con precedenti a carico che lo fanno ritenere un mafioso, diverrà nel prosieguo capo mandamento del rione Porta Nuova di Palermo.

Pienamente riscontrata anche “la risultante di convergenti interessi di Berlusconi e di Cosa Nostra” e “il tema della non gratuità dell’accordo protettivo, in cambio del quale sono state versate cospicue somme da parte di Berlusconi in favore del sodalizio mafioso che aveva curato l’esecuzione di quell’accordo, essendosi posto anche come garante del risultato”. Nelle 146 pagine di motivazioni, la suprema Corte parla “senza possibilità di valide alternative di un accordo di natura protettiva e collaborativa raggiunto da Berlusconi con la mafia per il tramite di Dell’Utri che, di quella assunzione, è stato l’artefice grazie anche all’impegno specifico profuso da Cinà” (n.d.r. Antonino Cinà, mafioso).

Il Dell’Utri, già in rapporti d’affari con l’imprenditore Berlusconi fin dagli anni settanta, nel 1993 è uno dei principali artefici della fondazione di Forza Italia insieme a Silvio Berlusconi che lo farà eleggere prima alla Camera dei Deputati, poi al Parlamento Europeo e infine al Senato della Repubblica.

Il suo ruolo di mediatore tra l’organizzazione Cosa Nostra e Berlusconi consentirà a questi di riportare il noto successo alle elezioni politiche del 1994, soprattutto in Sicilia.

Nel 2008 viene ancora eletto al Senato per il PDL, sigla sotto la quale è transitato il vecchio partito Forza Italia, pur avendo già riportato una condanna in primo grado per associazione di tipo mafioso.

Nel 2014, dopo la sentenza di secondo grado che conferma la pena inflittagli, si rende latitante, rifugiandosi in Libano con documenti falsi. Verrà però localizzato dalle forze di polizia italiane, estradato in Italia e definitivamente arrestato.

Nell’aprile del 2018 sarà ancora condannato in primo grado alla pena di anni 12 nel processo sulla trattativa Stato-mafia, di cui si dirà a seguire. Silvio Berlusconi ebbe a definirlo pubblicamente “un eroe”, non è facile comprendere bene – rectius, si comprende benissimo – per quali ragioni.

Salvatore Cuffaro, inteso “Totò vasa-vasa”

È stato condannato definitivamente a sette anni di reclusione per favoreggiamento personale verso persone appartenenti a Cosa Nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Scontata la pena, è ritornato in libertà il 13 dicembre 2015. Politico di lungo corso, già appartenente alla vecchia DC, era transitato al CDU, poi all’UDEUR e infine all’”UDC. Ha ricoperto più volte il ruolo di assessore al Governo della Sicilia. Nel 2004, eletto deputato al Parlamento Europeo come capolista, aveva rinunciato al seggio a favore del secondo degli eletti Raffaele Lombardo. E’ stato eletto Presidente della Regione Sicilia nel 2001, incarico che ha mantenuto fino al 2006. Nel 2006 verrà rieletto per il secondo mandato consecutivo ma nel 2008, a seguito di condanna in primo grado e interdizione perpetua dai pubblici uffici, sarà costretto a dimettersi.

 

La piovra nelle istituzioni. 

Omicidio di Pasquale Almerico

Segretario della sezione della Democrazia Cristiana di Camporeale, viene assassinato il 25 marzo 1957, in via Minghetti, da cinque uomini a cavallo armati di mitra. Anche un giovane passante, Antonio Pollari, rimase ucciso.

La prima Commissione Parlamentare Antimafia arriva alla conclusione che a decidere la sua condanna a morte era stato il potente capomafia di Camporeale don Vanni Sacco, che era implicato anche nell’assassinio del segretario socialista della Camera del Lavoro, Calogero Cangelosi. Almerico aveva infatti osato rifiutare la tessera della Democrazia Cristiana al boss Vanni Sacco, che aveva militato nel Partito Liberale Italiano e ora voleva esercitare il suo influsso su quello scudocrociato, insieme a numerosi altri mafiosi del paese. Dopo il suo rifiuto, Almerico comincia ad essere minacciato. Decide quindi di scrivere al segretario della DC siciliana Nino Gullotti e informare anche uno dei proconsoli fanfaniani a Palermo, Giovanni Gioia. Almerico denuncia il fatto che la DC di Camporeale avrebbe rischiato di essere conquistata dalla mafia e il pericolo di vita che corre lui stesso, ma i dirigenti del partito non condividono la sua posizione e lo invitano a lasciare l’incarico di segretario della Democrazia Cristiana. Scrive Pio La Torre nel 1976 nella relazione di minoranza della Commissione Antimafia: “L’onorevole Gioia non batté ciglio e proseguì imperterrito nell’opera di assorbimento delle cosche mafiose nella DC”. Vanni Sacco viene accolto con tutti gli onori nel partito della DC.

Accusato dell’omicidio, sarà poi assolto per insufficienza di prove, per morire nel suo letto il 4 aprile 1960.

Ma dagli inizi del secolo scorso e fino al Secondo Dopoguerra inoltrato, l’elenco di sindacalisti periti di mano mafiosa è davvero lungo. Ci limitiamo a citare i più noti: Accursio Miraglia, Epifanio Li Puma, Calogero Cangelosi, Salvatore Carnevale.

Omicidio di Piersanti Mattarella

La mattina del 6 gennaio 1980, in viale Libertà, a Palermo, quando è appena  salito a bordo della propria autovettura assieme ad alcuni familiari, viene fatto segno a colpi di pistola esplosi da un killer.

Verranno condannati, quali mandanti, i vertici della cupola mafiosa: Michele Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Antonino Geraci. Circa l’esecutore materiale, al processo la moglie di Mattarella, testimone oculare dell’omicidio, riconosce il terrorista nero dei NAR Giuseppe Valerio Fioravanti, di cui peraltro viene accertata la presenza a Palermo in quei giorni, ma la testimonianza non è ritenuta sufficiente per emettere un verdetto di condanna a suo carico.

Alcuni pentiti di mafia riferiranno in seguito che la condotta del Mattarella, deleteria per l’organizzazione mafiosa in quanto comprometteva decisamente gli interessi di questa nella gestione degli appalti nella Regione, era stata segnalata al presidente della DC Giulio Andreotti, il quale, pochi mesi prima dell’omicidio, si recò a Palermo per incontrarsi con i mafiosi cugini Nino e Ignazio Salvo, col suo delfino politico in Sicilia Salvo Lima e col capomafia Stefano Bontate, per discuterne. Il processo a carico di Andreotti, come si vedrà a seguire, consentirà di accertare la sua contiguità coi vertici mafiosi fino alla primavera del 1980.

Piersanti Mattarella, nella qualità di Presidente della Regione Sicilia aveva in animo di resistere ad ogni genere di condizionamento mafioso, segnatamente in materia di appalti, ed aveva più volte manifestato pubblicamente l’intenzione di moralizzare la politica della DC nella Regione, per cui si era frapposto da ostacolo agli interessi di Cosa Nostra, che da sempre aveva esercitato il suo potere intimidatorio e corruttivo nei confronti del governo regionale.

Omicidio di Carlo Alberto Dalla Chiesa

La sera del 3 settembre 1982 Carlo Alberto Dalla Chiesa, da pochi mesi nominato prefetto di Palermo, esce dalla Prefettura a bordo della propria auto A112, condotta dalla moglie Emanuela Setti Carraro, seguito dall’auto di scorta con a bordo il solo agente di polizia Domenico Russo. Mentre le due auto percorrono la via Isidoro Carini, vengono affiancate da un commando di killer a bordo di una moto di grossa cilindrata e di una BMW, che esplodono al loro indirizzo diverse raffiche di Kalasnikov. Dalla Chiesa e la moglie, raggiunti da numerosi colpi, rimangono cadavere sul posto mentre l’agente Russo morirà alcuni giorni dopo in ospedale.

Per l’omicidio di Dalla Chiesa, della moglie e dell’agente di scorta, sono stati condannati all’ergastolo, come mandanti, i vertici di Cosa nostra dell’epoca: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci. Nel 2002 è arrivata la condanna anche per gli esecutori: Vincenzo Galatolo, Antonino Madonia, Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci. Nella sentenza si legge: “Si può senz’altro convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”.

Un omicidio politico, non solo mafioso. Il giudice Scarpinato, sentito dalla Commissione Parlamentare Antimafia, ha rivelato ai commissari  che Gioacchino Pennino, medico, uomo di Cosa Nostra e massone, diventato collaboratore di giustizia, ha raccontato di aver saputo da altri massoni che “l’ordine di eliminare Carlo Alberto Dalla Chiesa arrivò a Palermo da Roma, dal deputato Francesco Cosentino”. Nessuno dei commissari lo ha interrotto, nessuno ha chiesto spiegazioni. Scarpinato ha proseguito il suo racconto, mettendo a fuoco i complessi rapporti con la massoneria dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano, dopo l’eliminazione di Bontate e che Riina e Giuseppe Graviano – gli strateghi dell’uccisione di Giovanni Falcone e delle stragi del ’93 – parteciparono a riunioni massoniche.

Nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che il 5 aprile 1982, poco prima di insediarsi a Palermo, ebbe un colloquio con Andreotti, presidente del Consiglio, al quale disse che non avrebbe avuto riguardi per “la famiglia politica più inquinata del luogo”, aggiungendo: “Non guarderò in faccia a nessuno”. La famiglia politica più inquinata era proprio quella della DC andreottiana.

Omicidio dell’Onorevole Salvo Lima

La mattina del 12 marzo 1992 Salvo Lima, già sindaco di Palermo, ministro e sottosegretario per più governi, ora deputato al Parlamento Europeo, esce dalla sua villa di Mondello, località balneare di Palermo, per recarsi  all’hotel Palace a preparare un convegno al quale è prevista la presenza di Giulio Andreotti. Sale a bordo di una Opel Vectra dove sono ad aspettarlo gli amici Alfredo Li Vecchi, professore universitario, e Nando Liggio, assessore provinciale al Patrimonio, quando l’auto viene affiancata da una moto di grossa cilindrata con a bordo due killer. Lima, fiutato il pericolo, scende dal mezzo e fugge a piedi cercando scampo ma i sicari fanno inversione di marcia e lo raggiungono esplodendo alcuni colpi al suo indirizzo, da cui viene attinto. Caduto a terra viene finito con un colpo alla testa. I due amici, scesi dal mezzo, si riparano dietro alcuni ostacoli di fortuna e, nonostante vengano individuati, il commando di fuoco risparmia loro la vita.

Il processo consente di acclarare prove di responsabilità a carico di numerosi componenti della cupola mafiosa, condannati all’ergastolo, mentre gli esecutori materiali Francesco Onorato e Giovanbattista Ferrante (che confessano il delitto) vengono condannati a 13 anni.

Salvo Lima è il capo della corrente andreottiana in Sicilia e notoriamente il plenipotenziario di Giulio Andreotti. E’ al contempo in stretti rapporti con l’organizzazione Cosa Nostra fin dagli anni ’60, dai tempi in cui proprio per il suo operato da sindaco venne portato a compimento il cosiddetto “sacco di Palermo”; l’abbattimento di numerose, pregiate ville Liberty al cui posto vennero costruiti palazzoni di deturpante aspetto architettonico, con appalti tutti attribuiti ai mafiosi.

Nel suo ruolo, egli era riuscito per decenni a mantenere quell’equilibrio tra mafia, grandi imprenditori del settore edilizio e politica, così da assicurare alla mafia il regolare decorso dei propri affari illeciti. E sempre in tale ruolo era colui che assicurava la protezione della politica nazionale alla mafia, soprattutto col potente amico Giulio Andreotti. Per ultimo si era reso promotore della propria intercessione con lui per condizionare l’esito del maxi processo istruito da Falcone e Borsellino nel giudizio di Cassazione.

La previsione che finisse come quasi sempre erano finiti i processi di mafia questa volta, però’, non si avvera, perché Giovanni Falcone, che nel frattempo è andato a occupare un ruolo al Ministero della Giustizia, voluto dal ministro Martelli, ha una delle tante sue felici trovate: la rotazione dei presidenti di sezione in Cassazione, così da sottrarre il processo al noto ammazza sentenze Corrado Carnevale. Ne consegue che l’imprevista trovata di Falcone stravolge le speranze di cosa Nostra e in quella sede vengono comminati diciannove ergastoli e migliaia di anni di carcere agli imputati.

La mafia, soprattutto nella persona del suo capo indiscusso Totò Riina, non poteva sopportare un tale affronto, anche perché il Riina aveva dato assicurazione ai sodali che in Cassazione il processo si sarebbe “sistemato” ed invece la conferma delle condanne ne aveva minato il ruolo di capo. La sua sanguinaria indole, perciò, non lasciava spazio a decisioni più accomodanti: Lima andava eliminato e il messaggio doveva giungere ad Andreotti.

Giovanni Falcone, appena venuto a conoscenza dell’omicidio, ebbe a commentare: <<Si sono rotti gli equilibri…ora può accadere di tutto>>.

E’ proprio quello che si verificherà nei mesi a venire con le più sanguinarie ed eclatanti stragi di mafia che il nostro Paese registrerà in territorio siciliano e nel continente.

Mafia e politica: intesa consolidata nel tempo

Il Prefetto Cesare Mori

Nel 1926 il Governo fascista di Benito Mussolini, che aveva preso atto della presenza in Sicilia del fenomeno mafia-brigantaggio, invia a Palermo il prefetto Cesare Mori, col compito di esercitare un duro contrasto alla criminalità, concedendogli poteri speciali e competenza territoriale in tutte le provincie dell’Isola.

Non è fuor di luogo ritenere che l’iniziativa fosse stata adottata per aver visto nel potere mafioso un antagonista del regime totalitario, che non avrebbe dovuto essere minimamente compromesso, tuttavia diede incontrovertibilmente i suoi frutti. Giovanni Falcone esprime il suo giudizio sull’operato del prefetto Mori, definendolo l’iniziativa più seria che sia stata mai adottata per contrastare la mafia.

Il solerte e competente Mori, che già aveva avuto modo di impattare col dilagante fenomeno durante analogo mandato svolto a Trapani in precedenza, assieme ai suoi fidati collaboratori, il procuratore generale di Palermo Luigi Giampietro e il delegato di polizia Francesco Spanò, svolge il suo compito con estremo impegno e spirito di servizio, riuscendo, nel volgere di pochi anni, a portare un duro e decisivo attacco al brigantaggio e alla mafia, arrestando e facendo condannare centinaia di criminali, tra cui anche capi mafia. Certo non disimpegnava il suo compito con sistemi del tutto civili e democratici ma il regime fascista era sempre disponibile a chiudere un occhio su ogni principio di democrazia pur di raggiungere qualsiasi scopo che si fosse prefisso. Fatto è, però, che il prefetto Mori, tirando dritto nel suo intento e non esitando difronte a qualsiasi ostacolo, si spinge troppo in alto e inevitabilmente invade il campo interdetto della politica. Riesce a incriminare l’ex ministro fascista Antonino Di Giorgio e il federale e deputato del Partito Nazionale Fascista Alfredo Cucco.

Avendo così toccato i fili dell’alta tensione della politica, non si poteva consentirgli di andare oltre, per cui viene rimosso dall’incarico e poi nominato senatore del Regno, all’insegna di quel principio tutto italiano del promoveatur ut amoveatur.

Aveva compreso tutto il prefetto Mori e in una intervista pubblica ebbe a dichiarare che si sarebbe potuto debellare il fenomeno mafioso non rastrellando solo tra i filari di Fichi d’India ma negli ambulacri del potere.

Strage di Portella della Ginestra

Il 1º maggio 1947 si torna a festeggiare la festa dei lavoratori, spostata al 21 aprile, ossia al Natale di Roma, durante il regime fascista. Circa duemila lavoratori della zona di Piana degli Albanesi, San Giuseppe Jato e San Cipirello, in prevalenza contadini, si riuniscono in località Portella della Ginestra, nella vallata circoscritta dai monti Kumeta, Pelavet e Pizzuta, per manifestare contro il latifondismo, a favore dell’occupazione delle terre incolte e per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo nelle recenti elezioni per l’Assemblea Regionale Siciliana, svoltesi il 20 aprile di quell’anno e nelle quali la coalizione PSI-PCI aveva conquistato 29 rappresentanti su 90 (con il 32% circa dei voti) contro i soli 21 della DC (crollata al 20% circa). Improvvisamente dal monte Pelavet partono contro la folla in festa numerose raffiche di mitragliatrice, che si protraggono per circa un quarto d’ora e lasciano sul terreno undici morti (sette adulti e quattro bambini) e ventisette feriti, di cui alcuni moriranno in seguito per le ferite riportate.

Sul movente dell’eccidio vengono formulate alcune ipotesi già all’indomani della tragedia, attribuendone l’opera al bandito Giuliano. Il 2 maggio 1947 il ministro dell’Interno Mario Scelba interviene all’Assemblea Costituente, affermando che dietro all’episodio non vi è alcun movente politico, ma che deve essere considerato un fatto circoscritto alla criminalità locale; in altri termini una semplice bega tra feudatari e contadini.

Il processo di primo grado iniziatosi nel 1950, dapprima istruito a Palermo poi spostato a Viterbo per legittima suspicione, si conclude nel 1952,  con la conferma della tesi che gli unici responsabili sono Salvatore Giuliano (ormai ucciso il 5 luglio 1950, ufficialmente per mano del capitano dei CC Antonio Perenze, alle dipendenze del colonnello Luca, ma di fatto per mano del suo fidato luogotenente Gaspare Pisciotta) e i suoi uomini, che vengono condannati all’ergastolo. Durante il processo, Gaspare Pisciotta lancia pesanti accuse contro i deputati monarchici Giovanni Alliata Di Montereale, Tommaso Leone Marchesano, Giacomo Cusumano Geloso e anche contro i deputati democristiani Bernardo Mattarella e Mario Scelba, asserendo che costoro hanno avuto rapporti con il bandito Giuliano e di averlo istigato a commettere la strage di Portella della Ginestra. Tuttavia la Corte d’Assise di Viterbo dichiara infondate le accuse di Pisciotta poiché il bandito aveva fornito nove diverse versioni sui mandanti politici della strage. Gaspare Pisciotta viene avvelenato con un caffè alla stricnina il 9.2.1954, nel Carcere dell’Ucciardone a Palermo, poco prima che venisse interrogato per le accuse rivolte ai politici.

Salvatore Giuliano, pochi giorni prima di essere ucciso, scrive una lettera inviata al giornale L’Unità, in cui asserisce: <<Scelba vuol farmi uccidere perché io lo tengo nell’incubo per fargli gravare grandi responsabilità che possono distruggere tutta la sua carriera politica e financo la vita>>.

A nulla giovano il processo d’appello celebrato a Roma nel 1956 e la sentenza definitiva della Cassazione del 1960; per la strage di Portella, la prima dell’era repubblicana, non ci sono mandanti politici.

                                                        

Omicidio di Placido Rizzotto

Ex militante delle formazioni partigiane durante la Seconda guerra Mondiale, nel dopoguerra, fece ritorno al paese natio di Corleone, ricoprendo il ruolo di presidente dell’ANPI, segretario della Camera del lavoro ed esponente di spicco del Partito Socialista Italiano e della CGIL. Condusse il suo impegno a favore del movimento contadino per l’occupazione delle terre con fervente determinazione, attività che non poteva non indisporre la mafia e i grossi feudatari ad essa contigui. La sera del 10 marzo 1948, in contrada Malvello di Corleone, viene rapito e ucciso e ne viene fatto sparire il corpo. Al rapimento assiste casualmente il pastorello dodicenne Giuseppe Letizia che, di nascosto, vede in faccia gli assassini. Nel timore che possa accusare gli autori, viene prelevato e condotto in ospedale, dove il direttore medico Michele Navarra, capomafia di Corleone e  mandante dell’omicidio di Placido Rizzotto, gli fa praticare una iniezione letale, così eliminando l’unica fonte di prova. Ufficialmente l’innocente Giuseppe Letizia è morto per tossicosi. Le indagini condotte dall’allora capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa consentono di pervenire all’identificazione di tre appartenenti alla manovalanza mafiosa locale, tra cui quel Luciano Leggio poi divenuto il capomafia di Corleone. Vengono arrestati gli altri due, Vincenzo Collura e Pasquale Criscione, reo confessi, mentre Leggio si dà alla latitanza. Il cadavere del Rizzotto era stato gettato nella foiba di Rocca Busambra. Tutti e tre gli imputati, in seguito alla loro ritrattazione, verranno poi assolti con la solita formula della “insufficienza di prove”. Per completezza di informazione va detto che i resti di Placido Rizzotto solo nel 2012 vengono recuperati nella foiba di Rocca Busambra e, messi a confronto col DNA del padre, nell’occasione riesumato, daranno la conferma della sua identità. Per decisione del Consiglio dei Ministri il 24 maggio 2012 vengono celebrati i funerali di Stato alla presenza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Quando si dice la tempestività dello Stato italiano nelle faccende di mafia!

Mafia politica. L’origine della collusione II parte

Omicidio di Joe Petrosino

Il 12 marzo del 1909 il tenente di polizia americano, di origini italiane, Joe Petrosino, capo di uno speciale corpo investigativo istituito negli USA per combattere la mafia, al tempo in America conosciuta con la definizione di “mano nera”, e che era venuto in Sicilia proprio per approfondire le indagini sui rapporti tra la mafia siciliana e quella statunitense, mentre fa rientro all’Hotel de France dove alloggia, in piazza Marina a Palermo, viene assassinato a colpi di pistola.

La polizia italiana accentra i sospetti quale esecutore materiale dell’omicidio sul capomafia Vito Cascio Ferro, da Bisacquino, personaggio che aveva trascorso alcuni anni in America, dove aveva stipulato accordi coi mafiosi di quello Stato, che peraltro viene trovato in possesso di una foto del poliziotto. L’indagine subisce un immediato impedimento ai suoi sviluppi allorché si tratta di smontare un alibi precostituito ad arte: l’onorevole Domenico De Michele Ferrandelli, politicamente filogiolittiano, mafioso pubblicamente riconosciuto, dichiara che il Cascio Ferro, al momento del delitto era ospite a casa sua, a settanta chilometri da Palermo.

Il nome di Vito Cascio Ferro è il primo di una lista di mafiosi compilata dal Petrosino, che viene trovata nella sua camera d’albergo il giorno dell’assassinio.

Omicidio di Bernardino Verro

Il 3 novembre 1915, mentre percorre la strada che dal municipio lo porta a casa, assieme alla compagna, Maria Rosa Angelastri, e alla figlioletta di appena un anno, viene fatto segno a numerosi colpi di pistola esplosi da due sicari, rimanendo ucciso sul colpo poiché raggiunto da undici colpi di cui quattro al capo.

Il Verro, se pure con trascorsi di appartenenza alle cosche mafiose, con regolare rito di affiliazione, (ma fu una sua scelta deliberata per poter ottenere quella forza necessaria alla difesa dei diritti dei contadini durante l’attività dei “Fasci Siciliani” di fine ‘800, al fine di poter contrastare il potere assoluto dei grandi feudatari e dei loro fidi gabellotti), si era reso promotore della formazione di cooperative agricole tra contadini, a Corleone e in altri centri circostanti, perciò arrecando un danno consistente ai latifondisti che dettavano le condizioni e i prezzi di mercato, costringendo i contadini a vivere in uno stato di assoluta indigenza.

Nel 1910 aveva indetto uno sciopero di protesta contro il sindaco di Corleone, denunciando pubblicamente la sua collusione con le cosche mafiose, rimanendo vittima, per tale ragione, di un primo attentato alla sua persona, in seguito al quale, per puro caso, era rimasto solo ferito.

Nel 1914 viene eletto sindaco di Corleone con grande successo elettorale, continuando la sua caparbia lotta a fianco dei contadini.

Era davvero troppo per la mafia, alleata dei potenti feudatari e dei loro sodali gabellotti, che vedevano compromessi i loro interessi.

Discorso di Vittorio Emanuele Orlando

L’onorevole Vittorio Emanuele Orlando, già presidente del Consiglio, nel 1925, allorché il governo Mussolini decide di adottare misure drastiche contro la mafia, inviando in Sicilia il prefetto Cesare Mori, in un pubblico comizio, pronuncia queste parole:

<<Ora io vi dico che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo!>>.

Dunque per l’Orlando la mafia era solo un’espressione della sicilianità, in cui aveva la pretesa di rilevare solo gli aspetti positivi in essa insiti, piuttosto che un fenomeno criminale a tutto tondo. Nella qualità di docente, giurista, statista e buon ultimo siciliano, ci viene il sospetto che egli, piuttosto che non aver capito nulla della mafia, fosse invece interessato a deviarne ogni obbiettiva e realistica analisi.

Eventi salienti della commistione mafia-politica 

Quando ho ultimato di scrivere il mio libro sulla criminalità di tipo mafioso nella provincia di Siracusa, ho sentito l’esigenza di approfondire nel dettaglio uno dei passaggi che nel libro, per ragioni di spazio, non avevo potuto affrontare e che avevo riportato nell’ultima parte in termini riduttivi, seppure sufficienti a far comprendere al lettore quale fosse l’essenza della criminalità mafiosa, come fosse riuscita non solo a sopravvivere ma ad evolversi nelle sue peculiari caratteristiche oltre che in termini di espansione geografica. Parlo delle collusioni mafia-politica-potentati economici.

Vedrò allora di concentrare in breve i passaggi salienti di tale aspetto, con una breve carrellata di quegli eventi, o comunque dei più eloquenti, che ci consentono di individuare proprio nello stretto legame mafia-politica le ragioni della sua sopravvivenza e della sua evoluzione.

Esporrò per ordine cronologico la rassegna degli eventi su cui mi sono soffermato, partendo dall’Unità d’Italia, senza la pretesa, ovviamente, di aver condotto una ricerca esaustiva nel panorama generale e neppure nell’esplicitazione dettagliata dei singoli eventi.

Prefetto Antonio Malusardi

Nel 1877 il ministro dell’Interno Giovanni Nicotera, sotto il governo De Pretis, invia a Palermo, con poteri straordinari, il prefetto Antonio Malusardi con l’incarico di combattere e debellare le organizzazioni criminali che imperversano in quel territorio. Il solerte e competente prefetto, coadiuvato dall’ispettore di P.S. Lucchesi, conduce una vera e propria guerra al fenomeno del brigantaggio, arrestando e facendo condannare centinaia di malavitosi. Al tempo non si parla ancora di “mafia”, perché il termine troverà ospitalità nel nostro linguaggio nei tempi a venire. Ma scavando in quel mondo non poteva non imbattersi nel livello superiore della criminalità, costituito dai potentati politici, economici e affaristici, che si sovrappone alla manovalanza criminale. Sempre quell’irraggiungibile cosiddetto “terzo livello” di cui si continua a parlare.

Allorché si accinge a portare l’attacco definitivo alle sovrastrutture delle organizzazioni mafiose, costituito dai potentati del latifondo legati a doppio filo alla politica, gli viene dato il benservito e trasferito ad altro incarico. Tanto più che nel frattempo il dicastero dell’Interno era passato nelle mani del siciliano Francesco Crispi, per il quale, evidentemente, l’opera di contrasto dello Stato andava limitata al solo brigantaggio, alla sola manovalanza della criminalità, arrestandosi sulla soglia dell’alta mafia e dei suoi protettori.

Omicidio Notarbartolo – 1 febbraio 1893

Il 1 febbraio del 1893 viene assassinato dalla mafia, per accoltellamento, mentre percorre in  treno la tratta fra Termini Imerese e Palermo, Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, esponente di una delle più importanti famiglie aristocratiche siciliane, già sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia fino al 1890.

E’ il primo omicidio eccellente della storia della mafia dopo l’Unità d’Italia.

Da subito, opinione pubblica e attività investigativa concentrano i sospetti sull’onorevole Raffaele Palizzolo, esponente della Destra storica, quale mandante del fatto delittuoso e  il movente viene subito inquadrato negli stretti rapporti tra mafia, politica, finanza e interessi di potenti lobby affaristiche. Gli autori materiali vengono identificati in Matteo Filippello e Giuseppe Fontana, legati a Cosa Nostra.

Il processo Nortabartolo, celebrato fuori dalla Sicilia per legittima suspicione,  in secondo grado di giudizio a Bologna, si conclude nel 1902 con la condanna a 30 anni di reclusione per l’onorevole Raffaele Palizzolo, in qualità di mandante e Giuseppe Fontana come esecutore. Nel 1903 la Cassazione annulla la sentenza di condanna per un vizio di forma. Il processo, da rifare, inizia a Firenze dieci anni dopo l’omicidio. Il caso Notarbartolo si conclude il 23 luglio 1904 con sentenza di assoluzione per insufficienza di prove, con quella motivazione cioè che negli anni a venire verrà ancora utilizzata per i più importanti processi di mafia.

L’onorevole Palizzolo, al suo rientro a Palermo, viene accolto dalla cittadinanza come un trionfatore.

T&M