RITA ATRIA, SETTIMA VITTIMA DI VIA D’AMELIO
FORSE UN MONDO ONESTO NON ESISTERÀ MAI MA CHI CI IMPEDISCE DI SOGNARE? FORSE, SE OGNUNO DI NOI PROVA A CAMBIARE FORSE, CE LA FAREMO RITA ATRIA
Rita Atria (Partanna, 4 settembre 1974 – Roma, 26 luglio 1992)Si uccise una settimana dopo la strage di Via D’Amelio perché proprio per la fiducia che riponeva nel magistrato italiano Paolo Borsellino si era decisa a collaborare con gli inquirenti.
LA PICCIRIDDA DI PAOLO BORSELLINO – Rita Atria, 17 anni, è la settima vittima di via D’Amelio. Il 26 luglio 1992, Rita era disperata per ciò che era accaduto una settimana prima in via d’Amelio. “Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita – scrisse Rita sul suo diario – Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi. Ma io senza di te sono morta”. La sua fu una vita dura, difficile da sostenere per una ragazza di soli 17 anni. E con la morte di Paolo Borsellino, che l’aveva aiutata e presa sotto il suo mantello protettivo, non riuscì ad andare avanti. Figlia di Vito e di Giovanna nel 1985 all’età di undici anni perde il padre, pastore affiliato a Cosa nostra, ucciso in un agguato. Alla morte del padre Rita si lega ancora di più al fratello Nicola ed alla cognata 18enne Piera Aiello, che si era sposata nove giorni prima dell’omicidio del suocero. Da Nicola, anch’egli mafioso, Rita raccoglie le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna Nel giugno 1991 Nicola Atria viene ucciso e sua moglie Piera Aiello, che era presente all’omicidio del marito, denuncia i due assassini e collabora con la polizia Rita, a soli 17 anni, nel novembre 1991 decide di seguire le orme della cognata, cercando nella magistratura giustizia per quegli omicidi. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni è il giudice Paolo Borsellino (all’epoca procuratore di Marsala), al quale si lega come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre testimonianze, permettono di arrestare numerosi mafiosi di Partanna, Sciacca e Marsala di avviare un’indagine sull’onorevole democristiano Vincenzino Culicchia, per trent’anni sindaco di Partanna Una settimana dopo la strage di via D’Amelio, in cui perde la vita il giudice Borsellino, Rita si uccide a Roma, dove vive in segreto, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo di viale Amelia, 23. Sua sorella Anna se ne andrà in seguito a vivere a Roma. Rita per molti rappresenta un’eroina, per la sua capacità di rinunciare a tutto, finanche agli affetti della madre (che la ripudiò e che dopo la sua morte distrusse la lapide a martellate) per inseguire un ideale di giustizia attraverso un percorso di crescita interiore che la porterà dal desiderio di vendetta al desiderio di una vera giustizia. Rita (così come Piera Aiello) non era una pentita di mafia: non aveva infatti mai commesso alcun reato di cui pentirsi.
- La RAI ricorda Rita Atria
- Rita Atria, testimone di giustizia
- Dal suo diario
- “Racconto tutto al giudice Borsellino”
- La picciridda di Borsellino
- Vittima indiretta della mafia
- La siciliana ribelle di Partanna
- La storia di Rita Atria
- 25° anniversario dalla sua morte
- Cortometraggio
- Volevo nascere vento
- Canzone dedicata a Rita
- In memoria di Rita
- Roma ricorda Rita
- La picciridda senza mamma
- Disse no alla schiavitù mafiosa
- Lenzuoli bianchi
- Suicida pochi giorni dopo l’uccisione di Borsellino
- Ricordarla come una memori viva
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- Il disprezzo della madre
- Chiamami zio Paolo
- Mia cognata Rita Atria
- La picciridda che non temeva la mafia
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- La piccola grande donna che si ribellò alla mafia
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- Si getta dal settimo piano e muore sul colpo
- A Partanna una lapide senza nome per l’infame
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- Un fiore per Rita
- Quell’inchiesta mai aperta
CARO DIARIO, SONO RITA ATRIA E LA MAFIA FA SCHIFO
Questa l’ultima pagina di diario della diciassettenne Rita Atria, siciliana di Partanna che il 26 luglio 1992, alle 15 circa, ha preso la decisione più tragica della sua breve vita: si butta nel vuoto dal settimo piano di un palazzo a Roma. Figlia di un mafioso della locale cosca, Vito Atria, morto ammazzato in un agguato quando la figlia aveva undici anni; sorella di Nicola, seguace delle orme del padre anche nella modalità di morte, infatti anche lui muore ammazzato nel 1991. Rita, a soli diciassette anni, vuole giustizia per quei due omicidi che le hanno portato via un grande pezzo della sua famiglia, così nel 1991 inizia a collaborare con la magistratura ed in particolare con Paolo Borsellino, allora Procuratore Capo di Marsala. Tale magistrato è stato per lei molto più che una figura istituzionale, è stato un padre, quello che l’ha presa per mano raccogliendo le sue confidenze e l’ha indirizzata verso un sentiero pulito, nel quale l’ossigeno le permetteva la vita, la vera vita. Per questa sua collaborazione fu trasferita a Roma in segreto, la capitale che diventò per lei letto di morte. La strage di via D’Amelio significò per lei ricadere nel baratro della paura, della sfiducia verso uno Stato che le aveva tolto tutto: una famiglia, perché non si è mai realmente impegnato per garantire un vero futuro pulito ai giovani come lei; un mentore, una guida, che quello stesso Stato ha ucciso con le sue connivenze e le sue mancanze. Rita viene ripudiata dalla madre, una madre che ammazzò la figlia due volte, quando la ripudiò essendo ancora in vita e quando, una volta morta, distrusse la sua lapide a martellate. Che razza di madre è? E allora ha ragione il Procuratore Gratteri, che le fiction mitizzano questo marciume, non presentando affatto la realtà che si vive in una famiglia di mafia. Codice d’onore, belle ville, figli fortunati a cui non manca niente…la mafia non è questa. Rita Atria testimonia il degrado che esiste tra quella gente, testimonia la ribellione ad un sistema chiuso in una logica del terrore e del silenzio, testimonia il desiderio di giustizia: Rita Atria è testimone di giustizia. Proprio di questi mesi è il provvedimento della Commissione Antimafia già approvato dalla Camera e in attesa di un imminente “sì” del Senato che riforma il sistema della tutela dei testimoni di giustizia differenziandoli dai collaboratori di giustizia, spesso usati erroneamente come sinonimi. Il collaboratore di giustizia è un pentito di mafia, macchiatosi di reati, che ogni giorno apre gli occhi e si commuove perché è ancora vivo e decide di affidare le sue rivelazioni ai magistrati per dormire sonni tranquilli e avere una riduzione della pena. Il testimone di giustizia è quello che vede e/o vive dal di fuori o dal di dentro la metodologia mafiosa e le pressioni asfissianti a cui sono soggette le vittime o loro stessi e pensa, intelligentemente, che il reato sia girarsi dall’altra parte, quindi denuncia. Rita, non devi avere paura che lo Stato mafioso vincerà, lo sai anche tu che non è così. Rita, quegli “scemi” che combattono saranno anche veramente scemi, perché nei momenti di scoramento li vediamo un po’ come bolle di sapone contro un muro: le bolle attaccano il muro ma inevitabilmente scoppiano. Ma tante bolle di sapone, tanta acqua e sapone, eroderanno il muro scavando al suo interno e finalmente i raggi di sole riusciranno a passare tu sai anche questo.
Era il 5 giugno del 1992, ti trovavi ad Erice, nel trapanese, il nostro giudice Borsellino faceva la sua corsa contro il tempo, e tu scrivevi un’altra pagina del tuo Caro diario…
“L’unica speranza è non arrendersi mai.
Finchè giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivranno contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perchè hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”. Bisignano in Rete
Ora che è morto Borsellino… |
Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita.
Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta. Rita Atria
“Rita, non t’immischiare, non fare fesserie” le aveva detto ripetutamente la madre, ma, Rita aveva incontrato Paolo Borsellino, un uomo buono che le sorride dolcemente, e lei parla, parla…racconta fatti. Fa nomi. Indica persone, compreso l’ex sindaco democristiano Culicchia, che ha gestito e governato il dopo terremoto. “Fimmina lingua longa e amica degli sbirri” disse qualcuno intenzionalmente, e così al suo funerale, di tutto il paese, non andò nessuno. Non andò neppure sua madre, che, disamorata, fredda e distaccata, l’aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione. Inoltre, sia a lei che a quella poco di buono di sua nuora, Piera Aiello, che aveva plagiato a picciridda, non perdonava di aver “tradito” l’onore della famiglia.Si recherà al cimitero parecchi mesi più tardi, e con un martello, dopo aver spaccato il marmo tombale, rompe pure la fotografia della figlia, una foto di Rita appena adolescente. Figlia di un piccolo boss di quartiere facente capo agli Accardo, Rita Atria è nata e cresciuta a Partanna, piccolo comune del Belice, una vasta zona divenuta famosa perché distrutta dal terremoto. Un territorio in cui, in quel periodo, si dice circolasse denaro proveniente dal narcotraffico, e di cui Rita non sopporta le brutture, le vigliaccherie, la tristezza. L’ignavia delle donne. “Una donna sa sempre cosa sta combinando suo marito o suo figlio” ha spiegato Piera Aiello moglie di Nicola Atria, fratello di Rita, e lei condivide con convinzione. Sensibile all’inverosimile, eppur ostinata, caparbia, fin dall’adolescenza dimostra di essere molto dura ed autonoma. Acasa sua, faide, ragionamenti, strategie, vecchi rancori, interessi di ogni tipo, erano all’ordine del giorno, perché, suo padre, don Vito Atria, ufficialmente pastore di mestiere, era un uomo di rispetto che si occupava di qualsiasi problema; per tutti trovava soluzioni; fra tutti, metteva pace, “…per questioni di principio e di prestigio…- sosteneva Rita – senza ricavarne particolari vantaggi economici…” tranne quello di rubare bestiame tranquillamente ed avere buoni rapporti con tutti quelli che contavano.Cionostante, il 18 novembre dell’85, don Vito Atria, non avendo capito che il tempo è cambiato, e che la droga impone un cambio generazionale, è stato ucciso. Rita innanzi a quel cadavere crivellato di colpi, fra gli urli e gli impegni di rappresaglia dei famigliari, anche se appena dodicenne, dentro di sé, comincia ad rimestare vendetta. Ma la morte del padre le lascia un vuoto.Rita, allora, riversa tutto il suo affetto e la sua devozione sul fratello Nicola. Ma Nicola era un “pesce piccolo” che col giro della droga, aveva fatto i soldi e conquistato potere. Girava sempre armato e con una grossa moto. Quello con il fratello diventa un rapporto molto intenso, fatto di tenerezza, amicizia, complicità, confidenze. E’ Nicola, infatti, che le dice delle persone coinvolte nell’omicidio del padre, del movente; chi comanda in paese, le gerarchie, cosa si muove, chi tira le fila… trasformando così una ragazzina di diciassette anni, in custode di segreti più grandi di lei. Tutto ciò non le impedisce di innamorarsi e fidanzarsi con Calogero, un giovane del suo paese. Fino al 24 giugno del 91, il giorno in cui anche suo fratello Nicola viene ucciso e sua cognata Piera Aiello che da sempre aveva contestato a quel marito le frequentazioni e i suoi affari, collabora con la giustizia e fa arrestare un sacco di persone. Calogero interrompe il fidanzamento con Rita perché cognata di una pentita e sua madre Giovanna va in escandescenze.Dopo il trasferimento in località segreta di Piera e dei suoi figli, Rita a Partanna è veramente sola: rinnegata dal fidanzato e dalla mamma, non sa con chi parlare, con chi scambiare due parole.
Sottomettersi come sua madre o ribellarsi? All’inizio di novembre, ad appena diciassette anni, decide di denunciare il sistema mafioso del suo paese e vendicare così l’assassinio del padre e del fratello. Incontra il giudice Paolo Borsellino, un uomo buono che per lei sarà come un padre, la proteggerà e la sosterrà nella ricerca di giustizia; tenterà qualche approccio per farla riappacificare con la madre. La ragazzina inizia così una vita clandestina a Roma. Sotto falso nome, per mesi e mesi non vedrà nessuno, e soprattutto non vedrà mai più sua madre. L’unico conforto è il giudice. Ma arriva l’estate del ’92 e ammazzano Borsellino, Rita non ce la fa ad andare avanti. Una settimana dopo si uccide. Assoc. Antimafia Rita Atria
Il tema dell’esame di maturità svolto da Rita Atria. La traccia recita: La morte del giudice Falcone ripropone in termini drammatici il problema della mafia. Il candidato esprima le sue idee sul fenomeno e sui possibili rimedi per eliminare tale piaga.
«La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l’immagine dell’uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un’immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai.
Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi.
Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c’è chi ha paura come Contorno (Salvatore Contorno, divenuto un pentito nel 1984, seguendo l’esempio di Tommaso Buscetta, diede informazioni dettagliate sugli affari interni a Cosa Nostra. Le sue testimonianze furono cruciali nel maxiprocesso contro la mafia siciliana a Palermo e nel processo Pizza Connection a New York negli anni ottanta N.d.R), che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per assicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un’altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivranno contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare? Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.» – Rita Atria – 5 giugno 1992
Dal DIARIO di RITA
Sull’uccisione del fratello Nicola:
Mio Dio,
perché mi togli sempre troppo presto ciò che amo.
Ti prego toglimi il cuore ma non farmi soffrire, non farmi tenere tra le mani ciò che non potrà mai essere mio.[…]
Sono quasi le 9 di sera, sono triste e demoralizzata forse perché non riesco più a sognare, nei miei occhi vedo tanto buio e tanta oscurità.
Non mi preoccupa il fatto che dovrò morire ma che non riuscirò mai ad essere amata da nessuno.
Non riuscirò mai ad essere felice e a realizzare i miei sogni. Vorrei tanto poter avere Nicola vicino a me, poter avere le sue carezze e i suoi abbracci, ne ho tanto bisogno, e, l’unica cosa che riesco a fare, è piangere, ma vorrei tanto il mio Nicola.
Nessuno potrà mai colmare il vuoto che c’è dentro di me, quel vuoto incolmabile che tutti, a poco a poco, hanno aumentato. Non ho più niente e nessuno, non possiedo altro che briciole. Non riesco a distinguere il bene dal male, tanto ormai è tutto così cupo e così squallido.
Credevo che il tempo potesse guarire tutte le ferite. Invece no. Il tempo le apre sempre più fino ad ucciderti, lentamente.
Quando finirà quest’incubo?
Sulle minacce ricevute dalla mafia:
L’una di notte e non riesco a dormire. Sono molto preoccupata e per la prima volta dopo la morte di Nicola ho una gran paura, non per me, ma per mia madre. Il motivo è che stasera, alle 11,35 circa, ho sentito bussare alla porta. Io e mia madre eravamo sveglie, ma le luci erano spente, mia madre dopo che hanno continuato a bussare insistentemente, ha chiesto chi era, e una voce ha risposto che era Andrea e che era venuto a fare visita. Mia madre non l’ha riconosciuto e gli ha chiesto di andare via, ma lui insisteva, io invece ho riconosciuto subito la voce, non appena l’ho sentito parlare: era Andrea D’Anna, il ragazzo che mio padre faceva lavorare con lui in campagna, e che il giorno del suo assassinio lo accompagnava nei campi. Andrea ha insistito dicendo che voleva entrare, ma dopo che mia madre gli ha detto più volte di andarsene, perché era tardi, lui si è finalmente deciso e si è diretto verso il vicolo che è di fronte a casa mia, e che arriva alla strada prima della nostra , cioè la via Manzoni.
Dopo un po’ ho sentito il rumore di una macchina che partiva, ho detto a mia madre chi era, perché lei ancora non lo aveva capito. Andrea non veniva a casa mia da più di cinque anni, ma la cosa di cui sono sicura è che è venuto per uccidermi, perché conosco le amicizie che ha con gli appartenenti al clan degli Accardo. So benissimo che porta sempre con sé una pistola e che dopo aver smesso di lavorare da noi, si fa comprare per fare i lavori più sporchi e illeciti che vi siano. (…) Stasera Andrea non era ubriaco, era capace di fare ciò che gli Accardo, per mezzo dei suoi soldatini, hanno ordinato di fare, cioè uccidere me e mia madre. In lui c’era troppa insistenza gentile. Ho detto a mia madre che era tutto a posto, ho inventato delle scuse per tranquillizzarla, ma ho proprio paura che domani mi uccideranno. Spero che le mie paure siano infondate, ma in caso contrario spero non facciano del male a mia madre, la mia paura è per lei, non posso lasciarla nei guai. Domani avvertirò il brigadiere, ma prima devo assicurarmi che mia madre sia al sicuro. Spero non sia l’ultima volta che scrivo in questo quaderno.
Speranza
Attendere chi. O cosa?…
Forse una speranza
l’illusione di cambiare ciò che ti circonda
talmente complicato perché sai che mai
ciò che è stato rubato ti potrà essere restituito
puoi gridare, piangere, soffrire,
ma nessuno ascolterà, nessuno ti capirà
anzi ti giudicherà.
A Roma:
È notte e nel cielo c’è soltanto silenzio
e un gran buio
la città intorno a me è ancora sveglia
e piena di luci
ascolto ma non sento
Quella città è troppo lontana da me
o forse io da lei
Comunque sia non sapere
qual è la mia città mi fa solo capire
quanto sia dolce il dolore che ci lega ai suoi ricordi.
E’ una lunga sera e nel cielo ci sono milioni di stelle, una più affascinate dell’altra, in ognuna c’è un piccolo segreto, ognuna ha un lungo viaggio da compiere, una di esse, proprio la più piccola, la più lucente, la più lontana, sta compiendo per me il più lento ed il più lungo dei viaggi, per arrivare in un luogo chiamato infinito, proprio lì sono i miei due grandi amori, proprio lì nell’infinito un giorno potrà riabbracciare le mie stelle. Quelle stelle che avranno il potere di illuminare l’immensità del cielo e che nessuno potrà più spegnere mai.
(Rita Atria)
a cura di Claudio Ramaccini – Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF