Dicono di lui

Borsellino ride

Borsellino ride

SERGIO MATARELLA – Presidente della Repubblica– Onorare la memoria del giudice Borsellino e delle persone che lo scortavano significa anche non smettere di cercare la verità su quella strage. A ventisei anni di distanza sono vivi il ricordo e la commozione per il vile attentato di via d’Amelio, in cui hanno perso la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Claudio Traina. Borsellino era un giudice esemplare: probo, riservato, coraggioso e determinato. Le sue inchieste hanno costituito delle pietre miliari nella lotta contro la mafia in Sicilia. Insieme al collega e amico Giovanni Falcone, Borsellino è diventato, a pieno titolo, il simbolo dell’Italia che combatte e non si arrende di fronte alla criminalità organizzata. 19 Luglio 2018

Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del Plenum del Consiglio Superiore della Magistratura dedicato al ricordo di Paolo Borsellino a 25 anni dalla strage di via d’Amelio 18 lUGLIO 2017 – Signor Vice Presidente e Signori Consiglieri, insieme a voi rivolgo un saluto commosso a Lucia Borsellino, ai familiari di Paolo Borsellino e agli altri ospiti oggi intervenuti; con un pensiero ai familiari di Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina, uccisi con lui. A distanza di poco meno di due mesi – secondo il ritmo dell’orrore scandito dai due attentati di Capaci e di via D’Amelio – presiedo nuovamente l’assemblea plenaria, questa volta per onorare la memoria di Paolo Borsellino. Come ho già detto in occasione della seduta dedicata a Giovanni Falcone, la rievocazione delle loro figure non può, e non deve, trasformarsi in un rituale fine a se stesso, originato dalle spinte emotive suscitate dall’occasione. E questo ci viene ricordato, ancora una volta, dall’ignobile oltraggio recato al busto di Giovanni Falcone nella scuola di Palermo a lui dedicata. E, ancora ieri, da quello contro la stele che ricorda Rosario Livatino. Ricordare Paolo Borsellino vuol dire far memoria di come egli visse, interpretò e svolse il suo ruolo di magistrato, costantemente impegnato nella sua terra d’origine per l’affermazione della legalità, con rigore e con determinazione, sempre con noncuranza riguardo alla visibilità per l’attività svolta. Nel suo percorso professionale Paolo Borsellino, sin dall’inizio, dall’ingresso in Magistratura nel 1964, ha messo in evidenza grandi qualità professionali e altrettanto grande sensibilità umana. Dopo undici anni, trasferito al tribunale di Palermo entra a fare parte, poco dopo, dell’Ufficio Istruzione, diretto da Rocco Chinnici, il rimpianto per la cui figura è pure struggente, particolarmente in chi lo ha conosciuto. L’incontro con Chinnici è di fondamentale importanza nella formazione di Borsellino, che stabilisce subito con Chinnici un rapporto umano e professionale molto stretto. Sono questi gli anni in cui si conferma la sua caratura professionale e la sua tenacia nel perseguire le ragioni della giustizia nella sua terra. L’enorme lavoro dedicato all’istruzione formale del complesso procedimento che culmina nel “maxi-processo” assorbe e caratterizza tutta la vita di Borsellino in quegli anni. Insieme a Giovanni Falcone e ad altri valorosi colleghi vengono sperimentati, con successo, metodi investigativi nuovi e più efficaci, attraverso la condivisione delle informazioni tra i magistrati e con maggiore attenzione verso il potere economico delle cosche, il settore degli appalti e quello dei movimenti bancari. Attraverso questo nuovo metodo, fondato sulla condivisione delle informazioni, sul lavoro di gruppo, sulla specializzazione dei ruoli, l’ufficio istruzione di Palermo raggiunge, in quel tempo, risultati processuali di rilievo inedito, resi possibili grazie alla capacità di valorizzare i criteri dell’efficienza e del coordinamento. E in questo contesto, le esperienze di Paolo Borsellino come giudice civile e penale, giudicante e requirente, si sono rivelate un punto di forza, imprimendo alla sua attività istruttoria una connotazione di particolare solidità probatoria. Nel 1986 Paolo Borsellino assunse la direzione della Procura della Repubblica di Marsala e nel marzo del 1992, alla vigilia delle stragi mafiose, tornò a Palermo perché nominato Procuratore Aggiunto. Anche quando emersero profonde divergenze di vedute all’interno dell’ufficio istruzione di Palermo, non più diretto da Antonino Caponnetto, Paolo Borsellino – pur non facendone più parte – si adoperò, con grande impegno, per evitare che si lacerasse l’ufficio, per non disperdere il patrimonio di conoscenze e di esperienze che era maturato nel gruppo di magistrati che avevano dato vita al pool antimafia. Il metodo di lavoro era per Borsellino un patrimonio prezioso perché basato sulla collaborazione fra un gruppo di colleghi affiatati, in grado di condividere conoscenze e prassi attraverso una costante e reciproca verifica degli orientamenti, al fine di arrivare all’adozione congiunta dei provvedimenti più rilevanti. Questo patrimonio di esperienze si è poi tradotto in prassi diffuse e in nuove normative che hanno consentito di far assumere alla lotta alla mafia i connotati della concretezza, incisività ed efficacia, oggi riconosciuti in tutto il mondo. Ma è bene ricordare che negli anni ’80 questo metodo rappresentava l’innovazione più significativa nell’esperienza giudiziaria, cui occorre ancora guardare per trarre spunto e ispirazione nella direzione di un impegno unitario dell’azione giudiziaria. Nell’attività professionale di Paolo Borsellino colpisce non soltanto l’altissimo livello di professionalità, ma anche il suo spirito di abnegazione, che si rinviene nel suo modo di “vivere” il ruolo di magistrato. Il percorso professionale di Borsellino è lo specchio del suo modo di essere. La naturale disposizione ad ascoltare, fondata su un reale rispetto dell’interlocutore, l’innata inclinazione a motivare i suoi collaboratori, l’indiscussa capacità di consigliare, il rigore morale sono qualità che, prima ancora di caratterizzare il suo impegno professionale, ne hanno distinto il profilo umano. Paolo Borsellino non si è mai arreso, non ha mai rinunciato a sviluppare il suo progetto di legalità, anche quando era diventato ormai consapevole di essere vittima predestinata della mafia. Come disse ad un giornalista, sapeva di camminare “con la morte attaccata alla suola delle scarpe”. Paolo Borsellino ha combattuto la mafia con la determinazione di chi sa che la mafia non è un male ineluttabile ma un fenomeno criminale che può essere sconfitto. Sapeva bene che, per il raggiungimento di questo obiettivo, non è sufficiente la repressione penale ma è indispensabile diffondere, particolarmente tra i giovani, la cultura della legalità. Proprio per questo era impegnato molto anche nel dialogo con i giovani, convinto che la testimonianza di valori positivi promuove una società sana e virtuosa, in grado di emarginare la criminalità. Il 19 luglio di venticinque anni fa, alle cinque del mattino, stava proprio scrivendo la risposta a una lettera inviatagli dalla preside di un liceo di Verona. La missiva è rimasta incompiuta ma costituisce una testimonianza di grande forza dell’importanza della formazione delle nuove generazioni. La sua tragica morte, insieme a coloro che lo scortavano con affetto, deve ancora avere una definitiva parola di giustizia. Troppe sono state le incertezze e gli errori che hanno accompagnato il cammino nella ricerca della verità sulla strage di Via D’Amelio, e ancora tanti sono gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto efferato. Oggi ricordiamo Paolo Borsellino non perché è stato assassinato ma perché ha vissuto in maniera autentica il suo servizio allo Stato, con coraggio, con dedizione e con tenacia, facendo della mitezza d’animo uno dei suoi punti di forza. A lui il Paese è riconoscente per la testimonianza che ha reso, per il sacrificio a cui è stato sottoposto e, con lui, la sua famiglia, per il grande senso di umanità, di giustizia, di speranza che ha permeato tutta la sua esistenza, dedicata, con efficacia straordinaria, all’obiettivo che la Sicilia e l’Italia fossero liberate dalla mafia.

MARIA ELISABETTA CASTELLATI – Presidente del Senato -. Domani ricorre un triste e doloroso anniversario, una di quelle date che hanno cambiato la storia d’Italia, che hanno cambiato tutti noi: domani ricorre il 26esimo anniversario della strage di via D’Amelio. Insieme al giudice Paolo Borsellino persero la vita i 5 agenti della sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi. Paolo Borsellino non è stato solo un grande magistrato, non è stato solo un esempio da seguire nella lotta alla mafia e alla criminalità organizzata. E’ stato – ed è – molto di più. Un eroe civile. Un patrimonio di quell’Italia che non si è piegata, che non ha cercato scorciatoie, che non è scesa a compromessi. Quel 19 luglio ha tolto tantissimo all’Italia; quel 19 luglio ha dato tantissimo alla storia d’Italia. La lotta alla mafia è stata da allora vissuta come un dovere morale, nella consapevolezza che non possono esserci cedimenti di alcun tipo rispetto all’affermazione, sempre e comunque, della legalità. Lo spirito che ha animato l’azione di Borsellino è infatti sempre stato positivo e propositivo. Per lui la mafia non era un male inestirpabile ma un fenomeno criminale e come tutti i fenomeni criminali poteva e doveva essere sconfitto. Un obiettivo per raggiungere il quale era convinto che non servisse solo la repressione ma fosse indispensabile diffondere una vera cultura della legalità, a partire dalle nuove generazioni. Amava dire Borsellino sulla mafia: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa Mafia svanirà come un incubo”. Un vero e proprio manifesto di quello che le Istituzioni sono chiamate a fare ogni giorno, per il bene comune, per affermare il nostro Stato di diritto. Credo che quest’Aula possa trovare in Paolo Borsellino e negli altri servitori della Nazione che hanno sacrificato la propria vita, l’ispirazione per svolgere, ancora di più, ancora meglio, la propria funzione. 18 Luglio 2018

PIETRO GRASSO – Presidente del Senato – Cari colleghi, ricorre oggi il 25° anniversario della strage di Via D’Amelio, nella quale furono barbaramente assassinati il giudice Paolo Borsellino e gli uomini di scorta della Polizia di Stato Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. Il nostro primo pensiero, sono certo, si rivolge innanzitutto alle famiglie degli uomini e delle donne uccisi da quell’esplosione. Non erano trascorsi neanche due mesi dalla strage di Capaci quando l’Italia si trovò di fronte a un secondo attacco terroristico-mafioso. Il 19 luglio è un giorno che racchiude in sé dolore, emozione e pensieri, ricordi, bilanci e promesse che trovano spazio all’ombra dell’ulivo piantato nel luogo in cui quel tremendo boato trascinò con sé la loro vita e sotto il quale oggi si ritroveranno centinaia di ragazze e ragazzi. Il dolore e lo sconforto confondono e ridisegnano la nozione che abbiamo del tempo: ecco come venticinque anni – o cinquantasette giorni – sembrano interminabili e, al tempo stesso, volati via in un attimo. La quiete di una domenica qualunque d’estate si trasformò, in un istante, in una ferita che non potremo mai sanare. Non abbiamo dimenticato nulla di quella domenica palermitana, né della vita e dell’esempio degli uomini e delle donne vittime della furia omicida della mafia. Di Paolo Borsellino voglio in questa solenne occasione ricordare soprattutto il sorriso. Era un uomo solare, simpatico, affabile. Professionalmente aveva un eccezionale talento, una passione viscerale e una ineguagliabile capacità di superare fatica e delusioni. Sapeva sempre dare il giusto consiglio ai colleghi più giovani: me ne ha dati tanti, preziosissimi, quando iniziai a studia-re le carte del maxiprocesso. Dopo il 23 maggio 1992 l’espressione di Paolo si trasformò in una maschera di tensione e di dolore. Fu chiamato dalla sua coscienza a raccogliere il lascito pericoloso del suo amico e collega, e sebbene fisicamente e moral-mente distrutto per la perdita di Giovanni, ne assunse la pesante eredità con la precisa consapevolezza che presto avrebbe seguito il suo destino; aveva deciso di continuare e si era buttato senza un attimo di tregua nelle indagini, imponendosi ritmi massacranti con l’ansia di una vera lotta contro il tempo. Borsellino ha saputo, con la fermezza e la dedizione di un uomo innamorato del suo Paese, dare a tutti noi una grande lezione di coerenza e di senso del dovere. Il suo esempio è sopravvissuto all’esplosivo di Via D’Amelio, al tempo, alle calunnie, ai pezzi di verità mancanti che ancora affannosamente cerchiamo: vive e si rafforza nei gesti di chi, ogni giorno, si impegna per la legalità e la giustizia; nella voce di quanti non rimangono più in silenzio; nel coraggio che serve per rifiutare compromessi, privilegi e indebite scorciatoie. Nel nome di Borsellino, e in quello di tutti i caduti innocenti per mano mafiosa, abbiamo in questi 25 anni ottenuto molti successi nel contrasto alla criminalità organizzata: abbiamo sconfitto la ‘cosa nostra’ violenta, sanguina-ria e stragista, ma non ancora quella capace di mutar pelle, di sparire dai radar dell’opinione pubblica e di infiltrarsi a tutti i livelli nella società, nella politi-ca e nella Pubblica Amministrazione. Non sono mancati momenti nei quali la mafia ha tentato dei colpi di co-da che ne dimostrano più la debolezza che la forza: penso, ad esempio, ai recenti atti di vandalismo inferti alle statue di due grandi uomini dello Stato, Giovanni Falcone e Rosario Livatino. È proprio dinanzi a questi rigurgiti e alle immagini che ci ricordano l’inferno di Via D’Amelio, i corpi dilaniati, che dobbiamo rinnovare la promessa di impegnarci per perseguire ideali di verità e di giustizia e per continuare l’opera di contrasto ad ogni manifestazione mafiosa, con uno slancio etico che superi ogni indifferenza e rassegnazione e l’alibi del non sapere. C’è ancora molto da fare e, come membri di questa Assemblea rappresentativa, abbiamo il compito di essere all’altezza di una così decisiva sfida per il nostro Paese e per il suo futuro. In memoria di Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina invito ad un minuto di raccoglimento. 19 Luglio 2017

Caro Paolo, quando penso a te, mi chiedo spesso: quanto sono lunghi cinquantasette giorni? Quanta vita riesce a starci dentro? Quante cose sei riuscito a capire, a fare, a preparare e a disporre in quelle poche settimane che separano il 23 maggio dal 19 luglio 1992? Abbiamo approfondito il nostro rapporto a partire dal Maxiprocesso, ma il nostro primo contatto risale a molto tempo prima: nel 1958 frequentavamo entrambi il liceo Meli, tu all’ultimo anno e io al ginnasio, e molte volte, dopo averlo scoperto, ti ho preso in giro sulla tua precoce carriera da direttore ed editorialista del giornale della scuola, “Agorà”, da dove lanciavi critiche al sistema scolastico. Gli anni del Maxi sono stati, per usare le tue parole, una “meravigliosa avventura”, il periodo in cui siamo riusciti a ottenere i primi grandi successi nel contrasto a Cosa nostra, quando sembrava che, davvero, le cose stessero per cambiare. Allora i cittadini facevano il tifo per il pool antimafia, erano pronti a rialzare la testa e riconquistare quei pezzi di libertà che il giogo mafioso toglieva allora, e in parte toglie ancora. Sono stati gli anni migliori, quelli in cui ho conosciuto il Paolo che più mi piace ricordare, dedito al lavoro e allo stesso tempo pieno di allegria, consapevole dei rischi ma pronto a godere dei piccoli piaceri di una vita normale, solitamente preclusi a chi vive scortato. Ricordo quando ti incontrai mentre guidavi da solo la tua auto blindata: eri fuggito dalla scorta per comprare le sigarette. Provai a rimproverarti, ma con il solito sorriso che usavi per sdrammatizzare mi rispondesti: “Devo pur lasciare uno spiraglio nel sistema di protezione. Se mi devono ammazzare, voglio che abbiano la possibilità di colpire solo me”. Mi chiedesti di accompagnarti ai grandi magazzini lì vicino, e osservai il piacere che provavi in quei minuti di libertà indugiando tra i banconi, comprando cose futili e rifiutando la cortesia di chi, avendoti riconosciuto, voleva cederti il posto in coda alle casse. Sei stata la persona più semplice e più complicata che abbia mai conosciuto. Semplice per mille piccoli gesti di vita quotidiana, non sempre aderenti all’etichetta, che rivelavano il tuo spirito scherzoso e goliardico: le adorate polo al posto delle camicie, il fumo dell’eterna sigaretta e i mozziconi sparsi ovunque in ufficio, gli scherzi continui, il tirare la mollica del pane contro i più seriosi durante le cene. Eri sempre disponibile per i colleghi, soprattutto per i più giovani, ai quali non mancava mai il tuo consiglio. Anche dopo anni, mi colpiva il tuo modo di parlare pacato ma deciso, accompagnato da una mimica altamente espressiva che coinvolgeva gli occhi, di colore indefinibile, dal castano al verde, i baffi, la bocca, il modo tutto tuo di arricciare il naso e il sorriso che sempre illuminava il tuo volto prima di una battuta sarcastica. Immagini di te che non sono registrate in interviste o eventi pubblici ma che restano indelebili per chi le ha potute vivere: mi piacerebbe far sapere ai molti che conoscono solo le tue espressioni serie, determinate e livide di quei cinquantasette giorni di rabbia e dolore, che non eri solo il magistrato inflessibile e il giudice coraggioso, ma anche un uomo caldo, generoso, estroverso, circondato dall’amore di tua moglie Agnese e dei tuoi figli Manfredi, Lucia e Fiammetta. Eri anche complicato, perché in te si combatteva un’eterna lotta tra i duri doveri del magistrato, ai quali non ti saresti mai sottratto, e la profonda empatia con le dolorose vicende umane che questa professione porta a conoscere e affrontare. Il tuo rapporto con il lavoro era frenetico ma non ossessivo, ai miei occhi apparivi come un cingolato che avanza con andatura costante nel macinare processi, indagini, rapporti di polizia, documenti. Nulla ti avrebbe potuto fermare: la passione ti faceva sopportare ogni fatica. Dopo quel periodo di sostegno generale ci fu una sorta di riflusso, anni di delusioni, delegittimazioni, critiche ingiuste e polemiche feroci. Avemmo il sospetto che si volesse chiudere in fretta una stagione che avrebbe potuto dare ancora grandi frutti. Per questo, più volte, hai denunciato pubblicamente quanto stava avvenendo: l’isolamento di Giovanni; lo smantellamento del metodo che aveva portato a risultati prima impensabili perché, come dicevi, “il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio”; l’uso distorto fatto allora delle parole di Sciascia sul “Corriere della Sera” e che continua ancora oggi; gli attacchi che venivano sia da alcuni colleghi sia da alcuni politici e giornalisti. Hai sopportato prove che avrebbero fiaccato chiunque, persino le polemiche per quel maledetto incidente in cui restò coinvolta l’auto della scorta che viaggiava dietro la tua, che ferì studentesse e studenti davanti al nostro vecchio liceo e costò la vita a Biagio Siciliano, appena quattordicenne, e a Giuditta Milella, figlia di un questore in pensione. Ti ricordo aggirarti sconvolto per gli ospedali, affrontando coraggiosamente i familiari e parlando con i ragazziferiti come fossero figli tuoi. Ci confessasti pieno di amarezza: “Provo un senso di colpa enorme. Quello che è successo è conseguenza delle condizioni in cui si vive in questa maledetta città, quelle condizioni create dall’organizzazione mafiosa. Bisognerebbe spiegare ai ragazzi, e ai loro genitori, che tutto questo è cominciato dall’assassinio di magistrati come Chinnici, Costa e altri. Se non è possibile assicurare condizioni di sicurezza adeguate senza rischiare tragedie, io per primo sono pronto a rinunciare alla scorta”. Rischiavi la vita per i cittadini di Palermo, eppure ricevesti attacchi anche in quel frangente. Non sapevano quale intenso e profondo rapporto ti legava “ai tuoi ragazzi”, quelli che ti seguivano giorno e notte per proteggerti; non sapevano che temevi più per la loro vita che per la tua e quanti stratagemmi usavi per liberarli ogni tanto dai rischi. Uno degli agenti della tua scorta è poi stato per quindici anni nella mia: parlava moltissimo di te e dalle sue parole trasparivano insieme l’affetto e l’orgoglio di esserti stato accanto. Non credo sia un caso che i nostri figli, cresciuti circondati da uomini così coraggiosi e che in qualche modo erano ormai parte della nostra famiglia allargata, abbiano scelto di indossare la divisa della polizia di Stato. Eppure, caro Paolo, andavi avanti. Sempre. Poi ci fu il 23 maggio e tutto cambiò in un attimo. Fu il tuo viso affranto a darmi la consapevolezza che non c’era più niente da fare per Giovanni e che, per usare le tue parole, con la sua “era finita una parte della mia e della nostra vita”. Iniziarono i giorni peggiori: si stava avverando la profezia che Ninni Cassarà ti aveva fatto sul luogo dell’omicidio di Beppe Montana: “Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano”Accettasti con piena consapevolezza, ancora di più che negli anni precedenti, ogni rischio, ogni conseguenza del lavoro che avevamo scelto e della testarda convinzione di farlo fino in fondo. Sentivi che il tempo stringeva. In meno di due mesi hai fatto ogni sforzo possibile per arrivare alla verità su Capaci e per difendere l’eredità di Giovanni, rifiutando con una dura lettera al ministro Scotti la proposta, imprudentemente fatta in pubblico, di riaprire per te il concorso per la Procura antimafia, quel concorso che aveva visto Falcone perdente. Hai cercato in ogni occasione possibile di risvegliare la coscienza del Paese. Ci sei riuscito, caro Paolo: la registrazione dei tuoi interventi di quelle settimane – il ricordo di Giovanni fatto agli scout nella chiesa di San Domenico a un mese dalla sua morte e meno di un mese prima della tua, in cui sottolineavi tre volte la “perfetta coscienza” con cui lui, Francesca e tutti gli uomini della scorta affrontavano il rischio di morire, l’intervento presso la biblioteca comunale del 25 giugno, le numerose interviste rilasciate, mai così tante come in quei giorni – sono tra i documenti più limpidi per capire chi eri tu, chi era Giovanni, quale straordinario impegno – “per rendere migliore Palermo e la patria cui essa appartiene” – la mafia ha cercato di spezzare con la vostra morte, senza riuscirci. Ripeto spesso anche io quelle parole, le diffondo come una sorta di testamento che hai voluto lanciare ai giovani riuniti in chiesa per il trigesimo, parlando del tuo amico ma in fondo, ne sono sicuro, anche di te:

Sono morti per tutti noi e abbiamo un grande debito verso di loro: dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera:
– facendo il nostro dovere;
– rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici;
– rifiutando del sistema mafioso anche i benefìci che potremmo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro);
– collaborando con la giustizia;
– testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia;
–  troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli;
– accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito;
– dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo.”

Cinquantasette giorni: pochi per fare tutto quello che avresti voluto, ma forse sufficienti per prepararti a morire in “perfetta coscienza”. Avevi sempre saputo che la mafia ti avrebbe ucciso, eri riuscito persino ad abbracciare Vincenzo Calcara, il killer che era stato incaricato di farlo a Marsala, dove vivevi ancora più blindato, e a scherzarci proprio con lui durante un interrogatorio: “Hai sbagliato, a Marsala era difficile, dovevi provarci a Palermo”. Non accettavi il consiglio di chi, forse non conoscendoti abbastanza, ti invitava a mollare la città, tu che alla camera ardente dei caduti a Capaci, avevi avvisato tutti: “Chi vuole andare via da questa Procura se ne vada, ma chi vuole restare sappia quale destino ci attende: il nostro futuro è quello lì”, puntando il dito verso le cinque bare. Ma in quei caldi giorni di luglio la consapevolezza che il tempo ti stesse sfuggendo dalle mani ti portò a prepararti anche spiritualmente, da fervente cattolico quale eri. Alla camera ardente del palazzo di giustizia allestita per le vittime del 23 maggio stringesti i rapporti con un giovane prete, il cugino di Vito Schifani, quello che sosteneva la moglie Rosaria mentre tuonava in chiesa contro i mafiosi, e fu proprio a lui che, pochi giorni prima di morire, chiedesti di confessarti, perché non eri sicuro di arrivare alla domenica successiva. La tua vita finì proprio quella domenica, il 19 luglio. Ti sei alzato presto, alle 5, per “fregare” due ore alla giornata, parlare al telefono con Fiammetta che era in vacanza in Thailandia e rispondere a una professoressa del liceo Cornaro di Padova: le tue ultime parole sulla mafia, qualche ora del tuo poco tempo libero dedicata a ragazzi mai visti, nel primo giorno in cui ti eri imposto di non lavorare. Poi una mattinata di mare, a Villagrazia di Carini, per un ultimo bagno e un pranzo con gli amici e la famiglia. Un piccolo spazio di tempo dedicato a loro, che con dolore avevi trascurato negli ultimi giorni: un po’ per l’impegno infaticabile nel lavoro, un po’ per abituarli a quel tragico distacco che sapevi avrebbero vissuto a breve. Il lunedì successivo saresti dovuto andare dal procuratore di Caltanissetta per rivelare ciò che sapevi sulla fine di Falcone, su ventilate ipotesi di dissociazione dei boss all’ergastolo, sulle ultime indagini di Giovanni nel settore degli appalti pubblici che volevi riprendere personalmente, riesumate nel corso di un incontro riservato, fuori dalla Procura di Palermo, con i vertici operativi del Ros dei carabinieri. In via D’Amelio, sotto casa di tua madre, c’erano troppe auto parcheggiate: nonostante le numerose segnalazioni per evidenti ragioni di sicurezza, non era ancora stato imposto l’obbligo di rimozione. Una gravissima omissione. Da giorni avevano già occupato il posto più vicino al citofono, per poi sostituire l’auto posteggiata con la Fiat 126 imbottita di esplosivo in attesa del tuo arrivo. Un attimo, un boato, l’inferno. Perdeste la vita tu, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi. Il tuo affezionato autista, Antonio Vullo, che stava facendo manovra con la tua auto blindata, provò disperatamente a soccorrervi, venendo investito da un’ondata di fumo, fiamme e calore. I dettagli di quel che avvenne sono così carichi di orrore che preferisco non ripeterli. Ero a Roma in quel momento – continuavo a lavorare, dopo la morte di Giovanni, al ministero di Grazia e giustizia– e mi precipitai a Palermo con un volo di Stato insieme al ministro Martelli. Il dolore e la rabbia si rinnovarono, insieme all’angoscia e allo smarrimento. Tante domande iniziarono ad affollarsi nella mia mente: perché un’ulteriore strage a distanza così ravvicinata dopo Capaci? Era la paura che Borsellino diventasse procuratore nazionale antimafia, non essendo stata ancora resa nota la sua lettera di rifiuto? O il timore che avrebbe portato avanti le indagini su mafia e appalti? Serviva ad alzare il prezzo della tregua nella guerra contro lo Stato? O ancora, un coacervo di interessi, quel connubio tra imprenditoria, massoneria e servizi deviati che vedevano in pericolo i loro lucrosi affari e gli illeciti profitti? Era il paventato pericolo dello sconvolgimento politico dopo Tangentopoli? Probabilmente ciascuna e tutte queste motivazioni insieme: di certo non basta l’ipotesi della vendetta contro un nemico giurato, sapevano che la reazione dello Stato sarebbe dovuta essere implacabile: quella seconda strage comportava più rischi che vantaggi per Cosa nostra. Da Palermo tornai a Roma, per aspettare il rientro di Fiammetta da Bangkok e accompagnarla al tuo funerale. Nel frattempo, alle esequie degli agenti, assistemmo a un nuovo momento di vicinanza tra i cittadini di Palermo e l’Italia intera, un momento di rabbia cieca contro la mafia, di indignazione verso le istituzioni che non avevano fatto abbastanza, ancora una volta, per difendere i propri cittadini migliori, un momento di dolore per le vittime e di profonda solidarietà con i loro familiari. C’è un’altra vittima di quell’attentato, anche se non per effetto della spaventosa esplosione di via D’AmelioUna ragazza di soli diciassette anni, Rita, la tua “picciridda”. A quell’età si dovrebbero inseguire i sogni, progettare il futuro, vivere la bellezza di un’età spensierata. Invece Rita Atria patì il dolore per la morte del padre e del fratello, affiliati a Cosa nostra; con coraggio denunciò quanto sapeva, subendo il ripudio della sua famiglia; soffrì per la solitudine a cui la relegarono. Eri tu il suo sostegno. La ascoltavi, la incoraggiavi, le davi la forza per affrontare gli ostacoli. Avevi un rapporto protettivo con le donne che decidevano di collaborare con la giustizia e che per questo venivano isolate dalle loro stesse famiglie. Grazie alle parole di Pietra Lo Verso, Giacoma Filippello, Piera Aiello, Rosalba Triolo imparasti a decifrare, come nessun altro prima, il rapporto che lega le donne ai mariti o ai parenti mafiosi, ad analizzare il loro ruolo in seno a Cosa nostra. Una settimana dopo la tua morte, Rita non ce la fece più e si suicidò. Al conto delle vittime di via D’Amelio andrebbe aggiunto anche il nome di questa giovanissima donna, che ha saputo dare dignità al poco tempo che il destino le ha concesso. Niente è stato più lo stesso: dopo il 19 luglio sono stati in tanti a portare avanti il tuo ricordo, a partire dai tuoi fratelli Rita e Salvatore. La tensione morale intorno a te e a Giovanni non è mai diminuita: siete tra le poche figure non controverse, icone trasversali di un Paese che ha disperatamente bisogno di credere in qualcuno e che nelle vostre vite ha trovato un punto di riferimento, una sorgente dalla quale attingere forza e voglia di impegnarsi nel proprio quotidiano. Per scriverti questa lettera, caro Paolo, ho ripreso gli appunti che avevo usato nel 2002 per commemorare i dieci anni dal tuo assassinio. C’era già una sentenza, ma dalle parole che usai emergono i tanti dubbi che avevo, e non solo io, sulla ricostruzione di Vincenzo Scarantino. Dissi che era emersa solo una parte di verità, ma non tutta: “Dopo dieci anni di indagini ancora non si è trovato il bandolo della matassa sotto il profilo giudiziario. Ma di sicuro c’è l’aspirazione di tutti i giudici inquirenti, a qualsiasi ufficio appartengano, di consegnare al popolo italiano il quadro di una situazione, che al di là della rigida e ardua ricostruzione di un valido contesto probatorio, va chiarita in tutti i suoi aspetti, rispondendo a domande fondamentali, che ancora oggi rimangono senza risposta”. Ne ero così convinto che non ho mai smesso di indagare sulle stragi, qualsiasi ruolo abbia ricoperto. Da procuratore nazionale ho avuto nel 2008 la conferma di quel che avevo intuito. Dopo aver insistito per anni, finalmente Gaspare Spatuzza iniziò a parlare, e grazie alle sue inedite confessioni il quadrò cambiò del tutto. Persone innocenti vennero scarcerate, sentenze passate in giudicato vennero messe in discussione. Iniziò una nuova stagione processuale, con nuovi colpevoli noti e altri ancora ignoti; a tanti improvvisamente tornò la memoria di fatti di cui non avevano mai parlato. Proprio per trovare quei colpevoli ancora nascostiho usato ogni strumento in mio possesso al fine di arrivare alla verità. Ho lasciato la Procura orgoglioso di aver continuato a ricercare informazioni per dare nuovi spunti alle indagini sulle stragi e sugli omicidi “eccellenti”. Quelle informazioni, raccolte grazie ai colloqui investigativi, sono diventate atti d’impulso alle Procure, tracce e suggerimenti da approfondire per trovare, se ve ne sono, conferme e riscontri. La mia speranza, caro Paolo, è che, com’è successo con Spatuzza, possano esserci nuovi collaboratori, interni o esterni alla mafia, che aiutino i magistrati impegnati su questo fronte a far piena luce sui tanti punti oscuri che ancora rimangono nella nostra storia. Alle forze dell’ordine e ai magistrati che si impegnano ogni giorno, con dedizione, sacrifici e talvolta anche a rischio della vita, non devono mancare solidarietà, risorse, tecnologie e strumenti adatti per soddisfare questa ansia di verità. Quella mafia infame e violenta che ha deciso il tuo assassinio non c’è più: alcuni sono morti in carcere, altri sono ancora oggi detenuti. Dal 1993 non abbiamo assistito a omicidi così eclatanti: la strategia della sommersione prosegue. Sotto il profilo che definiamo militare la repressione investigativa ha funzionato. Questo non significa che la mafia sia stata sconfitta. Ha imparato a mimetizzarsi ancora meglio, lascia silenziose le armi ma continua a lucrare sui fondi pubblici e sul malessere della popolazione. Molte indagini, non solo in Sicilia ma in tutto il Paese, hanno svelato complesse reti di relazioni fra mafiosi, politici, imprenditori, professionisti e amministratori pubblici, inizialmente caratterizzate da intimidazione e violenza, alle quali poi si aggiungono collusione e corruzione, fino a diventare coincidenze di interessi. Sappi che nell’unico giorno in cui sono stato senatore prima di essere eletto presidente del Senato, ho presentato un disegno di legge per affinare gli strumenti utili a colpire il fenomeno dell’economia criminale sotto i diversi aspetti della corruzione, del riciclaggio, dell’evasione fiscale, del falso in bilancio e del voto di scambio. Dopo qualche anno, seppur con modifiche ne hanno annacquato la portata, le mie proposte, quelle che tante volte da magistrati avevamo discusso e proposto ma non avevano visto la luce, sono diventate legge. Avevo anche chiesto che fosse istituita una commissione d’inchiesta su tutte le stragi irrisolte, mafiose e terroristiche, per cercare, con altri strumenti, i pezzi mancanti di verità, ma la proposta non è passata. Siamo sempre stati consapevoli, d’altronde, che la lotta allamafia non può essere solo una battaglia giudiziaria o di ideali: è necessario intervenire sulla prevenzione, e quindi sulle condizioni di sviluppo, sulla capacità dei territori di attrarre investimenti e risorse, per sottrarre quella larga parte di ragazzi che non studiano e non lavorano alle lusinghe del crimine. Nulla potrà fermarci dal continuare. Ci sono tantissime persone che, guardando al vostro esempio, difendono lo Stato, la Costituzione e i suoi valori. Politici che vivono seriamente il loro impegno, come il presidente della Repubblica: un uomo che è parte di questa dolorosa storia e che rappresenta un sostegno affidabile e coerente per tutti i familiari delle vittime e per i cittadini che non si arrendono. Sindaci che guidano il cambiamento nel loro territorio, e per questo vengono minacciati. Magistrati che vanno avanti con coraggio. Giornalisti che fanno emergere, talvolta prima degli investigatori, gli intrecci criminali, spesso costretti anche loro a una vita blindata. Professori che a scuola, ogni mattina, trasmettono alle giovani generazioni i valori per cui avete vissuto e per cui siete morti, raccontano la vostra storia, educano a una cittadinanza consapevole. Cittadini che scelgono per i loro acquisti i negozi che non pagano il pizzo, che fanno i volontari nelle tante associazioni antimafia, che lavorano gratuitamente sulle terre confiscate, che denunciano, che protestano, che non stanno più zitti. È un numero che cresce costantemente, che mi dà speranza, perché sono frutto del vostro sacrificio. Ora ti immagino insieme ad Agnese. L’ultima volta che l’ho sentita, poco prima che morisse, ero insieme a tua figlia. Ho incontrato Lucia a Palermo qualche giorno dopo la mia elezione a presidente del Senato, mi ha detto che la sua salute era peggiorata e me l’ha passata al telefono. La voce era affaticata, ma non l’animo coraggioso in quel corpo minuto. Mi sono tornati in mente ricordi lontani di quando, da ragazzi, prima che vi conosceste, venivo invitato il sabato sera alle feste a casa sua, lei le chiamava “serate danzanti”. Per vent’anni, dopo la tua morte, ha condotto una battaglia discreta per arrivare alla verità. Quella battaglia continua ancora oggi. La mattina del 24 luglio, il giorno dei tuoi funerali, atterrammo con Fiammetta all’aeroporto di Punta Raisi, che oggi è l’aeroporto “Falcone e Borsellino”. Era l’alba, e la bellezza del sole che sorgeva dal mare e di Monte Pellegrino strideva terribilmente con gli orrori compiuti dagli uomini. Mi vennero in mente le tue parole sulla nostra “terra bellissima e disgraziata”: non le ho mai sentite così vere come in quel momento. Quel contrasto ancora mi ferisce ma la Sicilia non è più la terra degli infedeli: saresti orgoglioso dei successi ottenuti in questiventicinque anni, anche se non è ancora l’isola libera che sognavamo. Continueremo a credere in quel sogno. Continueremo a fare tutto il possibile perché si avveri. Potremo dirci soddisfatti solo quando, e succederà, la mafia avrà una fine. Tuo, Piero – da  Pietro Grasso – Storie di sangue, amici e fantasmi

ROBERTO FICO – Presidente Camera dei Deputati – Ventisei anni fa il tragico attentato di via d’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i componenti della sua scorta Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. È nella consapevolezza, costante nel pensiero del magistrato palermitano, di come la criminalità organizzata fosse nemica dei diritti, della libertà e della dignità, che ancora oggi l’Italia migliore, quella dei cittadini onesti che amano il proprio Paese e ne difendono incondizionatamente i principi di giustizia e di legalità, deve continuare a trovare la forza morale per proseguire la battaglia contro la criminalità organizzata. La mafia non è un’entità astratta e lontana; è presente in molteplici forme che contaminano i gangli vitali dell’economia, della società e della politica. È soprattutto nella corruzione, nei rapporti di complicità e negli scambi collusivi che la mafia trova il suo terreno privilegiato e gli strumenti più idonei per insinuarsi nella società, logorando la democrazia e indebolendo la fiducia dei cittadini nelle Istituzioni. Di fronte a tutto questo non possiamo permetterci di abbassare la guardia; c’è bisogno dell’impegno di tutti e in tutti i settori della società, per disgregare le diffuse infiltrazioni criminali e ricomporre i tasselli di una democrazia autentica, fondata sulla giustizia e sulla legalità. La magistratura e le forze dell’ordine portano avanti un grande lavoro di contrasto alla criminalità, un lavoro che però deve essere accompagnato dalla rigenerazione del tessuto sociale, politico ed economico. C’è, soprattutto, bisogno di verità, sempre e a tutti i costi, perché una mancata verità alimenta degrado morale e culturale. Il nostro Paese ha bisogno di sapere e di capire, perché è riflettendo sulle proprie fragilità e accertando le responsabilità che possiamo tenere salda la nostra comunità e trasmetterci il coraggio e la speranza in un reale cambiamento di rotta. Alla verità si arriva anche attraverso la memoria: è questo il senso dell’omaggio che dobbiamo rendere a magistrati come Paolo Borsellino e a uomini e donne delle forze dell’ordine. La loro testimonianza deve continuare a definire idealmente il percorso che tutti noi abbiamo il dovere di portare avanti, ciascuno nel proprio ambito: quello di un Paese libero dalle mafie, capace di sprigionare le sue energie più positive e di valorizzare tutte le sue potenzialità. 19 luglio 2018

LAURA BOLDRINI – Presidente Camera dei Deputati – “Colleghe e colleghi, come sapete ricorre oggi il venticinquesimo anniversario della strage di via d’Amelio, nel quale morirono Paolo Borsellino e gli agenti della Polizia di Stato addetti alla sua scorta – Agostino Catalano, Walter Eddie Cosìna, Emanuela Loi, Vincenzo Fabio Li Muli e Claudio Traìna. L’attentato – verificatosi 57 giorni dopo quello di Capaci in cui perirono Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la scorta – suscitò sgomento e commozione in tutti gli italiani e le italiane che di Paolo Borsellino avevano imparato ad apprezzare la professionalità e il rigore del magistrato, ma anche l’insopprimibile fiducia nella capacità di riscatto civile e morale della Sicilia e dell’Italia. Il ricordo del sacrificio di questo servitore dello Stato è ancora molto vivo in tutti noi. Altrettanto profondo deve continuare ad essere l’impegno delle Istituzioni, della società civile e dei singoli cittadini nel contrasto alla criminalità organizzata. Il Parlamento, nella legislatura in corso, si è mosso in questa direzione, rafforzando il quadro legislativo in tema di lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione. Ma ciò non basta. Per il successo della battaglia contro la mafia occorre – come diceva Paolo Borsellino – che nei cittadini, soprattutto quelli più giovani, si radichi la cultura della legalità e dell’integrità e il rifiuto della logica del ricatto e del malaffare. Sta anzitutto a noi esortare le giovani generazioni a non disperdere nell’indifferenza o nella superficialità il senso di questo insegnamento. È un impegno che – come ho avuto già modo di ricordare in occasione della commemorazione della strage di Capaci lo scorso 23 maggio – dobbiamo continuare ad attuare in modo fermo ed incondizionato anche nell’attività parlamentare e più in generale politica, attraverso i provvedimenti che adottiamo e i comportamenti individuali che teniamo.” 19 Luglio 2017

GIUSEPPE CONTE – Presidente del Consiglio dei Ministri – Un dovere ricerca verità Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina.Coltiviamo la loro memoria nella lotta quotidiana alle mafie. La ricerca della verità su Via D’Amelio e’ un dovere per l’Italia che crede nel loro esempio e nell’onestà 19 Luglio 2018

GIOVANNI LEGNINI – Vicepresidente CSM– Con il titolo della pubblicazione “L’antimafia di Paolo Borsellino” si è voluta sottolineare la straordinaria levatura di un uomo che, insieme all’amico Giovanni Falcone, contribuì ad ideare e realizzare metodi di contrasto alla mafia che hanno segnato un’epoca. Un tributo alla memoria e alla grandezza di un magistrato indimenticabile, che oggi rinnoviamo in questa occasione solenne. 19 Luglio 2017

PAOLINO BIONDO – Barbiere di Paolo Borsellino Il giorno che lo vidi sbiancare per Falcone” – Paolino Biondo è stato per oltre venti anni il barbiere del magistrato ucciso a Palermo in Via D’Amelio 26 anni fa: qui ne ricorda l’umanità e l’amicizia. “Lui preferiva aspettare il suo turno. Gli piaceva perché da me si rilassava e faceva la sua anticamera leggendo qualche rivista. Non chiedeva mai quanto c’era da attendere. Quando ci fu il maxi-processo, si iniziò a capire che fosse una persona in pericolo e allora un giorno gli dissi: ”Dottore Borsellino, se vuole posso venire io a farle i capelli a casa.” Lui per tutta risposta: ”Paolì, mi vuoi togliere il piacere di venirti a trovare?” A Palermo, a qualche centinaio di metri da via Cilea, vi è un negozio da barbiere gestito da oltre quarant’anni da Paolino Biondo. Lo specchio del suo salone ha visto molti volti, noti e meno noti. Gli occhi di Paolino hanno incrociato lo sguardo di migliaia di persone e le sue mani hanno “accarezzato” molti visi. Tra questi, sicuramente, quello che ha lasciato di più una traccia nel cuore di Paolino è un magistrato che in comune con il barbiere aveva anche il nome: Paolo Borsellino. E allora abbiamo pensato di chiedere a Paolino quali sono i ricordi di questo cliente speciale che conserva gelosamente. E’ stata una conversazione molto emozionante, a volte interrotta dalla voce rotta e commossa di Paolino che faceva fatica a raccontare, e ci siamo emozionati anche noi.. Come hai conosciuto il dottore Borsellino? “Ho il negozio vicino a dove abitava lui, in via Cilea. Lo conoscevo fin dal ’71. Ho avuto il piacere di servirlo dal 71 fino al 1992″. Sapevi chi fosse quando ha iniziato ad essere un tuo cliente? Sapevi del suo lavoro? “No. Solo dopo qualche tempo, parlando, ho saputo che era un Magistrato. Siamo entrati in confidenza in qualche modo”. Ma davi del tu al Giudice? “No. Assolutamente, io nel mio lavoro, con i miei clienti, ho sempre mantenuto un rapporto di cordialità e rispetto”. Abbiamo letto che portava anche i bambini a tagliare i capelli quando erano piccoli. “Si, Manfredi lo ricordo ancora con i pantaloncini corti. Una volta mi portò tutti e tre i bambini per il taglio dei capelli, anche le femminucce. Era una giornata di 40° a Palermo, d’estate, e bambini soffrivano il caldo coi capelli lunghi. Allora il Giudice mi chiese di tagliare i capelli anche alle bambine. “Perchè non le porta dal parrucchiere?” , gli dissi. Rispose “No, glieli devi tagliare tu, perchè come tagli tu i capelli corti non li taglia nessuno”. E i bambini non si lamentarono di questa specie di costrizione? Di solito le bambine sono un po’ più difficili da accontentare, un po’ più civettuole. “No, anche perché lui col carattere che aveva non era facile potersi lamentare. Aveva un carattere forte coi figli, ma molto dolce e legato alla famiglia. Quando Manfredi divenne più grandicello iniziò a venire anche lui da me per farsi tagliarsi i capelli. E adesso ho sia lui che suo figlio come clienti. Ho un altro Paolo Borsellino che è mio cliente, e a volte se penso a questo ed a suo nonno, mi si stringe il cuore”. Quindi Manfredi ha continuato questa amicizia? “Si, con Manfredi siamo più amici che con suo papà, perché è diversa come cosa, me lo sono visto crescere. Oggi, nonostante sia un Dirigente di Polizia, nonostante il ruolo che ricopre, è un ragazzo giocherellone che quando viene da me ama molto scherzare. E in questo somiglia molto a suo padre”. Di cosa parlavate quando il Giudice veniva da te? “Mi raccontava delle marachelle di Manfredi a casa, era quello più discolo, o parlava di cosa facessero i figli, in generale cose della sua vita familiare. Eravamo entrati in confidenza”. La gente lo riconosceva quando entrava nel tuo negozio? “Si. Però lui preferiva aspettare il suo turno. Gli piaceva perché da me si rilassava e faceva la sua anticamera leggendo qualche rivista. Non chiedeva mai quanto c’era da attendere. Quando ci fu il maxi-processo, si iniziò a capire che fosse una persona in pericolo e allora un giorno gli dissi:” Dottore Borsellino, se vuole posso venire io a farle i capelli a casa.” Lui per tutta risposta:” Paolì, mi vuoi togliere il piacere di venirti a trovare?” Veniva da solo o con la scorta? “Sempre senza scorta. Ha cominciato ad essere accompagnato dalla scorta dopo che uccisero il dottore Falcone”. Abbiamo letto che amava molto usare la Vespa. “Si, certe volte, d’estate, si presentava in pantaloncini, con la vespa e con gli zoccoli. Agli inizi però, negli ultimi anni non lo faceva più”. Al Giudice assegnarono la scorta nel 1980, nonostante questo lui continuò a venire al negozio da solo? “Si. Magari lo lasciavano a casa e lui riferiva che non sarebbe uscito, che magari aveva da studiare delle carte e poi invece scendeva a comprare le sigarette o qualche rivista, o veniva da me. Era un momento di libertà che si concedeva. Si svagava, e poi con me si rilassava. Quando stava per essere approvata la legge che vietava di fumare nei locali pubblici, gli dissi: “Dottore Borsellino, lei lo sa che tra un po’ non potrà più fumare qui?” E lui mi fa: “Paolì che problemi ti poni, chiama gli sbirri e mi fai arrestare..”. C’era una certa amicizia e gli piaceva scherzare così”. Quando il giudice veniva da te, e faceva tutto il giro passando davanti ad altri negozi, era un momento quasi di libertà che si ritagliava. Momenti in cui in cui aveva una parvenza di vita normale. “Lui scendeva da casa e percorreva tutto il tratto passando davanti a vari esercizi commerciali, magari comprava qualche rivista. Ti racconto un episodio simpatico che mi è rimasto impresso. C’era un negoziante, e quando il giudice passava lì davanti questo signore gli diceva sempre: “Dottore Borsellino, mu volissi trovari un posto?” e il giudice di rimando: “Ma che posto ti devo trovare? E dove lo dovrei trovare sto posto?”. E la cosa si ripeteva ogni volta che passava da là. E il giorno dopo, e quello appresso, di nuovo sempre la stessa tiritera. Fino a quando il Giudice gli rispose diversamente “Attrovai nu posto pe tia!”. “Ma veramente, mi trovo una sistemazione??” gli rispose il negoziante. “Sì vero, all’Ucciardone, ci voi iri?” Questo dimostra ancora una volta il pensiero di Paolo Borsellino e la sua integrità morale. “Lui, le combatteva queste cose”. Tutti ti conoscono perché sei la persona che era presente quando fu comunicato al Giudice che c’era stato un attentato a Giovanni Falcone. Presumo che tu quel giorno non te lo scorderai mai nella vita. “E come potrei scordarlo? E’ rimasto indelebile nei miei ricordi. Era sabato pomeriggio, Borsellino aveva fatto due ore di attesa per il suo turno. Si sedette e gli feci lo shampoo. Mentre stavo asciugandogli i capelli, gli arrivò una telefonata al cellulare che era poggiato sullo sterilizzatore. Prese il telefono, rispose, e lo vidi sbiancare in volto tanto che mi preoccupai e gli chiesi cosa stesse succedendo perché sentivo, dall’altra parte del telefono, parlare a voce alta e disperatamente. Capivo che era successo qualcosa di grave e allora, agitato, gli dissi: ”Dottore Borsellino ma che c’è, che cosa è successo?” Lui mi fa: ”Levami sta cosa” E io sempre più preoccupato insistetti: ”Ma vuole dirmi cosa è successo, mi fa sta facendo preoccupare” E lui: ”Hanno fatto un attentato a Giovanni” Ed è scappato, bianco come la carta. Subito dopo venne un Carabiniere in borghese, che io conoscevo, a chiedere del Giudice e anche a lui chiesi cosa fosse accaduto e mi disse: ”Hanno fatto un attentato a Giovanni Falcone”. Poi seppi che il Giudice andò prima a casa e da lì in ospedale dove il Giudice Falcone gli morì tra le braccia”. Palermo, 19 luglio, 1992: Via d’Amelio a Palermo pochi minuti dopo l’esplosione che uccide Paolo Borsellino e la sua scortaCome hai appreso dell’attentato in via D’Amelio? “Ero al villino di mio fratello a Carini, ci eravamo riuniti per una scampagnata domenicale. Dopo mangiato andammo a fare quattro passi e vidi un gruppo di persone che confabulavano tra loro. Chiesi cosa fosse successo, la risposta mi lasciò impietrito: “Hanno fatto un attentato al giudice Borsellino.” Venni preso dalla disperazione. Accesi subito la TV e mi si presentò davanti quello scenario di guerra. Non avemmo più voglia di rimanere in campagna e ce ne tornammo a Palermo. E passai da via Cilea. Non facevano salire nessuno, allora chiesi di far chiamare Manfredi e dirgli che ero lì e lui disse di farmi salire subito. Ci abbracciammo senza parlare e poi mi presentò il Giudice Caponnetto. La signora Agnese si era chiusa in una stanza e non voleva vedere nessuno. C’era anche Lucia mentre Fiammetta era all’estero”. Che aria c’era in quei giorni nel quartiere, cosa si diceva? “Unaria triste. Come se ad ognuno di noi fosse mancato un familiare. Era una brava persona. Lo conoscevano tutti. Il quartiere era in lutto, era morta una parte di noi”. E gli volevano tutti bene… “Certo, anche se la carica che rivestiva non gli permetteva di essere una persona troppo espansiva però era un uomo rispettato da tutti, rispettava le persone e lo rispettavano. C’era, diciamo, questa forma di rapporto con il quartiere. Certamente era molto alla mano con le persone con cui lui era in confidenza”. Hai conosciuto anche la signora Agnese. Quando è l’ultima volta che l’hai vista? “Dopo che mi hanno fatto un’intervista al “Giornale di Sicilia”, dove parlavo in un certo modo del Dottore Borsellino. Si fece portare dal figlio davanti al negozio, era già molto ammalata. Manfredi mi chiamò e mi disse: ”C’è mamma che vuole salutarti”. Io uscii dal negozio e lei era in macchina, La salutai e lei, portandosi la mano vicino al cuore, mi disse: “Signor Paolo lei mi ha commosso tanto per le parole che ha detto su mio marito al giornale”. Non potrò mai dimenticare quell’episodio, mi tremavano le gambe, mi emozionai moltissimo. Era una donna importante ma allo stesso tempo umile e buona. E non poteva essere diversamente, perché per stare accanto al giudice doveva per forza di cose essere così. Il Dottore Borsellino, anche se svolgeva un certo tipo di professione, era comunque un uomo umile e buono e la signora Agnese era proprio così, una grande donna”. Tu hai un ritratto del Giudice che ti ha regalato la famiglia, e abbiamo visto in un intervista che ti commuovi quando lo guardi. Quando al mattino entri in negozio e vedi il volto del giudice che sorride, a cosa pensi? “Che devo pensare? Ti posso solo dire che non c’è più ma cerchiamo di tenere il ricordo sempre vivo”. A chi lo ha conosciuto, quanto manca Paolo Borsellino? “A me manca tanto, ci facevamo persino gli auguri lo stesso giorno, lui si “chiama” Paolo come me”. da Fraterno Sostegno ad Agnese Borsellino 18 Luglio 2018

I capelli di Borsellino  e l’attentato a Falcone – Signor Paolino, che tipo di cliente era il giudice Borsellino?“Bravo”. Ci sono quelli che dal barbiere stanno in silenzio e osservano cupi lo specchio, al passaggio delle forbici, persi nei loro pensieri. E altri che chiacchierano di calcio o di qualunque cosa per non sentirsi soli.“Ah, il dottore era un miscuglio. Di solito stava zitto. Altre volte voleva parlare. E prendeva bonariamente in giro suo figlio Manfredi quando era un ragazzo, per via della prima barba”. E’ Manfredi che ci ha svelato dove trovarla. Sa, ha avuto il terzo figlio. Una bimba.“Che bellezza (Paolino Biondo zompa di felicità e quasi picchia la testa sul soffitto). Me lo deve salutare tanto”. Se ci legge, lo consideri salutato. Dove sedeva il giudice?“Qui (nel divanetto accanto alla porta, ndr). Aspettava il suo turno buono buono”. Significa che non saltava l’attesa? Che non le spaventava i clienti con la scorta?“Stava qui, paziente. E arrivava da solo, senza scorta, a piedi. Infatti, una volta gliel’ho detto”.Che cosa gli ha detto? “Dottore, vengo a tagliarle i capelli a casa. Lo faccio per lei…”. E lui?“Paolì – mi ha risposto – non ti arrisicare. Mi vuoi togliere l’unico momento di normalità che mi è rimasto?”. Era il 23 maggio del 1992…“Finisco quasi di tagliare i capelli al dottore Borsellino, lui era qui da me di pomeriggio. L’ultima passata di lacca, mi pare”. E che succede?“Gli squilla il telefonino. Lo porta all’orecchio. Diventa pallido, il dottore, si alza di scatto. Ha il viso bianchissimo.  Prende i soldi dalla tasca e li posa sul tavolo”. E lei?“Dottore, che c’è?”. E lui?“All’inizio non risponde. Poi, con gli occhi persi nel vuoto, come se non mi vedesse,  sussurra: mio Dio, un attentato a Giovanni. Esce fuori correndo. Purtroppo, non l’ho incontrato mai più”.Paolino, non faccia finta di non commuoversi. Chi era il giudice Paolo Borsellino? “Una brava persona”. Da casa dei Borsellino fino al barbiere di via Zandonai ci sono più di cento passi di normalità. Proviamo a percorrerli, immaginandoci nei vestiti di un giudice che sognava di tagliarsi i capelli come gli altri. Uno, due, tre… L’odore del verde, dei gerani al balcone, del caffè,   stringe il cuore con una tenerezza primitiva, da bambini. E adesso lo sappiamo. Il 23 maggio del 1992, nella passeggiata fino alla bottega di Paolino Biondo, prima dell’attentato a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino era ancora un uomo vivo e felice. Un colpo di forbici. E tutto cambiò. LIVE SICILIA 18 Luglio 2010

LEONARDO GUARNOTTA – magistrato componente del pool antimafia, collega di Falcone e Borsellino – L’intitolazione della Biblioteca Civica di Como alla memoria di Paolo Borsellino vuole essere l’ennesimo pubblico riconoscimento della figura di un magistrato che, in tutta la sua carriera, ha voluto e saputo essere portatore ed interprete di quegli irrinunciabili e non negoziabili valori di giustizia, legalità, democrazia, solidarietà e condivisione ai quali ha sempre improntato le sue funzioni di magistrato e per i quali ha sacrificato il bene supremo della vita. Qualcuno potrebbe chiedersi come mai e perché a distanza di oltre 26 anni dalla sua scomparsa per mano mafiosa, Paolo Borsellino sia ancora ricordato, ogni 19 luglio, con partecipate manifestazioni pubbliche ed ancora gli si intitolino in Italia ed all’estero strade, piazze, scuole ed altri luoghi di cultura come la Biblioteca Civica di Como. Perchè Paolo Borsellino, un grande giudice ed un grande uomo, continuerà a vivere nella nostra memoria ed a essere ricordato con imperitura riconoscenza per quello che ha fatto per tutti noi e soprattutto per la preziosissima eredità che ha lasciato a tutti noi. Non una eredità fatta di beni, rendite o patrimoni ma bensì una eredità ricca di insegnamenti, di gesti, di parole, di comportamenti, di memoria lasciata da chi ci è venuto a mancare e tutti gli uomini di buona volontà, che si sono sentiti più soli dopo la sua morte, devono fare tesoro della sua testimonianza, del suo impegno, del suo sacrificio, del modo con il quale ha provato a dare un senso alla sua esistenza. Non è una eredità di sangue ma è una eredità simbolica che, rendendolo presente nelle nostre vite, ci infonde coraggio, ci consiglia di non arrendersi mai, ci invita a credere che un cambiamento è sempre possibile, ci insegna il suo modello di lavoro e di vita, ci ricorda che la presa di distanza dal malaffare e da ogni forma di criminalità è un impegno inderogabile da assumere da parte di tutti noi, ci fa comprendere che, in un contesto temporale in cui sembra smarrito il senso profondo dell’interesse generale, del futuro, dello Stato, della giustizia, si impone un soprassalto di fierezza e di dignità, ed è necessario uno sforzo comune da parte di tutte le componenti sane della società civile per realizzare una opera di bonifica morale e sociale che consenta a tutti di vivere ed operare in una società nella quale la forza del diritto abbia la meglio sul diritto della forza. Paolo Borsellino non appartiene soltanto alla storia del nostro paese ma è ancora presente tra noi e lo sarà ancora a lungo perché la sua speranza in un domani migliore e il suo coraggio sono la stessa speranza e lo stesso coraggio ereditati e fatti propri da tutti coloro che lo hanno amato, condividendo quei valori per i quali Paolo Borsellino ha sacrificato il bene supremo della vita, e re cependo il suo insegnamento di non fermarsi mai davanti agli ostacoli, di reagire alle incomprensioni ed alle avversità con le quali inevitabilmente ciascuno di noi si imbatterà nel proprio cammino. Infine, desidero ricordare una fra le numerose celebri frasi di Paolo Borsellino. “La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro” In questa incisiva ed intensa frase mi sembra possano compendiarsi l’insegnamento, il richiamo al dovere e la speranza di un domani migliore, che costituiscono la preziosa, inestimabile eredità lasciataci da Paolo Borsellino.

Don CESARE ROTTOBALLI: «Borsellino mi disse: confessami, mi sto preparando» – padre Cesare parroco in un quartiere della periferia di Palermo e amico del giudice: Paolo è stato un martire per la giustizia. – Il 19 luglio 1992 un’autobomba uccise in via D’Amelio a Palermo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Agostino Catalano. Una strage annunciata, avvenuta in un’afosa domenica, 57 giorni dopo quella di Capaci, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. È questa l’unica cosa certa, perché vent’anni, undici processi, una sfilza di ergastoli, sette dei quali annullati l’anno scorso, non sono ancora bastati per fare luce su una strage di Stato. Del massacro di via D’Amelio è stata ritenuta responsabile tutta la Cupola di Cosa Nostra. Secondo il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, e i suoi sostituti – che negli ultimi tre anni hanno provato a togliere il velo della mistificazione su una delle pagine più oscure della storia d’Italia – «Borsellino fu ucciso perché si oppose alla trattativa tra Stato e mafia». A dare lo spunto per le nuove indagini, sono state le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Secondo la Procura di Caltanissetta, che ha chiesto e ottenuto la sospensione della pena per sette ergastolani ritenuti estranei al delitto e l’arresto di altri quattro affiliati a Cosa nostra, Borsellino fu ucciso perché Riina lo riteneva un ostacolo alla trattativa con esponenti delle istituzioni. «Paolo Borsellino aveva piena consapevolezza di stare per morire, ma continuò a fare il suo dovere fino alla fine. Per questo mi piace dire che rientra tra i beati a causa della giustizia». Don Cesare Rattoballi, 54 anni, parroco dell’Annunciazione del Signore a Medaglie d’Oro, un quartiere della periferia di Palermo, è un testimone privilegiato del travaglio degli ultimi mesi di vita del magistrato ucciso nella strage di via D’Amelio con cinque agenti di scorta. Il 19 luglio saranno vent’anni da quella esplosione che, assieme a quella del 23 maggio 1992, cambiò la storia della Sicilia e dell’Italia intera, ma le lacrime gli sgorgano ancora al pensiero delle lunghe chiacchierate col giudice Borsellino, delle confidenze raccolte e di ciò che vide in quella strada sventrata. Accetta di parlare dopo vent’anni di silenzio don Cesare, che il mondo ricorda al fianco della vedova Rosaria Schifani durante i funerali delle vittime della strage di Capaci, mentre dall’ambone invoca la conversione dei mafiosi. Perché don Cesare era cugino di Vito Schifani, uno degli agenti di scorta morti assieme al giudice Giovanni Falcone, e – per casi della vita che nessuno conosce – si è trovato a incrociare il suo destino con quello di altre vittime di mafia, da Calogero Zucchetto, un giovane poliziotto ucciso nel 1982 al centro di Palermo proprio mentre don Cesare passava da quella strada, a don Pino Puglisi, il sacerdote ucciso dalla mafia nel 1993.Don Cesare, come nasce il suo rapporto con Borsellino? Facevamo parte della stessa parrocchia, Santa Luisa di Marillac, perché anche io abitavo in quella zona, quindi ci salutavamo cordialmente. Ma fu la notte della camera ardente allestita al Palazzo di giustizia dopo la strage di Capaci ad avvicinarci. Io mi trovavo lì, perché mio cugino era tra le vittime. Quella notte io e la moglie di Vito Schifani scrivemmo la lettera che fu letta durante i funerali. Quella sera feci una lunga chiacchierata con Paolo Borsellino, lui volle conoscere la vedova di Vito, e al mattino, prima dei funerali, le mise il braccio sulla spalla per accompagnarla. Era un padre. Il giudice rimase colpito dalle parole che Rosaria Schifani disse piangendo: «Rivolgendomi agli uomini della mafia e non, ma certamente non cristiani: sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono. Io vi perdono, però voi vi dovete mettere in ginocchio…». Cosa le disse? A Borsellino piacque moltissimo quell’invito alla conversione. Mi disse di andarlo a trovare a casa con mia cugina. Ci disse che quello che avevamo fatto quel giorno stava già dando i suoi frutti, che alcuni mafiosi in carcere, quando avevano visto in tv lo strazio di quella donna, avevano vomitato, avevano chiesto di parlare coi magistrati. Paolo ci disse di andare avanti. In meno di due mesi ci incontrammo almeno una quindicina di volte. Lo invitai a partecipare alla marcia organizzata dagli scout a fine giugno, perché ero assistente regionale dell’Agesci. Affidò il testimone ai ragazzi e in quel rotolo di carta c’erano scritte le Beatitudini. Con che stato d’animo viveva Borsellino quelle settimane? Un giorno nel suo studio a casa mi confidò che il Ros aveva scoperto che era arrivato il tritolo anche per lui. Gli chiesi: «Perché non te ne vai?». Mi rispose: «Prega per la mia famiglia». E mi disse anche che da un po’ di tempo guardava i suoi figli da lontano, li contemplava, non gli dava più carezze, «così li farò abituare alla mia assenza. Amava profondamente i suoi figli, era un vero padre. Quale fu il vostro ultimo incontro? Andai a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi disse: «Fermati, voglio confessarmi. Vedi, io mi preparo». Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere. Giovanni Paolo II lo definì martire della giustizia e davvero penso che Paolo e tutti i magistrati e gli agenti uccisi dalla mafia sono beati a causa della giustizia.Ha mai pensato quello che disse il giudice Caponnetto: «È finito tutto»? No, ho sempre sperato. Quello di Caponnetto fu uno sfogo dettato dall’amarezza del momento. Lì non finì nulla, anzi tutto ebbe inizio. Palermo oggi è libera. Se nessuno avesse dato la vita, saremmo ancora schiavi. Si riuscirà a capire chi ordinò davvero la strage? Paolo direbbe ancora oggi: convertitevi. Chi sa, chi conosce la verità, deve parlare, perché la verità vuole la sua giustizia. Avvenire Alessandra Turrisi – 16 luglio 2012

ANTONINO CAPONNETTO – Magistrato – Queste sono le parole di un vecchio ex magistrato che e’ venuto nello spazio di due mesi due volte a Palermo con il cuore a pezzi a portare l’ultimo saluto ai suoi figli, fratelli e amici con i quali ho diviso anni di lavoro di sacrificio di gioia, anche di amarezza. Soltanto poche parole per un ricordo, per un doveroso atto di contrizione che poi vi diro’ e per una preghiera laica ma fervente. Il ricordo e’ per l’amico Paolo, per la sua generosita’, per la sua umanita’, per il coraggio con cui ha affrontato la vita e con cui e’ andato incontro alla morte annunciata, per la sua radicata fede cattolica, per il suo amore immenso portato alla famiglia e agli amici tutti. Era un dono naturale che Paolo aveva, di spargere attorno a se’ amore. Mi ricordo ancora il suo appassionato e incessante lavoro, divenuto frenetico negli ultimi tempi, quasi che egli sentisse incombere la fine. Ognuno di noi e non solo lo Stato gli e’ debitore; ad ognuno di noi egli ha donato qualcosa di prezioso e di raro che tutti conserveremo in fondo al cuore, e a me in particolare mancheranno terribilmente quelle sue telefonate che invariabilmente concludeva con le parole: “Ti voglio bene Antonio” ed io replicavo “Anche io ti voglio bene Paolo”. C’e’ un altro peso che ancora mi opprime ed e’ il rimorso per quell’attimo di sconforto e di debolezza da cui sono stato colto dopo avere posato l’ultimo bacio sul viso ormai gelido, ma ancora sereno, di Paolo. Nessuno di noi, e io meno di chiunque altro, puo’ dire che ormai tutto e’ finito. Pensavo in quel momento di desistere dalla lotta contro la delinquenza mafiosa, mi sembrava che con la morte dell’amico fraterno tutto fosse finito. Ma in un momento simile, in un momento come questo coltivare un pensiero del genere, e me ne sono subito convinto, equivale a tradire la memoria di Paolo come pure quella di Giovanni e di Francesca. In questi pochi giorni di dolore trascorsi a Palermo che io vi confesso non vorrei lasciare piu’, ho sentito in gran parte della popolazione la voglia di liberarsi da questa barbara e sanguinosa oppressione che ne cancella i diritti piu’ elementari e ne vanifica la speranza di rinascita. E da qui nasce la mia preghiera dicevo laica ma fervente e la rivolgo a te, presidente, che da tanto tempo mi onori della tua amicizia, che e’ stata sempre ricambiata con ammirazione infinita. La gente di Palermo e dell’intera Sicilia, ti ama presidente, ti rispetta, e soprattutto ha fiducia nella tua saggezza e nella tua fermezza. Paolo e’ morto servendo lo Stato in cui credeva cosi’ come prima di lui Giovanni e Francesca. Ma ora questo stesso Stato che essi hanno servito fino al sacrificio, deve dimostrare di essere veramente presente in tutte le sue articolazioni, sia con la sua forza sia con i suoi servizi. E’ giunto il tempo, mi sembra, delle grandi decisioni e delle scelte di fondo, non e’ piu’ l’ora delle collusioni degli attendismi dei compromessi e delle furberie, e dovranno essere, presidente, dovranno essere uomini credibili, onesti, dai politici ai magistrati, a gestire con le tue illuminate direttive questa fase necessaria di rinascita morale: e’ questo a mio avviso il primo e fondamentale problema preliminare ad una vera e decisa lotta alla barbarie mafiosa. Io ho apprezzato le tue parole, noi tutti le abbiamo apprezzate, le tue parole molto ferme al Csm dove hai parlato di una nuova rinascita che e’ quella che noi tutti aspettiamo, e laddove anche con la fermezza che ti conosco hai giustamente condannato, censurato, quegli errori che hanno condotto martedi’ pomeriggio a disordini che altrimenti non sarebbero accaduti perche’ nessuno voleva che accadessero. Solo cosi’ attraverso questa rigenerazione collettiva, questa rinascita morale, non resteranno inutili i sacrifici di Giovanni, di Francesca, di Paolo e di otto agenti di servizio. Anche a quegli agenti che hanno seguito i loro protetti fino alla morte va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza, il nostro tributo di ammirazione. Tra i tanti fiori che ho visto in questi giorni lasciati da persone che spesso non firmavano nemmeno il biglietto come e’ stato in questo caso, ho visto un bellissimo lilium, splendido fiore il lilium, e sotto c’erano queste poche parole senza firma: “Un solo grande fiore per un solo grande uomo solo”. Mi ha colpito, presidente, questa frase che mi e’ rimasta nel cuore e credo che mi rimarra’ per sempre. Ma io vorrei dire a questo grande uomo, diletto amico, che non e’ solo, che accanto a lui batte il cuore di tutta Palermo, batte il cuore dei familiari, degli amici, di tutta la Nazione. Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto fino al sacrificio dovra’ diventare e diventera’ la lotta di ciascuno di noi, questa e’ una promessa che ti faccio solenne come un giuramento. La “preghiera laica ma fervente” ai funerali di Paolo Borsellino il 24 luglio 1992 a Palermo

ANTONINO CAPONNETTOAllora dissi: “Paolo, arrivederci a presto”. Non è facile descrivere, né dimenticare lo sguardo che mi dette Paolo […] “Ma sei sicuro” -disse- “Antonio, che ci rivedremo?”. La domanda mi turbò, mi turbò molto, cercai di mascherare il mio turbamento, la volsi un po’ in tono scherzoso: “Ma che stai dicendo, Paolo? Certo che ci rivedremo”. E allora mi abbracciò, ma mi abbracciò con una, con una forza… che mi fece male! Mi strinse, non se ne rendeva conto… ma mi abbracciò come… come a non volersi distaccare, come a volere… tenere avvinto qualcosa di caro e portarselo via. Ecco, quello è stato… lì ho sentito che era l’addio di Paolo.(tratto da un’intervista su Paolo Borsellino)

GIUSEPPE D’AVANZO – Giornalista scrittore – E ORA BORSELLINO ATTENDE...Alle otto in punto, come sempre, Paolo Borsellino è nel suo ufficio di procuratore aggiunto di Palermo. Con un peso sulle spalle in più. Detto nel più semplice dei modi, il governo – il ministro degli Interni – vede in lui l’uomo che può raccogliere l’eredità di Giovanni Falcone, il giudice che può continuare il lavoro interrotto dal tritolo di Capaci. Vincenzo Scotti glielo chiede esplicitamente: deve essere Borsellino il nuovo procuratore nazionale antimafia. Paolo Borsellino è nervosissimo. Ha il volto tirato, ha modi inusualmente bruschi. E’ stato a Roma nel pomeriggio di giovedì, è tornato a Palermo nella notte. Dalle 8 in punto il telefono non smette di trillare. Paolo Borsellino è stanco di interviste. Lo dice chiaro e tondo: “Non posso vivere così, signori miei. Non sono abituato e non voglio abituarmi a lavorare con i giornalisti in attesa fuori la porta”. Ma è l’uomo del giorno, è l’uomo che la strage di Capaci ha chiamato sotto i riflettori. Procuratore Borsellino, quando il governo ha chiesto la sua disponibilità per la Procura nazionale antimafia? “Nessuno ha chiesto la mia disponibilità”. Nessuno le ha anticipato la proposta del ministro degli Interni Scotti? “No, ho ascoltato per la prima volta la proposta di Scotti in pubblico, come tutti alla presentazione del libro di Pino Arlacchi”. In ogni caso, ora, la proposta c’ è. Scotti, a nome del governo si augura che, dopo la morte di Giovanni Falcone, si riaprano i giochi per l’incarico di Superprocuratore e auspica che lei presenti la sua candidatura. Che cosa farà? “Io non considero questo problema attuale. Non posso non considerare che è in corso una procedura che deve avere, avrà i suoi sbocchi naturali”. Martelli ha annunciato oggi che sta predisponendo un provvedimento legislativo che possa riaprire i termini per la presentazione delle candidature. Ora ammettiamo che quest’ iniziativa vada in porto. Lei presenterà la domanda? “Quando, e se, il problema diventerà attuale come tutti gli altri possibili ed eventuali candidati valuterò l’opportunità di presentare domanda”. Della necessità di un organismo giudiziario che coordini le indagini antimafia Borsellino non ha dubbi. Lo ha ripetuto anche ieri dai microfoni del Gr1. Gli hanno chiesto: rimane l’esigenza di avere un nucleo centrale dove convogliare le indagini? Ha risposto: “La gestione del tutto insoddisfacente delle dichiarazioni di Calderone hanno inciso enormemente sulla decisione di Falcone di lasciare la procura di Palermo. Giovanni si era reso conto che, con l’imposizione di una visione parcellizzata del fenomeno mafioso, non fosse possibile da un’unica sede giudiziaria ripetere quello che era successo nella fase originaria del maxi- processo. Ebbe l’occasione di andare a lavorare al ministero di Grazia e Giustizia dove si impegnò soprattutto nello studio di un organismo giudiziario che potesse ricreare, anche se per diversa via, quelle condizioni che erano proprio alla base della filosofia del pool antimafia”. Allora, qual è la chiave? “Il lavoro di Falcone al ministero ebbe, sotto questo profilo, successo. Si è arrivati alla creazione di questo organismo in grado di avere una visione d’ assieme rispetto alle singole fette dei vari processi che si occupano di organizzazione mafiosa. Purtroppo l’ assassinio ha stroncato la possibilità di utilizzare questo strumento che avrebbe, anche se per via diversa, ricreato le condizioni in cui operò, nel suo periodo migliore, il pool antimafia di Palermo”. Paolo Borsellino oggi più che della sua candidatura preferisce parlare di quanto sarebbe stato utile Falcone come procuratore nazionale antimafia. Procuratore, tuttavia, Giovanni Falcone si è trovato molto isolato quando ha sostenuto la nascita della Direzione nazionale antimafia. “Giovanni a volte peccava di ottimismo presupponendo che i magistrati potessero sostenere le sue iniziative. Peccò di ottimismo quando doveva prendere il posto di Antonino Caponnetto all’ ufficio Istruzione, quando si candidò al Consiglio superiore della magistratura, quando si mise in corsa per la Superprocura. In più occasioni non è stato sostenuto dall’ associazione dei magistrati, dal Csm”. Non è che a Palermo, Falcone abbia avuto miglior sorte “Voglio sfatare questo luogo comune. Io credo che a Palermo, presso la magistratura siciliana, la media del consenso nei suoi confronti sia stata più alta che altrove. La gran parte dei magistrati di Palermo, anche quelli che hanno avuto con lui dei disaccordi, sapevano che il procuratore nazionale antimafia doveva essere lui”. Lei si è dato molto da fare nella sua corrente per sostenere la candidatura di Giovanni Falcone… “Io ho assunto posizioni pubbliche. Ad un convegno a Torino di Magistratura Indipendente ho sostenuto che la corrente dovesse appoggiare Giovanni Falcone…”. Risulta, in verità, che lei abbia fatto di più: con la collaborazione di Ernesto Staiano, avrebbe conquistato il consenso per Falcone di quattro dei cinque membri di Magistratura Indipendente presenti nel Csm. Voti utilissimi che avrebbero dato a Falcone la maggioranza nel plenum del Consiglio. “Sì, io avevo tratto la conclusione che la nomina di Giovanni a procuratore nazionale antimafia era sostenuta dai numeri, era cosa fatta”. Ora potrebbe toccare a lei diventare procuratore antimafia. Hanno molto impressionato in questi giorni alcune sue dichiarazioni. L’ ultima in ordine di tempo è questa. Lei ha detto stamattina al Gr1: “Ciò che è difficile questa volta è trovare lo stesso entusiasmo. Spero che l’entusiasmo me lo possa far tornare una rapida conclusione delle indagini sull’ assassinio di Falcone”. “Non nascondo, l’ho detto pubblicamente, di avere paura di perdere l’entusiasmo per il mio lavoro di magistrato. Nonostante questo timore continuerò a lavorare in questo ufficio dove mi trovo benissimo, continuerò a lavorare come sempre, come da anni faccio, con lo stesso impegno”. GIUSEPPE D’AVANZO – Repubblica 30 maggio 1992

ROBERTO SCARPINATO – PROCURATORE GENERALE CORTE D’APPELLO DI PALERMO – A PAOLO BORSELLINO IN OCCASIONE DEL VENTESIMO ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI VIA D’AMELIO”  Caro Paolo, oggi siamo qui a commemorarti in forma privata perché più trascorrono gli anni e più diventa imbarazzante il 23 maggio ed il 19 luglio partecipare alle cerimonie ufficiali che ricordano le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra essere la negazione stessa di quei valori di giustizia e di legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere; personaggi dal passato e dal presente equivoco le cui vite – per usare le tue parole – emanano quel puzzo del compromesso morale che tu tanto aborrivi e che si contrappone al fresco profumo della libertà. E come se non bastasse, Paolo, intorno a costoro si accalca una corte di anime in livrea, di piccoli e grandi maggiordomi del potere, di questuanti pronti a piegare la schiena e abarattare l’anima in cambio di promozioni in carriera o dell’accesso al mondo dorato dei facili privilegi. Se fosse possibile verrebbe da chiedere a tutti loro di farci la grazia di restarsene a casa il 19 luglio, di concederci un giorno di tregua dalla loro presenza. Ma, soprattutto, verrebbe da chiedere che almeno ci facessero la grazia di tacere, perché pronunciate da loro, parole come Stato, legalità, giustizia, perdono senso, si riducono a retorica stantia, a gusci vuoti e rinsecchiti. Voi che a null’altro credete se non alla religione del potere e del denaro, e voi che non siete capaci di innalzarvi mai al di sopra dei vostri piccoli interessi personali, il 19 luglio tacete, perché questo giorno è dedicato al ricordo di un uomo che sacrificò la propria vita perché parole come Stato, come Giustizia, come Legge acquistassero finalmente un significato e un valore nuovo in questo nostro povero e disgraziato paese. Un paese nel quale per troppi secoli la legge è stata solo la voce del padrone, la voce di un potere forte con i deboli e debole con i forti. Un paese nel quale lo Stato non era considerato credibile e rispettabile perché agli occhi dei cittadini si manifestava solo con i volti impresentabili di deputati, senatori, ministri, presidenti del consiglio, prefetti, e tanti altri che con la mafia avevano scelto di convivere o, peggio, grazie alla mafia avevano costruito carriere e fortune. Sapevi bene Paolo che questo era il problema dei problemi e non ti stancavi di ripeterlo ai ragazzi nelle scuole e nei dibattiti, come quando il 26 gennaio 1989 agli studenti di Bassano del Grappa ripetesti: “Lo Stato non si presenta con la faccia pulita… Che cosa si è fatto per dare allo Stato… Una immagine credibile?… La vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni”. E a un ragazzo che ti chiedeva se ti sentivi protetto dallo Stato e se avessi fiducia nello Stato, rispondesti: “No, io non mi sento protetto dallo Stato perché quando la lotta alla mafia viene delegata solo alla magistratura e alle forze dell’ordine, non si incide sulle cause di questo fenomeno criminale”. E proprio perché eri consapevole che il vero problema era restituire credibilità allo Stato, hai dedicato tutta la vita a questa missione. Nelle cerimonie pubbliche ti ricordano soprattutto come un grande magistrato, come l’artefice insieme a Giovanni Falcone del maxiprocesso che distrusse il mito della invincibilità della mafia e riabilitò la potenza dello Stato. Ma tu e Giovanni siete stati molto di più che dei magistrati esemplari. Siete stati soprattutto straordinari creatori di senso. Avete compiuto la missione storica di restituire lo Stato alla gente, perché grazie a voi e a uomini come voi per la prima volta nella storia di questo paese lo Stato si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti credibili nei quali era possibile identificarsi ed acquistava senso dire ” Lo Stato siamo noi”. Ci avete insegnato che per costruire insieme quel grande Noi che è lo Stato democratico di diritto, occorre che ciascuno ritrovi e coltivi la capacità di innamorarsi del destino degli altri. Nelle pubbliche cerimonie ti ricordano come esempio del senso del dovere. Ti sottovalutano, Paolo, perché la tua lezione umana è stata molto più grande. Ci hai insegnato che il senso del dovere è poca cosa se si riduce a distaccato adempimento burocratico dei propri compiti e a obbedienza gerarchica ai superiori. Ci hai detto chiaramente che se tu restavi al tuo posto dopo la strage di Capaci sapendo di essere condannato a morte, non era per un astratto e militaresco senso del dovere, ma per amore, per umanissimo amore. Lo hai ripetuto la sera del 23 giugno 1992 mentre commemoravi Giovanni, Francesca, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Parlando di Giovanni dicesti: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato”. Questo dicesti la sera del 23 giugno 1992, Paolo, parlando di Giovanni, ma ora sappiamo che in quel momento stavi parlando anche di te stesso e ci stavi comunicando che anche la tua scelta di non fuggire, di accettare la tremenda situazione nella quale eri precipitato, era una scelta d’amore perché ti sentivi chiamato a rispondere della speranza che tutti noi riponevamo in te dopo la morte di Giovanni. Ti caricammo e ti caricasti di un peso troppo grande: quello di reggere da solo sulle tue spalle la credibilità di uno Stato che dopo la strage di Capaci sembrava cadere in pezzi, di uno Stato in ginocchio ed incapace di reagire. Sentisti che quella era divenuta la tua ultima missione e te lo sentisti ripetere il 4 luglio 1992, quando pochi giorni prima di morire, i tuoi sostituti della Procura di Marsala ti scrissero: “La morte di Giovanni e di Francesca è stata per tutti noi un po’ come la morte dello Stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo Stato in Sicilia è contro lo Stato e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello Stato”. Missione doppiamente compiuta, Paolo. Se riuscito con la tua vita a restituire nuova vita a parole come Stato e Giustizia, prima morte perché private di senso. E sei riuscito con la tua morte a farci capire che una vita senza la forza dell’amore è una vita senza senso; che in una società del disamore nella quale dove ciò che conta è solo la forza del denaro ed il potere fine a se stesso, non ha senso parlare di Stato e di Giustizia e di legalità. E dunque per tanti di noi è stato un privilegio conoscerti personalmente e apprendere da te questa straordinaria lezione che ancora oggi nutre la nostra vita e ci ha dato la forza necessaria per ricominciare quando dopo la strage di via D’Amelio sembrava – come disse Antonino Caponnetto tra le lacrime – che tutto fosse ormai finito. Ed invece Paolo, non era affatto finita e non è finita. Come quando nel corso di una furiosa battaglia viene colpito a morte chi porta in alto il vessillo della patria, così noi per essere degni di indossare la tua stessa toga, abbiamo raccolto il vessillo che tu avevi sino ad allora portato in alto, perché non finisse nella polvere e sotto le macerie. Sotto le macerie dove invece erano disposti a seppellirlo quanti mentre il tuo sangue non si era ancora asciugato, trattavano segretamente la resa dello Stato al potere mafioso alle nostre spalle e a nostra insaputa. Abbiamo portato avanti la vostra costruzione di senso e la vostra forza è divenuta la nostra forza sorretta dal sostegno di migliaia di cittadini che in quei giorni tremendi riempirono le piazze, le vie, circondarono il palazzo di giustizia facendoci sentire che non eravamo soli. E così Paolo, ci siamo spinti laddove voi eravate stati fermati e dove sareste certamente arrivati se non avessero prima smobilitato il pool antimafia, poi costretto Giovanni ad andar via da Palermo ed infine non vi avessero lasciato morire. Abbiamo portato sul banco degli imputati e abbiamo processato gli intoccabili: presidenti del Consiglio, ministri, parlamentari nazionali e regionali, presidenti della Regione siciliana, vertici dei Servizi segreti e della Polizia, alti magistrati, avvocati di grido dalle parcelle d’oro, personaggi di vertice dell’economia e della finanza e molti altri. Uno stuolo di sepolcri imbiancati, un popolo di colletti bianchi che hanno frequentato le nostre stesse scuole, che affollano i migliori salotti, che nelle chiese si battono il petto dopo avere partecipato a summit mafiosi. Un esercito di piccoli e grandi Don Rodrigo senza la cui protezione i Riina, i Provenzano sarebbero stati nessuno e mai avrebbero osato sfidare lo Stato, uccidere i suoi rappresentanti e questo paese si sarebbe liberato dalla mafia da tanto tempo. Ma, caro Paolo, tutto questo nelle pubbliche cerimonie viene rimosso come se si trattasse di uno spinoso affare di famiglia di cui è sconveniente parlare in pubblico. Così ai ragazzi che non erano ancora nati nel 1992 quando voi morivate, viene raccontata la favola che la mafia è solo quella delle estorsioni e del traffico di stupefacenti. Si racconta che la mafia è costituita solo da una piccola minoranza di criminali, da personaggi come Riina e Provenzano. Si racconta che personaggi simili, ex villici che non sanno neppure esprimersi in un italiano corretto, da soli hanno tenuto sotto scacco per un secolo e mezzo la nostra terra e che essi da soli osarono sfidare lo Stato nel 1992 e nel 1993 ideando e attuando la strategia stragista di quegli anni. Ora sappiamo che questa non è tutta la verità. E sappiamo che fosti proprio tu il primo a capire che dietro i carnefici delle stragi, dietro i tuoi assassini si celavano forze oscure e potenti. E per questo motivo ti sentisti tradito, e per questo motivo ti si gelò il cuore e ti sembrò che lo Stato, quello Stato che nel 1985 ti aveva salvato dalla morte portandoti nel carcere dell’Asinara, questa volta non era in grado di proteggerti, o, peggio, forse non voleva proteggerti. Per questo dicesti a tua moglie Agnese: “Mi ucciderà la mafia, ma saranno altri che mi faranno uccidere, la mafia mi ucciderà quando altri lo consentiranno”. Quelle forze hanno continuato ad agire Paolo anche dopo la tua morte per cancellare le tracce della loro presenza. E per tenerci nascosta la verità, è stato fatto di tutto e di più. Pochi minuti dopo l’esplosione in Via D’Amelio mentre tutti erano colti dal panico e il fumo oscurava la vista, hanno fatto sparire la tua agenda rossa perché sapevano che leggendo quelle pagine avremmo capito quel che tu avevi capito. Hanno fatto sparire tutti i documenti che si trovavano nel covo di Salvatore Riina dopo la sua cattura. Hanno preferito che finissero nella mani dei mafiosi piuttosto che in quelle dei magistrati. Hanno ingannato i magistrati che indagavano sulla strage con falsi collaboratori ai quali hanno fatto dire menzogne. Ma nonostante siano ancora forti e potenti, cominciano ad avere paura. Le loro notti si fanno sempre più insonni e angosciose, perché hanno capito che non ci fermeremo, perché sanno che è solo questione di tempo. Sanno che riusciremo a scoprire la verità. Sanno che uno di questi giorni alla porta delle loro lussuosi palazzi busserà lo Stato, il vero Stato quello al quale tu e Giovanni avete dedicato le vostre vite e la vostra morte. E sanno che quel giorno saranno nudi dinanzi alla verità e alla giustizia che si erano illusi di calpestare e saranno chiamati a rendere conto della loro crudeltà e della loro viltà dinanzi alla Nazione.” Palermo, 19 luglio 2012

MASSIMO RUSSO – Magistrato– “Marsala è stata la mia prima sede, dopo avere terminato l’uditorato a Firenze. Lì ho fatto il giudice per due anni, successivamente sono stato trasferito alla Procura allora retta da Paolo Borsellino con il quale lavorai solo alcuni mesi, poiché nel marzo del 92 egli ritornò a Palermo per assumere l’incarico di procuratore aggiunto. Ma il rapporto umano iniziò da subito. Paolo Borsellino, per la comunità dei giovani magistrati del Palazzo di Giustizia di Marsala – molti, come me, di prima nomina- era un imprescindibile punto di riferimento umano e professionale. Paolo si imponeva per la sua esperienza, per il suo carisma e per il suo tratto umano: era un uomo semplice, un padre di famiglia, simpatico, dalla battuta sempre pronta, ironico e col sorriso stampato in faccia, appena smorzato dalla perenne sigaretta tra le labbra. Sempre disponibile a venirci incontro e a misurarsi con le nostre difficoltà di giovani magistrati già alle prese con indagini complesse, anche di mafia: all’epoca, prima dell’istituzione delle Direzioni Distrettuali Antimafia, la Procura di Marsala si stava infatti occupando di diversi e importanti procedimenti contro Cosa Nostra. Ricordo la sua battuta con la quale sintetizzò l’atteggiamento che dovevamo avere nei confronti dei mafiosi: “pugno di acciaio in un guanto di velluto”. Un’altra volta, quando si rese conto che mi aveva assegnato un’indagine in cui erano coinvolti soggetti di Mazara del Vallo -che è la mia città natale dove all’epoca vivevo – mi chiamò e dissimulando la sua reale preoccupazione mi disse sorridendo: “Adesso ti occupi anche dei tuoi concittadini?”. Poi più seriamente aggiunse: “Forse non è opportuno che tu lo faccia perché prima o poi te la faranno pagare”. Pur comprendendo il suo atteggiamento protettivo, di rincalzo e con la sua stessa ironia, gli risposi: “Scusa Paolo, ma tu di dove sei?”. “Di Palermo”, rispose. “E finora che hai fatto? Di cosa ti sei occupato?” E lui, messo alle strette: “Della mafia palermitana”. Ed io: “E allora che vuoi?”. “Comunque stai attento”, concluse”. Qual è l‘immagine più bella che lei ha di Paolo Borsellino? “Quella sorridente del felice periodo marsalese di quando, per esempio, insieme agli altri colleghi, ci ritrovavamo a pranzo con lui sul lungomare di Marsala continuando a discutere e parlare delle nostre indagini, tra le sue battute divertenti e i suoi aneddoti. Un’immagine ben diversa da quella che Paolo Borsellino ci diede dopo il 23 maggio, quella di un uomo distrutto dalla tragedia di Capaci, gravato dalla consapevolezza della morte che si annunciava anche per lui..”Ma Falcone e Borsellino sono stati molto di più che due grandissimi magistrati: con la loro costante dedizione al lavoro, con la loro incrollabile fiducia nelle Istituzioni, con le loro azioni giudiziarie, hanno dato risposta ad un forte bisogno di identificazione collettiva da parte della società sana, di quella parte che ha sempre creduto che il riscatto della Sicilia e del meridione passasse innanzitutto attraverso la lotta al potere mafioso. Così, sono divenuti l’emblema della lotta alla mafia e in molti si sono riconosciuti nel loro esempio, da imitare piuttosto che ammirare Cose di Cosa Nostra nei ricordi di un magistrato antimafia. Dall’intervista di Enzo Guidotto a Massimo Russo – 7 Luglio 2016

GIUSEPPE PIGNATONE – Procuratore della Repubblica di Roma: L’eredità di Paolo Borsellino – L’eredità più preziosa di Paolo Borsellino per tutti noi cittadini di questo Paese. è il suo esempio: senso delle istituzioni e senso del dovere spinti fino al limite estremo del sacrificio, oltre che –naturalmente- eccezionali qualità professionali e umane. Un altro punto di riflessione è l’attenzione alla concretezza del lavoro, al suo risultato in sede giudiziaria. In una delle sue rare interviste Paolo Borsellino ricorda che nel Maxi processo erano iscritte come indiziate di reato circa 850 persone, ma il rinvio a giudizio fu disposto nei confronti di 475 soggetti, per gran parte dei quali il processo si concluse con l’affermazione di responsabilità e la pronunzia di sentenze di condanna. Una selezione, quindi, tanto attenta quanto rigorosa. E, prima di tutto, il valore etico del lavoro visto quasi come una missione quale emerge da una delle sue ultime interviste: «Io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tantialtri insieme a me. E so che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuare a farlo senza lasciarci condizionare dalla sensazione o, financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro »Seguendo questo esempio potremo realizzare quello che ha detto, il 23 maggio 2015, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella «Sconfiggere per sempre le mafie è un’impresa alla nostra portata, ma per raggiungere questo traguardo è necessario un salto in avanti che dobbiamo compiere come collettività». – dichiarazione rilasciata al Centro Studi Sociali contro le mafie – Progetto San Francesco il 20.10.2018

L’eredità più preziosa di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone per i giovani magistrati, ma prima ancora per tutti noi cittadini di questo Paese, è il loro esempio: senso delle istituzioni e senso del dovere spinti fino al limite estremo del sacrificio, oltre che – naturalmente – eccezionali qualità professionali e umane. La prima lezione che ci viene da Borsellino, Falcone e dagli altri magistrati e appartenenti alle forze di polizia di quegli anni è che le indagini vanno fatte a 360 gradi, come spesso si dice, senza mai accettare che ci siano tabù o zone franche. C’è poi un nuovo metodo di lavoro: il lavoro di équipe (anche se nessuno ha mai dubitato del ruolo preminente di Falcone e Borsellino), un lavoro metodico volto a cogliere i nessi e i collegamenti tra una miriade di fatti apparentemente slegati tra loro, l’attenzione –forse per la prima volta- agli aspetti patrimoniali e alle indagini bancarie, la “scoperta” (se così si può dire) e l’utilizzo, tra mille polemiche, dei collaboratori di giustizia. Gli esiti di tutto questo sono ormai scritti nelle sentenze del maxiprocesso, nei libri di storia e anche, purtroppo nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma accanto a questo una riflessione ulteriore ci porta, io credo, a sottolineare altri aspetti dell’attività di Paolo Borsellino e dei suoi colleghi. Il primo è la disponibilità ad affrontare le indagini con quello che io chiamo spirito laico, cioè senza pregiudizi di alcun tipo. Questo è tanto più necessario quando oggetto delle indagini sono realtà complesse o addirittura segrete per definizione come sono le associazioni mafiose. Certo a volte, specialmente oggi, può sembrare che sappiamo tutto delle mafie o –addirittura – che tutto fosse già scritto nei libri degli studiosi di 50 o 150 anni fa. Non è così. Bisogna sempre rimettere in discussione le proprie convinzioni e le proprie certezze. Falcone e Borsellino hanno detto che Buscetta ci ha fornito “i codici” per leggere e capire Cosa Nostra e in effetti con Buscetta è cominciata una nuova conoscenza della Mafia siciliana. Ma ci sono volute intelligenza e disponibilità per rimettere in discussione tutto quello che si credeva di sapere. Non dimentichiamoci che appena dieci anni prima, nel 1973, nessuno aveva creduto alle dichiarazioni di Leonardo Vitale, tanto simili a quelle che poi avrebbe reso Tommaso Buscetta. E lo stesso spirito laico ci deve guidare oggi ad affrontare le indagini sull’evoluzione di Cosa nostra sulla presenza della ‘ndrangheta al nord, negata per decenni pur dopo i grandi processi milanesi dei primi anni ’90, e quelle sulle nuove mafie che potrebbero svilupparsi in altre città italiane. E a proposito della ‘ndrangheta mi sembra opportuno sollecitare tutti noi a non dimenticare, nelle analisi – per altro verso corrette – sul sempre maggiore ricorso delle mafie al metodo corruttivo/collusivo, la forza “militare” e la capacità di ricorso alla violenza che l’organizzazione calabrese tuttora possiede e che la rende, per giudizio unanime, la mafia più potente e pericolosa in questa fase storica.  Un altro punto di riflessione è l’attenzione alla concretezza del lavoro, al suo risultato in sede giudiziaria. In una delle sue rare interviste Paolo Borsellino ricorda che nel maxiprocesso erano iscritte come indiziate di reato circa 850 persone, ma il rinvio a giudizio fu disposto nei confronti di 475 soggetti, per gran parte dei quali il processo si concluse con l’affermazione di responsabilità e la pronunzia di sentenze di condanna. Una selezione, quindi, tanto attenta quanto rigorosa. Naturalmente dalle indagini emergono elementi di conoscenza della realtà sociale, economica e politica attorno a noi ma, almeno secondo me, le indagini si fanno, e si giustificano, per fare i processi ed avere una pronunzia del Giudice su fatti specifici addebitati a persone specifiche. Mi sono tornate in mente a questo proposito le parole di Papa Francesco al Csm, il 17 giugno 2014, secondo cui la virtù specifica del giudice è la prudenza. Naturalmente il Papa parla della prudenza come virtù cardinale e infatti si affretta a precisare: «Non è una virtù per restare fermo. “Io sono prudente: sono fermo, no! È una virtù di governo per portare avanti le cose, la virtù che inclina a ponderare con serenità le ragioni di diritto e di fatto che debbono stare alla base del giudizio». Si avrà prudenza, aggiunge Papa Francesco «se si possiederà un elevato equilibrio interiore, capace di dominare le spinte provenienti dal proprio carattere, dalle proprie vedute personali, dai propri convincimenti ideologici».  Questo ci conduce a un’ulteriore riflessione per la quale voglio solo citare le parole di Giovanni Falcone al Csm davanti al quale era stato chiamato a giustificarsi, proprio lui, dall’accusa sempre ricorrente, di “avere tenuto le carte nei cassetti”, di avere “insabbiato” – come si dice in gergo giornalistico – le indagini sull’on. Salvo Lima. «A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede. Perché da queste contestazioni poi derivano, soprattutto in determinate cose, conseguenze incalcolabili. Quindi io continuo a essere convinto che questo tipo di elementi a carico di Salvo Lima non fossero tali, nemmeno per giustificare una informazione di garanzia, non so poi per quale reato». La mia ultima riflessione si riaggancia alla prima, ma ha una portata più vasta e prende spunto non solo dell’opera di Paolo Borsellino e del pool antimafia ma anche – e soprattutto – delle vicende dei processi per la strage di via D’Amelio. Dobbiamo essere sempre acutamente consapevoli del rischio di sbagliare e del fatto che l’errore del magistrato può colpire o addirittura travolgere beni essenziali del cittadino: la sua libertà, la sua vita familiare, la sua reputazione. Naturalmente l’errore non è mai del tutto eliminabile perché siamo uomini, ma proprio l’esperienza ci deve spingere a una sempre maggiore attenzione. Da un lato, il maxiprocesso ha consentito di rivisitare e spesso modificare gli esiti di indagini precedenti, anche con la revisione di sentenze irrevocabili di condanna. Dall’altro lato, la serie di processi per la strage di via Amelio costituiscono una lezione che tutti noi dovremmo sempre tenere presente. Vi sono stati processi, celebrati con tutte le garanzie che il nostro ordinamento assicura, che hanno portato alla condanna di decine di persone, molte delle quali innocenti. Nella buona fede di tutti i magistrati di varie sedi giudiziarie fino alla Cassazione, sono state pronunziate sentenze di condanna all’ergastolo che si sono rivelate sbagliate. È un fallimento drammatico, non giustificato neanche dall’eventuale depistaggio iniziale perché i processi servono anche a evitare o svelare i depistaggi. Dall’altro lato è pure vero – ed è un dato anch’esso importante- che, sia pur tardivamente, il sistema processuale si è rivelato capace, proprio in questo caso così drammatico ed emblematico, di correggere se stesso e di rimettere in discussione anche sentenze irrevocabili così importanti e “sofferte” (se così si può dire).Solo poche settimane fa, il presidente della Repubblica ha affermato che «sconfiggere per sempre le mafie è un’impresa alla nostra portata, ma per raggiungere questo traguardo è necessario un salto in avanti che dobbiamo compiere come collettività» ( 23 maggio 2015). A noi magistrati spetta, insieme alle forze di polizia, innanzi tutto, il compito della repressione, che dobbiamo svolgere nel modo migliore, ispirandoci all’esempio di Paolo Borsellino il quale, in una delle sue ultime interviste, disse: «Io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri insieme a me. E so che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuare a farlo senza lasciarci condizionare dalla sensazione o, financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro». Sole 24 Ore 19 Luglio 2015

FERDINANDO IMPOSIMATO – Magistrato – A Paolo dedico le parole di Shakespeare: «ripudia l’ambizione, ama te stesso come ultima cosa, accarezza quei cuori che ti odiano, l’onestà è più potente della corruzione. Nella tua destra porta la dolce pace per ridurre al silenzio le lingue invidiose. Sii giusto e non temere. Tutti i fini a cui miri siano quelli del tuo Paese, di Dio, della famiglia e della verità: allora se cadrai, cadrai da martire benedetto». E così è stato ed è caduto Paolo, martire ed eroe immortale Per me è un onore commemorare Paolo Borsellino che ho ammirato come magistrato integerrimo e imparziale e amato come fratello minore. Aveva quattro anni meno di me. Ma Paolo lo onorano la sua vita esemplare, l’amore immenso per la sua famiglia: la madre Maria, la moglie Agnese, i figli Tancredi, Lucia e Fiammetta, i fratelli Rita e Salvatore, le agende rosse nate per tenere desta la fiaccola della verità e della giustizia, l’eroica scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Cosina, Claudio Traina. Ricordo Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e la loro scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Solidarietà a Maria Falcone per spregevole attacco al busto di Giovanni Falcone, amico fraterno di Paolo. In Paolo incontrai saggezza e umiltà, anche se a soli 23 anni divenne il più giovane magistrato d’Italia. Donò tutto se stesso alla giustizia e sacrificò la sua nobile vita per conoscere la verità e rendere giustizia a Giovanni. Era convinto che un Paese può vivere senza benessere, non senza giustizia. Un Paese senza giustizia si disintegra. Antonino Caponnetto, il capo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino scolpì la figura di Paolo in modo mirabile e disse: «Paolo ebbe estrema semplicità, profonda umiltà e immensa umanità, enorme carica d’amore verso il prossimo, senso religioso del lavoro, generosità e coraggio con cui affrontò vita e andò incontro a morte annunciata». Conobbi Paolo e Giovanni ai primi anni 80 per indagini contro banchiere Michele Sindona, corruttore di politici con soldi di Cosa Nostra: indagini che io conducevo a Roma per sequestro simulato per estorcere denaro ai politici; e Paolo e Giovanni a Palermo per associazione mafiosa. A Palermo conobbi il consigliere Rocco Chinnici che creò il pool antimafia. Inviai a Paolo e Giovanni il procedimento romano contro i mafiosi Rosario Spatola, Salvatore Inzerillo e Giovanni Gambino su cui indagava il commissario Boris Giuliano, poi assassinato da Leoluca Bagarella. Iniziò così la sinergia tra i pool di Roma e Palermo con scambio di informazioni e strategia antimafia, che favorì fenomeno pentiti con Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno e altri pentiti. Ciò provocò grande preoccupazione di politici, governanti e imprenditori che temevano si scoprisse il rapporto mafia politica imprenditoria. Paolo e Giovanni nel 1984 a un convegno di Fiuggi, in memoria di mio fratello Franco, accusarono il Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro d’inerzia sulla legge a favore pentiti da lui promessa. Egli percepiva illegittimamente 100 milioni di lire al mese dai servizi segreti italiani. Nel 1983 erano iniziati terribili omicidi e stragi opera di una struttura segreta creata negli USA da poteri massonici, che attraverso la CIA-servizi segreti americani-, che si serviva della mafia e del terrorismo italiani, commetteva stragi e omicidi di magistrati, poliziotti, carabinieri e assassini di cittadini innocenti, come quello di Umberto Mormile e tanti altri, per creare paura e fare leggi liberticide. Ricordo alcuni di questi barbari assassini: gennaio 1983 venne ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, ad agosto 1983 il consigliere istruttore di Palermo, Rocco Chinnici, ad ottobre fu ucciso dalla banda della Magliana mio fratello Franco Imposimato per fermare le mia indagini su Cosa Nostra e sul barbaro assassinio di Aldo Moro, nell’estate del 1985 furono uccisi a Palermo i commissari di Polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà, e fu commessa a Trapani la strage di Pizzolungo contro il giudice Carlo Palermo, in cui furono uccise una mamma e due bambine, colpite dalla esplosione di una potente carica di esplosivo. Dopo 2 anni dalla uccisione di Franco, per minacce di morte a altri miei fratelli e sorelle, fui costretto a lasciare l’Italia e ad andare a Vienna, sede dell’UNFDAC, e in America Latina alle Nazioni Unite per l’addestramento dei giudici colombiani, boliviani, ecuadoregni e peruviani. Non potevo fare l’eroe sulla pelle dei miei fratelli e delle mie sorelle. Paolo nel 1987 subì la ingiusta accusa di essere professionista dell’antimafia, lui nemico del carrierismo e votato solo alla causa della giustizia. Era una calunnia, che non scalfì la reputazione adamantina di Paolo Borsellino ma preparò il terreno alla sua delegittimazione, preludio della uccisione. Paolo e Giovanni continuarono da soli lotta a mafia. Ma dopo omicidi a Trapani del Giudice Alberto Giacomelli, 14 settembre 1988, e l’assassinio feroce del giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano del 25 settembre 1988, Cosa Nostra alzò il tiro: nel Giugno 89 eseguì l’attentato a Addaura a Falcone, fallito per l’eroico intervento degli agenti Emanuele Piazza e Antonino Agostino, assassinati assieme a Ida Castelluccio, moglie di Agostino, in attesa di un bambino. Il Consiglio Superiore della Magistratura nel gennaio 88 aveva bocciato Giovanni Falcone come successore di Caponnetto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo e scelto Antonino   Meli, che subito dopo sciolto il pool antimafia. Il CSM condusse contro Falcone 3 inchieste nell’89, 90 e 91. L’accusa a Falcone era di insabbiamento delle indagini per gli omicidi dell’onorevole Piersanti Mattarella avvenuto nel 1980 e dell’on. Pio La Torre nel 1982. Paolo Borsellino reagì in difesa di Falcone e fu ammonito da CSM. Paolo e Falcone si sentirono feriti dalle inchieste devastanti del CSM: Falcone rilasciò una intervista e disse a una giornalista: il CSM mi ha delegittimato, sarò ucciso. Il governo mondiale invisibile Nell’agosto del 1990 il Presidente del Consiglio italiano Giulio Andreotti rivelò l’esistenza di una organizzazione paramilitare, Gladio Stay Behind, alla Camera dei deputati. La funzione ufficiale di Gladio era stata, secondo Andreotti, la difesa dell’Italia da una possibile invasione da parte della Unione Sovietica. Ma vedremo che ben altri erano gli scopi. Andreotti e il Ministro dell’Interno Francesco Cossiga erano capi della Gladio in Italia. Giovanni e Paolo, che indagavano sui delitti politici di Palermo, intuirono una terribile verità: Gladio era coinvolta nei delitti politici commessi in Italia tra cui gli omicidi del Presidente della Regione Piersanti Mattarella, dell’onorevole Pio La Torre e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e sua moglie Emanuela Setti Carraro. Intanto nel settembre 1990 fu ucciso il giudice Rosario Livatino della Procura di Agrigento. La Commissione parlamentare Stragi accertò la verità sulla vera natura di quella misteriosa associazione: Gladio – Stay Behind non serviva a difendere l’Italia da una possibile invasione da parte della Unione Sovietica; era associazione illegittima a guida Cia (Central Intelligence Agency) che controllava i servizi segreti italiani e altri servizi segreti del mondo occidentale. Tutti i membri di Gladio avevano il Nulla Osta sicurezza NATO. Ma la NATO era anche la entità da cui provenivano gli esplosivi usati per tutte le stragi commesse in Italia. A questo punto occorre inquadrare la vera natura di Gladio, il mistero dei misteri, l’enigma della Repubblica. Le analisi della Commissione Stragi non erano sufficienti, né quelle della stampa e degli storici. E mentre mi dibattevo per cercare di risolvere il segreto, la buona sorte mi venne incontro. Eseguendo ricerche storiche, trovai alcuni documenti allegati alla requisitoria del Pubblico Ministero Emilio Alessandrini sulla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Quella strage era stata lo spartiacque di tutte le stragi.A darmi un aiuto fondamentale fu il mio amico ex giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, napoletano, divenuto senatore. Egli mi diede, nel 2012, la requisitoria di Alessandrini, con tre allegati. Erano un documento del 1967 e due del maggio1969, nascosti a Montebelluna, in una banca locale, dal terrorista di Ordine Nuovo Giovani Ventura arrestato per le stragi di Milano. Essi descrivevano il governo mondiale invisibile, che aveva come struttura portante Gladio SB, parlavano della «guerra occulta», cioè della strategia della tensione, alimentata dal world deep state da anni, in varie parti del mondo e di «gruppi di pressione internazionali», tra cui Bilderberg che si valeva della CIA come braccio armato, e della necessità di compiere attentati con il sostegno di alcuni Paesi tra cui gli Stati Uniti. Il rapporto 1967 rivelò una verità sconvolgente «In un primo tempo, queste forze (Bilderberg, Cia) appoggiavano i movimenti cattolici a tendenza liberal progressista che si andavano manifestando in tutto il mondo. Ma a partire dalla Amministrazione Kennedy – «con la quale la CIA conseguiva la maggiore età» – la loro posizione si orienta verso posizioni sempre più estremiste, fino a divenire un autentico governo invisibile che orienta a suo capriccio la politica governativa, con una potenza ed una abbondanza di mezzi che non hanno precedenti nella storia americana. La CIA, in origine progettata come organismo informativo per la elaborazione della politica estera del Capo della Casa Bianca, si è trasformata in una forza di sovversione che si insinua negli affari interni degli altri paesi» (rapp RSD I Z n 230 5.VI.1967). Ma la Cia si valeva in Italia di politici, forze dell’ordine, terroristi, Cosa Nostra e di ogni tipo di criminali. Una conferma venne dalla scoperta fatta nel 2012: i servizi italiani avevano gli uffici in via Sicilia a Roma, a breve distanza da un ufficio del OSS, della CIA, di una sede di Gladio SB, di una società di copertura di Ordine Nuovo e della associazione massonica ONPAM fondata da Licio Gelli. (Imposimato Repubblica Stragi Newton Compton 2012 p46). Tutto questo aiuta a capire cosa c’era dietro le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Tornando a via D’Amelio e alle stragi che la precedettero, il gladiatore Francesco Elmo, studente universitario di destra, confessò ai PM di Trapani che di Gladio facevano parte uomini delle istituzioni, politici, civili, militari e mafiosi; disse che Gladio era coinvolta nella strage dell’ Addaura, contro Falcone – salvo per il coraggio di due coraggiosi agenti di Polizia, Emanuele Piazza e Antonino Agostino, poi uccisi-, e negli omicidi dell’onorevole Pio La Torre, Piersanti Mattarella, nella strage del consigliere Rocco Chinnici, nella strage Pizzolungo contro Calo Palermo, e in altri delitti (A. Sorrentino: chi ha ucciso Pio La Torre). Nel 2008 scoprii che Aldo Moro era stato vittima di una operazione Gladio; la quale aveva agito attraverso l’agente della Cia Steve Pieczenik,- inviato in Italia da Henry Kissinger consulente del Ministro dell’Interno Francesco Cossiga, – i servizi segreti inglesi e tedeschi. Pieczenick accusò Andreotti e Cossiga di avere voluto la morte di Aldo Moro. Ma Kissinger era anche uno dei fondatori del gruppo Bilderberg.Il rapporto 1967 fa un’ammissione straordinaria «In un primo tempo, queste forze (Bilderberg, Cia ed Ada) appoggiavano i movimenti cattolici a tendenza liberal progressista che si andavano manifestando in tutto il mondo. Ma a partire dalla Amministrazione Kennedy- con la quale la CIA conseguiva la maggiore età – la loro posizione (ADA e AFL-CIO) si orienta verso posizioni sempre più estremiste, fino a divenire un autentico governo invisibile che orienta a suo capriccio la politica governativa, con una potenza ed una abbondanza di mezzi che non hanno precedenti nella storia americana. La CIA, in origine progettata come organismo informativo per la elaborazione della politica estera del Capo della Casa Bianca, si è trasformata in una forza di sovversione che si insinua negli affari interni degli altri paesi» (all RSD I Z n 230 5.VI.1967 oggetto: gruppi di pressione internazionale in occidente)  La svolta: Gladio nel mirino di Falcone e Borsellino Nel 1990 avvenne la svolta: Falcone decise di indagare su Gladio e sulla sua probabile implicazione negli omicidi Mattarella, La Torre e altri. Il Procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, amico di Andreotti, si oppose in modo frontale a quella scelta. Qualcuno disse che Giammanco faceva parte di Gladio, ma non c’erano prove certe. Falcone fu costretto a lasciare la Procura di Palermo e ad andare al Ministero della Giustizia. Il suo obiettivo era fare la legge sui pentiti, la Procura Nazionale Antimafia, la legge sull’isolamento dei mafiosi più pericolosi (il famoso 41 bis), ed altre leggi necessarie alla lotta alla mafia. Alla Procura di Palermo, Paolo restò solo ma continuò a vedere Giovanni Falcone sia andando al Ministero in via Arenula, sia incontrandolo a Palermo, quando Giovanni Falcone tornava perché aveva nostalgia della sua terra. Nel 1991 Falcone scrisse nella sua agenda elettronica appunti sul ruolo di Gladio negli assassini di Palermo; e Paolo Borsellino era perfettamente d’accordo su questa diagnosi, ma entrambi trovarono ostacoli nel Procuratore di Palermo Giammanco che rifiutò di seguire la pista della connessione degli omicidi Mattarella e La Torre con la associazione Gladio, definita illegittima dalla Commissione Stragi: Giovanni ne parlò amareggiato con Paolo, che probabilmente annotò le notizie su Gladio su agenda rossa, quella agenda che poi scomparve dalla macchina di Borsellino perché prelevata e sottratta ai familiari di Paolo. Il 25 giugno 92 a Palermo, PaoloBorsellino rivelò «di avere saputo molte cose da Giovanni Falcone prima della strage di Capaci ma non poteva parlare pubblicamente», «parlerò col Procuratore della Repubblica di Caltanissetta (Celesti): circa i diari di Giovanni Falcone posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano, anche su questi appunti innescare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 ore dalla giornalista Milella, li avevo letti in vita di Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi» (Giommaria Monti Falcone e Borsellino, la calunnia, il tradimento Editori Riuniti). Ma cosa dicevano questi appunti? Il cuore di questi appunti di Falcone riguardava Gladio «Si è rifiutato di telefonare a Giudiceandrea per la Gladio, prendendo pretesto dal fatto che il procedimento non era stato assegnato ad alcun sostituto» (il Procuratore della Repubblica di Roma indagava personalmente su Gladio nella Capitale e chiese l’archiviazione in cambio della proroga della permanenza in servizio fino a 72 anni decisa dai gladiatori Andreotti e Cossiga) «Nella riunione di pool per la requisitoria Mattarella, mi invita in maniera inurbana a non interrompere i colleghi (13 dicembre 1990) «18.12.1990. dopo che ieri pomeriggio si è deciso di riunire i processi Reina, Mattarella e La Torre, stamattina gli ho ricordato che vi è istanza di parte civile nel processo La Torre di svolgere indagini su Gladio. Ho suggerito di chiedere al giudice istruttore di svolgere noi le indagini in questione, incompatibili col vecchi rito, acquisendo copia dell’istanza in questione». Falcone voleva fare indagini su Gladio. «19.12.1990. Altra riunione con lui, con Sciacchitano». Insistono nel rinviare tutto alla requisitoria finale e, nonostante mi opponga, esclude il nesso con Gladio «19.12.1990. Non ha più telefonato a Giudiceandrea e così viene meno la possibilità di incontrare i colleghi romani che si occupano di Gladio» Era chiaro che la ossessione di Falcone era l’indagine su Gladio. Paolo sapeva di Gladio, costato la vita all’onorevole La Torre, come aveva accertato l’avv. Armando Sorrentino difensore della moglie di La Torre Precisi elementi, ricavati dai tre predetti documenti, allegati alla requisitoria di Emilio Alessandrini, mi consentirono di scoprire che Gladio era responsabile della strategia stragista in Italia a partire dalla Strage di Portella della Ginestra. Stragi di Capaci e via D’Amelio ebbero stessi organizzatori ed esecutori: Cosa Nostra. Ecco gli elementi che legano le stragi a Gladio 1) I documenti 67 e 69 allegati alla requisitoria del PM Emilio Alesandrini parlavano di governo mondiale occulto di cui Cia, definita un mostro, era braccio armato, che si serviva di terrorismo nero e rosso e di Cosa Nostra 2) in tutte le stragi, comprese quelle di Capaci e via D’Amelio, c’era stato uso esplosivo T4 di tipo militare NATO, che non si trova in commercio 3) il mafioso Francesco Di Carlo disse ai magistrati: dopo Addaura agenti con accento inglese e il dottor La Barbera, andarono più volte in carcere Full Sutton Londra e gli chiesero il nome di un esperto in esplosivi per uccidere Giovanni Falcone, Di Carlo indicò agli agenti il nome di Antonino Gioè che indicò quello di Pietro Rampulla che partecipò a Capaci: e fu condannato all’ergastolo. 3) l’on Rino Formica nel 2014 disse alla giornalista Stefania Limiti dell’arrivo a Palermo, il giorno dopo Capaci, di agenti FBI che avevano avocato le indagini e gestito al posto degli inquirenti italiani. Essi in realtà depistarono indagini secondo tecniche esposte in sentenza dal Giudice Istruttore Leonardo Grassi di Bologna che indagava sulla strage di Bologna. Lo stesso avvenne con Strage di via D’Amelio. 4) Pentiti di Cosa Nostra dissero «ordine da America era di fare un botto enorme». Per Falcone attentato Addaura era fallito perché volevano un attentato eclatante 5) Elmo indicò la matrice Gladio per strage Addaura e altri delitti come l’uccisione del giudice Rocco Chinnici 6) Totò Riina secondo una ricerca di una tesista della facoltà di scienze dell’Investigazione della Università l’Aquila, Luisiana Noviello, era un agente CIA, (che gestiva Gladio ndr) 7) L’ex Pubblico Ministero, dr Luca Tescaroli, che era stato in servizio a Caltanissetta, accertò che Vito Ciancimino era membro di Gladio. Nel settembre 2016, nella NY University tenni diverse conferenze in cui ricostruii la strategia della tensione in Italia, che aveva condizionato in senso reazionario la vita politica del nostro Paese, e indicai nel Governo mondiale il mandante occulto dei massacri, a partire da Portella della ginestra per proseguire con Piazza Fontana fino alle stragi di Capaci e via D’Amelio e a quelle del 1993 a Galleria degli uffizi in via dei Georgofili a Firenze, a San Giovanni, a Roma, e a Milano.(Rep Str imp oggetto di dibattito in NY University, che ha pubblicato la copertina sul grande schermo). – Conclusione: i depistaggi istituzionali nelle indagini e nei processi per le stragi del 1992 hanno impedito per anni l’accertamento della verità. Tuttavia le Corti Assise di Caltanissetta e di Catania nel 2017 hanno riconosciuto i depistaggi istituzionali e hanno assolto Scarantino e tutti quelli accusati da lui su pressione del commissario La Barbera e altri. La Corte Caltanissetta, il 20 aprile 2017, ha quindi rilanciato la pista del depistaggio istituzionale e concluso che Scarantino fu indotto a mentire da altri, e trasmesso gli atti alla Procura nissena perché riapra indagine che nel 2015 si era chiusa con l’archiviazione del Giudice Indagini Preliminari. Grazie alla tenacia di Salvatore Borsellino e della sua nobile famiglia, di fronte alla quale mi inchino per la sua dignità e il suo coraggio, grazie alle indagini degli avvocati Fabio Repici, Stefano Mormile e di tanti altri, è stato dato un contributo formidabile alla verità e scongiurato un errore che avrebbe ostacolato le ricerche e offeso la memoria di Paolo. Solidarietà ad Angelina Manca, Vincenzo Agostino, Paola Caccia, Nunzia e Stefano Mormile, i coniugi Domino per la perdita dei loro familiari ad opera di feroci assassini. – Politici italiani e stragi. No a speculazione politica, ma non posso tacere con omertà e reticenza. Sento, in questo momento solenne, verso Paolo, Giovanni, Francesca ed eroici uomini delle scorte e vittime stragi, un dovere di verità storica. Senza rifondare la verità non si rifonda l’Italia. A Palermo nel 2017 è nata l’associazione memoria e futuro per accertare la verità storica nelle stragi. Dopo avere parlato di Gladio e del Governo Mondiale invisibile di cui al documento «RSD I Z n 230 del 5.VI.1967 oggetto: gruppi di pressione internazionale in occidente», non sembri strano il riferimento a governanti italiani, che grazie al sostegno con ogni mezzo di quei gruppi di pressione internazionali, conquistarono il Potere eliminando i difensori della democrazia come Falcone e Borsellino, che si batterono contro Gladio: si tratta dell’entrata in scena di Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’Utri, che nel libro la Repubblica delle stragi impunite del 2012, erano stati «indicati dal boss Gaspare Spatuzza come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra» (F. Imposimato Repubblica delle stragi impunite Newton Compton p 312) «il richiamo a Berlusconi e Dell’Utri era stato fatto anche dal mafioso Giuseppe Monticciolo nel 2000. Egli raccontò al magistrato Chelazzi di Firenze, coraggioso e acuto, che le stragi del 1993 erano state richieste a Leoluca Bagarella da Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, tramite il fattore di Arcore Vittorio Mangano» (F. Imposimato ibidem p 312). Ma i rapporti di Berlusconi con Cosa Nostra erano antichi e risalivano alla metà degli anni settanta. Secondo quel documento, la CIA (e il gruppo Bilderberg nda) si era «poco a poco radicalizzata verso posizioni sempre più estremiste fino a divenire un autentico “Governo invisibile” che orienta a suo capriccio la politica governativa, con una potenza ed abbondanza di mezzi che non hanno precedenti nella storia americana. La CIA, in origine progettata come un organismo informativo per la elaborazione della politica estera del capo della Casa Bianca, si è trasformata in una forza di sovversione che si insinua negli affari interni degli altri paesi» Il documento del 1967 proseguiva dicendo «due anni or sono, tenendosi a Roma la riunione del consiglio direttivo del gruppo Bilderber(sic), mr Sulzberger, servendosi del New York Times, rendeva noto il nuovo cambio di rotta che si stava per intraprendere» (documento RSD/1 Z n 230 5.6.1967 gruppi di pressione internazionale in occidente) «l’esistenza di una guerra occulta non è una novità». Del resto le connessioni tra il Governo italiano e Gladio sono apparse evidentissime nella guerra all’Iraq. La decisione del Presidente USA George Bush e del premier inglese Tony Blair di scatenare la ingiusta guerra all’IRAQ, causa delle nostre rovine attuali, in base all’inesistente «pericolo Saddam Hussein guerra nucleare», fu favorita dalla CIA, architrave di Gladio. E pienamente sostenuta dal premier italiano Silvio Berlusconi «uno degli ispiratori della frode del Niger Gate». Il 19 febbraio 2003 al Senato della Repubblica, Berlusconi fece riferimento a «elementi di prova sul riarmo di Saddam Hussein», e in seguito disse «Gli Stati Uniti non resteranno soli nell’impedire la proliferazione delle armi di distruzione di massa», che poi Bush (2008) e Blair (2015) ammisero pubblicamente essere stata una totale falsità dei fatti che aveva provocato la guerra all’IRAQ. (F. Imposimato La grande menzogna 2006 Koinè p 61). In tal modo si comprende come il Governo Berlusconi sia stato emanazione del Governo mondiale invisibile che ha governato l’Italia e ha eseguito gli ordini della CIA e di Gladio, coinvolte nelle stragi di Capaci e via D’Amelio. Concludendo – Molti pentiti, credibili per i magistrati di Palermo e Firenze, affermano che stragi del 92 e 93 erano funzionali al ricambio di referenti politici della I Repubblica e al sostegno ai nuovi referenti nella conquista del potere. I pentiti sono Gaspare Spatuzza, Giuseppe Monticciolo, Salvatore Cancemi, Giuseppe Graviano, Francesco di Carlo e diversi altri. I rapporti di Berlusconi con i capi di Cosa Nostra, secondo il mafioso Di Carlo, risalivano a metà degli anni settanta. I fatti sono stati ricostruiti in documenti e libri inchiesta e anche in sentenze, le quali non hanno mai portato alla condanna di Silvio Berlusconi. Verità storica e verità processuale possono non coincidere, nel senso che una sentenza esclude la rilevanza penale di alcuni accadimenti, i quali siano però fattualmente accertati. In questi casi, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, non può essere predicata la non verità dei fatti solo perché una sentenza ne ha escluso la illiceità penale (Pisauro, Provvisionato e Imposimato Corruzione ad alta velocità ed Koinè p 21) I fatti emergono da 1) un documento del 5 aprile 1984, risulta che un pentito rivelò a Falcone e Borsellino riciclaggio di esponente di Cosa Nostra, Gaetano Fidanzati in imprese immobiliari di giovane imprenditore: Silvio Berlusconi. Nessuno ha mai messo in dubbio veridicità di quel verbale pubblicato in libro. Il Tribunale di Roma in sentenza su banda della Magliana denunziava inerzia di Procura di Roma di fronte a fatti penalmente rilevanti «Tra marzo 1980 e luglio 1981 un grande flusso di denaro derivante dai finanziamenti di Silvio Berlusconi, per l’acquisizione di terreni in Sardegna,..I rapporti tra Carboni e Comincioli, come quelli fra Carboni e Berlusconi, che hanno interessato un movimento di più di 20 miliardi per operazione Olbia Due, non sono stati giudicati come sospetti dagli inquirenti» (R d S I p 317). 2) Spatuzza dichiara, il 16 giugno 2009, ai PM della DDA di Firenze Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi «Cosa Nostra era un’associazione mafiosa terroristica» essendosi spinta verso campi che non erano propri. (Lo Bianco e Rizza Agenda nera Chiare lettere p357). 3) Spatuzza racconta ai PM di Firenze incontro del luglio 1993 col capo mafia Giuseppe Graviano, in casolare di Campo Felice di Roccella, di Palermo. Graviano gli dice che gli attentati al patrimonio artistico italiano sono legati all’accordo con Berlusconi e Dell’Utri, indicati da Graviano come i nuovi interlocutori di Cosa Nostra. (Lo Bianco ib) Berlusconi e Dell’Utri «prima si accreditarono facendo fare le stragi» e poi apparvero come coloro in grado di farle cessare. Berlusconi e Dell’Utri negano. 4) Sembra certo che Berlusconi abbia versato a M. Dell’Utri l’equivalente di 80 miliardi di lire, (RSI p 312) la magistratura contestò l’estorsione a Dell’Utri. Le Magistrature di Firenze, Palermo e Caltanissetta definirono attendibile Spatuzza; del resto non si capiva l’interesse di Cosa Nostra a fare, nel 1993, attentati al patrimonio artistico di Firenze, Milano e Roma. Essi ne ignoravano persino la esistenza. Giuseppe Graviano confermò in colloquio con detenuto Adinolfi, il 10 aprile 1996 i collegamenti Cosa Nostra – Berlusconi alla vigilia delle stragi (Corsera 10.6. 17) Fatta salva la presunzione di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva, esistono gravi accuse contro esponenti politici ben individuati, accuse che non possono essere ignorate. In base al principio di obbligatorietà dell’azione penale (art 112 “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”) le persone accusate devono essere oggetto di indagini, come avviene per tutti i cittadini, tanto più se si tratta di criminali socialmente pericolosi (Tribunale di Milano). La Costituzione e la legge Anselmi L’art 18 della Costituzione vieta le associazioni segrete come il gruppo Bilderberg e Gladio: afferma «sono proibite le associazioni segrete». La Legge Anselmi contro le associazioni segrete, del 1982, gennaio, firmata dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini aveva una precisa funzione. Dotare la Repubblica di una legge che ponesse fine alle associazioni segrete, il cancro che ha minato fino alle fondamenta la solidità democratica del nostro Paese negli anni dal 1948 fino al 1980. 40 anni dopo, forze esterne al Parlamento, tra cui il gruppo Bilderberg saltano fuori per condizionamenti illeciti e terrorismo che si sommano alle numerose inchieste dei magistrati di mezza Italia. Tutti gli elementi che richiamano in mente gli anni bui della loggia guidata da Licio Gelli, con molti piduisti rientrati in scena, tra cui Berlusconi. La legge Anselmi ritorna attuale. Essa dice Art. 1 Si considerano associazioni segrete, vietate dall’art 18 della Costituzione, quelle che, anche all’interno delle associazioni palesi, occultando la loro esistenza o tenendo segrete finalità e attività sociali, o tenendo segrete finalità e attività sociali, i soci svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi Costituzionali, di amministrazioni pubbliche, etc. (In questo tipo di associazione segreta rientrano la Trilateral commission e il gruppo Bilderberg) Art. 2 Chiunque promuove o dirige una associazione segreta, ai sensi dell’art 1, o svolge attività di proselitismo a favore della stessa, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni. Chiunque partecipa ad una associazione segreta è punito con l’interdizione per un anno dai pubblici uffici. Ma essa non viene attuata, ma dovrebbe essere attuata. Ricordando Paolo, mi rivolgo ai giovani, la cui assenza dalla vita sociale e politica significa la fine della speranza per tutti noi. E’ responsabilità dei governanti e degli adulti non avere creato ai giovani un ambiente accogliente ove la speranza fosse possibile. Giovani, ispiratevi a Paolo e a Giovanni; fuggite le vacue tentazioni, sappiate ritrovare, come Paolo, le vie della faticosa preparazione, della modestia delle vigilie, del sacrificio e della dedizione nella preparazione. Non raccomando, a voi giovani, il facile successo come scopo della vita. L’uomo di successo è colui che riceve spesso moltissimo dal proprio prossimo, molto di più del servizio da lui prestato al prossimo. Il valore di un uomo si valuta da ciò che egli dà al prossimo, non da ciò che egli riesce a farsi dare. Ma i giovani devono impugnare la fiaccola della libertà e proseguire la nuova resistenza contro i poteri occulti, siano essi Bilderberg che Cosa Nostra o associazioni terroristiche. Paolo ebbe come baluardo la Costituzione; sia ancora, o giovani, la Costituzione la vostra stella polare, la vostra corazza, il vostro scudo come lo fu per Paolo e Giovanni: essa non è un arido elenco di articoli senza nome, ma il testamento spirituale di 200000 mila morti e oggi anche dei martiri della Nuova resistenza Paolo, Giovanni, Francesca, Emanuela Loi e tanti altri umili ma fieri servitori dello Stato. Dietro ogni articolo della Costituzione ci sono giovani, giovani come voi, caduti, caduti combattendo, giovani che hanno dato la vita perché le parole giustizia e libertà venissero scritte su questa carta. Viva Paolo Borsellino e Giovanni Falcone e tutti i caduti in difesa della democrazia.

LUCIANO COSTANTINI – Magistrato   Vivo e lavoro ormai lontano dalla Sicilia e le mie opinioni si formano solamente sulla base di una lettura dei fatti di cronaca riportati dai giornali e su un esame critico dei provvedimenti legislativi fioriti in questi anni, oltre che su conversazioni (ahimè, sempre più sporadiche) con i colleghi che ancor lavorano in quei luoghi, ed al termine delle mie riflessioni, non posso che pervenire alla conclusione che forse il giorno in cui la mafia sarà debellata è ancora molto lontano. E, con un sapore amaro, mi ritornano in mente le parole di Paolo che, invece, nel suo inguaribile ottimismo sosteneva con convinzione che “cosa nostra” era destinata ad un’ineluttabile sconfitta. Il suo ragionamento non era, però, destituito di fondamento, ma si basava (come sempre, del resto) su elementi di fatto incontestabili in quei tempi. Osservava Paolo che uno della sua generazione non poteva essere pessimista perché quando lui era ancora un bambino che giocava nel quartiere della Kalsa di Palermo chi nominava la mafia era considerato uno che voleva diffamare la Sicilia ed i siciliani perché, secondo l’opinione comune, “la mafia non esisteva” e non doveva esistere. Con il passare degli anni egli, invece, aveva potuto constatare che nelle vie di Palermo i giovani hanno iniziato a parlare della mafia, ne hanno ammesso l’esistenza e, nel contempo, hanno cominciato a negarle il consenso. Se quindi è vero, come sosteneva Paolo Borsellino, che discutere di mafia, anzi, il solo fatto di nominarla costituisce il primo ineludibile gradino per combatterla e sconfiggerla, l’assordante silenzio sul cancerogeno fenomeno mafioso ascoltato nei programmi elettorali e di governo mi induce a ritenere che si è fatto certamente un passo indietro rispetto alle realistiche previsioni formulate dal compianto collega. Oggi la lotta alla mafia rappresenta una vuota “clausola di stile” da inserire nei discorsi propagandistici ed il contrasto ai poteri criminali non è più inteso come impegno della comunità nel suo intero, ma solo come attività demandata all’esclusivo ed encomiabile impegno di magistrati totalmente isolati dal resto della società e delle istituzioni. Mi è stato sollecitato un ricordo di Paolo Borsellino ed io non posso che rammentare la sua bontà. Molte persone, non appena vengono a sapere dell’esperienza di lavoro che ho vissuto con Paolo, mi chiedono un giudizio personale su di lui. lo rispondo sempre: “Paolo era un uomo buono” e tale affermazione mi pare che deluda i miei interlocutori, i quali mi sembra che la intendano come riduttiva della figura di questo straordinario magistrato. lo, invece, ancora oggi ritengo che nessun’altra definizione meglio si attagli a ciò che Paolo è stato. Con questo non voglio sottacere le straordinarie doti professionali di Paolo, magistrato insigne, dotato di grande carisma, in grado di individuare subito il punto fondamentale di ogni questione che gli si poneva di fronte e capace di risolverla sempre nel modo più equo e conforme a giustizia. Di lui ho saputo apprezzare l’eccezionale capacità di garantire a noi sostituti una completa autonomia, facendoci sempre, nel contempo, sentire la sua vigile presenza protettiva e considero come fondamentale insegnamento di civiltà giuridica le sue continue esortazioni a rispettare la legge e ad applicarla con rigore ed equità. Del resto, i successi professionali di Paolo Borsellino sono noti a tutti: basti pensare alla sentenza-ordinanza del primo maxi- processo alla mafia, scritta, insieme a Giovanni Falcone, durante un’estate trascorsa all’interno dell’istituto penitenziario dell’Asinara, ove lo Stato li aveva costretti ad alloggiare in quanto impossibilitato a garantirgli altrove un’idonea protezione, oppure agli ordini di cattura emessi sempre nell’ambito di quel processo e dei quali, con orgoglio, Paolo amava ripetere che erano passati indenni al seppur severo vaglio della Corte di Cassazione. Nonostante ciò, però, io continuo a ritenere che la dote più rilevante di Paolo Borsellino sia stata la bontà d’animo ed in questo sono stato confortato da quanto riferitomi anche da sua moglie Agnese che mi ha parlato di quel “fanciullino di pascoliana memoria” che albergava nell’animo si suo marito. Paolo era un puro d’animo, un uomo di specchiata onestà e di grande integrità morale, una persona che ha vissuto una vita cristallina. Io ho sempre ammirato la sua abilità di individuare la parte più debole di ogni vicenda umana in cui per ragioni personali o professionali si imbatteva e la sua capacità di schierarsi immediatamente a fianco di chi aveva subito dei torti. Lo rammento come un uomo di grande sensibilità e tra tutti i ricordi che si affastellano nella mia mente mi piace ricordare un episodio che ha visto come protagonista una bimba, perché in esso ritrovo la sintesi più mirabile delle qualità di Paolo e perché ritengo che solo una persona munita di grande sensibilità, come era lui, è in grado di stabilire un rapporto così intenso con chi, come i bambini, costituisce l’espressione più alta della purezza dei sentimenti e della ingenuità. Ero appena arrivato a Marsala e Paolo alla fine di una giornata di lavoro mi invitò a cena insieme agli altri colleghi. Mi disse che voleva portarmi a mangiare in un posto incantevole. In effetti il ristorante si trovava su una lingua di terra proiettata nel mare siciliano e la serata di tarda primavera faceva sì che al tramonto il mare ed il cielo si accendessero di mille luci e quasi si confondessero in un caleidoscopio di colori. Appena entrati nel ristorante vidi farsi incontro a Paolo una bambina di non più di sei anni, con capelli biondi raccolti in due codine, che si gettò tra le sue braccia. Paolo la prese in braccio e la accarezzò teneramente, tant’è che la bimba rimase per quasi tutta la serata sulle sue ginocchia. Tale atteggiamento mi colpì, ma il mio stupore cessò quando alla fine della serata seppi chi era quella bimba. Si trattava dell’unico testimone oculare della caduta di un aereo militare avvenuta nei pressi dell’aeroporto di Trapani. Paolo, che indagava su quel fatto, aveva dovuto sentire quella bambina rimasta comprensibilmente scossa dalla scena alla quale aveva assistito e, consapevole della forma di violenza che inevitabilmente andava ad esercitare sulla bambina, obbligandola a ricordare un fatto per lei doloroso, era riuscito a trovare quelle parole, quei modi e quei gesti che solo chi ha una grande purezza d’animo può utilizzare senza ferire la sensibilità di un essere ingenuo e fragile come una bambina di quell’età. Quest’uomo era Paolo Borsellino e così mi piace ricordarlo. da Mì, periodico napoletano n. 5-6 luglio-agosto 2001

In questa lunga intervista, LUCIANO COSTANTINI racconta la figura professionale e umana del collega Paolo Borsellino: “Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare” Il 4 luglio 1992, Paolo Borsellino tenne il discorso di commiato a Marsala. Era andato via mesi prima per trasferirsi a Palermo come procuratore aggiunto ma la festa di commiato fu preparata, dai colleghi, a Luglio. Per ricordare quell’evento, qualche settimana fa, abbiamo contattato il Dr Luciano Costantini che fu collega del giudice ed era presente in quell’occasione.   Ne è nata un’intervista in cui ci ha parlato dei suoi ricordi privati. Una lunga conversazione che ha toccato più punti sulla vita del Giudice Borsellino: dalla professione alla famiglia, dal metodo investigativo all’amicizia con il collega Giovanni Falcone, dalle delusioni all’ironia, dalla paura  al coraggio. E tanti aneddoti inediti come la telefonata che gli fece il Presidente Francesco Cossiga nel 1991 o l’accusa a Vincenzo  Geraci di essere il  “Giuda” che tradì il suo amico Giovanni nella votazione al Csm, nel gennaio 1988, o ancora la paura, nel 1992, di villeggiare a Villagrazia. Ne esce un quadro che ci fa comprendere ancora di più chi fosse Paolo Borsellino ed allo stesso tempo ci fa rimpiangere, per l’ennesima volta, la perdita dell’Uomo, così buono, giusto ed onesto. Luciano Costantini, classe 1962, dal 1991 al 1994 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Marsala (TP) con applicazioni alla Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Dal 1995 al 2004 ha svolto le funzioni di sostituto procuratore della repubblica presso il Tribunale di Pistoia con applicazioni alla Direzione distrettuale antimafia di Firenze. Dal 2005 al 2015 ha svolto le funzioni di giudice presso il tribunale di Pistoia prima nella sezione civile e dal 2007 nella sezione penale. Dal 29 settembre 2015 è presidente della sezione penale del Tribunale di Siena. Fino al Luglio 2016 ha esercitato le funzioni di Presidente del Tribunale in assenza del titolare. Si è occupato, e si occupa tuttora, di insegnamento, presso l’università di Siena e di Firenze e presso la scuola di formazione forense “Cino da Pistoia” su temi di diritto penale e di procedura penale. E’ anche relatore nel master in tecniche dell’investigazione organizzato annualmente dal dipartimento di diritto pubblico della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena nella materia delle intercettazioni telefoniche. Dal 2002 tiene docenze periodiche in tema di sicurezza sui luoghi di lavoro –profili penali- in corsi organizzati da vari ordini professionali della toscana, enti locali e enti privati destinati a professionisti e funzionari pubblici. Costantini ha curato il commento gli artt. 496-524 e 549-567 del codice di procedura penale edito da Cedam nel 2012. Dottore Costantini, ci racconta quando ha incontrato, per la prima volta, Paolo Borsellino? “Conobbi Paolo Borsellino alle 7,00 del 2 novembre 1990, quando egli personalmente passò a prendermi all’albergo di Palermo dove alloggiavo. Ero arrivato la sera prima, perché da pochi giorni avevo scelto la prima sede del mio lavoro di magistrato: sostituto procuratore della Repubblica a Marsala. Cioè, la Procura di Paolo Borsellino. Avevo voglia di sapere dove avrei trascorso i prossimi anni della mia vita, ma soprattutto morivo dal desiderio di conoscere Paolo. Immaginate quale fu la sorpresa quando mi disse che lui stesso sarebbe venuto a prendermi per andare insieme a Marsala. Il 1° novembre era festa, e quella sera Palermo era davvero splendida: calda, accogliente e piena di gente come sa essere una grande città del sud. Girare per le sue piazze e le sue strade, respirare quell’aria tiepida di un’estate che laggiù non finisce mai, era il miglior modo per attendere l’incontro dell’indomani. Il giorno dopo sarebbero stati commemorati i defunti e anche questa è una grande festa, laggiù nell’isola: quella notte i morti portano ai bimbi la frutta Martorana, e in qualche paese alcune famiglie vanno ancora a banchettare al cimitero con i loro cari. C’è un continuum inscindibile tra vita e morte. Giovanni Falcone diceva che “la vita vale un bottone”. Ed è vero. Ricordo che a Marsala fu ucciso un ragazzo di quattordici anni. Si scoprì subito che gli autori erano stati alcuni suoi amici, entrambi minorenni, e che il movente era stato il furto di un ciclomotore. Ha raccontato uno dei due omicidi che l’amico gli chiese se fosse stato opportuno uccidere quel loro coetaneo che gli aveva rubato il motorino ed egli rispose: “Pi mia”. La stessa cosa che decidere se trascorrere la serata al cinema o al ristorante. “Pi mia, per me è uguale”. La vita non vale niente nell’ignoranza che la mafia coltiva e fa crescere. La cortesia di Paolo di passare a prendermi in albergo mette in risalto una delle sue più grandi doti: l’umiltà. Uno dei più famosi magistrati italiani e del mondo va a prendere l’ultimo degli uditori che si appresta ad iniziare a lavorare nella sua Procura. Paolo aveva con sé l’Alfa Romeo blindata che guidava personalmente, e insieme ci avviammo verso Marsala. Credo che quel giorno Paolo, incallito fumatore, abbia battuto il record di astinenza dal fumo. Era rimasto senza sigarette, e siccome nell’autostrada che collega Palermo a Trapani non esiste né una stazione di servizio né un autogrill, ha dovuto rassegnarsi a non fumare. Nel breve volgere di quell’ora e mezza di viaggio, con la sua affascinante capacità di sintesi, Paolo mi parlò del lavoro, della città, dei colleghi, dei suoi collaboratori e anche di parte della sua vita”. Paolo Borsellino arriva a Marsala a fine estate del 1986, con una decisione del Csm che in quel momento ribaltava i soliti canoni. Fu preferita la competenza sull’anzianità. Il giudice aveva compreso che bisognava indagare in un territorio fino ad allora lasciato isolato ma che aveva un alto grado di pervasività mafiosa, che oggi conosciamo, basta pensare alla consorteria dei Messina Denaro di Castelvetrano. “Infatti vi arrivò grazie ad un’illuminata decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che lo nominò privilegiando, per la prima volta, la competenza sull’anzianità. Qualcuno malignò che Paolo voleva essere ricompensato con una “Procura al mare”, ma la frase è ferocemente e gratuitamente perfida. Come ebbe a ricordare proprio Paolo nel discorso tenuto il 4 luglio 1992, nel corso della sua permanenza a Marsala egli il mare lo ha visto solo “attraverso il prisma dei vetri blindati dell’auto” che lo portava da casa (situata all’interno del Commissariato di polizia) all’ufficio. Paolo Borsellino aveva, invece, capito che in quel momento Cosa Nostra non poteva essere combattuta solo a Palermo, ma doveva essere stanata in provincia, là dove l’arretratezza culturale ed economica la rendeva ancora più forte, e quasi inscindibile era il suo legame con il territorio. Quella periferica Procura di una piccola città collocata sul lembo più occidentale della Sicilia arrivò, grazie a Paolo, al centro dell’attenzione nazionale. Per la prima volta si indagò sulla pervasiva presenza di Cosa Nostra nel trapanese, che si scoprì essere una vera e propria roccaforte mafiosa, e spuntarono i primi collaboratori di giustizia dopo Tommaso Buscetta. Il destino di Paolo si incrociò anche con uno dei grandi misteri italiani: la rotta del DC9 dell’ITAVIA, che si inabissò al largo dell’isola di Ustica, fu registrata dal radar di Marsala e Borsellino iniziò indagini che si rivelarono utili per la ricostruzione del fatto”. Lei è stato a Marsala con Paolo Borsellino da Novembre 1990 a febbraio 1992, quando poi il Giudice si trasferì a Palermo in quella che era la DDA appena nata. Ed ha continuato a vederlo. Quindi lo ha conosciuto in anni che non sono stati sempre  sereni, ma che hanno portato anche dei punti critici nella vita del giudice. Ci riferiamo ad esempio all’estate del 1991 quando il settimanale Epoca pubblicò dei verbali di Rosario Spatola resi al dottore Taurisano della Procura di Trapani. Questi verbali contenevano dichiarazioni su politici dell’epoca e per competenza territoriale, le indagini spettavano a Marsala. Il dottore Borsellino apprese dell’esistenza di quelle dichiarazioni proprio con la pubblicazione su Epoca. Borsellino chiese la trasmissione degli atti e nei primi di settembre del 91 fece la relazione al procuratore generale per chiedere un migliore coordinamento nelle indagini di quel territorio onde evitare fatti simili. E per questo caso, oltre al clamore pubblico, il giudice subì anche l’audizione davanti al Csm avvenuta il 10 dicembre 1991. In una parte di essa, esprimeva tutta la sua amarezza con questa frase:  “Addirittura, la stampa parlò di camion di documenti che venivano trasferiti da Trapani a Marsala e io fui accusato di essere ‘scippatore’ e ‘insabbiatore’ di inchieste, per avere solo chiesto la copia di un verbale! Mi consenta, Presidente, però ognuno di noi ha dei figli, e quando i miei figli leggono sul giornale che il loro padre, che loro ritengono essere Magistrato serio, che fa il suo dovere,  diventa uno ‘scippatore’ e ‘insabbiatore’ di inchieste, mi consenta che dal punto di vista psicologico qualche cosa se ne risente’. Il giudice, come affrontò  quei fatti? Ebbe mai ad esprimersi  in relazione a quelle vicende? “Era un sabato di settembre del 1991, ero l’unico dei sostituti non in ferie e, naturalmente, ero di turno. Stavo guardando in tv il giro ciclistico del Lazio e, da poco in Sicilia, avevo il cuore gonfio di nostalgia, che passava appena un po’ quando guardavo luoghi per me familiari. Squillò il telefono cellulare e dall’altra parte c’era Paolo. Mi disse subito: “indovina chi mi ha chiamato?”. Io feci qualche fallimentare tentativo fino a quando Paolo mi disse che aveva appena ricevuto una telefonata dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. In quei giorni tutti i media nazionali davano conto di un contrasto insorto tra la Procura della Repubblica di Marsala e quella di Trapani in ordine alla competenza territoriale per le indagini sul rapporto mafia-politica e per cui erano indagati tre parlamentari nazionali residenti ed eletti nel circondario della città libetana. Alla fine la Procura di Trapani cedette e trasmise gli atti a Marsala. Paolo rivendicò con tutta la sua autorevolezza la competenza della sua Procura e per questo ricevette la telefonata di Cossiga. Anche la seconda domanda che Paolo mi rivolse (“Sai cosa mi ha detto?”) ha avuto una mia risposta sbagliata. “Mi ha detto: vada avanti così, Procuratore”. Detta così la frase è di poca importanza, ma chiunque l’avesse ascoltata con le sue orecchie, sarebbe scoppiato in una grossa risata. Infatti, Paolo la pronunciò imitando (male) il presidente. Ora, chi ha conosciuto Paolo sa che egli aveva una marcata inflessione non solo palermitana, ma di palermitano del quartiere della Kalsa. E sentirlo parlare con quella buffa pronuncia che aveva la pretesa di essere sarda era davvero esilarante. All’epoca era ancora in vigore la normativa che prevedeva l’autorizzazione a procedere per i parlamentari e imponeva che, entro un mese dall’iscrizione del nominativo nel registro delle notizie di reato, il Pubblico Ministero chiedesse quella autorizzazione alla Camera di appartenenza. Paolo iniziò a ritmo serrato le indagini, che conduceva nella sua stanza interrogando tutto il giorno testimoni e indagati. Una sera, al termine della giornata, lo andai a salutare e gli dissi che “si era preso proprio una patata bollente” e lui mi rispose: “Si, è una patata bollente, ma a me piace scottarmi”. La frase mi colpì, ma solo dopo anni ne compresi il significato. Con quelle parole Paolo mi aveva indicato l’essenza intima del mestiere del giudice, che è quella di prendersi la responsabilità delle scelte. Non è altro il lavoro di chi giudica: assumersi la responsabilità di decidere chi ha torto e chi ha ragione. Non so se sia vero quello che Antonio Monda nel suo splendido romanzo Assoluzione affida alle parole dell’avvocato Stella, e cioè che i giudici portano in sé una parte di divinità perché restituiscono l’armonia dell’ordine attraverso l’applicazione del diritto e avvicinano al mistero di Dio, o quanto dice Rusty Sabich nel prologo di Presunto innocente di Scott Turow, e cioè che siamo i burocrati del male e del bene. So solo che la collettività, in nome della quale ogni giorno pronuncio le mie sentenze, mi ha affidato il compito delicato di decidere chi ha torto e chi ha ragione secondo la mia scienza e la mia coscienza, e che questa è una scelta a cui non posso, anzi, non devo, sottrarmi mai. E quanto è più difficile la decisione, tanto è più importante il mio lavoro: non posso decidere di non decidere. Ecco che voleva dire Paolo quando mi disse che non dovevo avere paura di scottarmi le mani con le patate bollenti che maneggio ogni giorno”. Paolo Borsellino professionalmente, come lo descriverebbe? “Ci sono alcuni esempi da me appresi direttamente che rivelano le inarrivabili qualità di Paolo come magistrato. Un giorno, parlando dell’associazione per delinquere di stampo mafioso, il discorso cadde sul significato di omertà, lavoro che ha affaticato decine di autorevoli giuristi e che ha fatto scorrere fiumi di inchiostro. A un certo punto Paolo mi disse: “Sai cos’è l’omertà? E’ quando io interrogo Paolo Borsellino e gli chiedo se si chiama Paolo Borsellino, e lui mi risponde: questo non glielo posso negare”. Una risposta geniale, che meglio di ogni cosa sapeva spiegare il tratto caratteristico più deteriore della mafia: quello di rifiutare pervicacemente l’autorità dello Stato. In un’altra occasione di fronte a una signora che dirigeva un importante traffico di stupefacenti nella città di Marsala e che tentennava di fronte alla prospettiva di collaborare con la giustizia, Paolo disse: “Signora, si ricordi: nessuno si è mai pentito di essersi pentito con Paolo Borsellino”. L’espressione è divertente, ma contiene molto di più di un motto di spirito. Con quella frase Paolo metteva in gioco tutto sé stesso e l’intera sua autorità dicendo al proprio contraddittore: “Io sono lo Stato. Di me ti puoi, ti devi fidare”. Sì, proprio quello Stato incapace che lo aveva relegato in un penitenziario di una piccola isola perché non era in grado di proteggerlo. E che gli aveva fatto pagare il prezzo del soggiorno. Con quel gioco di parole Paolo Borsellino consegnava all’intera collettività – e, quindi, a tutti noi- la sua autorità, la sua storia ed il suo volto, sì da costringere a quel punto l’interlocutore a scegliere lo Stato perché lui ne era il garante e il rappresentante. E quanto sia importante sforzarsi a essere migliori e più efficienti di Cosa Nostra me ne sono accorto qualche anno più tardi quando, applicato dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, mi capitò di assistere al primo colloquio con un mafioso di un piccolo paese della provincia di Trapani che aveva deciso di collaborare. Quando il procuratore gli domandò perché era diventato mafioso, questi rispose in siciliano stretto: ”perché quando ero piccolo chi comandava era la mafia”. Quell’uomo esprimeva un concetto tanto elementare quanto inattaccabile: gli uomini stanno tendenzialmente dalla parte di chi vince, di chi è più efficiente. Ed è amaro constatare che in Sicilia troppo spesso e troppe volte lo Stato, in tutte le sue espressioni territoriali, quando si tratta di efficienza, soccombe alla mafia. Questa dote di Paolo di impersonare lo Stato consente di comprendere le ragioni di quella che molti considerano la settima vittima della strage di via D’Amelio. Sette giorni dopo l’eccidio, gettandosi dal balcone di una casa della periferia romana, si è suicidata Rita Atria, figlia di un noto capo-mafia della valle del Belice, che poco tempo prima aveva deciso di iniziare la collaborazione con la giustizia, svelando fatti importanti riguardanti la sua famiglia e la faida mafiosa che aveva insanguinato per anni le strade di Partanna, suo paese natale. Per la giovane donna l’identificazione di Paolo con lo Stato era così completa che la morte di Paolo ha determinato il crollo dei motivi della sua scelta di vita e il venir meno della sua stessa ragione di esistere. L’autorevolezza di Paolo era così forte che non aveva bisogno di mostrare i muscoli per far rispettare le regole: bastava la forza persuasiva della sua persona. Nella Procura di Marsala c’era un impiegato che la mattina entrava in ufficio in ritardo. Nessuna minaccia di rilievi disciplinari, nessun procedimento iniziato verso quella persona. È bastato a Paolo una mattina mettersi all’ingresso del palazzo di giustizia alle otto con la sua inseparabile sigaretta tra le labbra e salutare l’impiegato ritardatario mentre arrivava. Questi, che era una persona intelligente, capì che non poteva entrare al lavoro dopo il suo dirigente, e da quella mattina il suo orologio tornò a essere puntuale. L’esempio di chi ricopre posizioni di vertice può molto di più di mille sanzioni disciplinari”. A metà anni 80, Borsellino e Falcone furono alle prese con la preparazione di ciò che poi porterà alla prima sentenza su un maxi processo di mafia. Ed entrambi vengono “deportati “all’Asinara perché nel periodo in cui preparavano l’istruttoria di quel processo, era trapelata una notizia secondo cui erano in pericolo imminente, Cosa Nostra aveva deciso di ucciderli. Il Giudice, raccontandole della sua vita, le parlò mai di quegli anni? “Nell’estate del 1985 uno Stato inetto deportò lui, Giovanni Falcone e i loro familiari nell’isola dell’Asinara perché stavano redigendo la sentenza ordinanza del maxiprocesso (Abate + 476, mi sembra che ci fosse scritto così sui faldoni allineati che egli custodiva nella libreria della sua stanza) e gli dissero che, siccome rischiavano di essere ammazzati da Cosa Nostra e lo Stato non era in grado di proteggerli e che, se fossero morti, nessuno avrebbe potuto sostituirli nella stesura del provvedimento, dovevano andare in quell’isola sarda dove c’era un penitenziario che poteva ospitarli. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in carcere! Alla fine quello Stato incapace e privo di umana riconoscenza richiese ai due giudici il pagamento di una somma di denaro per la loro permanenza lì dentro insieme alle famiglie. Ma il prezzo umano che Paolo sopportò fu ancora più alto: Lucia, la primogenita, era appena adolescente e non voleva abbandonare Palermo in quell’estate in cui i giovani mordono la vita e se la divorano ogni sera. L’allontanamento dei genitori e dei fratelli da Palermo, motivato dal pericolo della loro morte, cagionò alla ragazza un tremendo stress che le procurò una grave malattia, che Paolo fu costretto a rivelare pubblicamente quando Leonardo Sciascia e Leoluca Orlando lo accusarono di essere “un professionista dell’Antimafia”, ed egli dovette difendersi davanti al Consiglio Superiore della Magistratura. Paolo Borsellino messo sotto processo! Ebbene, Paolo parlando del maxiprocesso, rivendicò con legittimo orgoglio che tutte le centinaia di provvedimenti di cattura emessi erano passati indenni al severo vaglio della Corte di Cassazione. La cosa mi colpì, ma non ne compresi appieno la ragione. Solo molti anni e migliaia di processi dopo ho capito il senso di quella frase e il vero significato di quell’orgoglio. E questo ha costituito un insegnamento che porterò sempre con me nella mia vita professionale fino a quando attribuirò torti e ragioni. Paolo poteva ricordare il maxiprocesso e dire che è stato il più importante processo della storia giudiziaria di questo paese, che è stata la più alta risposta dello Stato a Cosa Nostra, che per la prima volta subì l’onta di centinaia di condanne per i suoi più importanti appartenenti. Oppure che in quell’indagine furono sperimentate tecniche innovative, come quella dell’audizione dei collaboratori di giustizia, oppure adottato un rivoluzionario modo di operare dei giudici, come quello del lavoro in pool e della circolazione interna delle informazioni, fino ad allora sconosciute e poi diventate di uso abituale. E, invece, no. Paolo sottolineò solo che quei provvedimenti avevano “retto fino in Cassazione”, come si dice nell’ambiente. Perché questo è il mestiere dei giudici: adottare provvedimenti che siano conformi alla legge. Noi magistrati traiamo tutta la nostra legittimazione dal rispetto della legge, e solo la legge ci restituisce l’autorità di cui abbiamo bisogno per imporre ad un uomo il sacrificio del bene più importante che ha dopo la vita: la libertà personale. Come il Dio dantesco, la legge è ciò da cui noi giudici partiamo e ciò a cui dobbiamo necessariamente ritornare. Qualsiasi deviazione dalla legge, anche per le più nobili finalità, costituisce un’ingiustizia che automaticamente ci indebolisce. Ci sono situazioni in cui si forza il dato normativo per fini non necessariamente illeciti o egoistici: perché si avverte la necessità di contrastare il malaffare, di arrestare il decadimento morale e materiale di questa nostra Repubblica, di dare una risposta all’opinione pubblica toccata da eventi tragici e luttuosi. Sono ragioni rispettabili, ma hanno un valore solo se sono conformi alla legge. Altrimenti sono pericolose e controproducenti: e il magistrato resta nudo. Una delle prime raccomandazioni che mi fece Paolo è stata quella di rispettare la legge, perché, diceva che, non appena chi è tenuto a far rispettare la legge la viola, i criminali lo puniscono. A riflettere bene, una sorta di “concorrenza sleale” che la criminalità non sopporta: solo lei ha il monopolio dell’illegalità, e se il suo contraddittore si azzarda a invaderle il campo, viene punito. Quindi, secondo Paolo, la legge, e solo la legge, è lo scudo che difende i giudici. E, ripensandoci a distanza di venti anni, queste parole mi sono sembrate un triste presagio della sua tragica fine. Da alcuni processi che si stanno ancora svolgendo sembrerebbe che una delle possibili ragioni della morte di Paolo sarebbe stata la sua strenua opposizione a una trattativa tra lo Stato e dei criminali che facevano saltare per aria le autostrade uccidendo onesti servitori di quello stesso Stato. Se così fosse stato davvero, saremmo di fronte a una palese violazione della legge, un vile tradimento del patto che lega lo Stato ai suoi cittadini, una evidente illegalità che, come egli aveva previsto, ha reso debole e inerme Paolo e la sua scorta trucidata il 19 luglio 1992. Con grande amarezza nella lettera di saluto che noi sostituti di Marsala consegnammo a Paolo l’ultima volta che lo abbiamo incontrato, scrivemmo che in Sicilia lo Stato è contro lo Stato: mi accorgo ora, a oltre vent’anni di distanza, che le nostre preoccupazioni erano purtroppo realtà”. Nel 1988, Paolo Borsellino, in alcune interviste, denunciò pubblicamente il fatto che Falcone fosse stato silurato, nel gennaio precedente, dal Csm e che questo poi aveva portato ad una nuova organizzazione dell’Ufficio Istruzione, diretto da Antonino Meli. A causa di quelle dichiarazioni  si ritrovò, insieme a Falcone, ad essere sentito, in un’audizione del 31 luglio, dallo stesso Consiglio. Voleva difendere l’amico Giovanni… “Anche se confinato in provincia, Paolo non perse di vista la dimensione generale del contrasto alla mafia: fu tra i primi a denunciare la pervicace opera tesa a demolire l’esperienza del pool antimafia a Palermo e si rese protagonista di una lucida e coriacea battaglia per difendere il fraterno amico Giovanni Falconeormai esautorato dei suoi poteri e clamorosamente estromesso dal pool dopo la decisione del C.s.m. di preferirgli, quale consigliere istruttore, Antonino Meli. Una vicenda incomprensibile, che nella migliore delle ipotesi non ha avuto altro significato che quello di fare un dispetto a Falcone, e che, invece, nel più malizioso sospetto, è stato l’ennesimo cedimento dello Stato a Cosa Nostra. Era il 1988, e con l’entrata in vigore del nuovo codice l’Ufficio istruzione sarebbe sparito, cancellato dalla nuova procedura penale. Sarebbe diventato un reperto archeologico del processo, utile solo per gli storici. Quell’incarico avrebbe perso presto importanza, ma la nomina di Falcone sarebbe stato il più forte segnale di ostilità alla mafia. Paolo difese l’amico con tutte le sue forze fino all’ultimo giorno, e il 25 giugno 1992, in occasione di un’indimenticabile manifestazione alla biblioteca di Palermo, ricordò pubblicamente l’episodio e disse che nel C.S.M. c’era “un giuda” che aveva tradito Falcone. Si trattava del consigliere Vincenzo Geraci, che prima assicurò il suo voto a Falcone e poi, invece, glielo negò, favorendo così la nomina di Antonino Meli. Successivamente Geraci disse che Paolo non si riferiva a lui quando parlò del “giuda”. Posso smentire Geraci perché ho ascoltato con le mie orecchie quello che Paolo disse a Marsala il 4 luglio 1992: offro una testimonianza autentica. Durante il suo discorso di commiato Paolo polemizzò con chi, in occasione della sua nomina a Marsala, perfidamente disse che in questo modo aveva ottenuto la tanta desiderata “Procura al mare”. Ritornando verso il suo ufficio al termine della cerimonia, un collega gli chiese a chi si riferiva, e Paolo rispose che nel libro I disarmati di Luca Rossi, da poco uscito, tale espressione era stata usata proprio da Vincenzo Geraci. E aggiunse: “L’altra sera alla biblioteca di Palermo l’ho chiamato “giuda” con tutto il cuore. Quando, ero accanto alla bara di Giovanni Falcone, nella camera ardente all’interno del palazzo di giustizia di Palermo, ad un certo punto mi sono sentito tirare per la toga. Mi sono girato ed era Antonino Meli. L’ho visto così piccolo e dimesso, e, meschino, l’ho perdonato. Ma Geraci no. Lui non lo perdonerò mai”.  Queste sono le parole pronunciate da Paolo e che io ho sentito con le mie orecchie. Non posso pronunciarmi sulla fondatezza dell’opinione espressa da Paolo sull’operato di Geraci: non ho strumenti per valutare se il medesimo sia stato leale o meno. Quello che mi preme far conoscere è che Paolo viveva l’amicizia come un sentimento nobile che ti impone di intervenire sempre in aiuto dell’amico in difficoltà”  Parlaste mai di politica? “Io ricordo che Paolo non gradì che nell’undicesimo scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica del 1992 il gruppo parlamentare del Movimento Sociale Italiano votasse per lui, esprimendo 47 voti. E la sua contrarietà fu evidentemente percepita da chi lo aveva votato, se è vero che nei successivi scrutini cessò di esprimere la sua preferenza a Paolo.  Questo nonostante fosse notoria la vicinanza di Paolo alle idee conservatrici.  Ma è lo stesso Paolo a farci capire qual era la sua posizione nei confronti della politica. A chi gli chiedeva di che partito fosse, rispondeva che era monarchico. Il consueto ricorso al paradosso, l’ennesima straordinaria esibizione di intelligenza, la solita, fulminante risposta che invita garbatamente l’interlocutore a cambiare domanda perché quella che ha fatto è sbagliata: chiedere ad un giudice qual è il suo orientamento politico significa attentare alla sua indipendenza. Guardo quello che succede oggigiorno e mi chiedo quanti miei colleghi hanno davvero compreso questo insegnamento”. Borsellino era un uomo molto religioso ed altruista, ricorda episodi che mettessero in evidenza queste sue caratteristiche? “Paolo era un puro d’animo, un uomo di specchiata onestà e di grande integrità morale, una persona che ha vissuto una vita cristallina. Era profondamente cattolico e un giorno arrivò quasi a spaventarmi. Mi stava accompagnando all’aeroporto di Punta Raisi con l’Alfa Romeo blindata che egli stesso guidava. All’imbocco dell’autostrada a Trapani, Paolo inforcò gli occhiali da sole e si fece il segno della croce. Io lo guardai preoccupato perché quel gesto mi faceva dubitare delle sua capacità automobilistiche. Lui mi rassicurò: mi disse che era credente e in quel modo si raccomandava al suo Dio. Talvolta era, invece, di una ingenuità disarmante. Qualcuno gli ha rimproverato di fidarsi troppo di persone che, invece, si sono rivelate poco affidabili, se non addirittura dei delinquenti. Io voglio, invece, ricordare un episodio che mi ha stupito molto. Mi disse che, per acquistare una farmacia a Palermo, all’epoca, c’era bisogno di un miliardo di lire: una cifra enorme. Aggiunse che voleva comprare una farmacia alla figlia Lucia, che si sarebbe laureata da lì a poco ed io gli chiesi dove avrebbe trovato i soldi. Paolo con grande candore mi rispose che avrebbe venduto la sua casa di via Cilea a Palermo. Io gli obiettai dove sarebbe andato a vivere con Agnese e i figli, e lui mi disse che non ci aveva pensato, ma che avrebbe potuto andare a vivere in una casa in affitto. E con grande tenerezza mi sovviene il ricordo di quando Paolo mi disse che pochi giorni prima era entrato in una farmacia e aveva sentito quell’odore che aveva accompagnato la sua infanzia, quando andava a far visita al padre farmacista. Mi disse che quei profumi a lui così familiari gli avevano fatto sorgere il dubbio di aver sbagliato mestiere, perché anche lui doveva fare il farmacista. Ascoltando quelle parole, io lo avrei voluto abbracciare, perché svelavano un lato intimo della sua persona, che rimane, come tutti, aggrappata allo struggente ricordo della propria infanzia e dei propri genitori”. Paolo Borsellino dava molta importanza ai media, infatti fu uno dei primi Magistrati a partecipare a programmi televisivi, ma per questo fu spesso attaccato, e accusato, insieme a Falcone, di “protagonismo”. “Io ebbi la fortuna di occupare la stanza un tempo riservata al dirigente della Procura della Repubblica di Marsala: era accanto a quella del Procuratore, da cui era separata da un corridoio dove si trovava il bagno. Un inequivocabile segno di potere, secondo quanto disse Paolo, che, sarcastico come sempre, mi disse che il segnale più evidente del successo in carriera è quello di avere un ufficio con i servizi igienici esclusivi. In quel corridoio c’era la fotocopiatrice, e un giorno vidi che Paolo fotocopiava un articolo di giornale (mi sembra pubblicato su L’Unità), e, giovane magistrato cresciuto nella convinzione che i giudici dovessero mantenere la massima riservatezza, ne fui sorpreso. Paolo comprese queste mie perplessità e mi disse subito che lui si esponeva mediaticamente perché quello era l’unico modo per difendersi. Attaccato da più parti, e con la sua integrità fisica e morale in pericolo, egli doveva necessariamente trovare nell’opinione pubblica e nella notorietà un alleato che lo proteggesse. E questa, ne sono convinto, è l’unica valida ragione perché un magistrato possa cedere alle (talvolta) irresistibili lusinghe della popolarità che le partecipazioni a trasmissioni televisive o le interviste rilasciate ai giornali garantiscono. In altri termini, Paolo si esponeva per costruire intorno a sé la solidarietà dell’opinione pubblica che gli garantisse quella protezione che le strutture statali non erano in grado di  fornirgli. Anche in questo caso ripenso a quei miei colleghi che non perdono l’occasione per apparire in televisione, magari per parlare di processi che stanno trattando e per dire la loro su argomenti che non li riguardano se non nella misura in cui conferiscono a loro la ricercata notorietà. E con rabbia leggo che proprio per giustificare questi atteggiamenti si richiamano a Borsellino e Falcone, dicendo che anche loro rilasciavano interviste o scrivevano libri. Solo che loro lo facevano per difendersi, altri lo hanno fatto per garantirsi un seggio a Strasburgo o trovare un’ospitata nel talk show di successo”. Insieme al Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Giovanni Falcone ed a Rocco Chinnici, Paolo Borsellino  fu uno dei primi ad accorgersi dell’importanza della scuola  per educare le nuove generazioni (in cui credeva moltissimo) a scelte  consapevoli. Oggi molti ragazzi, vedono in Borsellino e Falcone due eroi inarrivabili. E lei, ad un certo punto ha deciso di parlare di Borsellino nelle scuole, dopo anni di riservatezza. Come mai questa scelta? “Se solo qualche anno fa mi fosse stato chiesto di parlare in pubblico di Paolo Borsellino, avrei rifiutato. Avevo vissuto fino a quel momento il ricordo del mio breve rapporto con Paolo come un fatto esclusivamente privato da custodire gelosamente, una storia solo mia. Poi, il giorno che ho iniziato la mia esperienza all’università di Firenze e il preside della facoltà mi ha chiesto di raccontare agli studenti chi era Paolo, tutto è cambiato. Le parole e le curiosità di quei ragazzi mi hanno fatto capire che, invece, era giusto portare il mio piccolo e personale contributo per far conoscere a tutti chi è stato questo straordinario uomo. E, anzi, proprio l’ascolto delle domande che rivolgevano mi ha fatto comprendere veramente la dimensione di questa eccezionale persona. Debbo confessare che quando sento dire che Paolo è stato un eroe provo un senso di fastidio. E mi sono accorto che è una reazione comune anche ad altri che hanno avuto la fortuna di frequentarlo anche più di me. Perché è una definizione che lo colloca lontano dagli uomini, e, invece, Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. Parlare di Paolo come un eroe significa collocarlo lontano dagli uomini, renderlo irraggiungibile, e consegnare un alibi a tutti noi: è un eroe, ha doti sovraumane, quindi io non posso fare quello che ha fatto lui. Ma non è così. Posso essere appassionato di bel canto, ma per quanto cerchi di esercitarmi non sarò mai come Luciano Pavarotti. Ho una passione sfrenata per la pittura, ma, nonostante la quotidiana applicazione a colori e tele, non riuscirò mai a emulare Vincent Van Gogh. Tiro calci a un pallone da quando ho iniziato a camminare, mi alleno da una vita, ma non potrò mai raggiungere l’abilità di Maradona: perché questi personaggi così diversi tra loro avevano dei talenti rari. Il buon Dio li aveva muniti di doti di cui sono sforniti tutti gli altri esseri umani. Ma Paolo Borsellino, no. Paolo era un uomo come noi, aveva solo un rigore morale e un senso del dovere che gli hanno fatto vivere un’esistenza giusta, che lo hanno naturalmente condotto a non cedere di fronte all’ingiustizia e ai soprusi. E a ribellarsi. Ma questo lo possiamo fare tutti noi: basta volerlo. Non servono talenti rari. Solo la consapevolezza di essere uomini. A me piace pensare che Roberto Vecchioni quando nella sua splendida canzone “Sogna ragazzo sogna”, ha scritto: “sogna ragazzo sogna quando cala il vento, ma non è finita, quando muore un uomo per la stessa vita che sognavi tu”, pensasse proprio a Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Perché loro hanno sacrificato le loro giovani vite per rendere il mondo migliore. Se proprio mi si chiede di dover descrivere oggi Paolo con un aggettivo, non posso che prendere a prestito quello che suo figlio Manfredi ha scritto nella prefazione di un libro che raccoglieva gli scritti di suo padre, e cioè che Paolo è invincibile. E mi pare che a venti anni di distanza tutta l’attenzione e l’ammirazione che desta questo uomo soprattutto nelle nuove generazioni ci fa dire con grande soddisfazione che Paolo ha vinto. Almeno sul piano personale. Meno positivo è il bilancio del successo degli insegnamenti di Paolo: se guardiamo agli esiti della lotta (?) alla mafia condotta dalla Stato e alla perdurante pervasività della cultura mafiosa nei comportamenti pubblici e privati dei cittadini, il successo sembra ancora lontano”.  “La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”. Manifestò  mai dei sentimenti di paura? “Paolo Borsellino è stato soprattutto un uomo con tutte le debolezze e le paure che animano la nostra vita quotidiana. E devo far fatica a trattenere la commozione quando ricordo che lo sentii dire che lui aveva paura, ma aveva anche il coraggio per superarla. A pensarci bene in questa frase dal contenuto molto laico stava la consapevolezza della limitatezza dell’uomo, ma anche la convinzione che è solo dalle nostre capacità che dipende il superamento di quei limiti. Tutto il contrario di quella rassegnazione che è la migliore alleata della mafia e delle ingiustizie. Detta poi da chi è nato e vissuto nella terra del Gattopardo dove “tutto cambia per rimanere uguale” e dove ancora trova larga applicazione il proverbio “piegati giunco finché passa la piena”, la frase ha un significato indubbiamente rivoluzionario. E Paolo aveva paura negli ultimi giorni della sua vita. Ricordo che l’ultima volta che l’ho visto –il 4 luglio 1992, quando venne a salutare tutti i colleghi e i collaboratori di Marsala, da cui tre mesi prima era andato via rapidamente, per dare un taglio brusco e netto ad un legame troppo forte- era un uomo non solo affranto per la perdita dell’amico di una vita, ma anche una persona piena di timore. Non era necessario ascoltare le parole preoccupate del suo discorso, ma bastava vedere il suo sguardo privato della tipica lucentezza per capire che qualcosa lo tormentava. Qualcuno di noi gli chiese se sarebbe andato a villeggiare a Villagrazia di Carini, come faceva tutte le estati. E Paolo rispose di no, aggiungendo che la moglie Agnese aveva paura (“Agnese si scanta”, disse) a passare tutti i giorni per Capaci, sull’autostrada dove da poco era saltato in aria Giovanni Falcone. Ascoltai quelle parole e capii subito che a “scantarsi” era soprattutto Paolo e per questo non voleva esporre a pericoli la sua famiglia. Personalmente mi salutò con un bacio, una vigorosa stretta del braccio e soprattutto un sorriso un po’ forzato che voleva essere rassicurante. Perché, ne sono convinto, Paolo sapeva quello che rischiava, ma il suo senso di responsabilità, la sua etica gli imponeva di andare avanti e di non far preoccupare chi gli voleva bene. Ecco perché, più che a un eroe, a me piace paragonarlo a uno di quei personaggi della letteratura dell’antica Grecia che erano consapevoli del loro tragico destino e, nonostante ciò, l’affrontavano. E visto che ho avuto sempre una simpatia per Ettore, mi piace poter dire che, così come Ettore sapeva che doveva soccombere contro Achille, e tuttavia questo non gli ha impedito di varcare le rassicuranti porte Scee per sfidarlo, così Paolo era consapevole di essere ormai un obiettivo di Cosa Nostra, ma il suo senso del dovere, la sua assoluta integrità intellettuale, la consapevolezza di rappresentare lo Stato lo hanno spinto a continuare fino all’ultimo giorno nel lavoro di una vita. Con una sola, ma non secondaria differenza: che Ettore sfidava un guerriero leale come Achille con il supporto di tutti i troiani, mentre Paolo era isolato davanti a un nemico composito, di cui era parte anche qualcuno che avrebbe dovuto essere al suo fianco e che, però, si è mescolato ai suoi avversari”. Il rigore morale, filo conduttore di tutta la vita di Paolo Borsellino, è stato trasmesso alla famiglia stessa, alla signora Agnese ed ai figli. Lei ha definito la famiglia Borsellino “L’ultimo regalo di Paolo…” “Il 5  maggio del 2013 è morta Agnese, la donna che ha accompagnato Paolo nella sua vita. Agnese era una donna minuta, con lo sguardo dolce, e un fisico apparentemente fragile. Ma dopo la morte del marito si è trasformata in una donna di acciaio: ha riunito intorno a sé i tre splendidi figli e insieme ci hanno confezionato l’ultimo regalo di Paolo: la sua famiglia. Non è passato inosservato il comportamento della famiglia di Paolo nei venticinque anni successivi all’eccidio di via D’Amelio: mai una polemica, mai un innalzamento dei toni, mai una gratuita ricerca di visibilità, ma una costante affermazione della fiducia nello Stato e nel rispetto delle legge. Anche quando fatti inquietanti e situazioni opache hanno circondato la vicenda della strage del 19 luglio 1992, Agnese e i suoi figli hanno affidato ai mass media dichiarazioni in cui ribadivano la loro incrollabile fiducia nelle istituzioni e nella magistratura, dimostrando che la vera giustizia è solo quella che passa attraverso le sentenze dei giudici: come avrebbe fatto Paolo”. La signora Agnese, nel suo libro testamento Ti racconterò tutte le storie che potrò parla del marito come di un eterno fanciullo, che si emozionava anche con piccole cose ed amava tanto i  bambini. “Ricordo ancora le occasioni conviviali in cui ci riunivamo con le nostre famiglie: poteva capitare che qualche carabiniere ci offrisse una cena a base di cacciagione o che qualche collega mettesse a disposizione la sua casa di campagna per un pranzo domenicale. C’erano anche i figli piccoli dei giudici o dei sostituti che correvano, giocavano, ridevano e piangevano: facevano quell’allegra confusione tipica della loro età. Paolo si avvicinava a loro, e con quel tono da falso cattivo, gli diceva che, se avessero continuato a disturbare, se li sarebbe mangiati. E dopo una breve e studiata pausa, aggiungeva: “Crudi!”. I bambini spaventati scappavano e Paolo se ne rimaneva lì a ridere divertito. Il ricordo più struggente è, però, legato un episodio che ha visto come protagonista una bimba. Ero appena arrivato a Marsala e Paolo, alla fine di una giornata di lavoro, mi invitò a cena insieme agli altri colleghi. Mi disse che voleva portarmi a mangiare in un posto incantevole. In effetti il ristorante si trovava su una lingua di terra proiettata nel mare siciliano, tra le isole Egadi e lo Stagnone, e la serata di primavera inoltrata faceva sì che al tramonto il mare ed il cielo si accendessero di mille luci e quasi si confondessero in un caleidoscopio di colori. Appena entrati nel ristorante vidi farsi incontro a Paolo una bambina di non più di sei anni, con i capelli biondi raccolti in due codine, che si gettò tra le sue braccia. Paolo la prese in braccio e la accarezzò teneramente, tant’è che la bimba rimase per quasi tutta la serata sulle sue ginocchia. Tale atteggiamento mi colpì, ma lo stupore cessò quando, alla fine della serata, seppi chi era quella bimba. Era l’unico testimone oculare della caduta di un aereo militare avvenuta nei pressi dell’aeroporto di Trapani. Paolo, che indagava su quel fatto, aveva dovuto sentire quella bambina rimasta comprensibilmente scossa dalla scena alla quale aveva assistito e, consapevole della forma di violenza che inevitabilmente andava ad esercitare su di lei, obbligandola a ricordare un fatto, comunque, traumatico, era riuscito a trovare quelle parole, quei modi e quei gesti che solo chi ha una grande purezza d’animo può utilizzare senza ferire la sensibilità di un essere ingenuo e fragile come una bambina di quell’età. Qualche estate fa ho incontrato di nuovo quella bambina che ora è diventata una giovane donna. Mi ha raccontato che l’ultima volta che aveva visto Paolo, lui le aveva promesso una bambola che, purtroppo, non fece in tempo a donarle. Quei criminali che hanno premuto il telecomando che ha fatto esplodere l’auto imbottita di tritolo hanno distrutto qualcosa anche dentro quella bambina dalle codine bionde. Vorrei che tutti lo ricordassero così Paolo, affettuoso e premuroso, con quel lampo negli occhi e quel sorriso raggiante che riscaldava come un abbraccio”. Che insegnamento professionale le ha lasciato e quanto sono attuali i valori in cui credeva Paolo Borsellino? “Personalmente quello che oggi più mi stupisce è la straordinaria attualità del suo insegnamento, che talvolta mi arriva così, all’improvviso. Dopo ventisette anni di carriera ancora mi capita di imbattermi in alcune situazioni che sollecitano delle riflessioni e che mi ricordano quello che ho ascoltato da lui. E solo in quel momento mi accorgo della profondità di certe sue parole”. Se potesse, oggi, dirgli qualcosa, qual è la prima frase che le sovviene? “Che la sua morte non è stata inutile perché venticinque anni dopo tanti giovani guardano a lui e a Giovanni Falcone come a degli esempi da imitare. In altri termini questi due uomini alimentano la speranza di chi crede ancora in un mondo giusto”. Intervista a cura di “Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino” e “Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso”

 

GIOVANNI PAPARCURI – Pur lavorando all’Ufficio Istruzione non ebbi mai l’occasione di scortare il dottore Borsellino.
Lo conobbi proprio oggi di 37 anni fa, purtroppo fu un incontro un po’ doloroso, perché mi trovavo disteso su una lettiga ed ero in attesa di entrare in sala operatoria della Neurochirurgia.
Mi ricordo che ero completamente nudo e un lenzuolo di carta mi copriva dalla vita in giù, un secondo prima di entrare, appunto, in sala operatoria, sentii, anzi percepii una voce che pregava l’infermiere di aspettare un attimo. Quella voce era del dr. Borsellino, cominciò a parlare, ma vi giuro che non sentivo nulla, vedevo solo delle labbra che si muovevano, comunque il giudice per farmi coraggio batté la sua mano sul mio petto, non l’avesse mai fatto, perché ebbi la sensazione che mille spilli mi trafiggevano il torace, tanto fu il dolore che non riuscii a trattenere un grido.
Vidi il povero dr. Borsellino diventare piccolo piccolo, mi chiese scusa (credo) e se ne andò senza dire più nulla, non ebbi la forza di fermarlo per rincuorarlo.
Quel suo tocco è stato per me come un patto di sangue tra uomini d’onore, forse per questo eravamo tanto legati.
Lo rividi dopo quasi 8 mesi.
Sarei disposto a riprovare quel dolore mille e mille volte ancora se ciò servisse a riportarlo in vita. Comunque è stato uno dei pochi a starmi vicino, per me ha lottato e si è scontrato anche con le Istituzioni. Purtroppo non ha ottenuto nessun esito, e sinceramente a me dispiaceva più per lui che per me.
Sono fiero di averlo conosciuto e di avere trascorso 10 anni della mia vita al suo fianco, orgoglioso di averlo ripagato della fiducia che aveva risposto in me.
E devo a lui in particolare se sono rinato.

ANTONIO INGROIA – Magistrato – Parlare o scrivere di Paolo Borsellino non è facile. Ricordarlo è sempre un’emozione. E’stato per me un maestro ed un amico, ma anche qualcosa di più familiare, a metà fra uno zio ed un fratello maggiore. E perciò ogni parola sembra inadeguata, ogni aggettivo inappropriato. Da lui ho appreso i primi rudimenti del mestiere di magistrato inquirente. Ricordo con nostalgia quei giorni a Marsala, ove arrivai da giovanissimo sostituto, a confrontarmi – con curiosità, ma anche un pizzico di soggezione – con un procuratore della Repubblica che era già uno dei più prestigiosi magistrati italiani. E non posso dimenticare la giovialità di quell’uomo semplice, che mi conquistò subito, riuscendo a rassicurarmi e ad infondere in me come negli altri giovanissimi colleghi un grande entusiasmo. Riuscì, nel breve volgere di qualche mese, a trasmetterci quella passione per la giustizia e quell’insofferenza nei confronti del sopruso organizzato, che gli aveva consentito di trasformare Marsala da anonima periferia in punto di riferimento nazionale della lotta alla mafia. E’ stato Paolo a trasmettermi l’amore per il nostro lavoro, un lavoro sempre difficile ed a volte frustrante, ma fondato su quella ostinazione nella ricerca della verità che gli consentiva di non cedere mai, neanche quando (e gli capitò spesso nel corso della sua carriera) quella sua fermezza lo aveva fatto circondare, negli ovattati palazzi di giustizia, da diffidenze, invidie e maldicenze, in un isolamento costante. Ma Paolo Borsellino non fu soltanto una guida professionale, prodigo di consigli e suggerimenti. Fu anche un maestro di “vita applicata”. Amava raccontare, con grande capacità narrativa e senso dell’humour, mille aneddoti, molti dei quali tratti dalla sua lunga attività professionale, che gli servivano anche per spiegarci – ad esempio – quanto fosse difficile, eppure importante, “dialogare” con un mafioso durante un interrogatorio. La sua umiltà non gli consentiva di mettersi in cattedra. I suoi insegnamenti derivavano, in modo naturale, dall’esperienza di vita vissuta, non da astratte teorizzazioni, per le quali Paolo provava, anzi, un certo fastidio. Questo è il “mio” Paolo Borsellino, quello degli anni di Marsala, gli anni della mia formazione professionale, in cui Paolo amava trascorrere le serate con i colleghi a ripercorrere i momenti più difficili ed esaltanti della sua attività a Palermo a fianco di Giovanni Falcone, o magari recitando in tedesco i versi dedicati a Palermo da Goethe. Un’oasi di serenità prima dei terribili mesi del ’92 a Palermo, ove andò incontro prima alle difficoltà interne dell’appena costituita Procura Distrettuale Antimafia, ove mille ostacoli furono frapposti alla sua attività, poi al colpo durissimo che subì per la tragica fine di Giovanni Falcone e di Francesca Morvillo. Paolo in quelle ultime settimane non era più lo stesso: un uomo improvvisamente stanco, provato, con una gran fretta di fare, perché piegato dal peso insostenibile del presentimento della morte incombente. Se all’indomani della strage di Capaci soltanto la sua forza riuscì a trascinare tutti gli investigatori ad andare ancora avanti, all’indomani della sua morte la tentazione di “mollare” fu forte per tutti, soprattutto per chi – come me – gli era stato particolarmente vicino. Se siamo riusciti a riprendere il nostro lavoro, a cercare – con tutti i nostri limiti – di proseguire la loro opera lasciata incompiuta, lo si deve, in primo luogo, alla fortissima reazione di sdegno di tutti i siciliani e italiani onesti, che, chiedendo con forza allo Stato di onorare il sacrificio di Paolo rinnovando l’impegno antimafia, riuscì a determinare una riscossa della legalità senza precedenti. Ma il merito principale è stato, ancora una volta, della lezione etico-morale di Paolo Borsellino, delle sue parole quando spiegava che il suo impegno era nato soprattutto dall’intima esigenza di raccogliere il testimone caduto dalle mani di un amico e collega ucciso dalla mafia. Nello stesso modo anche chi è stato vicino a Paolo Borsellino doveva e deve fare testimonianza, deve tenere vivo il suo ricordo proseguendo la sua opera. Per quel che mi riguarda, il suo ricordo in questi anni mi ha sempre accompagnato, momento per momento. Mille volte, coltivando i dubbi e gli interrogativi più che le certezze, mi sono chiesto: come si sarebbe regolato Paolo al posto mio? quali scelte avrebbe fatto? D’altra parte, in quest’epoca di rimozione collettiva, profittando del passare del tempo che (apparentemente) lenisce le ferite, sembra prevalere una gran voglia di dimenticare e dilaga la tentazione del disimpegno e dell’indifferenza. Ecco perché, oggi più che mai, è vitale – per il futuro della democrazia del nostro Paese – che la memoria sulle grandi tragedie della nostra storia (e le stragi di Palermo del 1992 sono certamente fra queste) sia sempre ravvivata, e che sia mantenuto vivo il ricordo dei grandi uomini e delle grandi donne che per il nostro Paese si sono sacrificati. A Paolo – lo so bene – poco piacevano certi discorsi che potevano apparire vuote commemorazioni retoriche. Quel che, secondo lui, contava più di tutto era l’agire quotidiano. Proprio perciò ogni occasione di memoria deve trasformarsi in un’occasione di azione. Cercare di resistere nei momenti difficili, ma soprattutto agire, a costo anche di rinnovarsi nella continuità: questo è quello che Borsellino, come Falcone, avrebbero cercato di fare anche oggi. Ed è a questo, fra i loro tanti insegnamenti, che forse ci si dovrebbe ispirare. Di Paolo Borsellino due immagini mi vengono alla memoria più frequentemente. Quando, nel comunicarmi la sua decisione di trasferirsi da Marsala a Palermo, dove andò incontro alla morte, mi disse: “io devo tornare a Palermo per continuare ad occuparmi di processi di mafia; per me fare antimafia è ormai una questione di vita”. E poi quando, nel giorno della strage di Capaci, da uomo solare diventò cupo, come svuotato, piegato dalla violenza mafiosa che gli aveva appena strappato l’amico più caro e stimato, Giovanni Falcone. Queste immagini sono le più insistenti perché esprimono il senso profondo del testamento morale di Borsellino. La sua immagine senza sorriso dopo la strage di Capaci ricorda infatti un aspetto fondamentale della sua personalità: Paolo era provato, ma non sconfitto. Anche nei momenti più difficili sapeva trovare la forza di reagire sfidando, per amore di verità e giustizia, non solo la violenza intimidatrice mafiosa, ma anche i conformismi imperanti, l’atavico atteggiamento etico-culturale incline al compromesso. Ecco allora che l’emozione suscitata dal ricordo di Borsellino deve trasformarsi in impegno. E’ per amore della verità, è anche per avere ricercato la verità sulla strage di Capaci che Paolo Borsellino andò incontro alla morte. Ed è il suo stesso amore per la verità e la giustizia che tutti abbiamo il dovere di ricercare: tutti, ognuno per la sua parte, ispirandoci allo stesso senso di giustizia che guidava Borsellino, anche a costo di dover affrontare isolamenti, amarezze, sconfitte. A qualsiasi costo, perché questo discende dal senso di responsabilità, un senso di responsabilità che la nostra comunità nazionale non ha mai davvero sentito neppure di fronte ai suoi morti. Assenza di senso di responsabilità che più clamorosamente si è rivelata nel fastidio, a volte nell’imbarazzo, e perfino nell’omertà e nelle coperture depistanti con cui il Paese tutto, Paese legale e Paese reale, si è rapportato con il tabù della verità sulla strage di Borsellino e sulla scellerata trattativa dello Stato italiano con la mafia che quella strage determinò. E’ triste doverlo registrare a 22 anni da quella strage. Ma la verità amara è che l’Italia non ha saputo, ancora una volta, affrontare la verità facendo i conti con il proprio passato. Dimostrando di avere fatto assai poco tesoro della lezione di intransigenza etico-morale lasciata da Borsellino. E’ questo il senso più profondo di tutti gli attacchi contro la magistratura palermitana che ha indagato sulla trattativa, e di tutti gli ostacoli contro quell’indagine e quel processo, e perfino dei depistaggi di Stato che hanno oscurato fino ad oggi la verità. Cosa si vuole? Che non si faccia luce. Che gli italiani non sappiano la verità. Che passino solo verità di comodo: la mafia come bassa macelleria, coppola e lupara senza colletti bianchi, ed uno Stato puro come un giglio, senza nessuna colpa nella stagione delle stragi verso le sue vittime. Ma ossequio alla verità significa innanzitutto smascherare la comodità delle mistificazioni oggi ampiamente diffuse, che tendono – ad esempio – a cancellare dalla memoria collettiva gli attacchi calunniosi e le contumelie più infamanti che colpirono Falcone e Borsellino quando le loro investigazioni avevano iniziato a svelare il livello delle “contiguità politico-mafiose”, spesso ad opera degli stessi ambienti, a volte perfino degli stessi uomini e con lo stesso tenore di accuse scaricate in anni più recenti contro la procura di Palermo. Per rispetto della storia e per onestà intellettuale anche tutto questo va ricordato, e fare tesoro di una delle più importanti lezioni di Paolo Borsellino: il criterio della convenienza non può essere una guida dell’azione del magistrato. Quante volte avrebbe potuto volgersi da un’altra parte, e non lo fece; quante volte avrebbe potuto lasciare il campo, magari andare via da Palermo, subito dopo la strage di Capaci, e non lo fece. In occasione dell’incriminazione di un importante uomo politico, mi disse: “Mi tremano le vene ai polsi al pensiero delle polemiche che ci investiranno, ma è il nostro dovere e non possiamo tirarci indietro”. La legge imponeva quell’incriminazione e Borsellino, da magistrato veramente autonomo ed indipendente, sapeva di essere soggetto soltanto alla legge, senza mezze misure, senza arretramenti. Perché pensava che ogni tiepidezza doppiopesista fosse madre di quella rassegnazione, di quella (inconsapevole?) accettazione di aree di contiguità con la mafia, che garantiva la forza del sistema di potere mafioso. Non è un caso che Paolo affidò il ricordo di Falcone a queste parole, ormai celeberrime: “La lotta alla mafia deve essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. Da La RIBATTUTA 16 Luglio 2014

ALESSANDRA DOLCI: “NEL LORO SACRIFICIO LA FORZA PER CONTINUARE” Il capo della direzione distrettuale antimafia di Milano: “Troppi ragazzi che incontro non sanno chi siano Falcone e Borsellino. Ma un Paese senza memoria non ha futuro. Se vogliamo contrastare la mafia dobbiamo remare tutti insieme”. L’autorevolezza si coglie nella rapidità cortese con cui smista, senza negarsi a nessuno, le numerose interruzioni che si affacciano, bussando o trillando via telefono, al suo ufficio al sesto piano del Palazzo di Giustizia di Milano. Alessandra Dolci è da qualche mese al vertice della Direzione distrettuale antimafia (Dda) e solo alla quarta volta che non riesce a finire una frase, sbuffa tra sé ridendo: «Sembra il call center di un supermercato». Dietro la scrivania assieme a un poster di Castel Del Monte, emblema architettonico di una solida razionalità che le corrisponde, e ai crest araldici, omaggio delle forze dell’ordine, la foto sorridente di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e il manifesto simbolo dei magistrati uccisi nell’esercizio delle funzioni: due rose spezzate e l’elenco con i 27 nomi. Il senso di averli lì lo ha spiegato in pubblico, il 18 luglio 2018, commemorando al Pirellone alla Commissione antimafia di Milano, Paolo Borsellino e gli agenti caduti a via D’Amelio: «Capita nel nostro lavoro, di provare momenti di stanchezza, che di solito arriva dopo i periodi di massima tensione, di sentire lo sconforto per un risultato non raggiunto, per una sentenza che non condividi. In quei momenti mi volto, vedo le rose spezzate e sento tornare l’energia e la passione per il lavoro». Famiglia Cristiana 19 Luglio 2018

GIUSEPPE DI LELLO- Magistrato – Lo Stato tiri fuori l’agenda rossa di Paolo Borsellino, solo così potrà recuperare credibilità». A parlare è Giuseppe Di Lello Finuoli, ex giudice istruttore e parlamentare, nel ’83 chiamato da Antonino Caponnetto a far parte del pool di Palermo dopo l’uccisione di Rocco Chinnici. Insieme a Leonardo Guarnotta, attuale presidente del tribunale di Palermo, Di Lello è l’unico testimone ancora in vita della stagione che li vide in prima fila nella lotta a Cosa nostra, gomito a gomito con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Cosa ricorda di quegli anni, quando nacque il pool e lavorò al fianco di Falcone e Borsellino?  «Quando Gaetano Costa e Rocco Chinnici (entrambi vittime di mafia, ndr) cominciarono seriamente a indagare su Cosa nostra, ci si rese conto che in realtà era un fenomeno abbastanza perseguibile, cioè non era quel mostro sconosciuto e impenetrabile cui si faceva spesso riferimento. Ma le grandi intuizioni, quelle che cambiarono l’approccio, furono quelle di Giovanni Falcone. Mi riferisco al fatto di andare a guardare dentro le banche, di utilizzare le intercettazioni, di avviare rapporti con gli altri organi inquirenti. Era un innovatore, e il suo modo di indagare fu dirompente. Fino a quel momento a Palermo non c’era stata una magistratura credibile, ma Falcone aveva la fama di essere un giudice bravo, uno di cui ci si poteva fidare. Sono entrato nell’ufficio istruzione nell’82, c’erano già Falcone e Borsellino, il pool nacque con la morte di Chinnici, strutturalmente venne messo in piedi da Caponnetto. E anche la sua fu una grande intuizione: far lavorare insieme i giudici asse-gnatari di processi contro la mafia, per costruire un unico grande processo. Nacque così il pool che era composto da Falcone, Borsellino e me, poi arrivò Guarnotta, e noi quattro istruimmo i primi grandi processi contro Cosa nostra». Che clima c’era a Palermo in quegli anni? «Il clima era di grandissima collaborazione, a capo della Procura c’era Vincenzo Pajno, e a capo dell’ufficio istruzione c’era Caponnetto, e loro due andavano abbastanza d’accordo. Tra di noi c’era una grande collaborazione, basata su stima e fiducia reciproca, e con la Procura non ci furono mai grandi tensioni». E della trattativa Stato-Mafia? «Non c’è dubbio che alcuni pezzi dello Stato avranno tentato di trattare, adesso non so in quale misura, però non c’è neanche dubbio che tutto sommato lo Stato ha retto, perché alla fine di questa trattativa, che mirava a indebolire il regime sanzionatorio, di fatto si sono ritrovati con il 41bis addirittura stabilizzato per legge, quindi questa trattativa non c’è mai stata, almeno in termini ufficiali». Che ricordi ha di Falcone e Borsellino? «Lavoravamo tutto il giorno insieme, c’era un legame di amicizia personale, familiare, molto forte. Falcone era un personaggio che non veniva scalfito da nessuna accusa, si riteneva un vincente e non c’è dubbio che lo fosse, perché era l’unico in Italia che poteva alzare il telefono e parlare con l’Fbi, con gli investigatori più importanti del mondo e avere una risposta. Borsellino era un po’ il complemento di Falcone, era un uomo dello Stato fino in fondo. Non si sarebbero mai tirati indietro, per nessun motivo, tant’è che sono stati ammazzati». La morte di Borsellino è legata alla trattativa? «Questo è difficile dirlo. Dico solo una cosa: se lo Stato vuole fare lo Stato ed essere credibile, cominci a tirare fuori l’agenda rossa di Borsellino, per esempio. Non l’ha presa il primo che passava, se la sono presa, come si sono presi i documenti dalla cassaforte di Carlo Alberto Dalla Chiesa, come quelli trafugati dal covo di Totò Riina, come le agende di Falcone. Tutta una serie di acquisizione di dati. Non sono un complottista però credo che una parte dei Servizi in questo Stato non sono mai stati fedeli ad esso, ma fedeli solo a se stessi, al loro potere interno, tant’è che la politica è stata sempre succube di questi personaggi». Fabrizio Colarieti 17 Luglio 2012

BORSELLINO: QUELLE VOCI CHE RICORDANO UN MAGISTRATO, UN PADRE, UN AMICO – Ritratto inedito di un uomo giusto, ironico e sorretto da una fede forte e viva – «C’è l’elicottero sulle nostre teste, ci sono guardie ovunque. Mi chiede di accompagnarlo in macchina a prendere le sigarette e mi dice una frase che non dimenticherò mai, a freddo: “Sai Diego, quando subisci la perdita di un parente caro, tu vai al suo funerale e piangi non solo perché ti è morto il parente o l’amico, ma perché sai che la tua fine è più vicina”». Diego Cavaliero, oggi giudice d’appello a Palermo e primo sostituto procuratore di Paolo Borsellino a Marsala, ricorda i giorni che seguirono all’omicidio di Falcone e della sua scorta. Le parole di Paolo. Non un presagio astratto, ma una certezza. Parla per la prima volta, così a lungo, della sua vita accanto a quel magistrato con il quale lavorò fianco a fianco per due anni e otto mesi e al quale restò legato tutta la vita. Non è l’unica testimonianza inedita che Alessandra Turrisiha raccolto per il volume Paolo Borsellino. L’uomo giusto (San Paolo). «Grazie al figlio del giudice, Manfredi», spiega la giornalista palermitana, «mi sono potuta avvicinare a questo coro di voci che per 25 anni ha custodito dentro di sé il ricordo soprattutto umano di Borsellino. Persone che finora avevano parlato soltanto nelle aule giudiziarie, durante i processi». Era giovane, Alessandra, quando la mafia uccideva magistrati, poliziotti, forze dell’ordine, quando si consumava il “sacco di Palermo” e la città stentava a reagire. «Poi venne la Primavera di Palermo, esplose Mani pulite, uccisero Falcone e Borsellino, cominciò la presa di coscienza della società civile. E oggi c’è un modo diverso di vivere la città, una maggiore responsabilità». C’è tutto questo, in controluce, nel racconto lucido e caldo della vita – e della morte – di Paolo Borsellino. C’è un giudice, un uomo «che non ha mai sottovalutato ciò che faceva, l’ambiente in cui era, il rischio che correva, ma che è sempre stato consapevole di dover fare comunque il proprio dovere». C’è la fede, in questo libro, il Borsellino «credente, cristiano. Un aspetto forse un po’ tralasciato in passato», spiega l’autrice, «e che invece, secondo me, è il dato unificante della persona. Sono sicura che il giudice Borsellino ha potuto affrontare le prove che la vita gli ha messo davanti soprattutto perché aveva una solidità interiore sostenuta anche da questa fede molto forte, anche un po’ tradizionale». E c’è il racconto di un destino spesso imperscrutabile, e sul quale ancora si interrogano alcuni dei “sopravvissuti”: il cardiologo della mamma, al quale si rompe l’auto e che, per questo, non riesce a raggiungere via D’Amelio in quel pomeriggio di tritolo e sangue; l’agente di scorta Benedetto Marsala, oggi in pensione, che sarebbe stato di turno senza la licenza matrimoniale; la vicina di casa a letto da mesi per una gravidanza a rischio che, proprio quel giorno, ha voglia di aria fresca e sole. «Un intero pezzo d’infisso, con i frammenti di vetro ancora attaccati, si schianta sul letto dei miei genitori, proprio nel punto in cui mia madre, e io dentro di lei, stava coricata tutto il giorno, ma non quel giorno», racconta oggi Fabrizio. Che, con sua madre Rosaria, aggiunge nel libro: «Nelle nostre preghiere, i nomi delle vittime ci sono sempre, ci affidiamo a loro». Spaccati di vita, indagini giudiziarie, nodi irrisolti. La Turrisi ricorda l’agendina rossa da cui Borsellino non si separava mai e della quale non è rimasta traccia nella borsa che il giudice aveva con sé quel giorno e nella quale tutto il resto, invece, era intatto, «compreso il costume ancora umido del bagno a mare di qualche ora prima». Ricorda gli interrogatori con i collaboratori di giustizia, il suo modo di condurre le indagini. Ma il volume ricostruisce soprattutto il clima, l’ironia dissacrante del giudice e la sua grande capacità di lavoro, restituendoci l’umanità di «un uomo che riesce a essere sempre sé stesso quando è magistrato e quando è padre di famiglia, quando è amico, quando è collega, quando interroga un criminale. Quando incontra un politico e quando si confronta con la moglie di un uomo che è stato ucciso in un agguato mafioso, una povera donna che addirittura gli chiede un aiuto economico», conclude la Turrisi. «E io mi sento una privilegiata per essere diventata, in qualche modo, cassa di risonanza di queste voci che lo hanno raccontato, permettendo di compiere un tuffo in una memoria condivisa che fa emergere anche “l’uomo giusto”, l’interiorità di un personaggio così caro alla Sicilia, a Palermo, all’Italia intera».

DIEGO CAVALIERO «L’ultimo sorriso di Borsellino». Parla l’allievo Dagli insegnamenti sul campo alla grande fede. Sette giorni prima della strage, il magistrato palermitano aveva fatto da padrino di Battesimo al primogenito del giovane giudice salernitano «Paolo era un macinacarte. Per lui il lavoro era importantissimo, ma non era la sua vita». Non ha mai fatto a gara per essere amico o erede di Paolo Borsellino, ma Diego Cavaliero, oggi 59 anni e consigliere di Corte d’Appello di Salerno, del magistrato assassinato in via D’Amelio esattamente 25 anni fa assieme ai cinque agenti di scorta era una sorta di «figlio putativo». Per un quarto di secolo ha tenuto i suoi ricordi come un tesoro prezioso da custodire gelosamente. Del suo rapporto con il giudice palermitano ha parlato solo nelle aule di giustizia di Caltanissetta, durante gli innumerevoli processi per fare luce sulla strage del 19 luglio 1992, ma senza giungere a nessuna verità. Adesso di colui che riconosce come «padre, amico e maestro», parla nel libro ‘Paolo Borsellino. L’uomo giusto’ (San Paolo Editore) e tira fuori aneddoti, che fanno del giudice Borsellino una persona capace di porre attenzione all’altro con cui entra in relazione. Cavaliero incontra Borsellino, che è stato appena nominato procuratore capo a Marsala, quando viene assegnato come uditore giudiziario proprio alla procura di Marsala. I due magistrati, gli unici in servizio, a partire dal gennaio 1987, si dividono il lavoro a metà. Ma Borsellino capisce di avere alcune lacune sul lavoro da svolgere come pubblico ministero, avendo svolto sempre il ruolo di giudice istruttore, in vigore nel vecchio Codice di procedura penale sostituito poi nel 1988. Così un giorno, davanti a un piatto di spaghetti sul lungomare di Marsala, dice a Cavaliero: «Diego, insegnami a fare il procuratore della Repubblica. Ho sempre fatto il giudice istruttore, ma mi rendo conto che ho delle grosse lacune. Tu sei più fresco di studi». «Lui in ogni caso è il capo, un leader» sottolinea. «Grazie anche al suo ruolo in famiglia, riesce a mediare sempre tra la funzione di padre e quella di magistrato. Il pedagogo parla al giudice». I due vivono e lavorano in maniera simbiotica. Cavaliero diventa di casa dai Borsellino, frequenta la villetta di Villagrazia, fa amicizia coi figli, accompagna il giudice dalla mamma in via D’Amelio. Poi il giovane magistrato è costretto, per motivi familiari, a tornare a Salerno, ma ogni scusa è buona per incontrarsi. Accade anche alla fine di giugno 1992, a Giovinazzo, in Puglia, dove Borsellino si trova per un convegno. Giovanni Falcone è stato ucciso da poco più di un mese, l’albergo è assediato per motivi di sicurezza.  «Mi dice: ‘Sai Diego, quando subisci la perdita di un parente caro, tu vai al suo funerale e piangi non solo perché ti è morto il parente o l’amico, ma perché sai che la tua fine è più vicina’» racconta Cavaliero. È la prova che Borsellino è perfettamente consapevole della fine a cui sta andando incontro. Cavaliero desidera che Borsellino faccia da padrino di battesimo al suo bambino, Massimo. La risposta è immediata: «Ne sono felice, così tolgo questo bambino dalle mani di un miscredente come te». Il battesimo è fissato a Salerno per il 12 luglio, domenica. Il luogo della strage a Palermo, in via D’Amelio, dove il magistrato palermitano si era recato a trovare l’anziana madre il 19 luglio 1992 «Ma non è Paolo quello che ho di fronte – racconta Cavaliero – è completamente assente». Tranne per un momento, quando prende il suo nuovo figlioccio sulle gambe e sorride. Probabilmente è l’ultima fotografia, appena sette giorni prima della strage. Cavaliero è un testimone prezioso anche del modo di vivere la fede cristiana di queste giudice: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto». Resta l’amarezza e la delusione su quella verità negata. «Perché è morto Paolo non si sa e forse non si saprà mai. Ci sono due fatti che da uomo della strada non riesco a capire. Il primo è il problema dell’agenda rossa sparita dalla borsa ritrovata dentro la Croma blindata in via D’Amelio. Perché non è stato fatto l’esame del Dna sulla borsa, visto che lo hanno fatto sui mozziconi di sigaretta ritrovati a Capaci, rendendo immediata l’individuazione di chi aveva schiacciato il telecomando per la strage?» si interroga Cavaliero. E poi la creazione del falso pentito Vincenzo Scarantino: «Come si è arrivati a questa figura?». «Paolo è morto da solo – aggiunge – con la consapevolezza di andare a morire, ha affrontato il proprio destino come un samurai, che credeva nella giustizia non come principio astratto ma come affermazione di verità, affrontando un nemico armato della propria fede cristiana e della propria idea di legalità e di giustizia». 19 luglio 2017

ALESSANDRA TURRISI – PAOLO BORSELLINO: LA FEDE DI UN UOMO GIUSTO – Nell’anniversario della morte, un ritratto inedito del giudice antimafia che fondava il suo servizio per la giustizia su una vita cristiana profonda ma non ostentata Per Paolo Borsellino l’attenzione all’uomo veniva prima di tutto. Si trattasse di un amico sincero, di un testimone di giustizia, di un criminale, il giudice ucciso nella strage di via D’Amelio il 19 luglio 1992 assieme ai suoi cinque “angeli custodi” – gli agenti di scorta Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Agostino Catalano – aveva una parola di sostegno, di incoraggiamento, di rispetto per la persona che aveva davanti. A distanza di 25 anni dalla terribile strage, costellata ancora da troppi misteri e buchi neri, ciò che resta sono i preziosi ricordi custoditi nella memoria di chi lo ha conosciuto nel quotidiano e ne può testimoniare una integrità morale fatta non di gesti eroici, ma di piccole azioni. Il rispetto per l’uomo e per la giustizia prevede che per mandare in carcere un accusato le prove debbano essere di ferro, altrimenti «meglio un criminale fuori che un innocente dentro». È il ricordo di Giovanni Paparcuri, ex autista del giudice istruttore Rocco Chinnici, solo per un caso scampato alla strage di via Federico Pipitone a Palermo, il 29 luglio 1983, diventato poi collaboratore informatico di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per microfilmare gli atti dell’istruttoria del maxiprocesso a Cosa nostra. SOLO PROVE CERTE «Un giorno dobbiamo spiccare il mandato di cattura per alcune persone coinvolte nell’omicidio del capitano Basile. Nella stesura del mandato all’inizio ne sono indicate cinque. Io batto a macchina tutti i fogli, li porto al dottor Borsellino, li riprendo e vedo che la quinta persona è depennata. Penso a un errore, così riscrivo quella pagina e gliela riporto. Ma lui toglie di nuovo quel nome. A un certo punto, si alza e viene nella mia stanza: “Insomma, a cosa stiamo giocando? Giovanni, questo non lo devo arrestare. Se le prove non reggono al dibattimento, che figura facciamo?”. Lo guardo negli occhi, capisco cosa vuole dire». Quando Paparcuri racconta questo episodio al figlio del giudice, Manfredi Borsellino, oggi commissario di Polizia, questi lo ringrazia: «Hai fatto bene a dirmelo, perché episodi come questo mi fanno capire che mio padre non era forcaiolo». Un senso fortissimo della giustizia che tocca anche chi è al di fuori di quel mondo di fascicoli e leggi. «Forse l’eredità che mi ha lasciato Paolo è proprio il suo credere nella giustizia. Non ha mai infierito sulle persone, pur facendo bene il suo lavoro», osserva il cardiologo Pietro Di Pasquale, da cui quel terribile pomeriggio del 1992 il giudice doveva accompagnare la madre che aveva problemi al cuore. E don Cesare Rattoballi, parroco di periferia che nell’ultimo periodo fu molto vicino al giudice: «Vedo ancora gli occhi e il sorriso di Paolo, la conferma della sua vicinanza: un sorriso di accoglienza. Borsellino non tratta nessuno come un illustre sconosciuto. Ha una cordialità che mette a proprio agio, come se ti conoscesse da sempre». FEDE E RISERVATEZZA Una cura per l’altro che probabilmente era frutto della sua profonda fede cristiana, mai ostentata, eppure vissuta ogni giorno, alimentata dalla partecipazione alla Messa domenicale, dalle assidue confessioni, dai colloqui con alcuni sacerdoti nei momenti più difficili della sua esistenza. Una voce “laica” come quella del suo giovanissimo sostituto alla procura di Marsala, alla metà degli anni Ottanta, Diego Cavaliero, lo descrive con efficacia: «Credo che la fede lo abbia aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto. Borsellino era credente, cattolico praticante, ciò gli indicava la strada nell’applicazione della pietas cristiana, nel rispetto dell’altro, perché Paolo era convinto che dietro a ogni imputato ci sia un uomo che va anche rispettato. La fede non faceva altro che rafforzare la sua personalità votata alla ricerca del rapporto con l’altro. Il suo rapporto con la fede era intimo. È certamente un uomo di misericordia». La domenica mattina, alla prima Messa delle 8.30 di Santa Luisa di Marillac, il dottor Borsellino manca raramente, proclama quasi sempre una delle letture. Oltre ai numerosi abitanti di questa zona residenziale, ne è testimone monsignor Francesco Ficarrotta, dal 1979 al novembre 1991 guida della parrocchia che si trova proprio davanti all’alto condominio di via Cilea in cui vive il giudice con moglie e figli. «Un giorno mi confessa il rammarico per non avere la forza, quando gli capita di partecipare ai funerali di uomini importanti, magari uccisi dalla mafia, di disporsi in fila per ricevere la Comunione», spiega Ficarrotta. «Vuole evitare di mettersi in mostra, ma così, e questo è il suo cruccio, non dà la giusta testimonianza di cristiano. Borsellino è veramente un uomo di fede» continua l’ex parroco. PRONTO AL SACRIFICIO Don Cosimo Scordato, rettore della chiesa di San Francesco Saverio all’Albergheria, un antichissimo quartiere del centro storico di Palermo, riesce a catturare un altro aspetto di questa figura di magistrato cristiano, ucciso a causa della giustizia. Di tanto in tanto, il giudice fa capolino all’Albergheria, attirato dall’intensa attività di volontariato che la figlia più piccola, Fiammetta, svolge con i bambini più poveri del quartiere. «In realtà, incontro Paolo in occasioni molto disparate. Ricordo un evento in particolare. Siamo negli anni Ottanta e stiamo celebrando i venticinque anni di matrimonio di un suo cugino omonimo, Paolo Borsellino», racconta don Cosimo. «Dopo la Messa, molto partecipata, andiamo a festeggiare tutti insieme. In quell’occasione ho scoperto che il giudice Paolo è una persona di grande carattere, ha voglia di divertirsi». Una ricchezza d’animo che don Cosimo impara a conoscere poco a poco. «Alcune volte Paolo si reca a San Saverio per partecipare alla Messa domenicale. Si siede quasi in fondo, durante la consacrazione, è tra i pochissimi fedeli a mettersi sempre in ginocchio. Rientra tra quelle persone il cui cammino di fede è segnato da un incontro particolare, magari un parroco, qualcuno che diventa determinante non per i tanti discorsi ma perché va all’essenziale. La dimensione religiosa la intravedo come il dato unificante della sua vita. E, nell’osservarlo, mi fa piacere vedere come quella persona riesca a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un ragazzone scherzoso, che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo con un’interiorità profonda». Il giorno prima della strage don Rattoballi incontra il magistrato al Palazzo di giustizia. Quello che si trova davanti è un uomo che ha consapevolezza di andare incontro all’estremo sacrificio: «Vado a trovarlo in Procura alla vigilia della sua morte e, dopo un lungo colloquio, mi dice: “Fermati, voglio confessarmi. Vedi, mi sto preparando”. Aveva un senso profondo di ciò che doveva accadere». GLI AGENTI DELLA SCORTA Nell’attentato di via D’Amelio insieme a Paolo Borsellino morirono cinque agenti di età compresa tra i 22 e i 43 anni. Tra le vittime, anche la prima donna a cadere in servizio nella Polizia italiana. Solo un poliziotto si salvò. Altre 23 persone rimasero gravemente ferite. Come mandante, insieme a numerosi altri mafiosi, è stato condannato Totò Riina.

ALESSANDRA TURRISIè autrice de Paolo Borsellino. L’uomo giusto (San Paolo 2017 In tutte le testimonianze emerge la figura di un uomo che mostra a tutti lo stesso volto: in compagnia di un alto magistrato e di un amico, di un criminale e di un testimone di giustizia, tenendo sempre presente il rispetto della persona umana. Ci racconti quel giorno, il 19 luglio del 1992. Cosa ricorda? Come molti palermitani, ricordo perfettamente dove mi trovavo e cosa stavo facendo nel preciso momento in cui l’autobomba scoppiò in via D’Amelio, 57 giorni dopo la strage di Capaci, cambiando per sempre la storia d’Italia e la vita di molti di noi. Avevo diciotto anni e in quel torrido pomeriggio di domenica stavo dormendo nella casa di campagna dei miei genitori, quando mio fratello Alberto spalancò la porta gridando: “Hanno ucciso pure Borsellino”. Mi crollò il mondo addosso, capii in quel momento che la storia stava passando da Palermo e l’avrebbe trasformata per sempre. Ne ebbi la certezza quando, dopo le ferie d’agosto, tornando a Palermo, vidi le camionette dell’esercito piene di ragazzi in mimetica. Era l’operazione Vespri Siciliani, presidi militari a ogni angolo di strada e l’impressione di essere in un clima di guerra, con un nemico invisibile, infiltrato e stragista. Conosceva personalmente il giudice? Lo avevo incontrato, o meglio ascoltato dal vivo, una sola volta, nel giugno 1992, quando trovò il tempo per incontrare i ragazzi delle scuole, pochi giorni prima che andassimo tutti in vacanza. Una mattina dei primi di giugno, il procuratore aggiunto piombò al liceo Umberto I, la scuola che hanno frequentato i suoi figli Manfredi e Fiammetta, dove lui era andato tante volte a parlare coi professori. I ragazzi entrarono a scuola come sempre, ma non andarono in classe. I professori li indirizzarono nella palestra all’aperto, un grande campo di basket all’interno della scuola dove erano state sistemate centinaia di sedie, in ordine. Sul tetto c’erano poliziotti armati. Arrivò quel giudice tante volte visto in tv, era un volto familiare. Il suo migliore amico era stato ucciso due settimane prima e lui era lì per noi. Di quell’incontro non esiste nessun documento, né una foto, né un filmato, né una registrazione. Ricordo di aver provato un sentimento di immensa gratitudine. Per quell’uomo che sapeva di essere vicino alla morte e che aveva deciso di trascorrere così le sue ultime ore. Voleva lasciare la sua eredità a noi. Non lo capii subito. Il 19 luglio tutto mi fu più chiaro.  In questa ricorrenza lei ha pubblicato un libro dal titolo: Paolo Borsellino. L’uomo giusto. Perché uomo giusto? Cosa era la giustizia per Borsellino? In tutte le testimonianze raccolte, molte delle quali inedite, emerge la figura di un uomo che mostra a tutti lo stesso volto, che sa essere sé stesso in qualsiasi situazione, in compagnia di un alto magistrato e di un amico, di un criminale e di un testimone di giustizia, tenendo sempre presente il rispetto della persona umana. Paolo Borsellino è un uomo integro, con le sue passioni e i suoi difetti, ma che crede profondamente nella verità e nella giustizia, tanto da portare questo suo impegno, che chiamerei missione, fino alle estreme conseguenze.  Un capitolo del suo libro è intitolato: “Questa era la sua fede”. Che idea s’è fatta dell’esperienza religiosa di Borsellino? Direi che la fede è il dato unificante della sua vita. Prendendo in prestito le parole di don Cosimo Scordato, Borsellino riesce “a tenere uniti due aspetti della sua vita apparentemente così lontani, ma invece vicinissimi. Sa essere un picciuttunazzo (un ragazzone scherzoso, ndr), che diverte con tutta la sua verve, e insieme un uomo di preghiera, con un’interiorità profonda”. E, secondo un amico magistrato laico come Diego Cavaliero, la fede lo ha “aiutato in quello che è il concetto di morale, che va anche al di là della religione, ma individua ciò che è giusto o sbagliato in senso assoluto”. E’ noto l’attaccamento che Borsellino aveva per la famiglia. Come era Borsellino marito e padre? Quella alla paternità per Paolo Borsellino era una vocazione. Si tratta di una paternità esercitata nei confronti dei tre figli che adorava, ma anche nei confronti di tutti coloro che incontrava, dei colleghi magistrati più giovani, delle due testimoni di giustizia che trovarono in lui un sostegno prezioso, Rita Atria e Piera Aiello. Sapeva essere affettuoso, attento, protettivo, ma anche molto autorevole.  In questi 25 anni la famiglia, la moglie recentemente deceduta, i tre figli, il fratello Salvatore, hanno attraversato numerose vicissitudini che li hanno portati spesso sotto i riflettori. Come giudica il loro comportamento? Non è facile essere figlio, moglie, fratello di un uomo, per di più esponente delle istituzioni, ucciso in una strage dai contorni ancora non chiariti, malgrado siano trascorsi 25 anni e si siano celebrati numerosi processi. Pensare che non esista ancora una sentenza giudiziaria che individui i responsabili materiali della strage di via D’Amelio è incredibile. Sapere che sono state tenute in carcere per anni persone condannate all’ergastolo e che non avevano nulla a che fare con questo eccidio sconvolge e indigna. Allora non mi sembra che si possano esprimere giudizi sui familiari del giudice Borsellino, ma soltanto guardare a loro con profondo rispetto. Nel suo libro ha intervistato persone per così dire di secondo piano, cioè poco note all’opinione pubblica. Quale è quella che più l’ha impressionata? In generale mi ha colpito il pudore con cui queste persone hanno custodito per 25 anni il loro ricordo unico e personale del proprio rapporto con Borsellino, come un tesoro prezioso. Mi ha molto affascinato la testimonianza del giudice Diego Cavaliero, perché non è solo il ricordo di un giovane collega, bensì il racconto dettagliato di un rapporto nato in ufficio e diventato quasi familiare, oserei dire filiale. Straordinaria testimonianza della capacità del dottore Borsellino di riuscire a creare relazioni profonde con coloro che incontrava. Più volte nel suo libro ricorre la frase: “Paolo non è morto” oppure: “Paolo è vivo”. Che significa dopo 25 anni? Come si fa a tenere viva la memoria di un uomo come Borsellino e a cosa deve servire? Tenere viva la memoria significa non tradire l’eredità che un uomo come Paolo Borsellino ha lasciato a ogni cittadino: compiere il proprio dovere e tenere la schiena diritta sempre, anche quando la strada più comoda sarebbe un’altra, anche se questo rigore morale può non coincidere con le proprie ambizioni. Nell’ultima intervista rilasciata a Lamberto Sposini nel giugno 1992, Paolo Borsellino dice: “La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in estremo pericolo è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionar dalla sensazione o financo, vorrei dire, dalla certezza che tutto questo può costarci caro”.

UMBERTO LUCENTINI –  giornalista- scrittore e amico di Borsellino –  “A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l’esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato”: servitore dello Stato fino in fondo, Paolo Borsellino, magistrato nato e morto a Palermo, ha portato all’estremo la sua scelta professionale e di vita. Ucciso insieme agli uomini della scorta, il 19 luglio del 1992, nella strage di via D’Amelio, Paolo Borsellino è stato inserito dalla speciale commissione della Santa Sede nell’elenco dei martiri della giustizia del XX secolo. E da martire, Borsellino, ha vissuto gli ultimi giorni della sua vita: dopo un’altra strage, quella del collega e amico Giovanni Falcone (era il 23 maggio del ’92, con il giudice c’erano la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta).Borsellino era diventato il “nemico numero uno della mafia”. Ma, a esser più precisi, nel mirino dello cosche Borsellino è da anni, almeno dall’80, quando inizia ad indagare con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile sul clan dei “corleonesi” di Totò Riina e Bernardo Provenzano, allora sconosciuti “picciotti” destinati a diventare i sanguinari capi della mafia siciliana. Da quel momento, la “missione” antimafia di Borsellino diventa una strada senza ritorno.Nato a Palermo il 19 gennaio del 1940, in un quartiere borghese e popolare insieme, quello della Magione, Borsellino respira un’aria di rigore morale senza però chiudere gli occhi davanti al piccolo mondo della delinquenza che lo circonda. Figlio di farmacisti, quindi appartenente ad una delle famiglie più in vista del quartiere, Borsellino resta molto affezionato alla Magione, dove da bambino frequenta l’oratorio di San Francesco e gioca con un altro bimbo della zona, Giovanni Falcone. Cresciuto in una famiglia che aderisce al fascismo, il piccolo Paolo durante i bombardamenti degli americani si trasferisce ad Alcamo con la famiglia. E al momento dello sbarco degli alleati riceve un ordine dalla madre: “Non accettare nulla dagli americani”.Queste vicende e i racconti di “Zio Ciccio”, reduce della Campagna d’Africa, gli suscitano curiosità sulle vicende del periodo fascista: una delle prime “bravate” di Paolo è una tappa a Belmonte Mezzagno, un paesino che dista mezzora di autobus da Palermo, dove va a prendere informazioni sui suoi nonni.Dopo avere frequentato il Liceo classico “Meli” si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. All’Università, nel 1959 Borsellino aderisce all’organizzazione Fuan Fanalino, un gruppo studentesco legato alla destra. Membro dell’esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, viene eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino: l’attività politica lo coinvolge, ma riesce a conciliare politica e studio senza grossi problemi.Il 27 giugno 1962, all’età di 22 anni, Borsellino si laurea con 110 e lode. Pochi giorni dopo, subisce la perdita del padre: ora è affidato a lui il compito di provvedere alla famiglia. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Borsellino studia per superare il concorso in magistratura. Ci riesce nel 1963. Per non perdere la licenza della farmacia impegna il primo stipendio di giudice per riscattarla: la sorella Rita, più piccola di lui, ne diventerà la titolare dopo la laurea.Nel 1965 Borsellino inizia la sua carriera di magistrato: è destinato al tribunale civile di Enna, come uditore giudiziario. Nel 1967 il primo incarico operativo: pretore a Mazara del Vallo, nel periodo del dopo terremoto. Intanto, il 23 dicembre del 1968, Borsellino si sposa con Agnese Piraino Leto, una giovane palermitana che gli darà tre figli. Il giudice continua a lavorare a Mazara facendo la spola ogni giorno da Palermo. Nel 1969 il trasferimento alla pretura di Monreale, praticamente il ritorno a casa. È lì che Borsellino comincerà a conoscere da vicino la mafia, quella “selvaggia e spietata” dei “corleonesi”, e lavora fianco a fianco con il capitano dei carabinieri Emanuele Basile. I due costituiscono un tandem investigativo affiatato, che continuerà a lavorare anche dopo il 1975, quando Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo e a luglio entra all’Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il capitano Basile lavora alle indagini antimafia, scopre verità fino ad allora solo immaginate, ordina arresti sulla base delle indagini del capitano Basile.È l’80 quando il capitano viene ucciso in un agguato. E per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta. Da quel momento il clima in casa Borsellino cambia. Il giudice comincia a vivere sotto protezione, le sue abitudini di vita cambiano, anche se si sforzerà di non farlo pesare ai tre figli che intanto crescono.Il suo modo di fare, la sua decisione, influenzano il “sentire” dei suoi familiari. La moglie ricorderà così quegli anni: “Il suo modo di esercitare la funzione di giudice lo condivido, perché anch’io credo nei valori che lo ispirano… Non penso mai, per egoismo, per desiderio di una vita facile, di ostacolarlo… Non è stato un sacrificio immolare la sua vita al mestiere di giudice: Paolo ama tantissimo cercare la verità, qualunque essa sia”.La scorta costringe il giudice e la sua famiglia a convivere con un nuovo sentimento: la paura. Borsellino ne parla e la affronta così: “La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti”.Nell’ufficio istruzione nasce il “pool antimafia” di Falcone, Borsellino e Barrile, sotto la guida di Rocco Chinnici. Borsellino comincia a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa. Parallelamente continua il lavoro nel pool. Questa squadra funziona bene, ma si comprende che per sconfiggere la mafia il pool, da solo, non è sufficiente. Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l’istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l’intervento dello Stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.E infatti la mafia reagisce: il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un’autobomba. Borsellino è intimamente distrutto, dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita. Il “capo” del pool, il punto di riferimento, viene a mancare. Borsellino con molta preoccupazione commenta: “La mafia ha capito tutto: è Chinnici la testa che dirige il Pool”.A sostituire Chinnici arriva a Palermo da Firenze il giudice Antonino Caponnetto e il pool, sempre più affiatato, continua nell’incessante lavoro raggiungendo i primi risultati: “Sentiamo la gente fare il tifo per noi”.Nel 1984 viene arrestato il potente ex sindaco democristiano Vito Ciancimino, si pente il boss Tommaso Buscetta, e Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei “pentiti” nelle indagini e nella preparazione dei processi.Comincia la preparazione del maxiprocesso, e i protagonisti delle indagini continuano a cadere sotto il piombo mafioso. Falcone e Borsellino vengono immediatamente trasferiti sull’isola dell’Asinara per concludere l’istruttoria del maxi-processo e predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi. Falcone è con la moglie, Borsellino porta con sé la famiglia. Lucia, la figlia più grande, si ammala di anoressia psicogena, Tornato a Palermo, il giudice dovrà affrontare anche questa battaglia. La figlia guarisce, il maxi-processo decolla, e Borsellino chiede il trasferimento alla Procura di Marsala per ricoprire l’incarico di Procuratore Capo.Borsellino scopre i legami tra i clan della provincia e quelli palermitani, raccoglie le confidenze dei primi collaboratori di giustizia. E quando, nel 1987, Caponnetto è costretto a lasciare la guida del pool di Palermo, Borsellino si schiera a favore di Falcone: criticherà il successore di Caponnetto per aver “smembrato” il pool, finisce sotto processo al Consiglio superiore della magistratura. Riabilitato, torna a lavorare e continua ad assestare nuovi colpi alle cosche. Finché, con l’istituzione della Procura nazionale antimafia e delle Direzioni distrettuali antimafia, rientra a Palermo come procuratore aggiunto, dove si occuperà delle indagini sulla mafia di Agrigento e Trapani. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta. In una dichiarazione si può riassumere lo stato d’animo di Borsellino in quel momento: “Un pentito è credibile solo se si trovano i riscontri alle sue dichiarazioni. Se non ci sono gli elementi di prova, la sua confessione non vale nulla. È la legge che lo dice… e io sono un giudice che questa legge deve applicarla. I rapporti tra mafia e politica? Sono convinto che ci siano. E ne sono convinto non per gli esempi processuali, che sono pochissimi, ma per un assunto logico: è l’essenza stessa della mafia che costringe l’organizzazione a cercare il contatto con il mondo politico. È maturata nello Stato e nei politici la volontà di recidere questi legami con la mafia? A questa volontà del mondo politico non ho mai creduto”. Si apre la corsa alla Superprocura, e nel maggio del ’92 sembra che Falcone abbia raggiunto i numeri necessari per essere nominato. Ma il 23 maggio, Falcone, che nel frattempo era stato nominato direttore generale degli Affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, torna a Palermo e viene ucciso nella strage di Capaci.Per Borsellino è un colpo durissimo. Gli viene offerto di prendere il posto di Falcone nella candidatura alla superprocura, ma Borsellino rifiuta, sebbene sia consapevole che quella sia l’unica maniera che ha per condurre in prima persona le indagini sulla strage di Capaci. Ad un mese dalla morte dell’amico Falcone, tra le fiaccole e con molta emozione parla di lui, cerca di raccontarlo: “Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione… per amore. La sua vita è stata un atto d’amore verso questa città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo, continuando la loro opera, dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.Borsellino vuole collaborare alle indagini sull’attentato di Capaci di competenza della procura di Caltanissetta. Le indagini proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta di Messina e Mutolo, ormai Cosa Nostra comincia ad avere sembianze conosciute. Spesso i pentiti hanno chiesto di parlare con Falcone o con Borsellino perché sapevano di potersi fidare, perché ne conoscevano le qualità morali e l’intuito investigativo. Continua a lottare per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Ma il 19 luglio 1992 va in via D’Amelio, a prendere la madre per accompagnarla dal medico. Un’autobomba, posteggiata tra tante altre auto, senza che nessuna autorità si preoccupasse di istituire una zona rimozione, esplode. Il giudice muore con i suoi cinque agenti di scorta.Amava ripetere, lui religiosissimo, scherzandoci su per esorcizzare la morte: “Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento. Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”.

ALESSANDRA CAMASSA – Magistrato«A fine giugno del 1992 io e il collega Massimo Russo avemmo un incontro con Paolo Borsellino. Era un dialogo normale, si parlava di indagini. A un certo punto lui si alzò, si stese sul divano e cominciò a lacrimare e disse: “non posso credere che un amico mi abbia tradito”». A raccontare l’episodio, già riferito ai magistrati e finito negli atti della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio, è il giudice Alessandra Camassa, ex pubblico ministero a Marsala quando il magistrato assassinato dalla mafia era a capo della Procura. Camassa ricostruisce dunque ancora una volta quei momenti deponendo al processo per favoreggiamento alla mafia al generale dei carabinieri Mario Mori.

Che rapporto si instaura con il giudice Borsellino?“Ottimo perché era una persona molto affettuosa e accogliente. Devo dire che io ero molto autonoma come persona e il dottore Borsellino privilegiava, dal punto di vista affettivo, i colleghi più fragili emotivamente. Io di certo non lo ero.  Era molto paternalista quindi “adottava” i colleghi che avevano più problemi personali. Con me, come con tutti, c’era comunque un rapporto eccellente.  Da Fraterno sostegno ad Agnese Borsellino 14.3.2017

DAI SUOI SOSTITUTI

Carissimo Paolo, al di là dei saluti ufficiali, anche se sentiti, un momento privato, un colloquio tra noi. Noi tutti siamo qui a Marsala con te fino dal tuo arrivo, ma ognuno di noi porta nel suo cuore un pezzetto di storia da raccontare sul lavoro a Marsala, nella procura che tu hai diretto. Ci piacerebbe ricordare tante situazioni impegnative o tristi o buffe che ci sono capitate in questa esperienza comune, ma l’elenco sarebbe lungo e, allo stesso tempo, insufficiente. Possiamo comunque dirti di aver appreso appieno il significato di questo periodo di lavoro accanto a te e le possibilità che ci sono state offerte: l’esperienza con i pentiti, i rapporti di un certo livello con la polizia giudiziaria, sono situazioni rare in una procura di provincia, e la tua presenza ci ha consentito di giovarci di queste opportunità. Abbiamo goduto, in questi anni, di un’autorevole protezione, i problemi che si presentavano non apparivano insormontabili perché ci sentivamo tutelati. Qualcuno ci ha riferito in questi giorni che tu avresti detto, ironizzando, che ogni tuo sostituto, grazie al tuo insegnamento, superiorem non recognoscet. Sai bene che non è vero, ma è vero invece che la tua persona, inevitabilmente, ci ha portati a riconoscere superiore solo chi lo è veramente. Ci sono state anche delle incomprensioni, e non abbiamo dimenticate nemmeno quelle: molte sono dipese da noi, dalle diversità dei caratteri e dalla natura di ognuno; altre volte, però, è stata proprio la tua natura onnipotente a vedere ogni cosa dalla tua personale angolazione, non suscettibile di diverse interpretazioni. Tuttavia, anche in questo sei stato per noi un “personaggio”, ti sei arrabbiato, magari troppo, ma con l’autorità che ti legittimava e che mai abbiamo disconosciuto. Anche nel rapporto con il personale abbiamo apprezzato l’autorevolezza e la bontà, mai assurdamente capo, ma sempre “il nostro capo”. E poi te ne sei andato, troppo in fretta, troppo sbrigativamente, come se questo forte rapporto che ci legava potesse essere reciso soltanto con un brusco taglio, per non soffrirne troppo. Il dopo Borsellino non te lo vogliamo raccontare: pur se uniti tra noi, in tantissime occasioni abbiamo sentito che non c’eri più, e in molti abbiamo avvertito il peso, talvolta eccessivo per le nostre sole spalle, di alcune scelte, di importanti decisioni. E adesso il futuro, il tuo, ma anche il nostro. Noi ti assicuriamo, già lo facciamo, siamo all’erta, sappiamo che cosa vuol dire “giustizia” in Sicilia ed abbiamo tutti valori forti e sani, non siamo stati contaminati, e se è vero che “chi ben comincia…”, con ciò che segue, siamo stati molto fortunati. Per te un monito: è un periodo troppo triste ed è difficile intravederne l’uscita. La morte di Giovanni e Francesca è stata per tutti noi un po’ la morte dello stato in questa Sicilia. Le polemiche, i dissidi, le contraddizioni che c’erano prima di questo tragico evento e che, immancabilmente, si sono ripetute anche dopo, ci fanno pensare troppo spesso che non ce la faremo, che lo stato in Sicilia è contro lo stato, e che non puoi fidarti di nessuno. Qui il tuo compito personale, ma sai bene che non abbiamo molti altri interlocutori: sii la nostra fiducia nello stato.

I ”tuoi sostituti” – 4 luglio 1992, ovvero quindici giorni prima di essere assassinato da Cosa nostra,  Paolo Borsellino si reca per l’ultima volta al Tribunale di Marsala per la cerimonia di saluto che era già stata rinviata altre volte dopo il trasferimento a Palermo. Borsellino parla a braccio, ricorda i sacrifici che i magistrati devono affrontare per assicurare alla nazione il servizio della giustizia e riceve una bellissima lettera di saluto dai “suoi” sostituti, i giovani pm cresciuti sotto la sua guida negli anni delle inchieste marsalesi: Giuseppe Salvo, Francesco Parrinello, Luciano Costantini, Lina Tosi, Massimo Russo, Alessandra Camassa.

 

18 Luglio 2015 – Commemorazione di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta – Audio