Villani: «Ho paura di essere ucciso dai Servizi deviati»
- 15 gennaio 2018 CORRIERE DELLA CALABRIA
«Avevo paura di essere ucciso da pezzi deviati dello Stato, dai servizi deviati. Anzi ho paura tuttora». Dietro il paravento bianco, il pentito Consolato Villani torna a parlare all’aula bunker di Reggio Calabria. Non è la prima volta che da collaboratore di giustizia si confronta con avvocati e giudici, che le sue parole e le sue dichiarazioni vengono esaminate e pesate, ma oggi Villani è chiamato a spiegare – e in dettaglio – di quello che per anni è stato il suo più grande segreto.
LE CONFESSIONI DI UNA PEDINA A diciassette anni, il pentito è stato l’esecutore materiale degli omicidi e dei tentati omicidi con cui la ‘ndrangheta ha firmato la propria partecipazione alla strategia della tensione, negli anni Novanta messa in piedi da mafie, settori dei servizi e della massoneria, uomini della galassia neofascista per stravolgere lo Stato e insediare un governo amico. Si è macchiato le mani di sangue, ha ucciso due uomini, i carabinieri Antonio Fava e Vincenzo Garofalo, senza sapere perché. «A me è arrivato un ordine», dice. Che ha eseguito e che gli è costato una condanna a 30 anni. Ma quel gioco, così più grande di lui, lo ha capito solo con il tempo. E forse neanche del tutto. «Avevo paura di scoperchiare una situazione molto più grande di me. Per questo – spiega – anche quando ho iniziato a collaborare non ho detto niente. La pena era definitiva e nessuno mi ha mai chiesto nulla al riguardo, e io avevo paura di una cosa che non conoscevo, un attacco allo Stato, organizzato da entità che non avrebbero avuto difficoltà a trovarmi perché sono molto ben inserite. Ma io non potevo tenermi questa cosa dentro».
LE ENTITÀ Villani non sa bene chi siano queste “entità” che tanto teme. Sa che la sua famiglia di ‘ndrangheta – i Lo Giudice – ha sempre avuto contatti, ma non ne ha mai voluto sapere troppo. Quando è diventato santista, «la carica infame – sottolinea – perché ti mette in contatto con le istituzioni», qualcosa gli hanno spiegato. «Per addestrarmi, per farmi capire che c’è qualcosa di più potente della ‘ndrangheta che conoscevo io», spiega. «Giovanni Chilà e Nino Lo Giudice mi hanno spiegato che a Reggio Calabria la ‘ndrangheta è supportata in tutto e per tutto da queste entità».
INCONTRI SOLO CASUALI Sia per scelta, sia per grado, Villani non ci ha mai avuto direttamente a che fare. Solo un paio di volte è venuto a conoscenza di uomini del suo clan che erano in rapporti con quel mondo con cui non voleva avere a che fare. «Li ho visti una volta alla profumeria di Cortese, ma non ho partecipato a quella riunione. Una seconda volta alla pineta Zerbi». Ma in quell’occasione, l’uomo e la donna che nel tempo il pentito ha imparato a riconoscere come espressione di quegli apparati deviati non erano soli. «C’era il capitano Saverio Spadaro Tracuzzi e Giovanni Aiello, che io avevo già visto alla profumeria di Cortese. In quell’occasione – racconta – era presente anche mio padre». In famiglia, a gestire regolarmente il contatto con loro erano Nino e Luciano Lo Giudice, ma «i loro referenti illustrissimi in città erano Paolo Romeo e Giorgio De Stefano». Gli unici – afferma – che avrebbero potuto “salvare” Luciano Lo Giudice quando per lui è scattato l’arresto per usura. Al riguardo è stata convocata una riunione ristrettissima fra gli esponenti di maggiore peso della famiglia.
CHIAMATE DE STEFANO «Eravamo io, Nino e Peppe Reliquato», racconta il pentito, secondo il quale Nino Lo Giudice avrebbe proposto di contattare l’avvocato Giorgio De Stefano per far uscire Luciano Lo Giudice. E di certo non grazie ad arguzie legali. «Diceva che solo De Stefano avrebbe potuto fare qualcosa, perché era l’unico insieme a Romeo a poter aggiustare i processi persino a Roma, in Cassazione». Un’ipotesi che però alla fine viene scartata. «Durate la guerra i De Stefano sono stati nostri nemici. Avevamo paura che invece di salvarlo, lo inguaiasse di più».
PRIMA O DOPO LE BOMBE? Per i vertici del clan, quello non è stato per nulla un periodo facile. «Quando Luciano è stato arrestato – racconta il pentito – Nino Lo Giudice si è spaventato. Si è sentito tradito dalle entità che frequentava. Lui si sentiva intoccabile, ma quando hanno arrestato Luciano, ha iniziato ad avere paura che non fosse così». Era il 2009, un anno delicato. «Prima delle bombe alla Procura generale?», chiede il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. «Prima», risponde secco Villani.
NUOVA STRATEGIA DELLA TENSIONE? Un riferimento forse non neutro. Di quegli ordigni, fin dall’inizio della sua collaborazione Nino Lo Giudice si è dichiarato responsabile, sebbene non abbia mai saputo spiegare in modo convincente per quale motivo abbia deciso di collocarli proprio di fronte alla procura generale e alla casa dell’allora procuratore, Salvatore Di Landro. Con quelle dichiarazioni ha ingarbugliato le prime piste investigative che, passando per ambienti dei Serraino, puntavano ad Archi. Ma a dicembre, Villani una cosa se l’è fatta scappare. «Negli anni Duemila – ha detto in udienza – Giuseppe De Stefano voleva aprire su Reggio una nuova strategia della tensione». E magari le cose potrebbero essere collegate.