ANZELMO Francesco Paolo Ha rivestito il ruolo di vice rappresentante della “famiglia” della Noce, prima del 1983 inserita nel mandamento di Porta Nuova di cui era capo CALO’ Giuseppe. Nel novembre del 1982, conclusa con la vittoria della fazione corleonese la fase più acuta della c.d. seconda guerra di mafia, erano state ricostituite le “famiglie”, era cioè stato ridisegnato l’organigramma delle cariche di vertice, almeno nelle “famiglie” in cui avevano sino ad allora ricoperto ruoli importanti elementi della c.d. mafia perdente, e GANCI Raffaele, persona assai legata a RIINA Salvatore, era stato eletto rappresentante con votazione unanime degli “uomini d’onore” di quella “famiglia”, mentre lo ANZELMO era stato prescelto come suo vice. Nel gennaio del 1983 la fedeltà del GANCI era stata premiata con l’attribuzione al medesimo della carica di capomandamento, essendo stata la “famiglia” della Noce scorporata dal mandamento di Porta Nuova.
La stretta vicinanza dello ANZELMO ad una delle persone che maggiormente aveva contribuito all’attuazione della strategia criminale perseguita dal RIINA, ha comportato il suo coinvolgimento in alcuni dei più efferati delitti di mafia, quali l’omicidio del Capitano dei Carabinieri D’ALEO; la strage in cui perse la vita il consigliere istruttore del Tribunale di Palermo CHINNICI; l’omicidio del Commissario della P.S. CASSARA’; il plurimo omicidio impropriamente noto come la “strage della Circonvallazione di Palermo”, in cui vennero uccisi il boss catanese FERLITO Alfio e gli uomini addetti alla sua traduzione dal carcere; l’omicidio del Generale DALLA CHIESA, Prefetto di Palermo.
In ordine a tali crimini lo ANZELMO è stato in grado di fornire elementi utili alla loro ricostruzione allorché iniziò a collaborare nel corso del 1996 con l’A.G., poco dopo che GANCI Calogero, uno dei figli del suo capomandamento, aveva già intrapreso tale strada.
E se la decisione di quest’ultimo deve avere esercitato un’indubbia influenza sulle scelte collaborative dello ANZELMO, consapevole della conoscenza che il GANCI aveva del suo coinvolgimento in varie imprese criminali, tuttavia appare innegabile l’autonomia del contributo conoscitivo offerto dallo ANZELMO ed il fatto che lo stesso non si è arroccato su posizioni intese a ridurre al minimo i danni, minimizzando le proprie responsabilità, ma ha, invece, lealmente confessato la valenza della sua condotta criminale.
Né tanto meno può sostenersi che l’autonomia delle dichiarazioni accusatorie dello ANZELMO rispetto a quelle del GANCI sia stata compromessa dal breve incontro intercorso tra i due prima dell’inizio della collaborazione dello ANZELMO, ove si considerino l’ampiezza della collaborazione di entrambi su un numero assai rilevante di fatti criminosi – sui quali non poteva certamente intervenire alcuna concertazione nello scarso tempo a disposizione -e la parziale diversità delle conoscenze, per le difformi esperienze operative maturate.
La mancata partecipazione dello ANZELMO alla fase organizzativa ed esecutiva delle stragi di Capaci e di via D’Amelio non appare in contrasto con l’importanza del suo ruolo all’interno del mandamento della Noce, ove si tenga nella dovuta considerazione una delle regole fondamentali alle quali il RIINA ha voluto che fosse improntata l’attività di COSA NOSTRA, soprattutto dopo il verificarsi a partire dal 1984 di uno dei fenomeni più traumatici per un’organizzazione che ha tra i suoi pilastri basilari l’assoluto rispetto del comportamento omertoso, e cioè il c.d. pentitismo, che aveva iniziato ad avere le prime ripercussioni destabilizzanti per il sistema mafioso durante la celebrazione del primo maxiprocesso di Palermo. A fronte di tale situazione, anche se contribuirono anche altri fattori, come si dirà successivamente, i vertici di COSA NOSTRA intesero reagire rendendo ancor più impenetrabile l’iter procedimentale che portava dalla deliberazione, all’organizzazione e poi all’esecuzione dei più gravi delitti. Nell’ambito di tale “blindatura” si inserisce senz’altro la decisione di coinvolgere nell’esecuzione dei più gravi delitti solo le persone
strettamente indispensabili alla loro riuscita, tenendo all’oscuro delle concrete modalità organizzative ed esecutive tutti gli altri affiliati, a prescindere dal loro ruolo e dalla loro affidabilità e operando in modo che anche le persone coinvolte nell’attentato, almeno quelle con ruoli meramente esecutivi, avessero nei limiti del possibile una conoscenza tendenzialmente limitata al segmento di attività dalle stesse svolto.
A ciò si aggiunga che i rapporti tra lo ANZELMO e GANCI Domenico, figlio maggiore del capomandamento e direttamente coinvolto nell’esecuzione della strage per cui è processo, non erano improntati alla massima cordialità per incomprensioni verificatesi quando entrambi ebbero a sostituire nella direzione del mandamento della Noce GANCI Raffaele, detenuto tra la fine del 1986 e il novembre del 1988, come hanno riferito GALLIANO Antonino, GANCI Calogero e lo stesso ANZELMO, sicché non può meravigliare che quest’ultimo non sia stato chiamato a comporre il ristretto gruppo incaricato per quel mandamento dell’esecuzione della strage.
Ma se lo ANZELMO non è stato in grado di fornire per le ragioni testé dette alcuna indicazione sulla deliberazione ed esecuzione dell’attentato, non v’è dubbio che debbono essere prese in adeguata considerazione le sue conoscenze in ordine alle fondamentali regole organizzative di COSA NOSTRA ed alla composizione dei suoi organi di vertice, trattandosi di fonte che per il suo ruolo e per la specifica attività criminale svolta nel settore dei c.d. omicidi eccellenti era certamente qualificata a possedere dei dati di siffatta natura, aggiornati sino all’epoca della strage.
Nell’ambito del presente processo sono state anche acquisite ex art. 238 le dichiarazioni rese dallo ANZELMO all’udienza del 27.11.1996 nel giudizio di primo grado per la strage di Capaci. MISTERI D’ITALIA
AVOLA Maurizio Inserito con la qualifica di “uomo d’onore” nella “famiglia” catanese di COSA NOSTRA che ha il suo capo indiscusso in SANTAPAOLA Benedetto, era persona assai vicina a D’AGATA Marcello, consigliere della predetta “famiglia” e, quindi, uno dei personaggi più autorevoli della medesima, di cui aveva contribuito a deliberare le più importanti strategie criminose. Peraltro, l’importanza dello AVOLA all’interno di questa struttura criminale era anche legata alla sua diretta partecipazione con il ruolo di killer a numerosi omicidi, tra cui è sufficiente ricordare in questa sede, per l’elevato spessore criminale delle persone che vi erano coinvolte nella fase deliberativa ed esecutiva, quello verificatosi nel 1982 ai danni del giornalista Giuseppe FAVA, a quel tempo una delle voci più nobili ed anche più isolate levatasi a denunciare con grande fermezza e lucidità l’ampiezza e la pericolosità del fenomeno mafioso ed il devastante effetto inquinante che esso stava esercitando su tutti i settori della società, da quello politico a quelli istituzionali ed economici.
La scelta collaborativa dello AVOLA, intrapresa dopo circa un anno dal suo arresto, operato nel marzo del 1993, costituisce uno dei primi casi verificatisi tra gli “uomini d’onore” di Catania, dopo quello storico di CALDERONE Antonino e quello di SAMPERI Severino Claudio, che iniziò a collaborare con l’A.G. nel gennaio del 1993, al momento stesso del suo arresto. Da qui la notevole importanza delle dichiarazioni dello AVOLA, che hanno consentito di ricostruire numerose delle più importanti vicende criminali di cui si era resa protagonista la “famiglia” catanese di COSA NOSTRA nell’arco di circa un decennio. E se è vero che la sua collaborazione ebbe inizio quando già vi erano nei suoi confronti gravi indizi di reità per l’omicidio del consociato DI LEO Giuseppe, deve anche evidenziarsi che lo AVOLA non ha manifestato alcuna remora a confessare le proprie responsabilità in circa una cinquantina di omicidi per i quali nessun elemento probatorio vi era a suo carico, mostrando la medesima determinazione, priva di calcoli e di qualsiasi esitazione, con la quale aveva intrapreso ancor giovane la via del crimine.
La vicenda collaborativa dello AVOLA mostra con solare evidenza la necessità di scindere la questione dell’attendibilità intrinseca delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia da quella della ricerca delle eventuali motivazioni etiche di tale scelta, come già si è detto nel secondo paragrafo del primo capitolo della Parte prima di questa sentenza. Da una parte costituiscono indubbiamente fattori di affidabilità delle sue dichiarazioni la mancanza da parte dello AVOLA del tentativo di cercare alibi o giustificazioni al proprio operato, di attenuarne la cruda realtà criminale e la gravità, di centellinare con mentalità ragionieristica le proprie dichiarazioni per ritrarne il massimo vantaggio con il minor danno personale, come pure hanno fatto altri soggetti esaminati in questo processo, dall’altra parte sembra di avvertire nella stessa fredda lucidità, priva di qualsiasi partecipazione emotiva, con cui egli ha riferito i più impressionanti episodi di violenza che lo videro protagonista, l’angosciante sensazione di affacciarsi su di un abisso profondo ed oscuro, quello di un animo deprivato di gran parte della sua sensibilità umana e della capacità di orientare il suo comportamento secondo un sistema di valori etici. In tale situazione si associa ad una generale affidabilità del dichiarante, da verificare comunque sempre episodio per episodio secondo i già evidenziati criteri di valutazione, una sua pericolosità sociale, che può indurlo, al verificarsi di determinate condizioni, a commettere ulteriori reati anche dopo la scelta collaborativa, come è successo nel caso dello AVOLA, resosi autore con l’altro collaboratore SAMPERI Severino Claudio di una serie di rapine, come ammesso dallo stesso imputato in procedimento connesso. Ma tali circostanze, per le ragioni testé menzionate, non possono automaticamente screditare le sue dichiarazioni, così come più in generale ogni valutazione sulla portata probatoria delle propalazioni di un collaboratore di giustizia e sulla possibilità di applicare la diminuente di cui all’art. 8 del D.L. n. 152/1991 non dovrebbe meccanicamente refluire, senza la considerazione di altri elementi, sulle decisioni in materia di libertà personale dello stesso.
Nell’ambito del presente processo sono state anche acquisite ex art. 238 c.p.p. le dichiarazioni rese dallo AVOLA nell’udienza del 14.3.1996 del giudizio di primo grado per la strage di Capaci. Le indicazioni complessivamente fornite dal collaborante sono apparse adeguate al suo livello di adesione alla vita dell’associazione mafiosa, che lo vedeva escluso dalla partecipazione alle deliberazioni strategiche ma che lo trovava coinvolto a vario titolo e più o meno direttamente nell’esecuzione di molti crimini. In particolare di notevole rilievo per la qualificazione della fonte e la diretta conoscenza dei fatti riferiti hanno assunto le propalazioni del collaborante sull’organigramma di COSA NOSTRA nella provincia catanese e sui rapporti intercorsi tra questa provincia e quella di Palermo anche nel periodo in cui venivano deliberate prime e poi poste in essere le stragi del 1992 e del 1993. MISTERI D’ITALIA
BRUSCA Giovanni Già dall’età di tredici-quattordici anni aveva avuto contatti con i personaggi di maggiore caratura criminale di COSA NOSTRA, come RIINA Salvatore, PROVENZANO Bernardo, BAGARELLA Calogero – fratello maggiore di Leoluca, ucciso nel corso dell’agguato al boss mafioso CAVATAIO Michele – persone queste che trascorrevano la loro latitanza a S. Giuseppe Iato, ospiti di tale D’ANNA. Il padre BRUSCA Bernardo, infatti, uomo di assoluta fiducia del RIINA, aveva incaricato il figlio di portare il cibo ai predetti latitanti. Nel 1975 la fedeltà del giovane BRUSCA alla causa di COSA NOSTRA ed il riconoscimento delle sue attitudini criminali trovarono formale riconoscimento con il rituale inserimento nella “famiglia” mafiosa di San Giuseppe Jato ed il nuovo adepto poté vantare come “padrino” alla cerimonia di affiliazione proprio il RIINA. All’epoca il padre Bernardo reggeva di fatto il mandamento, in sostituzione di SALAMONE Antonino, che per problemi giudiziari conseguenti alla c.d. prima guerra di mafia trascorreva gran parte del suo tempo in Brasile. BRUSCA Bernardo seppe essere uno dei più validi alleati del RIINA nella faida che contrappose la c.d. fazione corleonese al gruppo sino ad allora dominante in COSA NOSTRA e che faceva capo a BADALAMENTI Gaetano, BONTATE Stefano e INZERILLO Salvatore, faida che per vari anni covò in forma latente e che esplose poi in forme assai cruente tra il 1981 ed il 1982, concludendosi con lo sterminio dei rivali e l’assoluto trionfo della fazione corleonese. Il BRUSCA venne ricompensato con l’attribuzione della carica di capomandamento di S. Giuseppe Iato allorché vennero ricostituiti i mandamenti tra la fine del 1982 e gli inizi del 1983 e la zona di Dammusi, rientrante in tale ambito territoriale, divenne il punto di riferimento della consorteria criminale, anche perché il RIINA vi trascorreva la sua latitanza, sicché lì avevano luogo varie riunioni di COSA NOSTRA a gruppi, riunioni di cui il giovane BRUSCA ebbe così modo di avere contezza pur senza parteciparvi personalmente.
Arrestato nel settembre del 1984 a seguito delle iniziative giudiziarie scaturenti dalle rivelazioni di BUSCETTA Tommaso, Giovanni BRUSCA nel febbraio – marzo 1985 raggiunse il soggiorno obbligato di Linosa, da dove rientrò il 31 gennaio 1986. La situazione del mandamento presentava in quel periodo delle novità, a causa dell’arresto di BRUSCA Bernardo, avvenuto nel corso del 1985 e dell’allontanamento da quel territorio, non più ritenuto sicuro, del latitante RIINA. La gestione del mandamento era stata assunta da DI MAGGIO Baldassare, che manteneva i rapporti tra il RIINA e quel mandamento, anche se le funzioni di rappresentante nella commissione provinciale vennero delegate da BRUSCA Bernardo al RIINA, dati gli stretti rapporti tra i due ed il sospetto che l’arresto del capomandamento fosse da ricollegare al tradimento di qualcuno degli uomini a lui più vicini, sospetto al quale non si erano sottratti neanche il fratello Mario ed il figlio di quest’ultimo. Questa situazione si era mantenuta pressoché inalterata sino agli ultimi mesi del 1989, anche se nel frattempo i rapporti con il DI MAGGIO si erano andati progressivamente ad incrinare, per il modo con cui questi gestiva gli affari del mandamento e per talune sue vicende private che gli avevano alienato le simpatie del capomandamento, che dagli arresti ospedalieri e poi da quelli domiciliari aveva continuato a seguire le vicende interne, nelle quali veniva progressivamente acquisendo un ruolo crescente BRUSCA Giovanni. Quest’ultimo stava già procacciandosi ulteriori meriti in quel consesso criminale con l’impegno profuso nella guerra che i corleonesi stavano conducendo in territorio di Alcamo contro la famiglia rivale dei RIMI ed intorno all’ottobre del 1989, in epoca prossima all’omicidio di DAIDONE Giovanni, commesso in Alcamo, assunse la reggenza di quel mandamento, subentrando al DI MAGGIO ormai caduto in disgrazia. Da allora BRUSCA Giovanni assunse un ruolo preminente nell’organizzazione denominata COSA NOSTRA, partecipando a molti dei più scellerati fatti di sangue di cui la medesima si rese responsabile e divenendo uno dei principali fautori ed elementi trainanti di quella strategia stragista di attacco allo Stato, nel cui ambito deve iscriversi anche la strage per cui è processo. Resosi latitante dal 31 gennaio 1992, a seguito dei provvedimenti restrittivi emessi dopo la sentenza n. 80 della I Sezione della Cassazione, il BRUSCA rimase prevalentemente nel mandamento di San Giuseppe Iato sino alla consumazione della strage di Capaci, in cui svolse un ruolo esecutivo preminente, e successivamente si rifugiò in alcune zone del trapanese, come Mazara del Vallo e Castellammare del Golfo, per poi tornare a nascondersi in prevalenza a Palermo, ove aveva iniziato a convivere con CRISTIANO Rosaria, sino a quando non venne tratto in arresto in data 20 maggio 1996 a Cannatello, in provincia di Agrigento. Il curriculum criminale del BRUSCA, benché solo sinteticamente delineato, appare già assai eloquente in ordine alla profonda conoscenza che questi possedeva delle vicende criminali di COSA NOSTRA, della struttura e del suo organigramma, nonché delle sue modalità di funzionamento e delle logiche che ispiravano la sua attività, sicché sotto tale profilo è indubbio che il livello di informazioni dell’imputato è idoneo a fornire una rappresentazione sufficientemente completa di molti dei più gravi delitti posti in essere da quel sodalizio mafioso, per quanto attiene alla fase deliberativa e spesso anche a quella esecutiva.
In ordine alla ragioni che determinarono la sua scelta collaborativa, iniziata tra fine luglio e primi di agosto del 1996, e quindi a distanza di pochi mesi dal suo arresto, l’imputato ha riferito che già durante la latitanza ebbe ad apprendere un episodio rivelato durante la sua collaborazione da CANCEMI Salvatore, che aveva dichiarato che il RIINA aveva in passato manifestato a BIONDINO Salvatore l’intenzione di punire con la morte sia il BRUSCA che MADONIA Salvatore, figlio di Francesco, e cioè i figli di due degli uomini a lui più vicini, perché responsabili di avere preso contatti con persone di Salemi per questioni attinenti ad un traffico di droga senza aver chiesto la sua preventiva autorizzazione. Tale notizia lo aveva profondamente turbato ed indotto a riflettere sulla reale consistenza dei rapporti che legavano tra loro questi autorevoli esponenti di COSA NOSTRA. Il BRUSCA, che aveva appreso da fonti giornalistiche le rivelazioni fatte su tale vicenda dal CANCEMI in pubblica udienza, era stato in grado di apprezzarne la veridicità, in quanto l’episodio rimproveratogli dal RIINA aveva avuto realmente luogo, anche se egli dal proprio punto di vista non riteneva di avere alcuna colpa, avendo spiegato che i contatti avuti con tale MICELI Giuseppe a Salemi erano soltanto preliminari e che sia lui che il MADONIA ne avrebbero certamente parlato con il RIINA se il progetto non si fosse quasi subito arenato. Di diverso avviso doveva, invece, essere stato il RIINA, che aveva imposto una ferrea regola, a tutela della propria egemonia, regola secondo la quale i contatti con persone di altri mandamenti ed ancor più di altre province, come nel caso di specie, dovevano essere preventivamente autorizzati per via gerarchica e cioè dai capimandamento e dai capiprovincia interessati, a nulla rilevando che si trattasse o meno di semplici colloqui iniziali, stante la necessità che i capi dei territori interessati fossero informati anche dei meri propositi dei propri consociati. Tale regola era ben nota anche al BRUSCA, che però evidentemente riteneva di poterla rispettare con un grado di elasticità maggiore di altri in virtù delle benemerenze acquisite e della sua assoluta fedeltà al RIINA, sicché anche sotto questo profilo doveva ferirlo il fatto che questi avesse potuto sospettare di lui sino al punto di proporre, sia pure a livello discorsivo, con una persona così vicina al RIINA come il BIONDINO, un così grave provvedimento a suo carico. Ciò doveva aver indotto il BRUSCA a considerare che le prove di assoluta fedeltà fornite prima dal padre e poi da lui non erano state sufficienti a meritargli una maggiore considerazione e fiducia da parte del RIINA, sicché ne usciva incrinata quella devozione personale nei confronti del capo di COSA NOSTRA che costituiva il nucleo centrale e più forte del suo legame con il sodalizio mafioso.
Ad ulteriormente aggravare la crisi del BRUSCA erano poi state le vicende del suo arresto, allorché egli aveva potuto forse per la prima volta percepire tangibilmente la crescente divaricazione tra COSA NOSTRA e la società civile nella quale sino a poco tempo prima quella consorteria criminale aveva prosperato come nel suo humus più fertile, poiché all’uscita in manette dalla Questura di Palermo non aveva trovato ad accoglierlo il folto gruppo di parenti ed amici che solitamente attende la persona di rango da poco tratta in arresto, bensì una folla di manifestanti che lo additava come il mostro che con la sua ferocia aveva perpetrato l’efferata strage in cui erano stati barbaramente uccisi Giovanni FALCONE, la moglie ed gli agenti della sua scorta. Ma ancor più doveva aver pesato sull’animo turbato del BRUSCA il commiato appena preso negli uffici della Questura dai familiari e soprattutto dal figlio, ancora in tenera età, che egli doveva avere la consapevolezza di non poter più rivedere da uomo libero. E se è vero che la consuetudine con i più turpi delitti non può mai estinguere nell’animo umano i sentimenti che gli sono più connaturali, e tra questi l’amore per le persone più care – sentimento del quale però si coglie solo l’aspetto più diretto e personale, mentre non se ne avverte la sua essenza più profonda ed universale – non può meravigliare che colui che non aveva esitato a compiere i crimini più gravi, incurante dell’irreparabile scia di dolore e di lutto che si lasciava alle spalle, potesse soffrire e provare angoscia nel lasciare i propri affetti, sofferenza ed angoscia che stavolta non potevano essere leniti dalla fede assoluta negli ideali di COSA NOSTRA e nella persona che li incarnava agli occhi del BRUSCA.
I colloqui investigativi intrattenuti dall’imputato con i funzionari della Squadra Mobile di Palermo Luigi SAVINA e Claudio SANFILIPPO seguirono di pochi giorni il suo arresto e si protrassero sino a quando il BRUSCA non decise di collaborare con l’Autorità giudiziaria. In proposito l’imputato ha riferito che tale intervallo di circa due mesi deve ricondursi al suo vano tentativo di comunicare il suo proposito al padre, per indurlo a condividerne le scelte o quanto meno per manifestargli il proprio rispetto in un momento in cui si accingeva a rompere il legame omertoso che lo legava a quel mondo. Non essendogli stata accordata tale possibilità, egli aveva infine superato le sue remore ed aveva iniziato la collaborazione.
Come è stato riferito dal BRUSCA e confermato dal teste SAVINA, le indicazioni fornite dal BRUSCA sin dai colloqui investigativi, e quindi prima dell’inizio della sua collaborazione ufficiale, si rivelarono decisive per la cattura di due personaggi di assoluto rilievo in COSA NOSTRA, e cioè AGLIERI Pietro e GRECO Carlo, il primo arrestato dopo una latitanza durata oltre quattro anni. In quelle medesime occasioni egli aveva anche fornito alcuni spunti investigativi per la cattura di PROVENZANO Bernardo, che pur essendosi rivelati esatti nei presupposti non avevano però consentito di individuare la più recente dimora del latitante.
Il BRUSCA fornì anche delle indicazioni su beni patrimoniali ancora in possesso dell’organizzazione, soprattutto riguardo a terreni edificabili intestati a dei prestanome del RIINA, nonché per l’individuazione di rifugi sotterranei e depositi di armi, ciò nel corso degli interrogatori innanzi ai Magistrati. In particolare il teste SAVINA ha riferito che sulla base di indicazioni fornite dal BRUSCA in data 13 settembre 1996 era stata effettuata una perquisizione all’interno di un appezzamento di terreno di proprietà di MARTORANA Calogero, cugino di Monticciolo Giuseppe, ove furono eseguiti degli scavi che consentirono il rinvenimento di una stanza adibita a rifugio sotterraneo; che lo stesso collaborante aveva consentito l’individuazione di una stanza sotterranea sita all’esterno della villa del MONTICCIOLO, in contrada Quarta Mulino in agro di San Cipirello, ove fu rinvenuto un bunker perfettamente costruito, in grado di potere ospitare all’interno persone ed inoltre, in un’area antistante la medesima villa, in un punto diverso dal bunker, sotterrate, erano state trovate alcune armi, tutte in pessimo stato d’uso, e precisamente un revolver calibro 3,57, una pistola semiautomatica calibro 9, due pistole semiautomatiche cal. 7,65, due revolver calibro 38, un fucile mitragliatore calibro 9 Parabellum di fabbricazione artigianale, un tubo silenziatore per pistola semiautomatica calibro 7,65, due caricatori per fucile, mitragliatori calibro 9 PB di fabbricazione artigianale, un caricatore per pistola semiautomatica calibro 7,65 monofilare, settantatré cartucce calibro 12 di varie marche e tipo. Peraltro, il teste SAVINA ha precisato che i depositi ben più consistenti di armi su cui poteva contare il mandamento di San Giuseppe Iato insieme a quello di Corleone erano già stati fatti ritrovare dal MONTICCIOLO, “uomo d’onore” di San Giuseppe Iato, che aveva preceduto il BRUSCA nella scelta collaborativa. In quello stesso deposito erano stati ritrovati alcuni pezzi del telecomando che il BRUSCA riconobbe aver impiegato per la strage di Capaci, nonché i due pezzi, ricevente e trasmittente, di altro telecomando che doveva essere utilizzato per un attentato al magistrato Pietro GRASSO da compiersi a Monreale, telecomando questo che era stato fornito al BRUSCA dagli alleati della “famiglia” di Catania dopo la strage di Capaci e che poi egli aveva consegnato al BIONDINO per alcuni giorni per consentirne la modificazione.
Il BRUSCA aveva, altresì, rappresentato agli inquirenti che due bazooka o lanciamissili erano stati nella disponibilità del suo mandamento e che erano poi stati ceduti uno alla “famiglia” mafiosa di Castellammare e l’altro a quella di Misilmeri, condotta da LO BIANCO Pietro, successivamente ucciso, che era entrato in conflitto con il capomandamento di Belmonte Mezzagno SPERA Benedetto, potendo contare sull’appoggio del BRUSCA e del BAGARELLA, mentre lo SPERA era vicino alle posizioni del PROVENZANO. Il BRUSCA aveva dapprima tentato di far recuperare il bazooka nella disponibilità di Misilmeri mediante l’intervento del cognato CRISTIANO Salvatore, che avrebbe dovuto contattare persone a conoscenza del nascondiglio di quell’arma, ma tale tentativo non era riuscito, sicché successivamente il collaboratore aveva fornito altre indicazioni che avevano consentito la cattura di alcuni “uomini d’onore” di Misilmeri, uno dei quali aveva poi a sua volta fatto ritrovare quel bazooka che era stato nella disponibilità del BRUSCA e che questi aveva poi ceduto a GRAVIANO Giuseppe.
Sempre a questa primissima fase della collaborazione del BRUSCA risale la sua confessione di alcuni tra i più gravi delitti di mafia, come la strage di via Pipitone Federico a Palermo, in cui ebbe a perdere la vita il consigliere istruttore del locale Tribunale Rocco CHINNICI; la strage di Capaci; l’omicidio del colonnello dei Carabinieri RUSSO Giuseppe; i plurimi omicidi commessi sulla circonvallazione di Palermo, allorché erano stati uccisi FERLITO Alfio e gli uomini che stavano effettuando la sua traduzione dal carcere; l’omicidio del capitano BASILE. Ed è da evidenziare come per alcuni di quei fatti criminosi, come la strage in cui aveva perso la vita il consigliere CHINNICI, l’omicidio del Col. RUSSO ed i plurimi omicidi della circonvallazione di Palermo, non vi era alcuna accusa nei confronti del BRUSCA prima della sua confessione.
Appare, pertanto, innegabile che già in questa fase la collaborazione dell’imputato ebbe a rivelarsi preziosa non solo per la cattura di pericolosi latitanti e l’individuazione di alcuni covi – anche se l’arsenale di armi più consistente era già stato fatto trovare dal MONTICCIOLO – ma anche per l’acquisizione di elementi probatori di notevole rilievo per l’accertamento di gravi delitti. Vero è che quando il BRUSCA intraprese la sua collaborazione aveva già riportato una condanna definitiva per associazione mafiosa a circa sei anni di reclusione nell’ambito del primo maxiprocesso di Palermo; era stato condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Ignazio Salvo; gli erano state notificate delle ordinanze di custodia in carcere per la strage di Capaci e per altri delitti, sempre più numerosi a seguito della collaborazione di nuovi soggetti, ma non può revocarsi in dubbio che egli, a differenza di altri che intrapresero la sua stessa strada e che erano gravati da accuse non meno gravi – e valga per tutti l’esempio del CANCEMI, di cui si dirà specificamente in seguito – non ebbe sin dall’inizio alcuna remora non solo ad ammettere le sue responsabilità per i gravi delitti di cui era già accusato, senza alcun tentativo di ridimensionare il proprio ruolo, ma anche a confessarne degli altri non meno gravi, che se pure non potevano modificare in misura sostanziale il suo complessivo trattamento sanzionatorio tuttavia davano una dimensione sempre più compiuta ed allarmante della sua enorme capacità criminale. Ma se questa piena ammissione delle sue penali responsabilità costituisce un’indubbia importante caratteristica positiva della collaborazione intrapresa dal BRUSCA non possono sottacersi le tare che affliggevano tale scelta.
Non si intende qui far riferimento alle dichiarazioni del SIINO, che all’udienza del 13 marzo 1999 ha dichiarato che il CRISTIANO, cognato del BRUSCA e COSTANZA Franco, recatisi a casa sua perché incaricati dal BRUSCA di recuperare alcune armi, gli avevano detto di avvisare persone vicine al PROVENZANO che gli inquirenti erano ormai sulle tracce di quest’ultimo. Tale avvertimento, infatti, anche ad ammettere, pur in assenza di riscontri, che sia stato effettivamente dato al SIINO, ben difficilmente può ascriversi ad un’iniziativa del BRUSCA, atteso che questi aveva parlato direttamente con il solo cognato e tra le indicazioni fornitegli non vi era stata quella di recarsi a casa del SIINO, avendo in proposito il CRISTIANO riferito che era stato il COSTANZA ad assumere tale decisione e che inoltre quest’ultimo si era appartato a parlare con il SIINO per alcuni minuti. Ben poteva, quindi, il COSTANZA, che in questo dibattimento si è avvalso della facoltà di non rispondere, aver dato al SIINO di sua iniziativa quell’avvertimento, la cui utilità era peraltro assai dubbia, essendo ormai di pubblico dominio, come riferito dallo stesso SIINO, che il BRUSCA aveva deciso di collaborare e poteva, quindi, anche fornire le informazioni in suo possesso anche sui rifugi del PROVENZANO e sui contatti dello stesso. Ma anche sotto altro profilo appare inverosimile che sia stato proprio il BRUSCA a volere che il PROVENZANO fosse avvisato dal SIINO dei rischi che correva per la sua latitanza, avuto riguardo al fatto, di cui anche quest’ultimo collaborante ha fatto menzione, che tra il BRUSCA ed il PROVENZANO i rapporti erano tutt’altro che buoni ed i due, dopo l’arresto del RIINA, avevano visioni profondamente diverse, come si dirà meglio in seguito, sulla strategia che avrebbe dovuto adottare COSA NOSTRA dopo la reazione dello Stato alle stragi del 1992 e del 1993. Tra l’altro questa diversità di vedute si era presto concretizzata nella formazione di due schieramenti che in modo non troppo larvato si contrapponevano, sicché da una parte militavano il BRUSCA ed il BAGARELLA, dall’altra GRECO, AGLIERI, SPERA e lo stesso PROVENZANO, che pure formalmente cercava di mediare tra le due fazioni, anche se era manifesta la sua propensione per tale secondo schieramento. E proprio questa notazione consente di meglio comprendere il fattore inquinante che contraddistingue la prima fase della collaborazione del BRUSCA, e cioè la sua faziosità, la sua netta propensione per un determinato gruppo di COSA NOSTRA, che l’imputato si è portato dietro come un ingombrante fardello anche dopo l’inizio della sua collaborazione. Lo stesso BRUSCA ha, infatti, ammesso di non aver subito fornito agli inquirenti le notizie in suo possesso per addivenire alla cattura di VITALE Vito, additato anche dal collaboratore di giustizia DI RAIMONDO Natale come colui che guidava lo schieramento più oltranzista di COSA NOSTRA dopo la cattura del BRUSCA e di BAGARELLA e che in armi stava cercando di eliminare gli avversari e di immettere in tutte le articolazioni territoriali di COSA NOSTRA, anche fuori della provincia di Palermo, persone di sua fiducia. Il teste SAVINA ha riferito che il BRUSCA, mentre non aveva esitato sin dai primi colloqui investigativi a dare le informazioni utili per la cattura di AGLIERI, GRECO e PROVENZANO, non casualmente personaggi dello schieramento opposto – e questo prima ancora di avere contatti con l’Autorità giudiziaria, ben consapevole che ogni ritardo avrebbe rischiato di vanificare quelle informazioni, consentendo ai latitanti di modificare i propri contatti – riguardo al VITALE si era, invece, limitato a mostrarsi possibilista, asserendo che avrebbe cercato di richiamare alla mente quei dati che avrebbero potuto essere utili alla ricerca, così in realtà consentendo al VITALE – con il quale egli doveva invece aver mantenuto i contatti più stretti sino alla cattura e di cui quindi gli sarebbe stato più facile indicare i rifugi ed i contatti – di rimanere operativo nell’ambito di COSA NOSTRA. E sempre nella stessa ottica di faziosità si inscrive il tentativo del BRUSCA di mantenere defilata la posizione del VITALE e di DI PIAZZA Francesco, occultandone le responsabilità penali, fino al punto di attribuire al fratello Enzo, con l’accordo di quest’ultimo, con il quale aveva avuto contatti nel carcere dell’Ucciardone nell’agosto del 1996 – durante i colloqui investigativi il BRUSCA, infatti, con il consenso degli investigatori era rimasto nelle strutture carcerarie ordinarie – la responsabilità per alcuni delitti commessi da quei due soggetti, pur consapevole del fatto che altri collaboratori come il MONTICCIOLO ed il CHIODO li accusavano per gli stessi fatti (cfr. dich. del BRUSCA del 23.1.1999). Al riguardo occorre ulteriormente sottolineare che tali motivazioni interne del BRUSCA hanno inciso negativamente sulle sue dichiarazioni sia sotto il profilo della copertura apprestata a personaggi di COSA NOSTRA a lui vicini e non troppo compromessi da altre indagini, sia sotto quello delle false accuse che sono state mosse ad altre persone, ma in quest’ultimo caso il mendacio appare chiaramente circoscritto all’accusa nei confronti di se stesso o dei più stretti congiunti, previo loro consenso. Nel perseguire tali finalità il BRUSCA non si è troppo preoccupato di creare contrasti con altri collaboratori, come nel caso già riferito del MONTICCIOLO e del CHIODO, o come si è verificato nell’ambito del processo per la strage di Capaci, allorché il BRUSCA ha consapevolmente creato dei contrasti con le dichiarazioni rese da DI MATTEO Mario Santo in ordine alla fornitura di esplosivo da parte del consociato AGRIGENTO Giuseppe, affermata dal primo e da lui falsamente negata. Al riguardo il BRUSCA ha ammesso anche nel corso di quel processo, e lo ha ribadito nell’ambito del presente giudizio, di aver mentito per creare un’occasione di confronto processuale con DI MAGGIO Baldassare – altro collaboratore della stessa “famiglia” mafiosa di origine, e quindi in grado di fornire indicazioni sullo AGRIGENTO – al fine di poter contestare allo stesso alcune sue false o reticenti affermazioni. Altro dato caratterizzante la faziosità della collaborazione del BRUSCA in tale fase è stato, infatti, il suo forte risentimento nei confronti del DI MAGGIO, da lui giustificato oltre che da ragioni personali pregresse anche dal fatto che egli aveva consapevolezza che quest’ultimo, con la complicità degli altri collaboranti DI MATTEO e LA BARBERA Gioacchino stava organizzando un gruppo di uomini armati che si prefiggevano l’eliminazione nel territorio di San Giuseppe Iato delle persone più vicine al BRUSCA. Al riguardo occorre rilevare che recenti iniziative giudiziarie hanno dimostrato la non infondatezza dei sospetti del BRUSCA – che non erano stati invece ritenuti in un primo momento fondati dagli inquirenti – almeno nei confronti di alcune delle persone da lui accusate di perseguire tale finalità e non v’è dubbio che tale preoccupazione abbia condizionato negativamente l’imputato, inducendolo da un lato a screditare tali collaboranti ove era possibile, onde provocare una revoca del loro programma di protezione o almeno un maggior controllo dei loro movimenti, dall’altro a lasciare immuni da problemi giudiziari coloro che potevano meglio difendere le persone che i predetti cercavano di eliminare. E tuttavia la portata dell’attività criminale svolta dal VITALE e dalle persone a lui vicine nell’ambito di COSA NOSTRA era certamente ben più ampia di quella intesa a difendere i congiunti e gli amici di BRUSCA nel territorio di San Giuseppe Iato e di tale ampiezza l’imputato non poteva non essere consapevole, dato che il VITALE era uno dei suoi epigoni in tale strategia, sicché egli, nel coprirne la latitanza e le responsabilità penali, ben sapeva che gli effetti sarebbero andati molto al di là di una mera difesa dell’incolumità dei suoi amici. Se, quindi, il BRUSCA nella sua prima scelta collaborativa non perseguiva direttamente, oltre al legittimo intento di ottenere i benefici premiali, anche la finalità di incidere sui futuri equilibri interni di COSA NOSTRA – lasciando che l’attività repressiva dello Stato incidesse più energicamente sugli elementi della fazione avversa piuttosto che su alcuni di quelli, non ancora assai compromessi da iniziative giudiziarie, che erano a lui più vicini – può dirsi però che quanto meno egli aveva accettato che le simpatie e le amicizie che avevano contrassegnato la sua appartenenza alla consorteria mafiosa condizionassero anche il suo comportamento di collaborante con tutti i rischi che potevano derivarne per il prosieguo dell’attività criminale di quel sodalizio. Né d’altronde la crisi che come si è detto sopra aveva determinato la scelta collaborativa del BRUSCA poteva modificarne radicalmente il temperamento e le passioni: se il suo interesse principale era quello di tornare agli affetti familiari usufruendo dei benefici premiali e del programma di protezione ed accettando così la perdita della sua posizione di prestigio all’interno di COSA NOSTRA, che mai più avrebbe potuto recuperare, l’imputato ben difficilmente poteva anche spogliarsi del tutto ed in modo così repentino di quegli intimi legami di condivisione di obiettivi e di modalità di condotta che lo avevano sino ad allora avvinto a quel sodalizio mafioso in cui sino al momento del suo arresto svolgeva ancora un ruolo attivo, con l’impeto e la spietata determinazione che sempre hanno caratterizzato il suo operato. Tali legami hanno condizionato la sua iniziale collaborazione, ma gradatamente il BRUSCA ha mostrato di voler rivedere la sua iniziale linea di condotta e di saper ricomporre l’originaria contraddizione tra il vecchio ed il nuovo, ammettendo molti dei suoi errori, almeno nella misura in cui ne constatava l’inconciliabilità con il proprio obiettivo primario, e cioè il suo pieno accreditamento come collaboratore di giustizia. Ovviamente ciò non comporta la certezza che il BRUSCA abbia completamente superato tutte le sue contraddizioni, ma la comprensione delle spinte iniziali della sua scelta collaborativa e della complessità delle sue molteplici motivazioni, nonché della refluenza che esse hanno avuto sul contenuto delle sue dichiarazioni costituisce un utile strumento per la valutazione della loro attendibilità, consentendo di individuare le aree di maggiore affidabilità da quelle a rischio, per le quali sussiste la necessità di un rigore critico ancora maggiore per i pericoli di inquinamento sopra evidenziati. Al riguardo può in linea generale ritenersi che le dichiarazioni di BRUSCA riguardanti persone della sua stessa fazione, dal RIINA a coloro che si riconoscevano nelle sue posizioni oltranziste, siano immuni dal rischio di accuse calunniose e per converso possono ancora presentare qualche rischio di reticenza, ma solo nel caso in cui si tratti di soggetti marginalmente raggiunti dalle accuse di altri collaboranti; le propalazioni riguardanti, invece, gli appartenenti allo schieramento contrapposto, per le quali non sussiste certamente un pericolo di reticenza da parte del BRUSCA, possono comportare un residuale rischio di accusa calunniosa, almeno nell’ipotesi in cui egli possa sperare di screditare, creando un contrasto, quei collaboratori con i quali l’imputato si è sin dall’inizio posto in rotta di collisione, e cioè quelli appartenenti al suo stesso mandamento, primi tra tutti il DI MAGGIO, il DI MATTEO ed il DI CARLO. Negli altri casi, infatti, la profonda conoscenza da parte del BRUSCA del curriculum criminale di gran parte dei consociati, almeno di quelli più pericolosi, è senz’altro più che sufficiente per consentirgli di rendere dichiarazioni veritiere sulla loro attività criminale senza dover inutilmente aggravare la loro posizione con accuse mendaci che possono essere smentite e, quindi, compromettere la sua attendibilità.
Per quanto concerne poi più direttamente il reato di strage per cui è processo, deve rilevarsi che le dichiarazioni del BRUSCA attengono pressoché integralmente alla sola fase ideativa e deliberativa ed al contesto della strategia in cui tale crimine si inserisce, sicché esse si sottraggono all’area a rischio di accuse calunniose, essendo stata tale strategia principalmente promossa dalla fazione oltranzista nella quale egli militava, responsabilità questa che l’imputato ha in primo luogo ricondotto non solo al RIINA, ma anche a se stesso ed alle altre persone più vicine al boss corleonese. Deve, invece, registrarsi in questa materia un’iniziale reticenza del BRUSCA nel delineare in modo chiaro i tempi e le circostanze in cui tale strategia venne elaborata all’interno di COSA NOSTRA e dei suoi organismi di vertice, reticenza che deve evidentemente ricondursi alle remore del propalante nel rappresentare in modo netto le responsabilità di tutti coloro che operavano all’interno di questa strategia stragista nella quale egli stesso pienamente si riconosceva e nel precisarne gli obiettivi. Tali remore il BRUSCA ha però mostrato di aver superato sia nell’ambito delle udienze dibattimentali di questo processo che in quello di appello per la strage di Capaci, i cui verbali sono stati acquisiti ex art. 238 c.p.p. nei confronti degli imputati comuni, tra cui tutti i presunti componenti della commissione provinciale e regionale di COSA NOSTRA. Né può certamente sostenersi che il BRUSCA si sia in questo modo supinamente adagiato sulle dichiarazioni di altri collaboratori di giustizia, pur di poter usufruire dei benefici premiali, atteso che il livello di conoscenze sul punto manifestato dall’imputato – livello pienamente giustificato dal ruolo rivestito nel sodalizio mafioso – è stato superiore a quello di qualsiasi altro collaborante ad eccezione del CANCEMI, rispetto alle cui dichiarazioni il BRUSCA ha peraltro mostrato piena autonomia, evidenziando altresì una ricchezza e chiarezza di ricordi che possono trarre origine solo dalla diretta partecipazione ai fatti riferiti. MISTERI D’ITALIA
BUSCETTA Tommaso Emerge in particolare dalla sentenza del maxiprocesso di Palermo acquisita in atti che il BUSCETTA era entrato in COSA NOSTRA alla fine degli anni ’40 come “uomo d’onore” della “famiglia” di Porta Nuova e che il prestigio sostanziale di cui godeva presso i vertici dell’associazione criminosa del tempo ed il suo conseguente coinvolgimento nell’elaborazione delle linee organizzative e strategiche del gruppo erano indubbiamente superiori al livello della carica formalmente ricoperta. Il BUSCETTA era rimasto detenuto, sia pure con alterne vicende, dal 1972 al 1980, allorché aveva violato gli obblighi della semilibertà allontanandosi da Milano per raggiungere Palermo, nel tentativo di mediare i contrasti che in modo sempre più palese contrapponevano la fazione dei corleonesi a quella del gruppo che aveva i suoi più autorevoli esponenti in BONTATE Stefano e INZERILLO Salvatore, contrasti che attraversavano dall’interno le varie “famiglie” mafiose anziché contrapporre le une alle altre. Si era allontanato dalla Sicilia per raggiungere il Brasile, avendone percepito l’ineluttabilità, alla vigilia della seconda “guerra di mafia”, esplosa in modo virulento nell’aprile del 1981 con l’omicidio del BONTATE. Aveva mantenuto, peraltro, contatti non ufficiali con esponenti di COSA NOSTRA della corrente anticorleonese, ai quali era personalmente legato, come BADALAMENTI Gaetano – che aveva assunto la carica di componente del triumvirato che aveva retto COSA NOSTRA dagli inizi degli anni ’70 sino alla ricostituzione della Commissione Provinciale di Palermo, di cui aveva preso per qualche tempo la direzione sino alla sua espulsione da COSA NOSTRA, decretata su pressione del RIINA nel 1978 – e SALAMONE Antonino, capomandamento di San Giuseppe Iato ormai esautorato dal RIINA, che gli aveva preferito BRUSCA Bernardo, per lui molto più affidabile. Iniziò a collaborare con l’A.G. nell’estate del 1984, dopo che già alcuni suoi familiari estranei alle vicende mafiose erano stati uccisi nell’ambito di quella sistematica attività di sterminio che i corleonesi stavano attuando per fare terra bruciata intorno a coloro che più o meno fondatamente sospettavano poter essere coinvolti nei programmi di riscossa che ancora alcuni esponenti della fazione perdente e lo stesso BADALAMENTI nutrivano.
Benché portatore di una visione manichea delle vicende mafiose, che contrapponeva le ragioni di una “mafia buona”, quella dei perdenti, custodi dei valori positivi originari di COSA NOSTRA tramandati dalla tradizione, a quelle di una “mafia cattiva”, impersonata dai corleonesi, assetati di sangue e di ricchezza e corruttori dei valori autentici del sodalizio mafioso, il BUSCETTA ha fornito un contributo fondamentale per la comprensione del fenomeno mafioso e delle sue dinamiche interne e la sua attendibilità, specie con riferimento alla struttura organizzativa di COSA NOSTRA, ha trovato pieno riconoscimento in numerose sentenze della Suprema Corte di Cassazione, tra cui quella del 30 gennaio 1992, n. 80, nell’ambito del primo maxiprocesso di Palermo.
Il percorso collaborativo del BUSCETTA si differenzia di quello di numerosi altri collaboratori di giustizia perché intervenuto dopo un lungo periodo di allontanamento da COSA NOSTRA, durante il quale il dichiarante aveva avuto modo di riflettere con l’adeguato distacco che solo il tempo consente sul significato della propria esperienza criminale e di maturare quindi un diverso sistema di valori al quale riferirsi. Ciò costituisce probabilmente la ragione principale per cui la scelta del BUSCETTA è stata meno travagliata da interne contraddizioni e si è svolta secondo un percorso lineare, in cui alcune reticenze sono state sin dall’inizio ammesse dallo stesso collaborante e spiegate agli inquirenti, non essendo da ricollegarsi ad atteggiamenti di favore nei confronti di alcuno. Se di “faziosità” può parlarsi per il BUSCETTA, ciò può farsi solo attribuendo al termine una portata diversa da quella valida, invece, per la collaborazione, almeno iniziale, del BRUSCA, in quanto il gruppo ed i personaggi ai quali vanno tutte le simpatie del BUSCETTA erano ormai scomparsi da tempo e vengono da lui mitizzati nel rimpianto di un mondo scomparso, mentre lo schieramento e gli obiettivi ai quali il BRUSCA è in qualche modo ancorato all’inizio della sua collaborazione – al di là di qualsiasi oggettivo giudizio di valore che per tali efferate realtà criminali non può che essere assolutamente negativo – sono ancora pienamente operanti ed in lotta per l’egemonia, sicché il favore che l’imputato ancora manifestava nei loro confronti assume anche al di là delle effettive intenzioni un significato diverso, di intervento, sia pure indiretto, sugli equilibri interni della consorteria criminale.
In questo processo le dichiarazioni rese dal BUSCETTA all’udienza del 19 e 20 settembre 1996 nell’ambito del giudizio di primo grado per la strage di Capaci sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. nei confronti di tutti gli imputati comuni ed appaiono valide per acquisire, unitamente alle altre fonti probatorie di epoca più recente, una dimensione conoscitiva storica e quindi concreta della realtà in cui operano le regole di funzionamento di COSA NOSTRA ed i meccanismi di formazione del consenso, onde sottrarsi al rischio di costruzioni astratte, sulla base di teoremi, sui quali non può fondarsi alcuna decisione in sede giudiziaria. MISTERI D’ITALIA
CALDERONE AntoninoInserito in COSA NOSTRA sin dagli inizi degli anni Sessanta, aveva rivestito la carica di vice rappresentante della “famiglia” di Catania dal 1972 al 1977, periodo in cui detta organizzazione aveva il suo “leader” indiscusso nel fratello CALDERONE Giuseppe, ucciso poi nel settembre del 1978 perché legato alla fazione anticorleonese e soppiantato, quindi, nella direzione del clan da SANTAPAOLA Benedetto, vicino al RIINA.
Dopo la morte del fratello, che aveva anche ricoperto dal 1975 al 1977 la carica di coordinatore della Commissione Regionale – costituita nel 1975 tra i vari rappresentanti delle Province nelle quali esistevano “famiglie” di COSA NOSTRA per trattare le questioni di interesse comune – il CALDERONE era rimasto alcuni anni a Catania, prima di allontanarsene nel 1983, consapevole dei rischi personali che correva per i suoi rapporti di parentela con il boss ucciso.
Tratto in arresto a Nizza il 9 maggio del 1986, nel dicembre di quell’anno iniziava a collaborare con l’A.G. italiana, fornendo nel primo maxiprocesso di Palermo dati di conoscenza assai utili sulle modalità organizzative delle “famiglie” e delle “province”, nonché sulle dinamiche interne di COSA NOSTRA nel periodo in cui era latente il conflitto tra i corleonesi e la fazione opposta.
Data la carica ricoperta e la vicinanza al fratello Giuseppe, le predette dichiarazioni provengono da fonte particolarmente qualificata e direttamente informata dei fatti, almeno sino al 1978 e l’attendibilità del collaborante è stata sul punto pienamente accertata da varie sentenze della S.C. di Cassazione, tra cui quella già ricordata del 30.1.1992. MISTERI D’ITALIA
CALVARUSO Antonino Svolgeva il compito di amministratore presso il Villaggio turistico Euromare, di cui risultava proprietario CANNELLA Tullio per conto dei fratelli GRAVIANO, allorché su richiesta di questi ultimi venne ospitato nell’estate del 1993 in un villino di quel complesso un latitante di grosso spessore criminale, che successivamente il CALVARUSO seppe essere BAGARELLA Leoluca. Dopo breve tempo egli si occupò di fare da vivandiere al latitante e di accompagnarlo con l’auto quando questi si incontrava con terzi. Dapprima ebbe a svolgere in modo saltuario tale compito di autista, ma sul finire dell’estate e gli inizi dell’inverno del 1993, essendosi defilato colui che prima svolgeva le funzioni di autista del BAGARELLA, e cioè tale DE FILIPPO Serafino, cognato del CANNELLA, su richiesta di quest’ultimo il CALVARUSO svolse stabilmente questo ruolo. Finì così per diventare una persona di fiducia del BAGARELLA, essendo l’unico a conoscere il luogo in cui questi si nascondeva, oltre al CANNELLA. Il BAGARELLA lo affiliò così a COSA NOSTRA, spiegandogli che per evitare le propalazioni dei collaboratori di giustizia era stato soppresso il rito formale di iniziazione, sostituito dalla semplice presentazione, anche se il CALVARUSO non era certo che tali modalità di affiliazione adottate nei suoi confronti dal BAGARELLA non dipendessero dalla volontà di limitarne la conoscenza ad altri per proteggere la sua latitanza. Successivamente il BAGARELLA era stato ospitato in un appartamento sito a Palermo in via Malaspina ed egli aveva continuato a seguirlo, svolgendo le funzioni di autista, di messaggero di sue comunicazioni ad altri consociati, nonché di filtro per gli appuntamenti che il latitante prendeva. Tratto in arresto il 24.6.1995 insieme al BAGARELLA, che era appena uscito dal suo negozio, vennero contestati al CALVARUSO prima il reato di favoreggiamento, poi quello di partecipazione ad associazione mafiosa e verso la fine del 1995 anche un duplice omicidio dei coniugi SAPORITO commesso a Corleone, delitto quest’ultimo al quale egli era estraneo.
Il CALVARUSO iniziò a collaborare nel gennaio del 1996, per sottrarre se stesso ed i figli all’ambiente criminale nel quale egli era ormai pienamente inserito e nel quale presto si sarebbe trovato invischiato anche il proprio figlio. Confessò, quindi, spontaneamente i vari omicidi ai quali aveva preso parte e per i quali nessuna accusa vi era ancora a suo carico, nonché altri reati in materia di armi e di traffico di sostanze stupefacenti.
La collaborazione del CALVARUSO è apparsa adeguata al ruolo dallo stesso ricoperto nel corso degli anni 1994-1995 ed utile per la comprensione dei rapporti tra i personaggi di maggior rilievo di COSA NOSTRA dopo le stragi del 1992, nonché del ruolo rivestito da GRAVIANO Filippo all’interno della consorteria mafiosa. MISTERI D’ITALIA
CANCEMI Salvatore Era inserito dal 1976 nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Porta Nuova, prima come “uomo d’onore”, poi intorno al 1982 come capodecina. Successivamente era divenuto il vice di CALO’ Giuseppe, che sostituiva durante le frequenti assenze di quest’ultimo da Palermo intorno al 1983 e, infine, dal 1985, epoca dell’arresto di CALO’ Giuseppe e di numerosi altri esponenti di rilievo di quel mandamento a seguito delle propalazioni di BUSCETTA Tommaso e di altri collaboratori di giustizia, aveva svolto il ruolo di sostituto nella direzione del mandamento e di componente della commissione provinciale di Palermo.
Assai vicino a GANCI Raffaele, capomandamento della Noce, territorio limitrofo a quello da lui controllato, il CANCEMI ebbe a partecipare con questi all’esecuzione di numerosi dei più gravi delitti posti in essere da COSA NOSTRA, tra cui le stragi del 1992.
Il 22 luglio del 1993 si costituì presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Piazza Verde a Palermo ed iniziò a collaborare con l’A.G., spiegando che le ragioni della sua scelta erano legate principalmente alla volontà di non condividere ulteriormente le strategie delittuose progettate dal RIINA.
Ma per poter valutare l’attendibilità del CANCEMI appare necessario esaminare sotto un profilo cronologico l’evoluzione delle dichiarazioni rese innanzi tutto sui temi generali delle ragioni della sua scelta collaborativa e del ruolo e delle attività svolte all’interno di COSA NOSTRA. Particolarmente evidente appare, infatti, nel caso del CANCEMI la presenza di numerose riserve e reticenze che caratterizzano la sua collaborazione e che devono essere compiutamente analizzate per comprenderne le motivazioni e, quindi, l’effetto inquinante che esse hanno esercitato sulle sue dichiarazioni. A tal uopo assumono, pertanto, notevole rilievo le dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento mediante lo strumento delle contestazioni, nonché quelle acquisite ai sensi dell’art. 238 del codice di rito.
Dalle prime dichiarazioni rese dal CANCEMI in data 22 luglio 1993 risulta che egli aveva manifestato il timore di essere ucciso dal PROVENZANO, con il quale avrebbe dovuto incontrarsi il giorno in cui si costituì all’A.G., perché aveva dissentito dal suo progetto di uccidere il Capitano dei Carabinieri “Ultimo”, autore dell’arresto del RIINA. A fronte di tale contestazione, mossagli dall’Avv. LA BLASCA all’udienza del 24 giugno 1999, il CANCEMI ha risposto che tale dichiarazione era frutto di un equivoco derivante da una sua non chiara esposizione dei fatti o comunque da incomprensione da parte dei verbalizzanti, non avendo egli mai temuto che il PROVENZANO potesse avere intenzione di ucciderlo. Peraltro, quel verbale non risulta l’unico nel quale il CANCEMI ebbe a far riferimento a delle apprensioni in ordine alla propria incolumità dopo aver saputo dell’appuntamento fissatogli dal PROVENZANO. Ancora nel corso dell’udienza dibattimentale del 19 aprile 1996 del giudizio di primo grado per la strage di Capaci, il CANCEMI, infatti, pur evidenziando che altre erano le principali motivazioni della sua scelta collaborativa, aveva asserito che lo avevano aiutato a prendere quella decisione, dandogli un’ulteriore spinta, anche le parole di avvertimento che un giorno gli aveva detto GANCI Raffaele, sconsigliandogli di recarsi ad appuntamenti che potessero essergli fissati dal PROVENZANO: “se ti manda ad un appuntamento non andare in nessun posto” erano state, secondo il CANCEMI, le parole del GANCI, anche se egli ha aggiunto che queste parole non erano state “ un segnale forte che ci poteva essere un male per me”. In questa occasione, tuttavia, il CANCEMI non forniva alcuna indicazione in ordine ai motivi per cui avrebbe dovuto correre tali rischi ed alle domande specifiche che gli sono state rivolte in proposito ha negato di aver mai nutrito timori per la propria incolumità. Quando poi un difensore gli ha contestato all’udienza del 18 settembre 1996 del processo per la strage di Capaci le dichiarazioni dallo stesso rese al Procuratore della Repubblica di Caltanissetta in data 1 agosto 1996, allorché aveva riferito che egli era stato avvertito dal GANCI del fatto che gli appuntamenti che gli avrebbe fissato il PROVENZANO potevano nascondere una volontà omicidiaria nei suoi confronti e che la comunicazione fattagli di un incontro col PROVENZANO per il 22 luglio 1993 costituiva uno dei motivi della sua presentazione presso la Caserma dei
Carabinieri, il CANCEMI ha risposto che anche in quell’occasione si era espresso male o che comunque il suo pensiero era stato mal interpretato.
Su tale argomento da parte di vari difensori sono state accreditate alcune ipotesi, secondo cui il CANCEMI avrebbe temuto che in COSA NOSTRA fosse stata decisa la sua eliminazione perché avrebbe violato alcune regole fondamentali dell’organizzazione, violazione che secondo un’ipotesi sarebbe consistita nell’appropriazione di forti somme di denaro, provenienti da attività illecite, che avrebbero dovuto, invece, essere destinate al gruppo mafioso , mentre secondo altra ipotesi avrebbe riguardato degli indebiti corteggiamenti fatti dal CANCEMI alla donna che lo ospitava in casa durante un periodo della sua latitanza. Entrambe le ipotesi non hanno però trovato in dibattimento alcuna significativa conferma, ed in particolare per quanto attiene alla seconda alcuni dei chiamanti in correità escussi sul punto, tra i quali il BRUSCA, hanno dichiarato di aver sentito circolare questa voce all’interno dell’organizzazione, ma non hanno saputo indicare alcun elemento concreto di loro diretta conoscenza sulla base del quale poterne verificare la fondatezza. In mancanza di tale necessaria verifica le ipotesi predette non possono, pertanto, essere poste a fondamento di un convincimento valido in questa fase decisionale.
Resta il fatto che non è verosimile l’indicazione del CANCEMI secondo cui sarebbero state frutto di un fraintendimento del suo pensiero le dichiarazioni risultanti dai verbali di interrogatorio del 22.7.1993 e dell’8.1993, tanto più che anche le dichiarazioni del collaborante all’udienza dibattimentale del processo per la strage di Capaci del 19.4.1996 summenzionata – benché il CANCEMI si sia espresso sul punto in modo contraddittorio ed ambiguo – non possono avere altra plausibile spiegazione se non quella per cui il collaborante aveva ritenuto che l’appuntamento fissatogli con il PROVENZANO potesse nascondere per lui un’insidia, altrimenti non avrebbe avuto alcun senso ricordare le parole dettegli in precedenza dal GANCI e parlare di tale episodio con riferimento alla sua decisione di collaborare. Pertanto, sul punto sono possibili solo due alternative: o il CANCEMI allorché ebbe a costituirsi ai Carabinieri ebbe a mentire su una delle ragioni di tale scelta, e cioè sul timore che nutriva per la sua sorte ed abbia poi cercato di attenuare tale mendacio senza però riuscire a superare del tutto la contraddizione con le dichiarazioni originarie, oppure tali timori sussistevano ed il collaborante non ha inteso rivelarne le ragioni. E, invero, l’indicazione fornita nel primo verbale del 22.7.1993, secondo cui egli temeva per la sua vita perché aveva osato dissentire dal progetto del PROVENZANO di uccidere il Capitano “Ultimo”, non solo non è più stata reiterata dal CANCEMI successivamente, ma appare anche inverosimile, non trovando riscontro nelle dichiarazioni rese da altri collaboranti né nella strategia che il PROVENZANO avrebbe inteso adottare dopo l’arresto del RIINA.
Se fosse vera la prima ipotesi, il mendacio sul punto del CANCEMI può essere spiegato con la necessità da parte sua di dare una spiegazione credibile della sua scelta collaborativa, non potendo egli a quell’epoca affermare che intendeva prendere le distanze dalla strategia stragista di COSA NOSTRA dal momento che ancora non aveva ammesso alcuna sua partecipazione a tale strategia, dato il basso profilo che intendeva far assumere al suo ruolo nell’organizzazione mafiosa.
In ogni caso, tali contraddizioni del CANCEMI sono intimamente collegate alla palese reticenza che ha caratterizzato le sue dichiarazioni in ordine alla propria attività criminosa.
Nel corso del suo interrogatorio del 28 agosto 1993 il CANCEMI aveva affermato, infatti, di non sapere nulla sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio ed ancora in data 23 settembre 1993, ad un mese dall’inizio dalla sua collaborazione, egli aveva negato il suo coinvolgimento in omicidi ed in reati in materia di armi o di droga, nonché la sua qualità di componente della commissione provinciale di COSA NOSTRA ed in occasione di un suo confronto con MUTOLO Gaspare in data 18 ottobre 1993 aveva ribadito di non essere un membro di quell’organismo di vertice dell’associazione, decidendosi solo il giorno successivo ad ammettere questo suo ruolo e la sua partecipazione ad una riunione del 1987 alla quale aveva preso parte anche DI MAGGIO Baldassare, che già aveva iniziato la sua collaborazione. Ma questo passo avanti non portava ad una definitiva liberazione del CANCEMI dalle sue remore nel rendere una piena confessione sulle proprie responsabilità, perché solo l’1 novembre 1993 egli confessava la partecipazione alla strage
di Capaci, dopo che gli erano state contestate quell’imputazione e le accuse a suo carico, rappresentate in primo luogo dalle rivelazioni di DI MATTEO Mario Santo, che già nell’ottobre del 1993 aveva cominciato a riferire quanto a sua conoscenza su quel crimine.
Appare, quindi, di tutta evidenza da tale scansione temporale che sino a quel momento la progressione del CANCEMI nella collaborazione e soprattutto nell’ammissione delle proprie responsabilità era legata non già ad una volontà di liberarsi dal fardello morale che le sue colpe gli procuravano, bensì dalla necessità di tener conto delle conoscenze vieppiù precise che gli inquirenti stavano acquisendo sulla base delle dichiarazioni di altri collaboratori. Né a questo punto erano finite le riserve del CANCEMI, come poteva far sperare la sua confessione il successivo 2 novembre 1993 di un omicidio in danno di tale LA FIURA. Il collaborante, infatti, pur non potendo negare nella qualità di componente della commissione provinciale la sua partecipazione alla fase deliberativa della strage di Capaci, sia pure nella forma del mancato dissenso, limitava il suo intervento nella fase esecutiva ad alcuni viaggi, nella semplice veste di accompagnatore di GANCI Raffaele, presso una villetta di Capaci utilizzata come base logistica dagli attentatori. Data la sua ammissione di responsabilità per tale strage, appariva a quel momento poco verosimile che egli potesse ancora nascondere qualcosa su altri momenti che lo avevano visto partecipare alla preparazione dell’attentato, tanto più che egli era nel frattempo comparso innanzi alla Corte di Assise che stava trattando quel delitto e si era sottoposto all’esame nel corso delle udienze del 19 e 20 aprile 1996. Ma con sorpresa gli inquirenti dovevano constatare che tale valutazione era errata, poiché dalla collaborazione intrapresa nel giugno del 1996 da GANCI Calogero emergeva il coinvolgimento del CANCEMI nella fase dell’osservazione e del pedinamento dell’auto blindata di Giovanni FALCONE allorché questa veniva prelevata dall’autista giudiziario COSTANZA dall’abitazione di Palermo del magistrato. Solo nelle udienze del settembre 1996 il CANCEMI riferiva di tale fase ed ammetteva le sue responsabilità, parlando anche per la prima volta di altra persona coinvolta nell’attentato, e cioè GALLIANO Antonino, già chiamato in causa dal GANCI e pronto a confessare la propria partecipazione a questa fase di pedinamento sin dal luglio del 1996, appena raggiunto dal provvedimento restrittivo. In proposito il CANCEMI ha negato, anche nel corso di questo processo, di essersi indotto a rendere tale confessione per l’intrapresa collaborazione da parte del GANCI e del GALLIANO, dei quali ha asserito di non aver conosciuto a quel tempo le dichiarazioni, ma se pure è vero che egli ignorava il contenuto delle loro dichiarazioni, non è verosimile che egli non sapesse della collaborazione di GANCI Calogero, che era di pubblico dominio già prima del settembre del 1996 e, quindi, egli poteva ben prospettarsi il tenore delle sue dichiarazioni. Il successivo arresto del GALLIANO non poteva poi che dargli ulteriore conferma del fatto che il GANCI aveva rivelato quanto a sua conoscenza in ordine a quella fase che egli aveva tenuto sino ad allora nascosta, non già certamente per coprire il GALLIANO, bensì per attenuare il suo coinvolgimento nella strage. Né d’altronde potrebbe spiegarsi altrimenti il silenzio serbato dal CANCEMI nelle udienze dell’aprile 1996 summenzionate, nel corso delle quali era stato ultimato l’esame del P.M. sulla fase esecutiva dell’attentato.
Questi dati obiettivi evidenziano che non solo nel confessare un reato ma anche nel rivelare la portata del suo coinvolgimento nel medesimo, il CANCEMI si è costantemente attenuto alla regola di ammettere solo ciò che era necessario per non compromettere la propria credibilità, trovandosi scavalcato e costretto a fornire acrobatiche giustificazioni ogni volta che i suoi calcoli venivano smentiti dal sopraggiungere di ulteriori collaborazioni.
E che la confessione da parte del CANCEMI di un suo coinvolgimento in un delitto non fornisca alcuna certezza in ordine alla completa rivelazione di ogni elemento a sua conoscenza su quel fatto, laddove ciò possa comportare un aggravamento del suo ruolo nel reato, trova piena conferma nelle reticenze manifestate dal collaborante nel corso del giudizio di Capaci sulle varie riunioni cui egli ebbe a prendere parte per elaborare la strategia stragista, nonché sul ruolo da lui avuto in tale fase, ruolo che non fu di mero assenso tacito bensì di proposizione di nuovi obiettivi da colpire nell’ambito di quella strategia, come si evidenzierà più specificamente nella parte dedicata alla trattazione della fase deliberativa della strage per cui è processo.
Ancor più lungo è stato poi per il CANCEMI il periodo in cui lo stesso ha negato ogni sua responsabilità in ordine alla strage di via D’Amelio. E, infatti, anche dopo le sue parziali ammissioni in ordine al coinvolgimento nella strage di Capaci, il collaborante ha continuato a protestarsi innocente per la strage che costituisce oggetto del presente giudizio, fornendo indicazioni su alcuni dei responsabili della medesima sulla base di confidenze asseritamente ricevute da GANCI Raffaele. E se le prime ammissioni per la strage di Capaci sono intervenute a distanza di oltre tre mesi dall’inizio della collaborazione, quelle per la strage di via D’Amelio sono successive addirittura di più tre anni rispetto a quel momento iniziale. Anche in questo caso, le parziali ammissioni di responsabilità sulla prima strage avevano dato una qualche credibilità alle reiterate proteste di innocenza del CANCEMI per la seconda, benché egli fosse chiamato in causa da SCARANTINO Vincenzo, e cioè da colui che aveva fornito a COSA NOSTRA l’auto rubata utilizzata per l’attentato. E, d’altra parte, se le puntuali indicazioni fornite dal DI MATTEO prima e da LA BARBERA Gioacchino poi rendevano insostenibile per il CANCEMI l’iniziale posizione difensiva in merito alla strage di Capaci, costringendolo ad arretrare su posizioni poi a lungo mantenute sino alle nuove collaborazioni di GANCI Calogero e del GALLIANO, e cioè per quasi tre anni, il CANCEMI aveva buon gioco, invece, a difendersi dalle contraddittoria ed inverosimile chiamata in correità operata nei suoi confronti dallo SCARANTINO, che il CANCEMI, profondo conoscitore dei meccanismi di funzionamento di COSA NOSTRA e strenuo difensore di se stesso, ben sapeva non poter essere in grado di rivelare alcunché che potesse realmente coinvolgerlo in quella strage. E proprio la ben differente qualità delle acquisizioni probatorie operate dagli inquirenti sulle fasi delle due stragi che vedevano un suo coinvolgimento spiega chiaramente la differente durata del silenzio mantenuto dal CANCEMI sulle proprie responsabilità. La diversa giustificazione al riguardo fornita dal collaborante – secondo cui egli avrebbe continuato a negare le proprie responsabilità nella strage di via D’Amelio anche dopo le ammissioni riguardanti la strage di Capaci sia per il profondo travaglio che gli provocava la nuova strada intrapresa ed i sensi di colpa e di vergogna che ormai provava per le attività criminali svolte sia perché aveva delle esitazioni a parlare di una strage in cui avvertiva che le motivazioni andavano oltre le finalità di COSA NOSTRA – appare palesemente falsa ed ispirata dall’intento di nascondere il programma costantemente perseguito dal CANCEMI di conseguire i maggiori benefici premiali con il minor danno per la propria posizione processuale. E, invero, per quanto attiene al primo profilo della sua giustificazione, non può essere casuale che il CANCEMI abbia sempre trovato la forza per superare le proprie esitazioni ed i sensi di colpa e di vergogna solo in occasione degli apporti conoscitivi che erano in grado di fornire nuovi collaboranti. Ciò si è verificato, come si è detto, in due momenti diversi in relazione alla strage di Capaci ed è accaduto anche per la strage di via D’Amelio, atteso che le prime dichiarazioni confessorie al riguardo sono risalenti ad un periodo del 1996 successivo alle collaborazioni di FERRANTE Giovanbattista e BRUSCA Giovanni, che con ben altra efficacia probatoria rispetto allo SCARANTINO potevano chiamarlo in correità, come in effetti fecero. E, d’altra parte, se realmente i sensi di colpa e vergogna per i crimini perpetrati affliggevano il CANCEMI e ne condizionavano la collaborazione, non si comprende come egli potesse liberarsene, anziché aggravarli, mediante la scelta di accusare i complici e tenere, invece, indenne da responsabilità il più possibile se stesso, se è vero che il sincero ravvedimento si accompagna sempre ad una leale ammissione delle proprie colpe e non solo di quelle di altri, ammissione tanto più piena ed incondizionata quanto maggiore è l’afflizione che si prova. Se, invece, si deve ammettere – come appare evidente – che il travaglio interiore che lo stesso CANCEMI ha detto aver contrassegnato la sua collaborazione nulla aveva a che vedere con il pentimento per i crimini commessi, allora esso non è altro che la conseguenza dell’intima contraddizione del collaborante tra il suo desiderio di superare nel modo più indolore possibile le conseguenze giudiziarie del suo operato criminale e la necessità di dover progressivamente accusare se stesso in modo sempre più pesante via via che aumentavano le persone in grado di svelare l’effettiva portata delle sue attività. Se quando il CANCEMI iniziò a collaborare nel luglio nel 1993 – staccandosi per sempre da un’associazione criminale che egli riteneva aver sbagliato i suoi calcoli ed essere avviata quindi a pagare pesantemente con i suoi personaggi di vertice delle conseguenze giudiziarie che egli non era disponibile ad accettare – poteva ancora sperare di mantenere circoscritto il ruolo e l’attività svolta all’interno dell’organizzazione, poiché gli unici collaboranti all’epoca in grado di rivelare la sua qualità di componente della commissione provinciale erano MARCHESE Giuseppe e MUTOLO Gaspare, portatori però di conoscenze non attuali sulle vicende associative ed ignari della strategia stragista e dei delitti che l’avevano concretizzata, le successive scelte collaborative costrinsero il CANCEMI a dei ripiegamenti, questi sì veramente sofferti, dal ruolo defilato che egli aveva inizialmente sperato di ritagliare per se stesso.
Per quanto poi attiene al secondo profilo, e cioè alle remore del CANCEMI a parlare di una strage che riteneva ispirata anche da motivazioni esterne a COSA NOSTRA, si rileva in primo luogo che tale circostanza non spiegherebbe le reticenze del CANCEMI in altri casi, come ad esempio nel rendere ampia confessione per la strage di Capaci, quanto meno per la fase esecutiva del pedinamento. Ma inoltre questa giustificazione appare chiaramente smentita dal fatto che il collaborante, prima ancora di confessare la sua partecipazione alla strage per cui è processo, aveva già indicato delle circostanze che avrebbe dovuto tacere se questa fosse stata l’effettiva motivazione del suo riserbo. Egli, infatti, già in relazione alla strage di Capaci aveva dichiarato di aver appreso da GANCI Raffaele, mentre si recava in auto con lui presso la villetta di Capaci, che il RIINA aveva incontrato “persone importanti” che egli comprese esse esterne a COSA NOSTRA, dal momento che in quell’organizzazione nessuno aveva un’importanza pari a quella del RIINA stesso, ritraendone così la convinzione che persone estranee fossero interessate alla strage. Non era, pertanto, la remora a parlare dei contatti di COSA NOSTRA con ambienti esterni che condizionava le dichiarazioni del CANCEMI, che appare invece unicamente interessato a ridimensionare il suo ruolo e preoccupato di coprire le altrui responsabilità solo nella misura in cui può altrimenti derivarne un aggravamento della sua posizione processuale.
Deve, tuttavia, evidenziarsi che anche le dichiarazioni inizialmente rese dal CANCEMI in ordine ai fatti per cui è processo ed a quelli comunque ascrivibili alla medesima strategia stragista non hanno trovato nelle propalazioni dei successivi collaboranti delle smentite per eccesso ma semmai per difetto e se alcune sue chiamate in correità, come quelle nei confronti di SCIARRABBA Giusto e di SBEGLIA Salvatore per la strage di Capaci e di GALLIANO Antonino per la strage per cui è processo non hanno trovato riscontro, deve pur tuttavia evidenziarsi che non hanno neanche trovato sicura smentita. E, invece, a fronte di tali posizioni marginali, il nucleo centrale delle indicazioni originariamente fornite dal CANCEMI su questi episodi ha trovato significative ed inequivocabili conferme, salvo a riscontrarne semmai delle lacune, che però non inficiano la portata probatoria delle dichiarazioni rese. Ed anche laddove le indicazioni del CANCEMI sono state rese dopo quelle di altri collaboranti, esse hanno sempre avuto un’indiscutibile autonomia, poiché la diretta e profonda conoscenza dei fatti riferiti, derivantegli dalla sua accertata posizione di vertice nel sodalizio mafioso, gli ha consentito di riferire dettagli e prospettare motivazioni che non possono attribuirsi ad una supina adesione alle altrui dichiarazioni né tanto meno ad intenti calunniatori o a sentimenti di rivalsa nei confronti di alcuno.
Pertanto, una volta individuato il solo fattore inquinante della collaborazione del CANCEMI nella predetta volontà di esasperata autoprotezione e così spiegata l’indubbia progressione accusatoria delle sue dichiarazioni, ben possono le medesime essere utilizzate – secondo i criteri giurisprudenziali summenzionati – per la ricostruzione della fase deliberativa ed esecutiva della strage per cui è processo, salvo la necessità di adeguati riscontri individualizzanti.
Il più analitico esame che verrà effettuato delle medesime dichiarazioni nelle sedi specifiche evidenzia l’ulteriore persistenza di elementi di reticenza addebitabili al suo atteggiamento riduttivo ad oltranza delle proprie responsabilità, con le inevitabili conseguenze che ciò ha comportato indirettamente per l’accertamento delle responsabilità anche di altre persone coinvolte nella fase esecutiva della strage – e ciò ha refluenza sul trattamento sanzionatorio del CANCEMI – ma conferma l’attendibilità delle sue chiamate in correità nei confronti degli imputati per cui è processo. MISTERI D’ITALIA
CANNELLA TullioIl CANNELLA nell’udienza del 28 aprile 1999 si è avvalso della facoltà di non rispondere, sicché gli sono state contestate ex art. 513 c.p.p. le dichiarazioni rese all’udienza del 17 ottobre 1997 nell’ambito del c.d. processo via D’Amelio bis nei confronti di RIINA Salvatore + 15, nonché quelle rese in sede di interrogatorio al P.M. in data 28 maggio 1997, 23 luglio 1997 e 18 febbraio1998.
Pur non essendo mai stato ritualmente affiliato a COSA NOSTRA, il CANNELLA aveva avuto rapporti con eminenti personaggi di questa consorteria mafiosa sin da quando, ancora giovane, aveva iniziato a frequentare la sezione della Democrazia Cristiana del quartiere di Brancaccio- Ciaculli nel quale viveva. In tale sezione aveva ricoperto la carica di vice-segretario ed aveva anche partecipato con successo alle elezioni dei rappresentanti del consiglio di quartiere di Brancaccio. A quel tempo risale, quindi, la sua conoscenza con Salvatore e Michele GRECO; Pino DI MAGGIO, rappresentante della “famiglia” di Brancaccio, sino a quando non venne ucciso nella “guerra di mafia; GRECO Giuseppe inteso “scarpa”. Proprio per conto di quest’ultimo il CANNELLA aveva accettato di intestarsi fittiziamente dei beni immobili che appartenevano al GRECO ed a GRAVIANO Michele, padre dei fratelli Benedetto, Filippo e Giuseppe, ma di cui risultava all’epoca prestanome l’imprenditore SANSEVERINO Domenico, che però a seguito delle dichiarazioni di CONTORNO Salvatore a partire dal 1984 era stato sottoposto a misure di prevenzione di carattere patrimoniale. Da qui l’intensificarsi dei suoi rapporti con Pino GRECO sino al luglio del 1985, allorché a quest’ultimo subentrarono in sua vece i fratelli GRAVIANO. Ai predetti, all’epoca latitanti, egli aveva prestato ospitalità presso il Villaggio EUROMARE di Campofelice di Roccella, che egli aveva in costruzione nello svolgimento della sua attività di imprenditore, nonché presso un appartamento sito in Palermo, intestato ad una sua società. Con i GRAVIANO – dalla cui amicizia e “protezione” il CANNELLA aveva ritratto indubbi vantaggi perché ciò gli consentiva di ottenere congrue dilazioni nel pagamento delle forniture del materiale occorrente per la sua attività di costruttore – i rapporti avevano poi conosciuto dei momenti di grave tensione, in quanto gli stessi – che secondo l’opinione del CANNELLA erano stati tratti in inganno dal GRECO e dal SANSEVERINO – ritenevano di accampare nei suoi confronti esose pretese economiche per la cointeressenza nelle attività che egli si era fittiziamente intestato e tali richieste avevano assunto quasi il carattere di un’estorsione, rendendo particolarmente drammatica la situazione del futuro collaborante, sino a quando lo stesso non aveva trovato la protezione di BAGARELLA Leoluca, che a partire dal maggio-giugno 1993 egli aveva ospitato da latitante nel predetto Villaggio EUROMARE. Da allora era iniziato con il BAGARELLA un rapporto di frequentazione che, a detta del collaborante, lo aveva portato a raccoglierne alcune delicate confidenze in ordine alla strategia da questi perseguita per instaurare nuovi rapporti con esponenti del mondo politico. Tali confidenze sono state spiegate dal CANNELLA con l’incarico che il BAGARELLA gli aveva affidato, in quanto persona incensurata ed appartenente al settore imprenditoriale, di organizzare negli ultimi mesi del 1993 la formazione di un movimento politico indipendentista denominato SICILIA LIBERA, di cui egli era stato promotore a Palermo con finanziamenti fornitigli anche dal BAGARELLA e che doveva costituire l’interfaccia presentabile di COSA NOSTRA nei rapporti con gli esponenti politici nazionali, dai quali l’organizzazione mafiosa intendeva ottenere un sensibile allentamento dell’attività di contrasto alla mafia ed una modifica in senso favorevole delle misure legislative ed amministrative vigenti. Nello svolgimento di tale attività egli aveva preso contatti anche con personaggi di COSA NOSTRA del Trapanese e del Catanese, per promuovere anche in questi centri la formazione di quel movimento politico e la scelta di persone da proporre come candidate alle competizioni elettorali. L’impegno in questo campo del CANNELLA era stata interrotto tra il dicembre del 1993 ed il gennaio del 1994, allorché il BAGARELLA gli aveva detto che la prossima formazione del movimento politico FORZA ITALIA e la sua presentazione nelle prossime consultazioni politiche rendeva allo stato superfluo quel movimento indipendentista. Tratto in arresto nel luglio del 1995 per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., tra il 21 ed il 22 di quel mese il CANNELLA iniziò a collaborare con l’A.G., fornendo informazioni sull’attività criminosa svolta dallo stesso di fiancheggiamento di COSA NOSTRA e dagli affiliati per conto di quest’ultima.
Il rifiuto di rispondere nell’ambito del presente processo non ha consentito a questa Corte di approfondire la verifica dell’attendibilità del CANNELLA, le cui dichiarazioni devono, pertanto, essere valutate con particolare cautela e richiedono riscontri esterni più rigorosi. E’ apparsa tuttavia evidente la profonda e diretta conoscenza che il collaborante ha manifestato sulle vicende interne al mandamento di Brancaccio-Ciaculli, sull’avvicendamento degli uomini al vertice del medesimo e su alcuni degli affiliati a quel mandamento, nonché su alcuni personaggi di vertice dei mandamenti di Porta Nuova e di Caccamo con i quali il CANNELLA aveva avuto rapporti in quanto la sua attività imprenditoriale in territorio di Campofelice di Roccella, controllato dalla “famiglia” mafiosa di Termini Imerese, rientrante nel mandamento di Caccamo, lo aveva portato a frequentare i fratelli GAETA, importanti “uomini d’onore” di Termini Imerese, che avevano stretti legami con CALO’ Giuseppe a CANCEMI Salvatore di Porta Nuova, nonché con GIUFFRE’ Antonino di Caccamo. Anche in questo settore, tuttavia, le evidenti ragioni di rancore che il collaborante può nutrire nei confronti dei fratelli GRAVIANO, per le esose pretese economiche da loro vantate nei suoi confronti, nonché nei confronti del CANCEMI – che secondo le stesse ammissioni del CANNELLA ne aveva decretato la punizione per una mancanza di rispetto che egli aveva mostrato verso MATTALIANO Gregorio, “uomo d’onore” di Porta Nuova e cognato del CALO’ – inducono a valutare con particolare prudenza le sue dichiarazioni in ordine ai predetti non tanto su singoli episodi specifici, che possono essere più facilmente riscontrati e spesso lo sono stati con esito positivo, quanto sulle strategie generali e le finalità che avrebbero ispirato la loro condotta, circostanze queste più difficilmente verificabili in modo oggettivo. MISTERI D’ITALIA
CUCUZZA Salvatore Sino all’età di ventun anni il CUCUZZA aveva regolarmente lavorato su delle navi e poi come saldatore specializzato presso i cantieri navali di Palermo. I suoi primi contatti con personaggi di COSA NOSTRA ebbero inizio intorno al 1972- 73, tramite GRAZIANO Angelo, un costruttore che sponsorizzava una squadra di calcio nella quale egli giocava e che era anche sottocapo dell’antica “famiglia” mafiosa di Borgo Vecchio. Conobbe, quindi, oltre ad alcuni personaggi di quella “famiglia”, GAMBINO Giacomo Giuseppe, inserito nella “famiglia” di San Lorenzo, all’epoca appartenente allo stesso mandamento di Partanna Mondello retto da RICCOBONO Rosario, nonché BAGARELLA Leoluca, che ebbe modo di frequentare a lungo. In quel periodo commise alcuni danneggiamenti a scopo di estorsione ed un omicidio, finché nel 1975 venne ritualmente affiliato alla predetta “famiglia” di Borgo Vecchio. Arrestato nel settembre di quello stesso anno, rimase detenuto sino al luglio del 1979. Dopo la sua scarcerazione e prima della seconda guerra di mafia, alla “famiglia” di Porta Nuova, di cui era rappresentante CALO’ Giuseppe, assai vicino al RIINA, venne attribuita la direzione di un mandamento di nuova istituzione, al quale vennero aggregate anche le “famiglie” di Borgo Vecchio e di Palermo centro. Il rappresentante della “famiglia” di Borgo Vecchio, CANCELLIERE Leopoldo, fu fatto dimettere dal CALO’ perché che si era opposto all’attribuzione a quest’ultimo della direzione di quel mandamento, sostenendo che la carica spettasse al capo della “famiglia” di Palermo centro, come era stato con i fratelli LA BARBERA prima dello scoppio della prima guerra di mafia negli anni Sessanta. Il CUCUZZA fu, quindi, nominato dal CALO’ reggente della “famiglia” di Borgo Vecchio, peraltro composta da poche persone, sicché dopo la morte di BONTATE Stefano, essendo in corso la seconda guerra di mafia, per ordine del CALO’ e del GAMBINO fu chiamato a comporre un agguerrito “gruppo di fuoco” composto tra alcuni tra i più pericolosi killer di COSA NOSTRA, e cioè GRECO Giuseppe “scarpa”, PRESTIFILIPPO Mario e LUCCHESE Giuseppe, gravitanti sul mandamento di Ciaculli. Si era, quindi, reso responsabile con tale gruppo di numerosi omicidi ai danni della fazione opposta ai corleonesi, sino a quando verso la fine del 1982 fu inserito in altro “gruppo di fuoco” , composto da “uomini d’onore” di Porta Nuova come il CANCEMI ed il LA MARCA. Nel settembre del 1983 venne tratto in fu arresto nell’ambito dell’istruttoria sfociata nel maxiprocesso di Palermo, essendo stato ritenuto uno dei componenti della commissione provinciale e, quindi, gli erano stati contestati come mandante numerosi omicidi. Molte di tali imputazioni però caddero e la condanna definitiva a circa quattordici anni di reclusione gli venne inflitta per il reato associativo ed il tentato omicidio di CONTORNO Salvatore. Scarcerato nel 1994, dopo che il CANCEMI si era costituito iniziando la collaborazione con l’A.G., trovò che il mandamento di Porta Nuova era retto da MANGANO Vittorio, sostenuto dal BAGARELLA e dal BRUSCA, i cui spazi operativi si erano accresciuti dopo l’arresto del RIINA. Peraltro, per volere del CALO’, che dal carcere aveva comunicato la sua non piena condivisione circa la scelta del MANGANO quale sostituto nel suo mandamento, venne affiancato a quest’ultimo pure lo stesso CUCUZZA.
Tratto in arresto il 4 maggio del 1996, accusato di un omicidio non commesso e del reato associativo, aveva dapprima sperato che il malcontento percepito all’interno dell’organizzazione mafiosa, e soprattutto tra i detenuti, per le scelte strategiche operate dai vertici di quel sodalizio e per la reazione dello Stato che ne era conseguita determinasse un vasto fenomeno di dissociazione, che però non aveva avuto luogo. Pertanto, dopo aver constatato che tali aspettative non si sarebbero realizzate, superando le difficoltà legate alla cultura ed ai pregiudizi dell’ambiente nel quale sinora era vissuto, che consideravano un atto infame la violazione della regola dell’omertà, aveva intrapreso la collaborazione con l’A.G., ritenendo non più condivisibili le motivazioni che lo avevano indotto a operare in COSA NOSTRA.
Il contributo fornito dal CUCUZZA appare adeguato al ruolo dallo stesso rivestito nella consorteria mafiosa ed è rilevante sia per le conoscenze in ordine ai meccanismi di funzionamento di tale associazione – meccanismi appresi dapprima dalla voce di personaggi di spicco quali GRECO Pino, GAMBINO e BAGARELLA e poi anche per esperienza diretta, man mano che andò ad occupare
cariche di maggiore importanza – sia per le informazioni fornite sui metodi di comunicazione tra l’interno e l’esterno del carcere per le questioni associative più importanti, oltre che per le indicazioni su alcuni dei più importanti mandamenti di COSA NOSTRA. MISTERI D’ITALIA
DI CARLO Francesco Era inserito dalla metà degli anni Sessanta nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Altofonte, dal 1972 era stato consigliere, poco dopo sottocapo e dal 1976 al 1978 aveva ricoperto la carica di rappresentante della medesima. Il 5 giugno del 1978, a seguito dell’uccisione del precedente rappresentante della “famiglia” LA BARBERA Salvatore, che era stato destituito per contrasti con il suo capomandamento BRUSCA Bernardo, il DI CARLO si era dimesso dalla carica, ritenendo che fosse stata violata la promessa di non attentare alla vita del LA BARBERA ed anche perché mal sopportava le ingerenze che sulla sua “famiglia” esercitavano i corleonesi tramite il BAGARELLA. Nel 1982 era stato espulso dall’organizzazione ed era andato a vivere in Inghilterra, ove era stato tratto in arresto nel giugno del 1985, riportando una condanna a venticinque anni di reclusione per traffico internazionale di droga. Estradato in Italia, nel giugno del 1996 iniziava a collaborare con l’A.G..
La volontà di collaborazione del DI CARLO non appare ricollegabile, almeno in via principale, all’intento di ottenere delle consistenti riduzioni di pena, tenuto conto dell’entità della carcerazione già sofferta e della sua ragionevole aspettativa di beneficiare comunque in Inghilterra della liberazione anticipata in tempi brevi. Il comportamento del DI CARLO appare piuttosto quello di chi, dopo aver sperimentato a proprie spese la concreta possibilità per gli affiliati di COSA NOSTRA di essere uccisi per mano dei consociati, in dispregio dell’ostentazione ufficiale del principio solidaristico che dovrebbe animare la vita dell’organizzazione, e dopo aver avuto il tempo di meditare a lungo nel periodo di detenzione sulle atrocità dei delitti posti in essere con ritmo sempre più incalzante dal gruppo criminale di cui era stato un componente, avverte l’impossibilità di continuare a condividere i principi ispiratori della sottocultura mafiosa ai quali si era conformato anche dopo l’allontanamento da COSA NOSTRA, primo tra tutti quello della complicità omertosa. Nel presente processo sono state anche acquisite ex art.238 c.p.p. le dichiarazioni rese dal DI CARLO nelle udienze del ventuno e del ventitré dicembre 1996 nel giudizio di primo grado per la strage di Capaci. Tali dichiarazioni, che attengono essenzialmente alle conoscenze dirette del DI CARLO sul funzionamento degli organismi di vertice di COSA NOSTRA, sia per quanto attiene alla commissione provinciale di Palermo che a quella regionale, nel periodo in cui il collaboratore ancora militava in quel sodalizio criminale, appaiono pienamente adeguate all’importanza del ruolo dallo stesso ricoperto ed alla lunga durata di tale militanza. Nessun dubbio sussiste in ordine alla piena autonomia delle sue dichiarazioni e non sono emersi intenti extraprocessuali che possano inquinarne l’attendibilità, tenuto anche conto del lungo periodo in cui il DI CARLO era rimasto lontano da ruoli operativi nell’ambito di COSA NOSTRA, nel cui ambito non aveva quindi più alcun interesse. MISTERI D’ITALIA
DI FILIPPO Pasquale Genero di SPADARO Tommaso – “uomo d’onore” della “famiglia” di Porta Nuova che aveva per qualche tempo sostituito anche il CALO’ nella reggenza di questo mandamento nel periodo in cui questi si trovava a Roma – il DI FILIPPO era stato egli stesso molti anni dopo “uomo di fiducia” del BAGARELLA, essendo legato da vincoli di affinità con MARCHESE Antonino, a sua volta cognato del BAGARELLA.
Dopo l’arresto del RIINA il BAGARELLA aveva accresciuto il suo ruolo operativo all’interno di COSA NOSTRA ed il DI FILIPPO si era reso responsabile per suo conto dell’esecuzione di gravissimi delitti, di cui si è spontaneamente autoaccusato dopo l’inizio della sua collaborazione. Sottoposto, infatti, a fermo nel giugno del 1995 per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., il DI FILIPPO manifestò subito la volontà di fornire indicazioni che consentirono dopo tre giorni la cattura del latitante BAGARELLA. Le sue propalazioni portarono, inoltre, all’individuazione di alcuni immobili utilizzati dall’organizzazione mafiosa.
La spontaneità delle confessioni rese dal DI FILIPPO in ordine a gravi reati per i quali non era raggiunto da alcun indizio di reità e le indicazioni dallo stesso fornite per la cattura del BAGARELLA denotano la lealtà della collaborazione dallo stesso intrapresa con l’A.G. ed il suo elevato grado di affidabilità.
Nell’ambito del presente processo il suo apporto probatorio si è rivelato utile in particolar modo per le conferme fornite alle indicazioni, già da altre fonti emergenti, circa l’esistenza di canali attraverso i quali il CALO’ riceveva informazioni e trasmetteva le sue decisioni sulle più importanti vicende che interessavano l’organizzazione mafiosa. Indicazioni che appaiono significative anche perché derivanti da una sua personale conoscenza dei fatti, dato il suo rapporto di parentela con lo SPADARO, inserito nella stessa “famiglia” del CALO’ e con lui a lungo detenuto. MISTERI D’ITALIA
DI RAIMONDO Natale Il DI RAIMONDO era avvicinato sin dal 1980 – tramite SANTAPAOLA Vincenzo, nipote di Benedetto e figlio di Salvatore, a sua volta fratello di quest’ultimo – alla “famiglia” catanese di COSA NOSTRA, anche perché suo zio DI RAIMONDO Santo era coniugato con una cugina di SANTAPAOLA Benedetto. In quel periodo egli formava un gruppo con il predetto SANTAPAOLA Enzo, ERCOLANO Aldo, nipote di SANTAPAOLA Benedetto e SANTAPAOLA Antonino, fratello di quest’ultimo e con loro si era reso responsabile di omicidi ed estorsioni. Arrestato nel 1981, era stato detenuto con brevi interruzioni sino al marzo del 1987. Appena scarcerato venne ritualmente affiliato nella “famiglia catanese” di COSA NOSTRA alla presenza dei vertici di quel clan, tra cui lo stesso SANTAPAOLA Benedetto, ERCOLANO Aldo, MANGION Francesco e PULVIRENTI Giuseppe, che tra l’altro guidava un gruppo autonomo strettamente alleato con la “famiglia” catanese. Subito dopo l’affiliazione era partito per il soggiorno obbligato ed aveva fatto ritorno a Catania nell’agosto del 1988. A fine dicembre di quell’anno SANTAPAOLA Benedetto aveva ristrutturato la “famiglia” catanese, che prima vedeva lui come rappresentante, il MANGION come vice, ERCOLANO Giuseppe come consigliere e ERCOLANO Aldo in alternanza con SANTAPAOLA Vincenzo come capodecina. A seguito della ristrutturazione era rimasto invariato il rappresentante della “famiglia”, vicerappresentante era stato nominato ERCOLANO Aldo, erano stati designati tre consiglieri nelle persone del MANGION, di D’AGATA Marcello e del PULVIRENTI e come capodecina era stato prescelto CAMPANELLA Calogero. Nella città etnea erano stati formati dei sottogruppi che controllavano i vari quartieri urbani o qualche paese vicino ed al DI RAIMONDO era stata affidata la direzione del sottogruppo di Monte Po’ unitamente a PAPPALARDO Salvatore. Nell’ambito della provincia catanese operavano anche le “famiglie” di Ramacca, diretta da CONTI Calogero e di Caltagirone, guidata da LA ROCCA Francesco.
In data 1 marzo 1993 il DI RAIMONDO era stato tratto in arresto per associazione a delinquere di tipo mafioso ed estorsione, mentre per un’imputazione di omicidio il provvedimento restrittivo era stato revocato dal Tribunale del riesame.
Il DI RAIMONDO iniziò a collaborare vari anni dopo, in data 28 ottobre 1998 ed ha spiegato di essere stato indotto a tale scelta sia dal desiderio di offrire un diverso futuro ai propri figli sia per le profonde delusioni che gli avevano arrecato alcune gravi vicende verificatesi all’interno di COSA NOSTRA e che avevano avuto refluenza sui suoi rapporti con i SANTAPAOLA, e cioè le persone alle quali egli era maggiormente legato. Ha, infatti, riferito il collaborante che nel corso del 1996, mentre era detenuto nel braccio destro del carcere catanese di Bicocca, insieme a GALEA Eugenio, vice rappresentate provinciale di Catania, BATTAGLIA Santo, “uomo d’onore” della “famiglia” etnea e capo di un sottogruppo della medesima e GIUFFRIDA Alfio, del clan LAUDANI, alleato della “famiglia” catanese aveva concertato le future strategie dell’organizzazione dopo gli arresti che avevano colpito tutti i rappresentanti di vertice: Così era stato deciso che INTELISANO Giuseppe, prima inserito nel clan del “Malpassotu” e poi avvicinatosi al DI RAIMONDO, essendo stato scarcerato avrebbe assunto la guida della “famiglia” catanese, anche perché era stato nel frattempo arrestato QUATTROLUNI Aurelio, che aveva per qualche tempo retto il sodalizio criminale. Lo INTELISANO, che aveva potuto contare sull’appoggio di un gruppo di fiducia del DI RAIMONDO, costituito tra gli altri anche dai fratelli MASCALI Angelo e Sebastiano, LANZA Giuseppe e LA ROSA Giuseppe, si era dedicato alle estorsioni ed al controllo dei pubblici appalti, rimpinguando le esauste casse della consorteria mafiosa. In tale attività lo INTELISANO manteneva i contatti anche con VACCARO Lorenzo, che reggeva la provincia nissena di COSA NOSTRA per conto di MADONIA Giuseppe, arrestato, che era un tradizionale alleato del SANTAPAOLA ed era vicino anche alle posizioni di PROVENZANO Bernardo. Ad un certo punto lo INTELISANO aveva comunicato al DI RAIMONDO che alcuni “forestieri” avevano intenzione di “fargli un regalo”, cioè di affiliarlo a COSA NOSTRA. Egli aveva fatto conoscere tale notizia agli altri consociati detenuti, che non erano stati informati dell’iniziativa, che in un primo momento essi avevano ricondotto al VACCARO, ma poi avevano appreso tramite TUSA Francesco, nipote del MADONIA e “uomo d’onore” di quella “famiglia”, anch’egli detenuto, che anche quel gruppo era estraneo a tale iniziativa. Pertanto, il DI RAIMONDO aveva fatto sapere allo INTELISANO di non dar seguito ad una proposta che si poneva in contrasto con le regole dell’organizzazione, ma gli venne successivamente comunicato dallo stesso INTELISANO che questi, convocato a Piazza Armerina dal palermitano VITALE Vito, legato alla corrente del RIINA (di cui si è già detto allorché si è riferito della collaborazione del BRUSCA), era stato ritualmente affiliato insieme a RIELA Francesco, pure di Catania ed alla presenza anche di LA ROCCA Aldo, nipote di Francesco. Il DI RAIMONDO aveva, quindi, preso atto di tale affiliazione dello INTELISANO, alla quale egli non aveva potuto sottrarsi perché colto di sorpresa, e lo aveva però esortato a non assumere alcuna iniziativa su richiesta dei palermitani del VITALE senza previa consultazione. Il DI RAIMONDO era stato poi trasferito presso il carcere di Cosenza, ove aveva appreso dai notiziari dell’uccisione in territorio etneo del VACCARO nel gennaio del 1998. Aveva, quindi, avuto un colloquio con MASCALI Angelo, entrato in carcere con un falso documento di identità e da lui aveva appreso che tale omicidio gli era stato richiesto dal VITALE senza autorizzazione del gruppo del SANTAPAOLA e che per questo SANTAPAOLA Vincenzo e ERCOLANO Aldo avevano decretato la sua uccisione e quella del fratello Sebastiano. Tale iniziativa aveva particolarmente rammaricato il DI RAIMONDO, perché i fratelli MASCALI erano persone di sua fiducia e, quindi, egli avrebbe dovuto essere consultato prima che fosse presa qualsiasi decisione sulla loro sorte, anche perché eventuale responsabile dell’omicidio del VACCARO doveva essere ritenuto lo INTELISANO, che dirigeva il gruppo all’esterno e non i MASCALI, a lui subordinati. Pertanto, egli aveva detto al suo interlocutore di far sapere a CANNIZZARO Sebastiano, esponente di spicco della “famiglia” etnea e vicino al SANTAPAOLA, che egli si assumeva la responsabilità di affiliare quali “uomini d’onore” i fratelli MASCALI e li incaricò di uccidere ZUCCARO Domenico, vicino allo ERCOLANO, nonché SIGNORINO Sergio, vicino a SANTAPAOLA Vincenzo, per indebolire quel gruppo. Nel frattempo venne tratto in arresto lo INTELISANO ed il MASCALI fu convocato a Palermo dal VITALE ed alla presenza di RIELA Francesco, LA ROCCA Aldo e VINCIGUERRA Massimiliano – persona vicina a MAZZEI Santo ed affiliato alla “famiglia” catanese senza il benestare degli esponenti di vertice di Catania – il VITALE gli aveva detto che da quel momento doveva agire agli ordini del VINCIGUERRA e che dovevano essere uccisi gli uomini più vicini a SANTAPAOLA Benedetto, tra cui il nipote Enzo, il CANNIZZARO, MOTTA Antonio e ZUCCARO Maurizio, cognato di SANTAPAOLA Enzo. MASCALI informò il DI RAIMONDO, che gli ordinò gli omicidi di VINCIGUERRA, RIELA e LA ROCCA e così tra marzo ed aprile del 1998 vennero uccisi il VINCIGUERRA e per errore un fratello di RIELA Francesco, del tutto estraneo alla vicenda, mentre LA ROCCA Aldo era stato tratto in arresto. Avendo nel frattempo avuto conferma nel carcere di Cosenza dal TROPEA, “uomo d’onore” catanese, che il progetto di uccidere i MASCALI era stato effettivamente ideato dai SANTAPAOLA e dagli ERCOLANO, il DI RAIMONDO aveva senz’altro deciso di intraprendere la scelta collaborativa, non ritenendo di essere più obbligato da alcun vincolo nei confronti di chi aveva deciso senza consultarlo la morte di persone a lui vicine, mostrando così di non avere alcun rispetto per lui. Il DI RAIMONDO aveva quindi confessato anche i delitti da lui commessi per conto di quella “famiglia” mafiosa.
Nel presente processo il contributo del DI RAIMONDO è stato rilevante per la conoscenza delle vicende interne e dell’organigramma di COSA NOSTRA di Catania ed ha costituito un valido riscontro alle dichiarazioni sul punto fornite dagli altri collaboratori di quella provincia. MISTERI D’ITALIA
DRAGO Giovanni Era inserito dal 1986 nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Brancaccio ed era legato sia pure indirettamente da vincoli di affinità con BAGARELLA Leoluca e RIINA Salvatore, in quanto il di lui fratello era sposato con la sorella di MARCHESE Giuseppe, a sua volta cognato del BAGARELLA, che ne aveva sposato un’altra sorella.
E proprio la collaborazione del MARCHESE fornì un impulso rilevante alla scelta collaborativa del DRAGO, che era detenuto dal marzo del 1980 e che iniziò a collaborare tra la fine del 1992 e gli inizi del 1993.
A seguito di tale scelta il DRAGO ha confessato una cinquantina di omicidi, per gran parte dei quali non esistevano sospetti a suo carico, dimostrando di aver intrapreso tale cammino senza reticenze. Nell’ambito del presente processo sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. anche le dichiarazioni rese dal DRAGO nell’udienza del 16.3.1996 nel processo di primo grado per la strage di Capaci ed il complessivo apporto probatorio fornito dallo stesso è stato rilevante soprattutto in relazione alle indicazioni su alcuni dei componenti della Commissione Provinciale di Palermo. MISTERI D’ITALIA
FERRANTE Giovambattista Militava dal 1980 nella “famiglia” di COSA NOSTRA di San Lorenzo, il cui mandamento, dopo l’uccisione di RICCOBONO Rosario, che lo dirigeva al momento dell’ingresso dell’imputato nell’organizzazione mafiosa, venne retto prima da GAMBINO Giacomo Giuseppe e dopo l’arresto di questi da BIONDINO Salvatore, e cioè da due delle persone più vicine al RIINA, che si affidava al BIONDINO per raggiungere i luoghi in cui si incontrava con gli altri associati e per il compimento di tutte le attività criminose più delicate di COSA NOSTRA.
Ciò spiega il coinvolgimento del FERRANTE in entrambe le stragi commesse nel corso del 1992, nonché la sua partecipazione ad altri “omicidi eccellenti”, come quelli di via Pipitone Federico in Palermo, del Commissario della P.S. CASSARA’, del Capitano dei Carabinieri D’ALEO e dell’europarlamentare LIMA.
Arrestato nel novembre del 1993 per la strage di Capaci, a seguito delle dichiarazioni rese dal DI MATTEO, dal CANCEMI e dal LA BARBERA, il FERRANTE ha iniziato a collaborare nel corso del 1996, quando già era da tempo iniziata l’istruttoria dibattimentale di quel processo, fornendo tra l’altro un contributo rilevante per l’individuazione di alcuni dei più importanti arsenali di armi di cui disponeva COSA NOSTRA, sito in terreno di proprietà del cugino BIONDO Giuseppe.
Benché intervenuta quando sussistevano già a carico del FERRANTE gravi indizi di colpevolezza in particolare per la strage di Capaci e, sia pure in misura minore, anche per quella di via D’Amelio, in cui vi erano a carico dell’imputato le dichiarazioni accusatorie del CANCEMI, che però le attribuiva in quella fase ad una sua conoscenza “de relato”, la collaborazione dell’imputato presenta innegabili caratteri di autonomia, avendo egli reso dichiarazioni circostanziate e dettagliate, inequivocabilmente derivanti da una personale conoscenza dei fatti riferiti, che hanno trovato significativi riscontri, anche in ordine ad episodi che non erano ancora compiutamente emersi dalle precedenti indagini, data la ripartizione dei compiti affidati ai vari componenti dei gruppi incaricati dell’esecuzione dei delitti.
Nel presente processo sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. anche le dichiarazioni rese dal FERRANTE nell’udienza del 24.10.1996 nel processo di primo grado per la strage di Capaci ed il suo contributo è stato rilevante per la conoscenza dei componenti di uno dei mandamenti maggiormente operativi nell’attuazione della strategia stragista; del telecomando utilizzato per l’esecuzione della strage di via D’Amelio; delle prove esperite per verificarne il funzionamento, nonché per la ricostruzione di alcuni momenti fondamentali della fase di appostamento, necessaria per allertare tempestivamente il “commando” presente in via D’Amelio nell’imminenza dell’arrivo sul posto di Paolo BORSELLINO. E, tuttavia, come si dirà specificamente in sede di trattazione della fase esecutiva della strage, sono emersi alcuni elementi oggettivi che dimostrano in modo inequivocabile che il FERRANTE non ha riferito tutti i dati conoscitivi in suo possesso circa il momento esecutivo della strage ed i partecipanti, primo elemento tra tutti quello scaturente dall’analisi del traffico telefonico della sua utenza cellulare e di quella di CANNELLA Cristofaro, che si pone in antitesi con le indicazioni fornite dall’imputato circa il numero delle chiamate effettuate a quest’ultima utenza e la sua asserita mancata conoscenza dell’utilizzatore della medesima. Tale emergenza non comporta il discredito delle altre dichiarazioni rese dal FERRANTE sul momento esecutivo della strage e sui nominativi dei partecipanti dallo stesso indicati, dichiarazioni queste peraltro pienamente riscontrate, atteso che tale atteggiamento deve unicamente ricondursi all’intento del collaborante di limitare le proprie accuse nei confronti dei soli esecutori appartenenti al suo stesso mandamento, e che quindi egli non poteva negare di conoscere, nonché a quelle altre persone con le quali era stato in quell’occasione in diretto contatto visivo, sicché un’omessa indicazione in tal senso avrebbe potuto essere smentita dall’altro collaboratore presente a tale fase, e cioè il CANCEMI. Tali reticenze dimostrano che la scelta collaborativa del FERRANTE è da ricondursi a motivi prettamente utilitaristici, come tali certamente di per sé non riprovevoli, ma che tuttavia hanno indotto l’imputato non già a limitare le proprie responsabilità – cosa che le altrui chiamate di correo non gli consentivano di fare e che tra l’altro egli doveva ritenere pericolosa per la propria credibilità e, quindi, per il conseguimento dei benefici premiali che dovevano alleviare il suo trattamento sanzionatorio – bensì a coinvolgere nelle indagini giudiziarie solo quelle persone che non poteva fare a meno di indicare senza compromettere la propria affidabilità, a ciò indotto verosimilmente dall’intento di esporsi in misura minore al sempre temibile risentimento dei propri ex consociati, maggiormente bersagliati da altre meno caute e reticenti propalazioni accusatorie. MISTERI D’ITALIA
GALLIANO Antonino Inserito dal 1986 nella “famiglia” mafiosa della Noce diretta da GANCI Raffaele, del quale era nipote, dopo gli arresti avvenuti nel giugno del 1993 di quest’ultimo e dei figli Domenico e Calogero, il GALLIANO aveva preso le redini di quella “famiglia” e del relativo mandamento, sino al suo arresto, intervenuto solo nel luglio del 1996, a seguito della collaborazione intrapresa da GANCI Calogero, atteso che il CANCEMI, come si è già detto, ne aveva nascosto la partecipazione all’attività di preparazione della strage di Capaci, attività che non era nota agli altri collaboratori perché limitata al pedinamento dell’auto blindata usata dal dottor FALCONE per i suoi spostamenti in Sicilia.
Il GALLIANO iniziò a collaborare al momento stesso del suo arresto, e pur essendo stata presa tale decisione dopo le dichiarazioni del GANCI, di cui il GALLIANO aveva conoscenza perché contenute nelle loro linee essenziali nel provvedimento restrittivo allo stesso notificato, quest’ultimo ha comunque mostrato di possedere una conoscenza autonoma di tutti i fatti riferiti, per il carattere circostanziato delle sue propalazioni e la parziale diversità delle esperienze personali maturate nell’ambiente criminale di COSA NOSTRA.
Nel presente processo sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. anche le dichiarazioni rese dal GALLIANO nell’udienza del 26.11.1996 nel processo di primo grado per la strage di Capaci ed il suo contributo è stato utile anche per la conoscenza di vicende organizzative che riguardavano la commissione provinciale di Palermo, note al collaboratore sia per i rapporti di parentela con il cugino GANCI Domenico, che sostituì il padre Raffaele detenuto tra la fine del 1986 ed il novembre del 1988 in alcune delle riunioni della medesima commissione, sia perché alcune di queste riunioni ebbero luogo presso l’abitazione della nonna, sicché egli ebbe la possibilità di vedere alcuni dei partecipanti. Per quanto poi attiene alle propalazioni del GALLIANO in ordine alla fase esecutiva della strage per cui è processo si fa rinvio all’esposizione svolta nella sede specifica. MISTERI D’ITALIA
GANCI Calogero Inserito dal 1980 nella “famiglia” di COSA NOSTRA della Noce, di cui il padre Raffaele era rappresentante e capomandamento, nonché persona tra le più vicine al RIINA, GANCI Calogero ha partecipato, secondo le sue confessioni, riscontrate da dichiarazioni di altri collaboratori ad alcuni “omicidi eccellenti” , tra cui quelli di CHINNICI, CASSARA’, D’ALEO, DALLA CHIESA e FALCONE.
Tratto in arresto nel giugno del 1993 e successivamente indagato anche per la strage di Capaci, il GANCI ha iniziato a collaborare con l’A.G. nel giugno del 1996, quando già era in corso il dibattimento relativo a tale crimine. E, tuttavia, l’apporto probatorio fornito dal GANCI per la ricostruzione di quella strage ha avuto indubbiamente il carattere della novità, poiché il CANCEMI, che pure aveva preso parte alla fase dell’osservazione dell’auto del magistrato, aveva – come si è detto – reso delle dichiarazioni assai reticenti sulle concrete modalità di svolgimento di tale attività e su alcune delle persone che vi erano coinvolte, come il GALLIANO, la cui partecipazione a questi fatti è emersa solo dopo la collaborazione del GANCI, sicché tale elemento depone in senso favorevole per l’autonomia e l’affidabilità di tale collaborazione.
Nel presente processo sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. anche le dichiarazioni rese da GANCI Calogero alle udienze del 20, 21 e 22 ottobre 1996 nel processo di primo grado per la strage di Capaci e il contributo probatorio complessivamente offerto è stato apprezzabile soprattutto perché, essendo il collaboratore figlio del capomandamento della Noce, che costituiva uno dei punti di riferimento più utilizzati dal RIINA per l’organizzazione dei suoi incontri con gli altri esponenti di vertice di COSA NOSTRA, è stato in grado di fornire utili indicazioni in ordine alla composizione della commissione provinciale di Palermo ed alle modalità di riunione di tale organismo sino all’epoca di esecuzione della strage di via D’Amelio. MISTERI D’ITALIA
GRIGOLI Salvatore Avvicinato sin dal 1985-86 a COSA NOSTRA tramite QUARTARARO Filippo e MANGANO Antonino, quest’ultimo rappresentante della “famiglia” di Roccella, inserita nel mandamento di Brancaccio, insieme a quelle di Brancaccio, Ciaculli e Corso dei Mille. Già intorno al 1986-87 il GRIGOLI aveva commesso un omicidio a Ficarazzi di una persona di Belmonte Mezzagno e poi vari altri omicidi. Il MANGANO gli aveva spiegato che doveva ritenersi un “uomo d’onore riservato” della “famiglia” di Roccella, senza spiegargliene il motivo, anche se egli sapeva di avere un cognato carabiniere, fatto questo che costituiva un ostacolo alla rituale affiliazione in COSA NOSTRA. Inserito gradualmente in un gruppo di fuoco composto da “uomini d’onore” di Brancaccio, come CANNELLA Cristofaro, BARRANCA Giuseppe, GIACALONE Luigi, CELIDONIO Francesco, D’AMICO Cosimo e successivamente anche da ROMEO Pietro, DI FILIPPO Pasquale e TUTINO Vittorio, ebbe a commettere circa quaranta omicidi, su disposizione di GRAVIANO Giuseppe, capo del mandamento di Brancaccio, del MANGANO e successivamente del BAGARELLA. Tra l’altro aveva partecipato con SPATUZZA Gaspare, CANNELLA, GIACALONE e GIULIANO al sequestro del piccolo Giuseppe DI MATTEO, per paralizzare la collaborazione del di lui padre DI MATTEO Mario Santo, nonché all’omicidio del sacerdote PUGLISI, sospettato di aver infiltrato nella sua comunità uomini della D.I.A. per consentire l’arresto di GRAVIANO Giuseppe, mandante dell’omicidio. Intrattenne rapporti con MANGANO Antonino, dal quale aveva appreso varie regole di COSA NOSTRA, nonché soprattutto con “uomini d’onore” del mandamento di Brancaccio e della provincia di Trapani come MESSINA DENARO Matteo e SINACORI Vincenzo, data la vicinanza di questi ultimi ai GRAVIANO ed avendo egli trascorso in quella provincia parte della sua latitanza, iniziata nel 1995 dopo la collaborazione del DI FILIPPO.
Arrestato il 19.6.1997, aveva iniziato lo stesso giorno a collaborare con l’A.G., spiegando tale scelta con l’intento di sottrarre i figli all’ambiente criminale nel quale sarebbero altrimenti vissuti e di riscattare i crimini commessi, da lui prontamente confessati.
Nel presente processo l’apporto probatorio del GRIGOLI è stato rilevante soprattutto per conoscere le vicende e l’organigramma del mandamento di Brancaccio, coinvolto nella strategia stragista non solo per il crimine per cui è processo, bensì anche per le stragi di Firenze, Milano e Roma, relativamente alle quali nel processo celebratosi innanzi alla Corte di Assise di Firenze ebbe a riportare la condanna a diciotto anni di reclusione, usufruendo della diminuente di cui all’art.8 del D.L. n. 152/1991 per la collaborazione che è stato in grado di fornire. MISTERI D’ITALIA
LA MARCA Francesco Avvicinato a COSA NOSTRA sin dal 1978-79, si occupò dapprima del furto di auto e motocicli per conto dell’organizzazione, finché nel settembre-ottobre del 1980 venne ritualmente affiliato alla “famiglia” di Porta Nuova di cui era rappresentante CALO’ Giuseppe e vice LIPARI Gianni, del quale egli era alle dirette dipendenze, facendogli da autista ed accompagnandolo in occasione dell’esecuzione di vari omicidi, essendo particolarmente abile nella guida dei veicoli. All’epoca il CALO’ dirigeva anche il mandamento, che ricomprendeva anche le “famiglie” di Palermo centro, Borgo nuovo e Noce, quest’ultima diretta da SCAGLIONE Salvatore, poi sostituito da GANCI Raffaele. Verso la fine del 1980 – 1981 il LIPARI venne destituito perché accusato di essersi impossessato di grosse somme di denaro provenienti dal traffico della droga, che la “famiglia” di Porta Nuova gestiva in misura rilevante. Al LIPARI era subentrato il CANCEMI, che prima era capodecina e che dopo l’arresto del CALO’, intorno al 1985, aveva retto il mandamento di Porta Nuova in sostituzione di quest’ultimo. Agli ordini del CANCEMI aveva commesso, sempre alla guida dei veicoli usati per l’occasione, numerosi omicidi, tra cui quello del commissario CASSARA’, delitto al quale avevano preso parte, oltre alla sua “famiglia”, anche quelle di Pagliarelli, Noce, Resuttana e San Lorenzo. Aveva, inoltre, partecipato agli omicidi di due dei fratelli PUCCIO, uno ucciso all’interno del cimitero del Rotolo e l’altro in via Palmerino a Palermo. Il LA MARCA era, inoltre, in società con il CALO’, il CANCEMI e SCRIMA Franco nel traffico della droga, dal quale egli ricavava alcune centinaia di milioni a settimana, che provvedeva a versare nella cassa della “famiglia”, tenuta da PRIOLO Vito, cugino del CANCEMI. Tali ingenti somme di denaro erano poi state investite nel settore edilizio per tramite dell’imprenditore Nino SEIDITA, i cui beni erano stati sequestrati a seguito della collaborazione del LA MARCA. Arrestato il 31 maggio del 1994, il LA MARCA aveva rivelato al figlio maggiore già nell’ottobre del 1996 la sua volontà di collaborare, anche per sottrarre quest’ultimo e gli altri figli al destino criminale, ma il ragazzo non aveva condiviso le sue decisioni ed anzi le aveva rivelate alla consorteria mafiosa. Nel frattempo aveva riportato la condanna all’ergastolo nel giudizio di primo grado per l’omicidio CASSARA’ e, pertanto, vinte le remore residue ed accettando il distacco dal figlio più grande, iniziò a collaborare con l’A.G..
Pur essendo evidente che l’intento, peraltro legittimo, di usufruire dei benefici premiali ha costituito uno dei motivi determinanti della scelta collaborativa del LA MARCA, occorre evidenziare che lo stesso, intrapreso questo percorso, non ha poi mostrato riserve, rivelando oltre una ventina di omicidi che lo avevano visto coinvolto insieme al CANCEMI, delitti di molti dei quali quest’ultimo non aveva riferito all’A.G..
Nel presente processo l’apporto probatorio del LA MARCA è rilevante per la conoscenza del mandamento di Porta Nuova e delle vicende criminali che lo interessarono insieme ad altri importanti mandamenti di COSA NOSTRA. MISTERI D’ITALIA
MALVAGNA Filippo Era inserito dal 1982/83 nell’associazione mafiosa diretta da PULVIRENTI Giuseppe, inteso “u Malpassotu”, strettamente alleata con la “famiglia” catanese di COSA NOSTRA del SANTAPAOLA, sin dai tempi della sanguinosa faida che aveva contrapposto in Catania nei primi anni ’80 quest’ultima consorteria criminale a quella facente capo a FERLITO Alfio prima ed a SALVATORE PILLERA poi, entrambi a suo tempo inseriti in COSA NOSTRA, dalla quale si erano allontanati per contrasti con il SANTAPAOLA.
Questo rapporto tra il gruppo del PULVIRENTI, operante prevalentemente nei paesi etnei e quello del SANTAPAOLA era talmente intenso che, fatto insolito nell’ambiente criminale, alcuni componenti di spicco della prima organizzazione, erano organicamente inseriti nella “famiglia” del SANTAPAOLA, a cominciare da PUGLISI Piero, genero del “Malpassotu” e secondo solo a quest’ultimo – almeno dal punto di vista formale – nella gerarchia di questa cosca, che sin dal 1982 era “uomo d’onore” di quella “famiglia”. E, d’altronde, lo stesso PULVIRENTI era divenuto qualche tempo dopo il PUGLISI “uomo d’onore”, conservando ovviamente il comando del gruppo che portava il suo nome e sul finire degli anni ‘80 aveva anche assunto una delle cariche più elevate all’interno della “famiglia” di COSA NOSTRA, e cioè quella di consigliere. Ma anche altri componenti del clan del “Malpassotu” erano stati “combinati” nel gruppo catanese di COSA NOSTRA, e tra essi PULVIRENTI Antonino, figlio del “Malpassotu” e RANNESI Girolamo, inteso “Gino”, genero di GRAZIOSO Giuseppe, a sua volta genero del PULVIRENTI per averne sposato un’altra figlia.
Anche gli incontri operativi tra i due gruppi, per concertare le strategie comuni, organizzare gli omicidi di comune interesse e gestire le estorsioni ai danni degli operatori economici più importanti, che di solito il clan del “Malpassotu” non intraprendeva senza il concorso della “famiglia” di COSA NOSTRA, avvenivano con cadenza periodica, quasi settimanale.
Il MALVAGNA, che aveva sposato nel 1985 una figlia di PULVIRENTI Angelo, fratello del “Malpassotu”, occupava una posizione di vertice nell’ambito di questo clan, dirigendo due dei gruppi su base territoriale (solitamente un comune etneo) in cui esso si articolava, e precisamente quello di Misterbianco prima e poi, dopo l’arresto dei due figli del “Malpassotu”, anche quello di S. Pietro Clarenza. Tale posizione il MALVAGNA aveva acquisito sia in virtù del predetto rapporto di affinità con il leader del suo gruppo (circostanza questa che esercita sempre un peso notevole nell’acquisizione di posizioni di vertice nell’ambito dei gruppi di tipo mafioso, dove il legame di sangue o comunque di affinità viene considerato un importante fattore di affidabilità, atto a scongiurare il pericolo di tradimenti interni) sia in virtù di indubbie qualità personali, come la capacità di concettualizzare, di cogliere le relazioni tra i fatti e di collocarli in un quadro di riferimento più ampio, le notevoli capacità mnemoniche, qualità queste tutte poco comuni in questo ambiente criminale, rispetto al cui livello medio il MALVAGNA possedeva anche una cultura superiore, oltre naturalmente ad avere altre qualità indispensabili per emergere in tale ambiente e quindi più diffuse al suo interno, come la fredda determinazione e la mancanza di qualsiasi remora a perseguire i propri fini con ogni mezzo ed anche a prezzo della vita altrui.
Il MALVAGNA aveva fatto per qualche tempo anche uso di sostanze stupefacenti, circostanza questa ammessa dal collaboratore e di cui hanno riferito con contenuti ben diversi il PUGLISI – che ha sostenuto lo stato di cronica tossicodipendenza del predetto, da cui egli non sarebbe mai riuscito a liberarsi – ed il PULVIRENTI – che, invece, ha evidenziato come il nipote fosse riuscito a disintossicarsi, avendo superato i periodici esami di laboratorio cui egli lo aveva sottoposto per la ricerca di tracce di droga – circostanza questa della disintossicazione confermata anche dal DI RAIMONDO. Al riguardo alcuni difensori hanno sostenuto l’assoluta inverosimiglianza della possibilità che il MALVAGNA potesse partecipare in rappresentanza del clan del “Malpassotu” a riunioni con “uomini d’onore” di Catania, data la sua qualità di tossicodipendente e la preclusione che questa poneva ad una sua futura rituale affiliazione. Ma in proposito deve rilevarsi che l’indubbia partecipazione del predetto collaborante all’attività criminale svolta dal gruppo del PULVIRENTI sino al momento del suo arresto e la stessa posizione di vertice che egli rivestiva in questo clan risultano comprovate dalle dichiarazioni convergenti di entrambi i collaboranti, nonché da quelle del DI RAIMONDO; dalla minuziosa conoscenza da parte del MALVAGNA di particolari di attività criminali svolte dal gruppo predetto di cui non avrebbe potuto essere al corrente senza un suo diretto coinvolgimento in tali fatti; dagli stessi processi pendenti nei suoi confronti per tali reati, per i quali ha già riportato varie condanne. Ciò evidenzia l’impossibilità che il MALVAGNA versasse ancora in uno stato di tossicodipendenza, che altrimenti lo avrebbe non solo emarginato dal gruppo ma avrebbe certamente comportato la sua fisica eliminazione, secondo la prassi generalmente seguita in questi sodalizi. E, invece, l’assoluta fiducia che il PULVIRENTI nutriva nei confronti del MALVAGNA – che era divenuta la persona a lui più vicina dopo l’arresto del figlio PULVIRENTI Antonino nel 1991 – ed il suo ruolo nell’ambito di quel clan costituivano certamente delle credenziali idonee per consentire al MALVAGNA di partecipare agli incontri con gli “uomini d’onore” della “famiglia” del SANTAPAOLA, nella quale il predetto era in procinto di entrare al momento del suo arresto, verificatosi nel marzo del 1993.
Dopo circa un anno di detenzione, il MALVAGNA iniziò a collaborare con l’A.G., avendo ben compreso che il dilagare del fenomeno delle collaborazioni nell’ambito del suo gruppo e le complessive emergenze processuali riducevano fortemente i suoi margini di impunità ed al tempo stesso desiderando offrire ai suoi figli delle prospettive di vita ben diverse da quelle criminali cui sarebbero stati con molta probabilità avviati anche in sua assenza. Ma una volta effettuata tale scelta il MALVAGNA vi ha aderito senza alcuna esitazione, confessando la sua responsabilità anche per numerosi omicidi per i quali non vi erano ancora gravi indizi a suo carico ed offrendo quel contributo rilevante di conoscenze che gli derivavano dal ruolo sino ad allora ricoperto.
Nel presente processo sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. anche le dichiarazioni rese dal MALVAGNA nell’udienza del 20.2.1996 nel processo di primo grado per la strage di Capaci.
Le indicazioni fornite dallo stesso in ordine ai rapporti intercorsi tra la “famiglia” di COSA NOSTRA di Catania e gli organi di vertice delle altre province in cui operava tale associazione in relazione alla deliberazione ed attuazione di un comune “programma stragistico” appaiono senz’altro giustificate dalla sua vicinanza al PULVIRENTI e dai suoi frequenti contatti con esponenti di vertice della predetta “famiglia” di Catania ed hanno trovato significativo riscontro nelle dichiarazioni del PULVIRENTI e dello AVOLA. MISTERI D’ITALIA
MARCHESE Giuseppe Divenuto nel 1980 “uomo d’onore” della “famiglia” di Corso dei Mille, nel mandamento di Brancaccio – Ciaculli, svolse una breve ma intensissima attività criminale prima di essere tratto in arresto nel gennaio del 1982. La detenzione non pose fine, tuttavia, alla partecipazione del MARCHESE alla commissione di omicidi, essendo egli stato utilizzato dal RIINA per eseguire tali delitti all’interno del carcere, come nel caso dell’omicidio di PUCCIO Vincenzo, reggente del mandamento di Brancaccio dopo l’omicidio del feroce killer GRECO “Pino scarpuzzedda” ed anch’egli eliminato perché autore di una congiura per sottrarre il potere al RIINA, di cui non condivideva le modalità di gestione dell’organizzazione mafiosa e soprattutto dei rapporti con i detenuti.
La volontà di collaborazione del MARCHESE, legato da rapporti di affinità con BAGARELLA, che ne aveva sposato una sorella, maturò nel corso del 1992, dopo la strage di Capaci ed è in gran parte dovuta alla percezione del cinismo con il quale i vertici dell’organizzazione gestivano i loro affiliati, utilizzandoli per i loro fini senza curarsi degli svantaggi che ne sarebbero potuti derivare agli stessi, come nel caso dell’omicidio PUCCIO, che venne fatto compiere al MARCHESE in concomitanza con altro omicidio commesso all’esterno del carcere ai danni di altro fratello del PUCCIO a nome Pietro, sicché il collegamento tra i due eventi, poi effettivamente operato dall’A.G., rese insostenibile la tesi del delitto occasionale, tesi alla quale il MARCHESE affidava tutte le sue speranze di evitare una condanna alla pena della reclusione perpetua.
Già sin dall’inizio della sua collaborazione il MARCHESE fornì un contributo rilevante ai fini dell’individuazione delle persone che sarebbe stato utile sottoporre ad indagini per scoprire gli esecutori della strage di Capaci, avviando così quell’attività investigativa serrata ed assai fruttuosa che portò progressivamente alla cattura di molti dei personaggi di vertice dell’organizzazione, alla collaborazione di alcuni di essi e, infine, all’individuazione di molti dei responsabili delle due stragi del 1992. Il MARCHESE è stato inoltre in grado di fornire indicazioni utili per la conoscenza dei canali utilizzati dall’organizzazione per comunicare con gli affiliati detenuti, nonché delle vicende interne del mandamento di Brancaccio – Ciaculli in cui lo stesso era inserito, mostrando sempre un elevato grado di affidabilità .
Nel presente processo sono state acquisite ex art. 238 c.p.p. anche le dichiarazioni rese dal MARCHESE nell’udienza del 28.11.1996 nel processo di primo grado per la strage di Capaci. MISTERI D’ITALIA
MESSINA Leonardo Era inserito sin dall’aprile del 1982 nella qualità di “uomo d’onore” nella “famiglia” mafiosa di S. Cataldo di COSA NOSTRA, nella quale prima di lui avevano militato da varie generazioni i suoi ascendenti per linea paterna e materna, ad eccezione del padre.
Aveva raggiunto nell’ambito di tale “famiglia” la carica di capodecina e poi di vice rappresentante ed aveva avuto stretti rapporti personali con i più autorevoli esponenti di COSA NOSTRA delle provincie di Caltanissetta, Agrigento ed Enna, anche se le persone cui era maggiormente legato si erano trovate in contrasto con la linea di MADONIA Giuseppe, rappresentante della provincia di Caltanissetta.
Sottoposto a fermo a Como nell’aprile del 1992 per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso e traffico di armi, nel giugno dello stesso anno iniziò a collaborare con l’A.G., facendo luce su varie vicende criminali che avevano interessato COSA NOSTRA sia all’interno della provincia nissena che in ambito territoriale più vasto.
Sulla base degli elementi disponibili appare ragionevole ritenere che la scelta collaborativa del MESSINA non sia stata determinata in misura prevalente dall’intento di avvalersi dei benefici premiali, atteso che egli non era indagato per reati della gravità di quelli di cui si è spontaneamente accusato, tra i quali alcuni omicidi. Piuttosto può sostenersi che abbiano influito notevolmente sul collaborante le vicende interne al suo sodalizio mafioso, che gli avevano fatto sperimentare in modo assai pesante, con la perdita di amici a cui era assai legato e con le stesse critiche che gli erano state mosse dall’interno, le conseguenze della fitta trama di congiure e complotti che si nasconde sotto il velo ufficiale della solidarietà del gruppo mafioso. La stessa uccisione di MICCICHE’ Liborio, esponente di spicco di COSA NOSTRA nell’Ennese, avvenuta a Pietraperzia tredici giorni prima dell’arresto del MESSINA per opera dello stesso sodalizio mafioso anziché di rivali esterni, doveva aver accentuato la crisi di quest’ultimo ed averlo indotto a ritenere che non fosse il caso di sacrificare la propria libertà personale, dopo l’esperienza già fatta nel 1984/85, sull’altare di una solidarietà criminale che probabilmente non avrebbe sottratto neanche lui al concreto pericolo di vita.
Si è sostenuto da parte di taluni difensori che il MESSINA non potesse essere a conoscenze delle vicende interne al sodalizio denominato COSA NOSTRA perché in realtà inserito nel gruppo rivale degli “stiddari”, costituito da fuoriusciti della prima organizzazione. In realtà, tale tesi fa leva sulla vicinanza del MESSINA a persone che non erano allineate con la corrente dominante all’interno della provincia mafiosa nissena e gravitante intorno al MADONIA ma propone dei fatti una lettura non condivisibile alla stregua delle complessive emergenze processuali. E, invero, nell’ambito delle province in cui operava COSA NOSTRA non esistevano solo i gruppi che alla medesima si contrapponevano, spesso costituiti da ex affiliati a quest’ultima associazione, bensì anche fazioni che dall’interno di essa cercavano in modo più o meno occulto di opporsi all’egemonia della corrente filocorleonese, che nelle varie province aveva assunto non senza contrasti il controllo delle “famiglie” mafiose, forte dell’appoggio della provincia di Palermo, in cui i corleonesi avevano l’assoluto predominio. Gli omicidi di taluni esponenti di spicco delle provincia di Agrigento, come ad esempio quello di COLLETTI Carmelo, del quale hanno riferito nel presente processo vari collaboratori in modo uniforme, riconducendolo ad elementi interni a COSA NOSTRA di quella provincia, puniti per tale iniziativa adottata senza l’intervento dell’organismo interprovinciale, o quello dello stesso MICCICHE’ Liborio della provincia ennese, costituiscono solo alcuni degli esempi dei contrasti esistenti all’interno di COSA NOSTRA nelle varie province. Da tali contrasti non era certamente immune la provincia di Caltanissetta, dove storicamente aveva ricoperto un ruolo di preminenza DI CRISTINA Giuseppe, legato alle correnti palermitane anticorleonesi dei BONTATE e degli INZERILLO e strenuo oppositore del ruolo egemonico che stava assumendo il RIINA all’interno di COSA NOSTRA dietro il paravento di GRECO Michele, formalmente capo della commissione provinciale di Palermo, nonché di quella regionale dopo CALDERONE Giuseppe, ma in realtà succube del RIINA. Quest’ultimo anche all’interno dello stesso mandamento di Ciaculli, in cui il GRECO era inserito, aveva potuto contare per lungo tempo sull’appoggio determinante di uno spietato esecutore dei più orrendi misfatti decisi dal RIINA quale GRECO Giuseppe, inteso “Pino scarpuzzedda” o “scarpa”. Il DI CRISTINA aveva finito per pagare con la vita questa sua contrapposizione all’egemonia corleonese, essendo stato ucciso a Palermo il 30 maggio 1978, ma all’interno della sua provincia erano molti i personaggi anche di spicco che gli erano rimasti legati e che non avevano gradito l’avvento al potere del filocorleonese MADONIA Giuseppe, figlio del boss mafioso di Vallelunga MADONIA Francesco, ucciso per iniziativa del DI CRISTINA l’8 aprile 1978, dopo che quest’ultimo era scampato ad un primo attentato ai suoi danni nel quale avevano perso la vita il 21 novembre 1977 DI FEDE Giuseppe e NAPOLITANO Carlo, compagni di lavoro del DI CRISTINA. Non tutti coloro che erano vicini al DI CRISTINA avevano scelto, come il RIGGIO, la strada dell’uscita da COSA NOSTRA e della formazione di gruppi contrapposti, riconducibili alla denominazione degli “stiddari”, in quanto altri avevano preferito rimanere all’interno delle “famiglie” di appartenenza, come i CALI’ (legati al MESSINA da vincoli di parentela) di San Cataldo, paese questo in cui la base degli “uomini d’onore” che costituivano quella “famiglia” non era affatto devota al Madonia e, infatti, aveva preferito eleggere come capodecina il MESSINA per meglio controllare il rappresentante della “famiglia”, più vicino invece al MADONIA. Né era casuale il fatto che dopo l’omicidio di TERMINIO Nicolò, avvenuto poco prima dell’affiliazione del MESSINA a COSA NOSTRA, il mandamento, che prima era retto dalla “famiglia” di San Cataldo, fosse stato assegnato a quella di Mussomeli, ritenuta più controllabile dal MADONIA e che in epoca ancora successiva la “famiglia” di San Cataldo ebbe a transitare nel mandamento retto dalla “famiglia” di Vallelunga. A differenza dei CALI’ il MESSINA aveva però saputo evitare aperti contrasti col MADONIA, che aveva quindi preferito tenerlo vicino per non esasperare il conflitto con gli “uomini d’onore” di San Cataldo.
Il MESSINA era, quindi, certamente in condizione di conoscere nel dettaglio le vicende interne di COSA NOSTRA della provincia di Caltanissetta e di quelle limitrofe e le sue circostanziate dichiarazioni in tal senso hanno già superato positivamente il vaglio del giudizio di primo e secondo grado nel processo “Leopardo”, nei confronti di affiliati alle “famiglie” di quella provincia, almeno nei casi in cui è stato possibile acquisire dei riscontri esterni, in mancanza dei quali le sole dichiarazioni del chiamante in correità, pur se intrinsecamente attendibili, non possono supportare un’affermazione di responsabilità, secondo i criteri di valutazione della prova già sopra evidenziati. Nel presente processo sono state anche acquisite le dichiarazioni rese dal MESSINA all’udienza del 24.2.1996 nel giudizio di primo grado per la strage di Capaci ed il suo contributo deve ritenersi rilevante per quanto concerne la conoscenza dell’organigramma mafioso della provincia nissena ed i rapporti tra questa provincia e le altre in cui operava COSA NOSTRA – intrattenuti anche mediante quell’organismo di raccordo costituito dalla commissione regionale – hanno trovato la conferma di altre convergenti dichiarazioni. Per quanto poi riguarda le dichiarazioni del MESSINA sulla riunione tenutasi in provincia di Enna nel febbraio del 1992, si rinvia alla trattazione svolta nella sede specifica.
MUTOLO Gaspare Era inserito dal 1973 nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Partanna Mondello, all’epoca retta da RICCOBONO Rosario, che dirigeva anche il mandamento, mentre dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1982 nel corso della c.d. seconda guerra di mafia, il mandamento era stato poi retto dalla “famiglia” di San Lorenzo, di cui era rappresentante GAMBINO Giuseppe, assai vicino al RIINA.
Nell’ambito di COSA NOSTRA il MUTOLO era stato persona di fiducia del RICCOBONO, che accompagnava nei suoi incontri con altri personaggi di COSA NOSTRA anche di altre province e si era occupato prevalentemente del traffico internazionale della droga, nel quale la “famiglia” del RICCOBONO era ben inserita, al pari di quelle del BONTATE e dello INZERILLO, suscitando così le invidie della fazione dei corleonesi, che aspiravano a sottrarre tali lauti traffici alle predette “famiglie”.
Il ruolo importante assunto dal MUTOLO nel traffico della droga e la sua vicinanza al RICCOBONO avevano consentito allo stesso di stringere importanti legami in questo ambiente e di venire a conoscenza delle strategie perseguite da COSA NOSTRA, nonostante i lunghi periodi di carcerazione, con brevi interruzioni, sofferti dal 1976 al febbraio del 1982, dal giugno del 1982 sino al 1988 e poi dall’agosto del 1991 sino alla sua collaborazione con l’A.G..
Tale volontà di collaborazione il MUTOLO aveva manifestato a Giovanni FALCONE nel corso del colloquio avuto con lo stesso nel dicembre del 1991, che però non aveva avuto uno sbocco immediato in quanto il MUTOLO avrebbe voluto rendere le proprie dichiarazioni direttamente a quel magistrato, di cui aveva potuto valutare la profonda conoscenza del fenomeno mafioso e l’assoluta impermeabilità a qualsiasi pressione esterna, ma ciò non era stato possibile per il ruolo che ricopriva quest’ultimo in quel momento nell’ambito del Ministero di Grazia e Giustizia, ruolo che non prevedeva alcuna funzione investigativa e giudiziaria. Solo dopo la strage di Capaci il MUTOLO aveva incontrato Paolo BORSELLINO, al quale rendeva tre interrogatori tra l’uno ed il diciassette luglio 1992, quest’ultimo due giorni prima della strage per cui è processo.
Appare innegabile che la scelta collaborativa del MUTOLO sia stata determinata anche dall’affievolirsi di quel sentimento di solidarietà all’interno del sodalizio mafioso e di condivisione delle sue scelte operative che, come si è detto, può rendere più sopportabile anche il regime detentivo. E, invero, se il MUTOLO aveva potuto ritenere in qualche modo giustificabile nella logica mafiosa l’assassinio del RICCOBONO, non affidabile per il RIINA, doveva già apparirgli meno comprensibile il sistematico sterminio degli altri componenti di quella “famiglia” attuato dai corleonesi sino al 1987, ed ancor più odioso doveva essere ai suoi occhi l’intento di ucciderlo perseguito dai corleonesi e rivelatogli durante il suo soggiorno toscano da CONDORELLI Domenico, “uomo d’onore” della “famiglia” di Catania, che non volle eseguire tale incarico e che venne successivamente a sua volta eliminato.
Tale intenzione dei corleonesi il MUTOLO aveva contestato al GAMBINO durante la comune detenzione presso il carcere di Spoleto dal 31.10.1991 al 22.6.1992, ricevendo una smentita che non gli apparve convincente.
Nel presente processo sono state anche acquisite ex art. 238 c.p.p. le dichiarazioni rese dal MUTOLO nelle udienze del ventuno e del ventidue febbraio 1996 del giudizio di primo grado per la strage di Capaci, per quanto attiene ai numerosi imputati in comune. Il contributo fornito dallo stesso riguarda essenzialmente le indicazioni fornite sui contrasti tra le due contrapposte fazioni che si contendevano l’egemonia all’interno di COSA NOSTRA durante la c.d. guerra di mafia; sulle aspettative ed i timori che si nutrivano tra i detenuti di quella consorteria mafiosa alla vigilia della sentenza della S.C. di Cassazione del 30 gennaio 1992; sulle reazioni seguite alla pronuncia del Supremo Collegio e poi alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Tali indicazioni appaiono adeguate al livello dei rapporti che il MUTOLO aveva instaurato con gli esponenti di COSA NOSTRA di più antica militanza, avuto anche riguardo al fatto che le informazioni ricevute dal collaborante non presupponevano affatto la conoscenza delle strategie perseguite da quel sodalizio – conoscenza questa che era certamente preclusa al MUTOLO – bensì solo lo scambio di battute di carattere generale tra detenuti che militavano da decenni nella medesima organizzazione.
Al riguardo deve, altresì, rilevarsi che sulla base della documentazione acquisita in atti è stata accertata la comune detenzione del MUTOLO e del GAMBINO presso la Casa di Reclusione di Spoleto dal 31.10.1991 al 22.6.1992, salvo un periodo di interruzione dal 17.12.1991 al 7.2.1992, nonché la comune detenzione con MONTALTO Salvatore presso la stessa Casa di Reclusione di Spoleto dal 9.5.92 al 22.6.1992.
Parimenti risulta comprovata la possibilità che tali imputati avevano di incontro sia nell’ambito della stessa sezione sia nel corso dei colloqui e delle visite in infermeria, nel corso dei quali erano possibili anche contatti con detenuti ristretti in altre sezioni come AGATE Mariano, SPATARO Tommaso, VERNENGO Antonio e SAVOCA Giuseppe. MISTERI D’ITALIA
ONORATO Francesco Ritualmente affiliato a COSA NOSTRA nel 1980, dopo aver commesso alcuni omicidi nel periodo “di osservazione”, entrò nella “famiglia” di Partanna Mondello, il cui rappresentante RICCOBONO Rosario era anche capomandamento. Lo ONORATO era stato uomo di fiducia del RICCOBONO e di MICALIZZI Salvatore, vice del RICCOBONO, e da loro aveva appreso varie regole sul meccanismo di formazione del consenso all’interno della consorteria mafiosa e sugli organi di vertice, costituiti dalla commissione provinciale e da quella regionale. Il 30 novembre 1982 GAMBINO Giuseppe e BIONDINO Salvatore gli avevano comunicato l’uccisione del RICCOBONO, ritenuto “un infame” e la nomina a capo del mandamento del GAMBINO, rappresentante della “famiglia” di San Lorenzo.
Detenuto dal 1984 al 1987, all’atto della sua scarcerazione era stato nominato reggente della “famiglia” di Partanna Mondello perché CIVILETTI Giuseppe era stato ucciso e PORCELLI Nino era ristretto in carcere. Rimasto in stato di libertà sino al 1993, si era reso autore di circa una trentina di omicidi, spontaneamente confessati all’inizio della sua collaborazione. Tra l’altro era stato il killer dell’eurodeputato Salvo LIMA, ucciso il 12 marzo del 1992 in territorio di Partanna Mondello. Fu arrestato nel 1993 per il reato associativo, per l’omicidio di un appartenente alla famiglia BADALAMENTI commesso nel 1981, nonché per l’omicidio LIMA, ma per quest’ultima imputazione la Cassazione aveva annullato il provvedimento restrittivo, fondato principalmente sulle accuse del MUTOLO, che lo aveva indicato come reggente della “famiglia” mafiosa nel cui territorio il delitto era stato commesso. Iniziò a collaborare nel corso del 1996, confessando tutti gli omicidi commessi, tra cui quello da ultimo indicato e rivelando un progetto di attentato ai danni del Questore Arnaldo LA BARBERA, progetto già deliberato nel 1992, tanto che nel periodo da giugno a settembre di quell’anno, mentre egli era alloggiato con la famiglia di sangue presso il villaggio turistico LA PERLA DEL GOLFO a Terrasini, gli era stato dato l’incarico di osservare i movimenti del LA BARBERA, pure alloggiato in quel villaggio. Nel corso del 1993, dopo l’arresto del RIINA e del BIONDINO, egli era stato latore dal carcere di un messaggio dei predetti perché si desse ulteriore corso a quel progetto omicidiario, come si dirà più specificamente allorché si tratterà la questione delle comunicazione dal carcere dei capimandamento detenuti.
L’ONORATO ha motivato la sua scelta collaborativa con la disapprovazione per la folle strategia di sangue perseguita negli ultimi anni con particolare determinazione dai vertici di COSA NOSTRA e con il desiderio di offrire un futuro diverso da quello criminale ai tre figli, ancora piccoli.
La piena e spontanea ammissione da parte del collaborante di vari omicidi per i quali non esistevano validi elementi a suo carico, ne conferma la complessiva affidabilità ed il contributo dallo stesso offerto appare rilevante per la posizione elevata da lui occupata nell’ambito di uno dei mandamenti maggiormente coinvolti nella strategia stragista. MISTERI D’ITALIA
PATTI Antonio Il PATTI ha dichiarato di essere stato ritualmente affiliato a COSA NOSTRA nella “famiglia” di Marsala, ricompresa nel mandamento di Mazara, nell’ottobre del 1979, dopo aver commesso il primo omicidio già nel marzo-aprile di quell’anno. Nell’ambito di quella “famiglia”, il cui rappresentante era D’AMICO Vincenzo, egli aveva successivamente ricoperto anche la carica di capodecina.
L’1 aprile 1993 venne stato tratto in arresto per associazione mafiosa ed omicidi, per i quali aveva già riportato condanne definitive all’ergastolo, ed iniziò a collaborare con l’A.G. nel giugno del 1995, a ciò indotto dal desiderio di sottrarre i suoi figli all’ambiente criminale nel quale sarebbero altrimenti vissuti in conseguenza dei suoi legami malavitosi.
Il PATTI è stato in grado di fornire valide indicazioni in ordine alla struttura ed all’organigramma di COSA NOSTRA con particolare riferimento alla provincia di Trapani, riferendo che il rappresentate provinciale era MESSINA DENARO Francesco, che rivestiva anche la carica di capomandamento di Castelvetrano; che oltre a questo mandamento vi erano anche quello di Mazara, nel quale era ricompresa la sua “famiglia” ed il cui capo era AGATE Mariano, sostituito durante la detenzione del 1982 dal TUMBARELLO e da MESSINA Francesco, inteso “Mastro Ciccio” e successivamente, durante la detenzione iniziata nel 1992, da MANGIARACINA Andrea e dal SINACORI; che il mandamento di Alcamo era diretto da MILAZZO Vincenzo e quello di Trapani prima da BUCCIARDI Nicola e poi da VIRGA Vincenzo.
Le predette conoscenze mostrate dal PATTI, che hanno trovato riscontro nelle dichiarazioni dai collaboratori SINACORI e BRUSCA, appaiono giustificate dalla carica dallo stesso ricoperta nell’ambito di COSA NOSTRA e la loro autonomia è pienamente comprovata dalla ricchezza di indicazioni che lo stesso ha saputo fornire in ordine all’attività svolta da questa articolazione territoriale di COSA NOSTRA, caratteristica questa che non può che ricondursi alla diretta conoscenza da parte del collaborante dei fatti narrati. MISTERI D’ITALIA
PULVIRENTI Giuseppe Per quanto concerne il curriculum criminale del PULVIRENTI si fa integrale rinvio a quanto esposto nel paragrafo dedicato al MALVAGNA. Il suo ruolo di capo del gruppo omonimo alleato con quello del SANTAPAOLA e la carica di consigliere della “famiglia” mafiosa di quest’ultimo che egli aveva rivestito sul finire degli anni Ottanta risultano comprovati dalle convergenti dichiarazioni del MALVAGNA, dello AVOLA, del DI RAIMONDO, dello stesso PULVIRENTI, oltre che da varie pronunce giurisdizionali ormai definitive.
Tratto in arresto il 2 giugno 1993 dopo una lunghissima latitanza, il PULVIRENTI ha iniziato a collaborare con l’A.G. dal settembre del 1994, dopo che la sua organizzazione era stata sconvolta dagli arresti che avevano colpito tutti i personaggi di vertice e molti dei consociati a seguito della collaborazione intrapresa da molti degli esponenti di spicco a lui più vicini, tra cui il nipote acquisito MALVAGNA Filippo ed il genero GRAZIOSO Giuseppe. E proprio il senso di disfatta per l’attività repressiva intrapresa dallo Stato nei confronti della sua organizzazione costituì il motivo fondamentale della sua scelta collaborativa e lo indusse a rivolgere un invito a tutti i suoi consociati affinché si arrendessero allo Stato per potere sperare un giorno di ricongiungersi ai propri familiari.
Effettuata tale scelta, il PULVIRENTI vi si è mantenuto coerente, rendendo delle dichiarazioni che hanno consentito di ricostruire molti degli innumerevoli delitti posti in essere dalla sua organizzazione, anche se l’età avanzata e le precarie condizioni di salute, nonché lo scarso livello culturale hanno comportato talvolta delle lacune mnemoniche ed una scarsa chiarezza del suo elaborato narrativo, come si evidenzia dagli atti acquisiti da questa Corte ex art.238 c.p.p., ed in particolare dai verbali delle dichiarazioni rese all’udienza del 16.4.1997 nel giudizio di primo grado per la strage di Capaci e di quelle rese innanzi alla Corte di Assise di Catania all’udienza del 18.2.1995 nel processo n. 27/94 R.G.C.Ass. nei confronti di SANTAPAOLA Benedetto + 3. E, tuttavia, pur con tali limiti, che richiedono un ancor più attento esame critico di questi atti anche alla luce degli altri riscontri esterni, le dichiarazioni del PULVIRENTI hanno fornito delle indicazioni utili per la conoscenza dell’organigramma di COSA NOSTRA nella provincia di Catania, dei rapporti intercorrenti tra tale provincia e quella di Palermo, nonché degli accordi intervenuti tra le predette province per l’attuazione di quella strategia stragista nella quale si inscrivono i fatti per cui è processo. MISTERI D’ITALIA
RIGGIO Salvatore Aveva fatto parte della “famiglia” di COSA NOSTRA di Riesi sin dal 1971 ed a seguito della frattura interna verificatasi in quel gruppo dopo il 1988 si era alleato, insieme ad altri consociati rimasti a lui fedeli, con “il clan dei pastori” di Gela e con altri gruppi organizzati di diversi paesi per combattere i rivali della “famiglia” CAMMARATA di Riesi, legata al clan MADONIA.
Detenuto dal 1992 sino al 1995, ha iniziato a collaborare con l’A.G. nel marzo del 1995, accusandosi di diversi delitti, tra cui omicidi per i quali non sussistevano ancora sospetti nei suoi confronti. Depositario di un ampio patrimonio di conoscenze sulle vicende criminali della provincia nissena, sia per il lungo periodo di militanza che per il ruolo di vertice ricoperto nel sodalizio mafioso di Riesi, il suo apporto nel presente processo appare adeguato alla posizione dallo stesso occupata nell’ambito del sodalizio mafioso, posizione che gli consentiva di conoscere l’organigramma di COSA NOSTRA nella provincia nissena ed il ruolo di vertice ricoperto da MADONIA Giuseppe nell’ambito di tale provincia anche durante il conflitto con lo stesso. MISTERI D’ITALIA
SIINO Angelo Per ragioni familiari i suoi contatti con personaggi di rilievo di COSA NOSTRA risalivano ai tempi della sua gioventù, in quanto lo zio della madre, CELESTI Salvatore, fratello del nonno materno CELESTI Giuseppe, morto nel 1921, era rappresentante della “famiglia” mafiosa di San Cipirrello e non avendo figli era stato molto vicino a loro. Lo zio, che era stato condannato all’ergastolo e liberato nel 1943 dopo lo sbarco degli americani in Sicilia, godeva di grande prestigio presso i vertici di COSA NOSTRA ed il SIINO aveva frequentato con lui gli esponenti di maggior rilievo dell’organizzazione sino alla fine degli anni Settanta, allorché il familiare era deceduto. Benché da giovane ne avesse fatto richiesta allo zio, questi gli aveva sempre sconsigliato l’affiliazione a COSA NOSTRA, sia perché le sue agiate condizioni economiche lo avrebbero esposto a delle richieste di denaro alle quali egli non avrebbe potuto sottrarsi per ragioni di solidarietà, sia perché egli non voleva che il nipote andasse incontro alle molte vicissitudini giudiziarie che anche dopo il 1943 avevano contrassegnato la sua vita. Peraltro, nonostante la sua mancata affiliazione, quella parentela gli aveva consentito contatti assai stretti con i consociati di COSA NOSTRA, che lo trattavano come uno dei loro ed anzi aveva potuto fruire di una maggiore autonomia, non essendo tenuto al rispetto dei vincoli gerarchici per accedere agli incontri con i maggiori esponenti di quel sodalizio mafioso.
Sino a quando lo zio era rimasto in vita egli non era stato mai direttamente coinvolto in attività mafiose, limitandosi a frequentare vari personaggi di COSA NOSTRA – il SIINO nel proprio linguaggio arguto si è definito un “damo di compagnia”- tra cui BONTATE Stefano, del quale aveva guidato più volte le auto, essendo un abile pilota ed un appassionato di veicoli sportivi e da corsa. Tra il 1979 ed il 1984 egli aveva dovuto allontanarsi da Palermo su “consiglio” del BONTATE, in quanto era stato accusato di aver importunato la moglie di un ufficiale medico e ciò avrebbe potuto costargli la vita. Aveva così vissuto a Catania, ove aveva frequentato i locali personaggi di spicco di COSA NOSTRA, offrendo ospitalità presso le sue aziende ad alcuni di loro, anche latitanti, fatto questo che lo aveva poi esposto a subire vari controlli da parte delle Forze dell’Ordine, inducendolo a far definitivo rientro a Palermo nel 1984. Da allora era entrato nell’orbita della “famiglia” mafiosa di San Giuseppe Iato, diretta da BRUSCA Bernardo.
Il SIINO era stato titolare di alcune imprese che si occupavano di lavori edili, oltre che di aziende agricole, conosceva il settore dei pubblici appalti ai quali aveva avuto accesso sin dagli anni Settanta, allorché era stato in società anche con i fratelli BUSCEMI Salvatore ed Antonino, oltre che con tali ALFANO e CASTAGNA. Dal 1986 l’onorevole LIMA – che egli conosceva da giovane, quando questi dirigeva l’Ente di Sviluppo Agricolo (E.S.A.) – lo aveva incaricato di gestire per conto dei politici il settore degli appalti pubblici e subito dopo il DI MAGGIO, che sostituiva BRUSCA Bernardo all’epoca detenuto, gli aveva conferito analogo incarico per conto di COSA NOSTRA, dapprima limitatamente alla Provincia di Palermo, ma successivamente – avendo offerto buona prova delle sue capacità – il RIINA lo aveva autorizzato a gestire tale settore nelle altre province, accreditandolo presso i rappresentanti di Trapani, Caltanissetta, Agrigento e Catania, e cioè rispettivamente MESSINA DENARO Francesco, MADONIA Giuseppe, DI CARO Giuseppe e SANTAPAOLA Benedetto, che quindi potevano direttamente rivolgersi a lui per gli appalti di pertinenza del loro territorio.
Al riguardo il SIINO ha spiegato che il primo appalto di cui si era occupato anche per conto di COSA NOSTRA era stato quello di cui era committente la Provincia Regionale di Palermo per la realizzazione del tratto stradale San Mauro Castelverde – Gangi tra la fine del 1986 ed il 1987. In base all’incarico ricevuto dal LIMA si era convenuto che l’appalto sarebbe stato aggiudicato all’impresa di FARINELLA Cataldo di Ganci, e cioè a coloro che avevano il controllo mafioso di quel mandamento. Era però stato avvicinato da BUSCEMI Antonino e dall’ingegnere BINI, i quali dopo essersi congratulati con lui per l’incarico ricevuto gli avevano detto che l’appalto doveva essere assegnato all’impresa CISA del gruppo FERRUZZI, per conto del quale il BINI svolgeva il ruolo di amministratore. Il SIINO aveva rappresentato gli impegni già presi e ciò aveva provocato le ire del BUSCEMI, che gli aveva detto che lui era “il padrone delle Madonie” e che, quindi, egli non poteva permettersi di opporgli un rifiuto. Del fatto aveva parlato anche con il LIMA – che gli aveva fatto intendere di aver ricevuto anche lui pressioni in tal senso e che gli aveva lasciato la responsabilità decisionale – nonché con il DI MAGGIO, che gli aveva consigliato di contattare i FARINELLA. Aveva, quindi, parlato con FARINELLA Giuseppe, capomandamento di San Mauro, che si mostrò conciliante, sicché si addivenne ad un accordo in virtù del quale il 60% dei lavori fu assegnato alla CISA ed il 40% all’impresa di FARINELLA Cataldo. Quell’appalto era stato il più rilevante tra quelli sino ad allora assegnati dall’Ente Provincia e, quindi, aveva risvegliato un più diretto interesse di COSA NOSTRA, che sino ad allora si era, invece, limitata a pretendere una tangente sugli importi dei lavori assegnati a carico dell’imprenditore che si aggiudicava l’appalto ed a favore del gruppo mafioso che controllava quel territorio, salvo ad intervenire saltuariamente a favore di qualche gruppo imprenditoriale più vicino, come quelli dei costruttori COSTANZO e GRACI. Da allora il LIMA lo aveva incaricato di fare da intermediario con COSA NOSTRA per la gestione degli appalti. Sostanzialmente il suo incarico era stato quello di intervenire già nella fase di aggiudicazione degli appalti, pilotando l’assegnazione dei lavori in favore di determinate imprese secondo una turnazione, che ovviamente teneva conto sia dell’interesse che COSA NOSTRA poteva avere in alcune di tali imprese o a volte anche dell’interesse che poteva avere qualche esponente politico, sia dell’importo dei lavori e della dimensione delle imprese stesse. Quando il sistema di aggiudicazione era quello della licitazione privata egli segnalava le imprese da invitare e comunque interveniva presso i partecipanti per concordare le offerte che sarebbero state presentate ed essere così certo dell’esito finale. In generale tale sistema incontrava la disponibilità della maggior parte degli imprenditori, che potevano programmare i loro impegni sulla base dei turni loro assegnati dal SIINO, mentre nei pochi casi in cui non si era riusciti a persuadere qualcuno sull’offerta da presentare, si era intervenuto sottraendo alcuni certificati che erano necessari per la partecipazione alla gara o truccando le offerte. Compito del SIINO era anche quello di riscuotere le tangenti dovute dagli imprenditori che si aggiudicavano i lavori, secondo delle quote che erano pari ad una percentuale del 2,5 dell’importo dei lavori in favore dei politici e del 2% in favore di COSA NOSTRA, importi questi che egli di volta in volta provvedeva a consegnare per la parte spettante al sodalizio mafioso al DI MAGGIO prima ed a BRUSCA Giovanni poi, quando questi subentrò nella direzione del mandamento e per la quota dei politici a LIMA, SCIANGULA Salvatore, DI STEFANO e vari altri.
Tra il 1988 ed il 1989 il DI MAGGIO, per conto del RIINA, gli aveva imposto di limitare la sua attività di intervento nella fase di aggiudicazione degli appalti ai soli lavori indetti dalla Provincia e di importo non superiore ai cinque miliardi di lire, lasciando quelli di entità superiore e quelli che interessavano la città di Palermo alla gestione dell’imprenditore SALAMONE Filippo di Agrigento, sotto la supervisione di BUSCEMI Antonino e del BINI. Per tali ultimi lavori il SIINO avrebbe comunque dovuto continuare ad occuparsi dell’esazione delle quote spettanti a COSA NOSTRA. Di fatto il SIINO aveva però continuato ad interessarsi anche degli altri lavori, allorché constatava che non erano seguiti né dal SALAMONE né dal BINI, che non possedevano le sue stesse capacità di controllo generale del sistema né volevano esporsi in modo così diretto ed ampio come aveva fatto lui. E per esempio egli era intervenuto nella gestione degli appalti per la realizzazione della Pretura di Palermo e dello stadio presso il quartiere dello Zen, nonché per altri appalti indetti dall’A.M.A.T. in territorio di Passo di Rigano e dall’E.A.S.. Il SIINO si è detto consapevole delle ostilità che ciò gli procurava da parte del SALAMONE e del BUSCEMI, con il quale ultimo aveva a volte avuto degli accesi scontri verbali, dato il temperamento collerico che questi possedeva, ma aveva all’epoca ritenuto di poter contare sull’appoggio di BRUSCA Giovanni, con il quale intratteneva buoni rapporti, rendendosi conto solo più tardi di tale errore di calcolo e del fatto che il BRUSCA non intendeva esporsi per lui ma solo servirsene. Comunque per i lavori nei quali era intervenuto direttamente il SALAMONE, come quelli per le emergenze idriche e per i consorzi, ad eccezione di quelli che interessavano la città di Palermo, questi aveva continuato a consegnargli le quote tangentizie spettanti a COSA NOSTRA, e poiché si trattava di importi notevoli ed i calcoli non erano semplici, si era concordato il versamento da parte del SALAMONE al SIINO di una somma mensile di duecento milioni, salvo conguagli in sede di conteggi finali.
Ha ancora aggiunto il SIINO che intorno alla fine del 1988, a partire dai lavori appaltati consorzio Basso Belice – Carboi, era stata introdotta una tangente dello 0,80 % per le spese generali di COSA NOSTRA da versare in una cassa controllata dal RIINA, quota questa che non provvedeva a riscuotere lui ma che veniva, invece, consegnata al BUSCEMI e che si aggiungeva a quella del 2% sempre spettante ai gruppi mafiosi del luogo in cui si svolgevano i lavori ed i cui importi venivano, invece, riscossi come si è detto dal SIINO. LIPARI Giuseppe, persona assai vicina al RIINA ed al PROVENZANO e che pure seguiva tale settore dei pubblici appalti, intrattenendo rapporti con il BUSCEMI, gli aveva spiegato che quest’ultimo ed il BINI dovevano essere privilegiati in questa nuova fase, dovendo essere rimessa a loro la decisione sull’individuazione delle imprese cui assegnare gli appalti rientranti nella gestione del SALAMONE.
Ha inoltre riferito il SIINO che nel 1990, mentre si occupava della gestione di un appalto dell’E.A.S. che prevedeva l’informatizzazione della rete idrica di Piana degli Albanesi, lavori dell’importo di circa quattordici miliardi che egli voleva aggiudicarsi in associazione con l’impresa GALAZZI, il LIPARI gli aveva detto che era necessario far partecipare all’assegnazione anche l’impresa REALE, cosa che egli aveva dovuto accettare perché anche il BRUSCA aveva concordato su tale richiesta. In proposito ha spiegato il SIINO che il vecchio titolare di quell’impresa era REALE Francesco, amico del padre e persona non più al passo con i tempi, sicché la sua impresa aveva conosciuto una grave crisi finanziaria ed era stata salvata dal fallimento per l’intervento di BUSCEMI Antonino, che ne aveva acquistato una quota. Il REALE era, infatti, suocero di CATALANO Agostino, imprenditore che aveva presso COSA NOSTRA anche il grosso merito di essere cognato del BUSCEMI e consuocero di CIANCIMINO Vito, a lungo personaggio politico di rilievo a Palermo soprattutto nel corso degli anni Sessanta.
Tratto in arresto nel luglio del 1991 nell’ambito di un’indagine su “mafia ed appalti” condotta dal R.O.S. di Palermo sotto la direzione della Procura locale – Giovanni FALCONE, all’epoca ancora Procuratore aggiunto aveva ricevuto nel febbraio di quell’anno, alla vigilia della sua partenza per Roma, ove doveva assumere la carica di Direttore Generale degli Affari Penali presso il Ministero della Giustizia, il rapporto informativo dalle mani del Capitano DE DONNO, rapporto poi consegnato al Procuratore GIAMMANCO – il SIINO riportò in primo grado la condanna a nove anni di reclusione per il reato di partecipazione ad associazione mafiosa finalizzata alla gestione dei pubblici appalti ed altri reati in materia di Pubblica amministrazione, condanna ridotta ad otto anni nel giudizio di appello. Scarcerato nel giugno del 1997, venne nuovamente arrestato il 10 luglio di quell’anno in relazione agli illeciti collegati all’appalto dei lavori per la Pretura di Palermo, chiamato in causa dai collaboranti LANZALACO Salvatore e CRISAFULLI.
Da quel momento il SIINO iniziò a collaborare con l’A.G., spiegando la sua scelta sia con l’intento di sottrarre se stesso ed i suoi familiari alle angherie cui l’organizzazione mafiosa aveva preso a sottoporlo sia con la volontà di chiarire le accuse che gli venivano mosse. Sotto il primo profilo il SIINO ha riferito che nel breve periodo di circa un mese in cui era stato libero nel corso del 1997 era stato assalito da una serie di richieste di pagamento di ingenti somme di denaro, per lavori pubblici che le sue imprese si erano aggiudicate, da parte di VITALE Vito, persona che doveva la sua recente importanza in COSA NOSTRA a BRUSCA Giovanni, nonché da parte del DI MAGGIO e di alcuni gruppi catanesi. Gli si richiedeva, inoltre, di tornare ad occuparsi dei pubblici appalti, ricacciandosi in un tunnel che a quel punto, data l’attenzione degli investigatori nei suoi confronti, sarebbe stato per lui senza alcuna via di uscita.
Sotto il secondo profilo il collaborante ha asserito che pendevano sul suo capo accuse che non tenevano conto del suo reale ruolo di gestore del rapporto con politici ed imprenditori per conto di COSA NOSTRA, nonché dei limiti dello stesso, trascurandosi i livelli più alti che erano stati gestiti da altri personaggi.
Nel corso della sua collaborazione il SIINO è stato anche in grado di riferire in ordine ai rapporti tra COSA NOSTRA ed esponenti politici in occasione delle competizioni elettorali, dichiarando tra l’altro che in occasione delle elezioni politiche del 1987, circa due – tre mesi prima delle medesime, aveva avuto un incontro con l’Onorevole MARTELLI, che si presentava candidato in Sicilia, in vista di un sostegno elettorale e che da parte di BRUSCA Emanuele, fratello di Giovanni, gli era stato detto chiaramente che occorreva impegnarsi a favore del Partito Socialista Italiano, che effettivamente riportò nella circoscrizione di Palermo un successo senza precedenti e non più ripetuto successivamente, essendo stata eletta una quartina di candidati rappresentata dallo stesso MARTELLI, REINA, FIORINO ed ALAGNA. Al riguardo si rileva che risulta effettivamente accertato dalla documentazione trasmessa dal Ministero dell’Interno – Direzione Centrale per i servizi elettorali che nelle elezioni della Camera dei Deputati del giugno 1987, nell’ambito della XXIX circoscrizione di Palermo – Trapani – Agrigento, il P.S.I. conseguì quattro seggi e risultarono eletti MARTELLI Claudio con 116.984 voti, REINA Giuseppe con 64.242, FIORINO Filippo con 62.065, ALAGNA Egidio con 57.910. Tale risultato non solo era di gran lunga superiore a quello delle precedenti elezioni, ma non fu neanche ripetuto nelle successive competizioni politiche dell’aprile 1992, allorché il P.S.I. conseguì tre seggi ed il primo degli eletti, REINA Giuseppe, riportò 32.594 voti, in numero, quindi, notevolmente inferiore a quello del quarto degli eletti di cinque anni prima e persino al sesto dei votati non eletti nel 1987.
Nel presente processo il contributo del SIINO, adeguato alla posizione dallo stesso rivestita e che ha trovato per ampie parti significativi riscontri nelle dichiarazioni di altri collaboranti, è apparso rilevante per la ricostruzione dei rapporti del sodalizio mafioso con settori del mondo politico ed imprenditoriale, tematiche queste la cui analisi deve essere effettuata in relazione alla ricerca dei moventi della strage per cui è processo e della più ampia strategia nella quale tale crimine si è inserito. MISTERI D’ITALIA
SINACORI Vincenzo Il SINACORI ha riferito di essere stato inserito nella “famiglia” di COSA NOSTRA di Mazara del Vallo dal 1981 e di aver assunto la carica di reggente della medesima “famiglia” e dell’omonimo mandamento nel 1992, in rappresentanza di AGATE Mariano, detenuto dall’1 febbraio 1992. Al riguardo il collaborante ha dichiarato che la “famiglia” di Mazara ed il relativo mandamento – dopo l’arresto nel maggio del 1982 del suo rappresentante AGATE Mariano, che era rimasto detenuto sino al 17 aprile 1991 – erano stati retti prima da TUMBARELLO Salvatore e successivamente da MESSINA Francesco, inteso “Mastro Ciccio”, al quale egli era poi succeduto, essendo quest’ultimo, prima del suicidio, caduto in disgrazia presso i vertici di COSA NOSTRA, perché accusato di essersi appropriato di denaro dell’organizzazione.
Arrestato nel luglio del 1996, il SINACORI iniziò a collaborare con l’A.G. dopo circa due mesi, avendo inteso con tale scelta mutare vita. All’epoca egli era in stato di custodia cautelare per omicidi ma non vi era alcuna sentenza definitiva a suo carico, mentre a seguito della scelta intrapresa aveva confessato vari episodi delittuosi, tra cui omicidi.
Nel presente processo il SINACORI si è rifiutato di rispondere, sicché gli sono state contestate ex art.513 c.p.p. le dichiarazioni dallo stesso rese nell’ambito del processo n. 7/97 R.G.C.Ass. di Caltanissetta nei confronti di RIINA Salvatore + 3, relativo all’omicidio del Sostituto Procuratore della Repubblica di Trapani GianGiacomo CIACCIO MONTALTO; nel processo n. 12/96 R.G.C.Ass di Firenze nei confronti di BAGARELLA Leoluca + 25 per le stragi del 1993; innanzi al P.M. di Caltanissetta in data 8 e 9 gennaio 1997, 21 febbraio 1997 e 19 gennaio 1999.
Il SINACORI ha saputo chiaramente delineare la struttura e l’organigramma di COSA NOSTRA soprattutto per la provincia di Trapani, rappresentando che in tale provincia quel sodalizio mafioso si articolava in quattro mandamenti, che dopo la guerra di mafia dei primi anni Ottanta, che aveva interessato anche la sua provincia, erano diretti: quello di Castelvetrano da MESSINA DENARO Francesco, che rivestiva anche dal 1981/1982 la carica di rappresentante provinciale, anche se per la sua età avanzata era di fatto sostituito dal figlio Matteo; quello di Mazara dallo AGATE, sostituito durante la carcerazione dalle persone sopra indicate; quello di Alcamo da MILAZZO Vincenzo; quello di Trapani da VIRGA Vincenzo.
Le dichiarazioni rese sugli argomenti attinenti alla struttura ed all’organigramma di COSA NOSTRA dal SINACORI hanno trovato piena conferma in quelle rese da PATTI Antonio e dal BRUSCA e sono senz’altro adeguate al ruolo di rilievo rivestito dallo stesso nell’ambito di questa organizzazione criminale.
Il contributo del SINACORI è stato, inoltre, significativo in relazione all’incarico ricevuto insieme ad altri consociati della sua stessa provincia e di quella di Palermo per seguire in Roma i movimenti di Giovanni FALCONE e dell’allora Ministro della Giustizia Claudio MARTELLI, nonché di giornalisti assai noti quali Maurizio COSTANZO ed Andrea BARBATO, in vista della preparazione di attentati ai loro danni, che possono ricondursi alla strategia stragistica, come si dirà specificamente in seguito. MISTERI D’ITALIA