- MORI, DE CAPRIO, CASELLI E IL MISTERO DEL COVO
- Sentenza di primo grado covo_riina_
La prudenza del capitano “Ultimo” sui possibili covi del boss
Sergio De Caprio, detto anche Capitano Ultimo (Montevarchi, 21 febbraio 1961[3]), È stato a capo dell’unità Crimor dei Carabinieri ed è noto soprattutto per aver arrestato Totò Riina il 15 gennaio 1993. Con il grado di colonnello è stato vice comandante del Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente a Roma. Ha fondato la casa famiglia “Volontari Capitano Ultimo” di Roma, dove porta avanti progetti di solidarietà nei confronti dei meno fortunati. Ex allievo della Scuola militare “Nunziatella” di Napoli, vince il concorso per l’Accademia militare di Modena dove compie gli studi e la formazione, diventando tenente dei Carabinieri e prestando servizio alla Compagnia di Bagheria, dove nel 1985 arresta il latitante Antonino Gargano e Vincenzo Puccio il killer del capitano dei Carabinieri Emanuele Basile.
L’inchiesta Duomo connection Trasferito a Milano, col grado di capitano, tra il 1989 e il 1990 sviluppa le indagini dell’inchiesta “Duomo connection” coordinata dal Pubblico ministero Ilda Boccassini sulla penetrazione mafiosa a Milano. Le indagini portarono all’arresto di un folto gruppo di pregiudicati siciliani e del loro presunto boss, il geometra Antonino Carollo detto “Toni”, figlio incensurato di Gaetano Carollo, esponente della famiglia mafiosa di Resuttana ucciso nel 1987 a Liscate. Insieme con numerosi episodi di traffico di stupefacenti, le indagini accertarono una intensa attività edilizia del gruppo siciliano, realizzata – secondo l’accusa – con la collaborazione degli imprenditori Sergio Coraglia e Gaetano Nobile. Per agevolare le concessioni edilizie da parte del Comune di Milano i clan siciliani avevano allacciato contatti con importanti esponenti dell’amministrazione. Vennero indagati per corruzione l’assessore all’urbanistica Attilio Schemmari, il sindaco Paolo Pillitteri e tre alti funzionari (poi assolti).
Tra il 1991 e il 1992 alla guida del nucleo “CRIMOR” dei Carabinieri di Milano sgomina una raffineria di droga del clan Fidanzati in nord Italia[4]. Entrato in quel periodo nel neonato Raggruppamento operativo speciale[5], è capo della I Sezione del I Reparto del ROS, crea una squadra, denominata CRIMOR – Unità Militare Combattente che dal settembre 1992 opera a Palermo, scegliendo, per formarla, un gruppo di Carabinieri al momento poco considerati nell’Arma e relegati a incarichi di non elevato profilo.
L’arresto di Riina È stato l’ufficiale che, quando era a capo del CRIMOR, mise materialmente le manette il 15 gennaio 1993 a Salvatore Riina. Il racconto dell’arresto del boss mafioso è stato varie volte messo in discussione, sia durante il processo celebrato a Palermo nel 2006 in relazione ai fatti che portarono alla ritardata perquisizione del “covo” di Riina, sia più recentemente dalle dichiarazioni di Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino (condannato per mafia), secondo il quale in realtà Riina sarebbe stato consegnato ai Carabinieri da Bernardo Provenzano. Massimo Ciancimino, a oggi, è un “dichiarante” giudicato attendibile solo a fasi alterne nel corso di altri procedimenti[6][7]. Peraltro, a ben vedere, l’unica ricostruzione ufficiale oggi disponibile delle vicende che hanno portato all’arresto di Salvatore Riina, è quella prodotta dalla sentenza n. 514/2006 con cui il tribunale di Palermo ha assolto il capitano De Caprio e il colonnello Mori dalle accuse loro rivolte a seguito della ritardata perquisizione dell’abitazione di Riina. Con la sentenza del 20 febbraio i giudici del tribunale di Palermo, oltre ad assolvere gli imputati «perché il fatto non costituisce reato»[8], hanno voluto sottolineare e ribadire che «il latitante (Riina, ndr) non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base a una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio». A confutare l’ipotesi che l’arresto del boss fosse stato frutto di un accordo con Provenzano, è emerso che le indagini che portarono alla cattura di Riina furono avviate sin dal 1990 dal capitano Angelo Jannone[9] allorquando comandava la Compagnia Carabinieri di Corleone, il quale mediante una serie di intercettazioni ambientali nelle abitazioni dei familiari di Riina arrivò a individuare la famiglia Ganci – Spina come quella che ne favoriva la latitanza e passò quelle informazioni a De Caprio nell’agosto del 1992, dopo le stragi. Dopo la cattura di Riina, dal 1993 al 1997, De Caprio si è dedicato alla ricerca di altri pericolosi latitanti, fino allo scioglimento del CRIMOR. Resta nel ROS, da cui chiede il trasferimento nel 2000.
Nel NOE Da comandante della sezione del ROS di Palermo col grado di maggiore, nel maggio del 2000 chiese il trasferimento ad altro incarico, in disaccordo con il vertice del ROS – al tempo comandato dal generale Sabato Palazzo – relativamente all’impiego di personale provvisorio in attività d’indagine. A seguito della richiesta avanzata, venne assegnato al Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri (NOE), poi CCTA (Comando Carabinieri per la Tutela dell’Ambiente), come vice comandante. A Roma, grazie all’aiuto e all’appoggio dell’attore Raoul Bova (suo interprete nella miniserie Ultimo) e della Nazionale Cantanti, ha aperto una casa-famiglia per il recupero e il reinserimento di minori disagiati o figli di famiglie segnate dal crimine. Ha destato scalpore la decisione di togliere al “Capitano Ultimo”, nell’ottobre 2009, la scorta[10], riassegnatagli solo nel gennaio 2010[11]. Il 4 ottobre 2012, su ordine del procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, i Carabinieri del NOE coordinati da De Caprio e dal capitano Pietro Rajola Pescarini, hanno perquisito l’abitazione di Massimo Ciancimino a Palermo e di altri imprenditori e prestanome alla ricerca di carte, file e documenti sulla Ecorec utili alle indagini avviate dai pm Delia Cardia e Antonietta Picardi in riguardo al riciclaggio di denaro nella più grande discarica di rifiuti in Europa a Glina (Romania) del valore di circa 115 milioni di euro. Secondo gli investigatori, il denaro è riconducibile proprio a Ciancimino e farebbe parte del tesoro accumulato dal padre Vito quando era sindaco di Palermo.[12][13] In merito, Massimo Ciancimino ha dichiarato: “Sono perplesso sul fatto che a coordinare l’indagine sia il colonnello ‘Ultimo’ che più volte si è espresso sulla mia persona definendomi delinquente e mafioso”.[14]
Successivamente è stato a capo delle indagini che hanno portato all’arresto del presidente di Finmeccanica Giuseppe Orsi, avvenuto il 12 febbraio 2013. Secondo le ipotesi di reato formulate dalla Procura di Busto Arsizio, Orsi si sarebbe reso responsabile di corruzione internazionale, concussione e peculato per le presunte tangenti che sarebbero state pagate per la vendita di 12 elicotteri al governo indiano.[15][16]. Candidato di bandiera del partito Fratelli d’Italia – Centrodestra Nazionale, durante il secondo, il terzo e il sesto scrutinio per l’elezione del Presidente della Repubblica Italiana del 2013, De Caprio ha riportato 9, 7 e 8 voti rispettivamente. Sempre su indagini relative alle discariche, a gennaio 2014 il suo reparto produce 7 arresti, tra cui il proprietario della discarica romana di Malagrotta Manlio Cerroni e l’ex presidente della Regione Lazio Bruno Landi[17]. Il 4 agosto 2015, con notizia resa nota il 21 agosto, il generale Tullio Del Sette, comandante generale dell’Arma dei Carabinieri, lo esime dagli incarichi operativi e di polizia giudiziaria, pur lasciandogli l’incarico di vicecomandante del NOE[18]. L’ultimo caso seguito è stato quello della Cpl-Concordia.
Nei servizi Nel 2016 passa all’Aise, il servizio segreto per l’estero, a dirigere l’ufficio affari interni.[19]
Il 20 luglio 2017 viene restituito dai servizi all’Arma perché, dopo le fughe di notizie sulle indagini Su appalti Consip, “è venuto meno il rapporto di fiducia”.[20] Poche settimane dopo il CSM invia alla procura di Roma le dichiarazioni rese dal procuratore della Repubblica di Modena, Lucia Musti, sull’uso spregiudicato delle intercettazioni nella precedente indagine Cpl-Concordia da parte di De Caprio e del suo sottoposto, il capitano Gianpaolo Scafarto, indagato poi insieme con il PM Woodcock per falso nelle indagini su appalti Consip.[21]
Nel CUTFAA De Caprio dichiara però di aver deciso il rientro nell’Arma in maniera autonoma, per evitare strumentalizzazioni.[22] Nel dicembre 2017 rifiuta l’onorificenza di Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica, di cui l’aveva insignito il Quirinale [23].
Dal maggio 2018 gli viene affidato l’incarico di direttore attività convenzionali del Comando per la tutela della biodiversità e dei parchi dei Carabinieri Forestale (CUTFAA).
Dal 3 settembre 2018 De Caprio non ha avuto più la scorta, su decisione dell’Ufficio centrale interforze per la sicurezza personale[24], tuttavia il 19 dicembre il Tar del Lazio gliela restituisce. Il 6 marzo 2020 comunica di voler lasciare l’Arma dei Carabinieri collocandosi in aspettativa ad un anno dalla messa in quiescenza.
In politica Il 18 febbraio 2020, la neo presidente della Regione Calabria, Jole Santelli, annuncia in una conferenza stampa presso la Camera dei Deputati, di aver nominato De Caprio assessore regionale all’Ambiente[25]. De Caprio si pone in aspettativa dall’Arma.
Vicende giudiziarie
Assoluzione di favoreggiamento a Cosa nostra Rinviato a giudizio su richiesta del sostituto procuratore della Repubblica di Palermo Antonio Ingroia, De Caprio fu poi prosciolto dall’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra. L’indagine era stata avviata dalla procura per accertare gli eventi che avevano portato alla ritardata perquisizione del covo di Salvatore Riina. Infatti, dopo l’arresto del boss, i Carabinieri della territoriale di Palermo erano pronti a perquisire l’edificio, ma Ultimo e il ROS, ritenendo di poter proseguire l’indagine in corso e individuare le attività criminali dei fiancheggiatori del boss arrestato per disarticolare completamente l’organizzazione, chiesero la sospensione della procedura per “esigenze investigative”, che fu concessa dalla procura – stando a quanto afferma l’allora procuratore Caselli – «in tanto in quanto fosse garantito il controllo e l’osservazione dell’obiettivo». L’osservazione del covo garantita al procuratore Caselli, venne sospesa il giorno stesso dell’arresto di Riina. Successivamente il covo verrà perquisito con un ritardo di ben 18 giorni, quando lo stesso era stato ormai ripulito dai mafiosi oltre che ritinteggiato per non lasciare impronte di alcun tipo. [29].
Peraltro, come riportato nelle motivazioni della sentenza del processo[8], era ben chiaro dall’inizio sia ai Carabinieri sia alla procura che, decidendo di non procedere alla perquisizione, si assumeva un rischio, un rischio investigativo motivato dal raggiungimento di un obiettivo superiore. Lo stesso Tribunale di Palermo sentenzia:«Questa opzione investigativa (la ritardata perquisizione, ndr) comportava evidentemente un rischio che l’Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l’accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell’abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell’ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie di Riina, ndr), che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina – cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell’arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo – od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell’ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti.L’istruzione dibattimentale ha, al contrario, consentito di accertare che il latitante non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all’intuito investigativo del cap. De Caprio.»
Il processo si concluse con l’assoluzione «perché il fatto non costituisce reato».[31]Questo, pur ritenendo possibile la sussistenza di una erronea valutazione dei propri spazi di intervento da parte degli imputati, e di presunte gravi responsabilità disciplinari per non aver comunicato alla procura la propria intenzione di sospendere la sorveglianza.A seguito dell’esame della sentenza non è stata rilevata alcuna responsabilità disciplinare a carico del capitano Ultimo. La sentenza, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo – che peraltro aveva anch’essa richiesto l’assoluzione – è divenuta definitiva l’11 luglio 2006.I Carabinieri definirono la sospensione dell’osservazione una «iniziativa autonoma della quale la Procura non era stata informata». Secondo la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia, un gruppo di affiliati alla mafia entrò indisturbato portando in salvo i parenti del boss, svuotando la cassaforte e verniciando le pareti per cancellare le impronte. Tuttavia, tali dichiarazioni, giudicate «frutto di una ricostruzione certamente autorevole, ma insufficiente per trarne definitive conclusioni» dallo stesso Ingroia[30] – il PM che ha sostenuto l’accusa nel relativo procedimento -, non sono mai state riscontrate nel corso di un vero e proprio dibattimento. Inoltre, nessuno di detti collaboratori ha mai dimostrato di aver personalmente verificato il contenuto della cassaforte o, quantomeno, di conoscere esattamente quanto conservato all’interno della stessa.
Il ruolo nell’errore giudiziario del caso Barilla Il capitano Ultimo partecipò al pedinamento e all’arresto nel 1992 di Daniele Barillà, l’imprenditore di Nova Milanese che ottenne, in seguito alla revisione del processo, un risarcimento di quattro milioni di euro per l’ingiusta detenzione durata oltre 7 anni. Vittima di uno dei più clamorosi casi di errore giudiziario[32] emersi in Italia, Barillà fu erroneamente considerato dai Carabinieri un trafficante di droga, ma l’equivoco era stato generato da uno sbaglio durante un pedinamento sulla tangenziale e strade limitrofe di Milano. La Fiat Tipo amaranto alla guida della quale si trovava Barillà era infatti uguale per modello, colore e simile per numero di targa a quella di un vero narcotrafficante. La vicenda è stata ricostruita dalla fiction di Rai Uno, L’uomo sbagliato. Nell’intera vicenda del caso Barillà, non sono emerse responsabilità disciplinari o penali a carico del Capitano Ultimo. WIKIPEDIA
“Ecco come ho trattato Riina. La mia verità sull’antimafia” Il colonnello Sergio De Caprio, meglio noto come Capitano Ultimo, si racconta in un’intervista alla nostra redazione: “Sognavo sin da piccolo di fare il carabiniere e l’ho fatto”
Eroe antimafia, Robin Hood dei “deboli” ma soprattutto “Servitore del popolo“. Il colonnello Sergio De Caprio non è solo un militare di lungo e glorioso servizio ma il Capitano Ultimo. Passato agli onori delle cronache per aver arrestato il boss di Cosa nostra Totò Riina (15 gennaio del 1993), l’ex comandante dei Ros vanta il merito di aver fondato i Crimor (Unità Militari Combattente) e di aver speso un’intera esistenza combattendo le ingiustizie. “Essere combattente vuol dire considerare, su tutto, il valore e l’importanza dell’azione rispetto alla celebrazione. È una scelta chiara e nitida, dove non sono ammesse falsità. Un combattente non mente mai”, spiega a ilGiornale.it.
Una vita vissuta sotto scorta, nel mirino delle mafie da sempre: “Con la paura ci vivo da quando ero piccolo, ho imparato a conoscerla, ci ho fatto amicizia e ora sono felice di averla sempre accanto a me. Mi dà consigli su come muovermi”, racconta alla nostra redazione.
Capitano Ultimo, lei nasce come Sergio De Caprio. Cosa sognava da piccolo?
“Sognavo di fare il carabiniere dei poveri. Intendo dire il carabiniere che difende i più fragili, che impedisce l’abuso e la violenza sugli altri. E questo l’ho visto fare ai carabinieri di basso grado, che operano in piccoli paesi. Questo era il mio sogno, ci sono riuscito. E sono felice di averlo fatto”.
Quando e perché decide di chiamarsi Ultimo?
“Mi chiamo Utimo perché nel momento in cui venni trasferito alla Sezione Anticrimine di Milano, cioè i reparti che ora si chiamano Ros e che sono stati costituiti dal generale Dalla Chiesa, era obbligatorio avere un nome di battaglia. Era una difesa da possibili intercettazioni delle comunicazioni radio e quindi un modo per nascondere la propria identità. Quando fu il mio momento scelsi Ultimo perché ho vissuto in un mondo fatto di ‘primi’. E questi meccanismi di voler essere il più bello, il più intelligente e il più visibile di tutti – meccanismi che c’erano anche nel corpo dei carabinieri, purtroppo – a me non piacevano. Dunque scelsi di chiamarmi con questo nome, così loro (i primi) erano felici e io non avevo competitori. Tutti scoppiarono a ridere quando lo dissi, ora non ridono più. Non contano gli abiti o i nomi delle persone, sono le azioni che danno la misura della grandezza o piccolezza di qualcuno”.
Perché si copre il volto con una bandana?
“Mi copro il volto perché sono costretto, non ho altre alternative. È la mia difesa, significa scomparire, non essere niente, diventare l’incubo del nemico e rendere difficile la certezza dell’individuazione a chi vuole colpire. Queste cose ce le ha insegnate il generale Dalla Chiesa e sono fiero di averlo fatto seguendo i suoi insegnamenti”.
Quando è stata la prima volta che ha arrestato un malvivente?
“Il primo arresto l’ho fatto insieme al mio babbo, da sottotenente. Il mio papà era un maresciallo comandante della stazione dei carabinieri. Un giorno, mentre stavamo camminando, abbiamo beccato un ladro che rubava benzina da una macchina. E quello è stato il mio primo arresto, il più importante di tutti perché ero insieme al mio babbo e non c’è niente che regga il paragone. Ricordo ancora tutto chiaramente, anche le sensazioni che ho provato. L’abbiamo portato in carcere con la nostra macchina privata, perché noi abbiamo sempre trattato con rispetto anche i criminali. Io sono nato da questi episodi marginali, quelli che però raccolgono i valori più grandi e importanti di tutta la mia storia da combattente”.
All’inizio degli anni ’90 fonda i Crimor (Unità Militari Combattenti). Quella di diventare un “Militare Combattente” è stata una scelta o una vocazione?
“È una scelta e, al contempo, una vocazione. I combattenti non sono solo nei militari. Li riconosci dagli occhi, dal modo in cui affrontano la vita, le missioni e gli incarichi. Il combattente lo riconosci dal modo in cui raggiunge gli obiettivi che il lavoro o la vita gli assegna. Essere combattente vuol dire considerare, su tutto, il valore e l’importanza dell’azione rispetto alla celebrazione. È una scelta chiara e nitida, dove non sono ammesse falsità. Un combattente non mente mai”.
Il 15 gennaio 1993 arresta Totò Riina. Ci racconta come è riuscito a stanarlo?
“Sono arrivato all’arresto di Riina attraverso un lavoro svolto dalla mia unità militare, dal gruppo di carabinieri con cui abbiamo svolto una ricerca informativa nascosta a Palermo. Abbiamo seguito la famiglia Ganci, del quartiere Noce di Palermo, e recepito le dichiarazioni del pentito Balduccio Di Maggio. Così siamo riusciti a metterci sulle tracce di Riina e a catturarlo”.
Cosa ha provato quando gli ha messo le manette ai polsi?
“Abbiamo catturato Riina allo stesso modo in cui abbiamo preso anche altri latitanti prima e dopo di lui, cioè, seguendo la tecnica del generale Dalla Chiesa. E quando lo abbiamo arrestato ho provato la stessa cosa che si prova quando si cattura chiunque altro. È stata una enorme soddisfazione, sia perché avevamo centrato l’obiettivo sia perché tutti i carabinieri che avevano collaborato all’azione potevano tornare sani e salvi alle loro case, nessun civile si era fatto male”.
Com’è stato guardarlo dritto negli occhi?
“Considerando il prigioniero un perdente, uno che è stato sconfitto, l’ho trattato con il rispetto che si deve a chi ha perso”.
Dopo l’arresto di Riina arriva l’accusa più infamante: quella di favoreggiamento a Cosa Nostra insieme al generale dei Ros Mario Mori. Come si è sentito?
“Ho capito che nelle battaglie c’è chi combatte a viso aperto e chi, invece, combatte alle spalle, in maniera vile. Ho combattuto anche questo attacco vile in maniera adeguata, cioè, nell’unico posto possibile: davanti ai giudici. Ho vinto questa battaglia e sono fiero di averlo fatto insieme al generale Mori. Provo massimo disprezzo per quelli che hanno cercato di colpirci alle spalle”.
Lei ha vissuto, e vive ancora, sotto scorta. Ci spiega cosa vuol dire doversi guardare le spalle per una vita intera?
“In realtà, quando sono stato in reparti combattenti, la scorta ce la facevamo reciprocamente io e i carabinieri che erano con me. L’associazione Cosa Nostra, la mafia siciliana, aveva stabilito di uccidermi e quindi aveva lanciato questo conto aperto. Non abbiamo chiesto nulla e in autotutela ci siamo guardati le spalle a vicenda. Il problema si è posto nel momento in cui mi è stata tolta la possibilità di svolgere qualsiasi attività di combattimento. Mi sono ritrovato negli uffici con due/tre collaboratori a svolgere le attività per il glorioso, disciolto, corpo della Forestale – e aggiungo, ingiustamente disciolto – e a quel punto la scorta è diventata una necessità per fornire sicurezza a me e alla mia famiglia soprattuto”.
Nel 2019 le hanno revocato la scorta. Secondo lei, chi lo ha deciso e perché?
“Il problema non è nascondersi ma essere in grado di verificare se sei sotto osservazione da parte di qualcuno. Per gli uffici del comandante generale Nistri non c’era nessun pericolo. Ma secondo me, e secondo il buon senso, ci sono molti pericoli. Quindi ho fatto ricorso al Tar per far valere le mie ragioni. Il Tar mi ha dato ragione e ora ho una scorta che mi è consentita – ribadisco, solo grazie al Tar – contro il volere sia del Ministero degli Interni che del Comando generale dell’Arma dei Carabinieri”.
Ha mai avuto paura?
“La paura è tutto. Senza paura saremmo solo degli insensibili e scellerati. La paurà dà consapevolezza e lucidità alle persone, dà coraggio. Con la paura ci vivo da quando ero piccolo, ho imparato a conoscerla, ci ho fatto amicizia e ora sono felice di averla sempre accanto a me. Mi dà consigli su come muovermi”.
Cos’è la “Karriera”, quella che lei ha sempre rifiutato?
“È il successo conseguito sulla pelle degli altri, disprezzando gli altri e non avendo rispetto della dignità altrui. È qualcosa di molto spregevole, qualcosa che io non avrei mai potuto fare e non ho fatto”.
Cosa ne pensa dell’attuale gestione Antimafia?
“Vorrei solo che chi ha l’autorità e la responsabilità di fare la lotta antimafia spiegasse quali sono gli obiettivi e le modalità con cui intende raggiungerli. E ne rispondesse poi al popolo. Tutto il resto sono solo chiacchere e celebrazione del nulla”.
Nel 2020, Iole Santelli l’ha nominato assessore all’Ambiente della la Regione Calabria. Come mai ha accettato l’incarico e com’è stato lavorare con la governatrice?
“Io sono fiero ed è stato per me un grandissimo onore servire il popolo della Calabria. L’ho fatto proprio perché me lo ha chiesto Iole Santelli, al di fuori di ogni logica di partito. Gli ho dato la mia collaborazione totale, a lei e a tutto il popolo calabrese. Sono fiero di essermi donato con tutte le forze che avevo, con tutta l’intensità che mi ha dato il mio cuore. È stata ed è un’esperienza bellissima. Credo che la Calabria meriti di essere aiutata e valorizzata, non denigrata, offesa e sfruttata come accade”.
Come pensa sia stata gestita sinora l’emergenza sanitaria?
“Penso che bisogna dialogare con le persone, chieder loro di cosa hanno bisogno e poi aiutarle facendo fede alle loro richieste. Al di fuori di questa logica c’è solo autoritarismo, dominio e commissariamenti. Bisogna praticare mutuo soccorso anche a livello istituzionale altrimenti diventa solo propaganda politica. E a me fa schifo”.
Cosa suggerirebbe a un ragazzo giovane che vuole entrare nell’Arma?
“Non gli darei nessun suggerimento. La cosa più importante è donarsi per gli altri senza volere nulla in cambio. Ogni volta che un ragazzo fa questo, qualunque sia l’incarico e l’abito che indossa, per me è un combattente”.
Quando toglie la divisa di Capitano Ultimo, chi è?
“Ultimo è un combattente, un ragazzo di 15 anni che vuole la battaglia e viene dal nulla. Fa la battaglia insieme a ragazzi umili e semplici come lui. Dopodiché, finita la battaglia, svanisce e torna ad ssere il nulla da cui fieramente è venuto. Tutto qua”. 6 Aprile 2021 Rosa Scognamiglio IL GIORNALE
“Capitano Ultimo”, è tutto oro quello che luccica? Lo scorso venerdì 21 Agosto 2015 è stata resa nota l’esautorazione del “Capitano Ultimo” (alias del Colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio) dalle funzioni operative di coordinamento tra i vari reparti del Noe, il Nucleo Operativo Ecologico (di cui rimane comunque vice comandante, ma senza compiti operativi). Accanto alla notizia, giustamente denunciata, si sono affiancati elogi e difese ad honorem del colonnello De Caprio.
E’ forse il caso, quindi, di ricordare alcuni episodi, dimenticati da alcuni giornalisti, che aiuteranno ad avere un’idea più completa del personaggio che deve la sua notorietà alla cattura di Totò Riina nel gennaio del 1993 e che venne consacrato come eroe da Mediaset, che gli dedicò ben tre fiction (e sembra ce ne sia una quarta in arrivo).
L’arresto di Totò Riina e la mancata perquisizione del “covo”.
All’arresto del boss numero uno di Cosa Nostra fa da contraltare la ormai famosa mancata perquisizione del covo di Riina.
Dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio 1993, i magistrati della procura di Palermo erano pronti a perquisire da cima a fondo il complesso abitativo di Via Bernini, nel quale si era nascosto per tanto tempo il boss, ma il capitano Sergio De Caprio, avallato dall’allora colonnello Mario Mori, li convinse ad aspettare, promettendo di contro una sorveglianza continuativa dello stabile. I magistrati accettarono la proposta ma quella sera stessa De Caprio diede l’ordine di sospendere la sorveglianza. Nulla riferì all’Autorità Giudiziaria, né in quel momento né per i successivi 15 giorni, quando Mario Mori comunicò ai magistrati la notizia, il 30 gennaio. A quel punto la procura, con l’aiuto della territoriale dei Carabinieri di Palermo (escludendo quindi, comprensibilmente, il Ros di Mori e De Caprio), si precipitò ad operare una perquisizione a tappeto di tutto il complesso di Via Bernini 52/54 ma, ovviamente, arrivò tardi: il covo era stato svuotato di ogni cosa di eventuale interesse investigativo dai sodali di Riina, che avevano potuto lavorare indisturbati.
Per questa storia, l’allora capitano De Caprio e il colonnello Mori, vennero iscritti nel registro degli indagati dall’Autorita Giudiziaria di Palermo per favoreggiamento aggravato. I pubblici ministeri dell’epoca, Antonio Ingroia e Michele Prestipino, chiesero al Gip Vincenzina Massa l’archiviazione del procedimento per insufficienza di prove ma, quest’ultima, il 2 novembre 2004, impose l’imputazione coatta dei due ufficiali. I due pm, a quel punto, chiesero di essere esonerati dal rappresentare l’accusa contro Mori e De Caprio ma, non essendo stato possibile per il loro procuratore capo assecondarli, portarono il processo a conclusione, chiedendo, per entrambi gli imputati, l’assoluzione; fatti oggettivi che fanno risultare davvero poco credibili le accuse di “persecuzione giudiziaria” che il Capitano Ultimo ha sempre mosso nei confronti di Antonio Ingroia. “In aula, durante il dibattimento, non vedevo il pm Ingroia, ma Riina”, disse Ultimo in una video-intervista trasmessa in occasione della consegna del premio “Atreju 2010”, durante la festa omonima dei giovani del partito del “Popolo delle Libertà”. [LiveSicilia.it, 10 settembre 2010]
Le condotte per le quali i due ufficiali vennero imputati di favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato Cosa nostra riassunte all’inizio della sentenza di assoluzione, furono:
– l’avere dato il 15.1.93 false assicurazioni ai magistrati della procura di Palermo che la casa di Salvatore Riina sarebbe rimasta sotto stretta osservazione, così ottenendo la dilazione della perquisizione che stava per essere effettuata lo stesso giorno;
– l’aver disposto, invece, la cessazione del servizio di osservazione sul complesso immobiliare di via Bernini n. 54 a far data da quello stesso pomeriggio;
– l’averne omessa la comunicazione all’autorità giudiziaria;
– l’aver, quindi, posto in essere un comportamento reiterato volto a rafforzare la convinzione che il servizio fosse ancora in corso, così inducendo intenzionalmente in errore i predetti magistrati ed i colleghi dei reparti territoriali dell’Arma dei carabinieri e, pertanto, agevolando gli uomini di “cosa nostra”, che svuotarono il covo di ogni cosa di eventuale interesse investigativo. [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]
De Caprio, all’epoca, giustificò la scelta di non perquisire il covo di Riina subito dopo il suo arresto con la volontà di non “bruciare” il covo e la neo-collaborazione del pentito Baldassarre Di Maggio. Quest’ultimo, infatti, fu il pentito che, per primo, mise in relazione Riina con i fratelli Sansone, che abitavano in Via Bernini, e che permise quindi, secondo Mori e De Caprio, l’individuazione del covo. Bruciare covo e pentito avrebbe reso dunque inutile continuare le investigazioni sui Sansone, che avevano, secondo Ultimo, un alto interesse investigativo, al contrario del “covo”, dentro il quale – disse – non si sarebbe trovato comunque nulla di importante.
Eppure, in merito all’argomento “salvaguardia del covo e del pentito”, i giudici che lo assolsero fecero notare alcuni particolari:
“Sempre quel 16.1.93 diversi giornalisti tra cui Alessandra Ziniti ed Attilio Bolzoni – come da loro deposto in dibattimento all’udienza dell’11.7.05 – ricevettero da parte dell’allora magg. Roberto Ripollino una telefonata con la quale quest’ultimo gli rivelò che il luogo in cui Salvatore Riina aveva trascorso la sua latitanza era situato in Via Bernini, senza però specificarne il numero civico. Si recarono, quindi, immediatamente sui posto, ove furono raggiunti anche da altri giornalisti e, troupes televisive, tutti alla ricerca del cd. “covo”.
Quella sera stessa la Ziniti mandò in onda, sulla televisione locale per la quale lavorava, un servizio nel quale mostrava le riprese di via Bernini e tra queste anche quella relativa al complesso situato ai nn. 52/54, aggiungendo che in base ad “indiscrezioni” che le erano pervenute quella era la zona ove il Riina aveva abitato.
Lo stesso 16.1.93 apparve sulla stampa la notizia che “un siciliano di nome Baldassarre” stava collaborando con i carabinieri ed aveva dato dal Piemonte, ove si era trasferito, un input fondamentale alla individuazione del Riina (cfr. lancio Ansa [del 16.1.93, ndA] acquisito all’udienza del 9.1.06).” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]
Per di più due giorni dopo l’arresto, sul quotidiano La Stampa, usciva un articolo a firma di Francesco La Licata dal titolo “Tutti i segreti della cattura”, nel quale i lettori poterono leggere il suggestivo sottotitolo “Il covo bruciato” e un riferimento esplicito alla collaborazione di Balduccio Di Maggio, citato con nome e cognome. Tutto questo meno di 48 ore dopo la sospensione della videosorveglianza del complesso. [“Tutti i segreti della cattura”, Francesco La Licata, Corriere della Sera, 17 gennaio 1993]
I giudici quindi concludono: “non v’è dubbio, sul piano logico, che tali elementi avrebbero dovuto indurre gli organi investigativi e gli inquirenti a ritenere il sito ornai “bruciato”, essendo gli uomini di “cosa nostra” già in possesso di tutte le informazioni per stabilire il collegamento via Bernini-DiMaggio-Sansone, ed avrebbero dovuto imporre di procedere subito alla sua perquisizione, ma così non fu ed, al contrario, si ritenne cogente l’interesse a sviare l’attenzione dei mass media dal vero obiettivo.”
Mentre sullo scarso interesse investigativo del covo, additato da Ultimo come uno dei motivi per ritardare la perquisizione, i giudici si espressero così:
“La posizione apicale del Riina, ai vertici dell’organizzazione criminale, ben poteva far ritenere che lo stesso conservasse nella propria abitazione un archivio rilevante per successive indagini su “cosa nostra” e, tenuto conto che la di lui famiglia era rimasta in via Bernini, poteva di certo ipotizzarsi che altri sodali, aventi l’interesse a mettersi in contatto con la stessa, vi si recassero.
Al di là di queste argomentazioni di carattere logico, il fatto che il Riina fosse stato trovato, al momento del suo arresto, in possesso di diversi “pizzini”, ovvero di biglietti cartacei contenenti informazioni sugli affari portati avanti dall’organizzazione, con riferimento ad appalti, alle imprese ed alle persone coinvolte, costituisce un ulteriore preciso elemento, in questo caso di fatto, che vale a rendere la condotta contestata agli imputati oggettivamente idonea ad integrare il reato.
Le argomentazioni difensive riferite sul punto, secondo le quali si riteneva che il latitante non conservasse cose di rilievo nella propria abitazione, perché “il mafioso” non terrebbe mai cose che possono mettere in pericolo la famiglia, appaiono fondate su una massima di esperienza elaborata dagli stessi imputati ma non verificata empiricamente ed anzi contraddetta dalla risultanza offerta proprio dal materiale rinvenuto indosso al boss.
Pertanto, già il 15.1.93, sussisteva la concreta e rilevante probabilità che esistesse altra documentazione in via Bernini; probabilità che è stata confermata in dibattimento dal Brusca e dal Giuffré, secondo cui Salvatore Riina era solito prendere appunti, teneva una contabilità dei proventi criminali, annotava le riunioni e teneva una fitta corrispondenza sia con il Provenzano che con altri esponenti mafiosi, per la “messa a posto” delle imprese e la gestione degli affari.” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]
Alla luce di quanto letto, oltre ad evidenziare le grandi perplessità che non possono fare a meno di emergere in merito alle scelte dei due ufficiali, non possiamo non sottolineare anche il superficiale operato di una procura che, certamente, non seguì in modo impeccabile le fasi di un’indagine così importante e delicata, affidandosi totalmente al Ros di Mori e De Caprio nonostante i motivi addotti dai due carabinieri per ritardare la perquisizione si fossero sgretolati dopo appena due giorni, viste le notizie che gli organi di stampa avevano diffuso circa il ruolo svolto da Balduccio Di Maggio e la localizzazione del covo, ormai bruciato (16 e 17 gennaio 1993), e vista la segnalazione dei Carabinieri di Corleone che informarono del rientro in paese della moglie e dei figli di Riina (16 gennaio 1993). Tutte le riunioni che si susseguirono tra il 16 gennaio e la fine del mese, infatti, avvennero sempre e solo tra l’Autorità Giudiziaria e la territoriale dell’Arma, avendo dato per scontato che, del complesso di Via Bernini, se ne stesse occupando il Ros. I magistrati, inoltre, vennero a sapere del ritorno a Corleone di Ninetta Bagarella, moglie di Riina che abitava con lui in via Bernini, ascoltarono – durante la riunione del 26 gennaio – alcuni ufficiali dell’Arma prospettare la avvenuta cessazione del servizio di sorveglianza, ed ebbero modo, il 27 gennaio, di visionare le riprese filmate dei giorni 14 e 15 gennaio 1993, constatandone l’interruzione il giorno dell’arresto di Riina. Eppure non fu avanzata al Ros alcuna richiesta di spiegazioni.
La sentenza della 3^ sezione del Tribunale di Palermo del 20 febbraio 2006, che mise in luce le pecche operative dei due ufficiali, assolse alla fine Sergio De Caprio e Mario Mori dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”.
“Ad di là delle, in più punti, confuse (v. dichiarazioni sulla asserita non importanza dell’abitazione ove il latitante convive con la famiglia, perché non vi terrebbe mai cose che possano compromettere i familiari) argomentazioni addotte dagli imputati, che sono sembrate dettate dalla logica difensiva di giustificare sotto ogni profilo il loro operato, deve valutarsi se quei comportamenti omissivi valgano ad integrare un coefficiente di volontà diretta ad agevolare “cosa nostra”.
“L’omissione della comunicazione all’Autorità Giudiziaria della decisione, adottata dal cap. De Caprio nel tardo pomeriggio del 15 gennaio stesso, di non riattivare il servizio il giorno seguente, e poi tutti i giorni che seguirono, è stata spiegata dal col. Mario Mori, nella nota del 18.2.93, con lo “spazio di autonomia decisionale consentito” nell’ambito del quale il De Caprio credeva di potersi muovere, a fronte delle successive “varianti sui tempi di realizzazione e sulle modalità pratiche di sviluppo” delle investigazioni che si intendeva avviare in merito ai Sansone, una volta che i luoghi si fossero “raffreddati”.
Ciò però non era e non poteva essere, alla luce della disciplina ex art. 55 e 348 c.p.p. delle attività di polizia giudiziaria. Ed infatti, fino a quando il Pubblico Ministero non abbia assunto la direzione delle indagini, la polizia giudiziaria può compiere, in piena discrezionalità, tutte le attività investigative ritenute necessarie che non siano precluse dalla legge ai suoi poteri; dopo essa ha il dovere di compiere gli atti specificatamente designati e tutte le attività che, anche nell’ambito delle direttive impartite, sono necessarie per accertare i reati ovvero sono richieste dagli elementi successivamente emersi. L’art. 348 co. 3 c.p.p., per costante giurisprudenza (Cass. 7.12.98 n. 6712; Cass. 4.5.94 n. 6252; Cass. 21.12.92 n. 4603), pone, una volta intervenuta l’Autorità Giudiziaria, un unico limite alle scelte discrezionali della polizia giudiziaria, quello della impossibilità di compiere atti in contrasto con le direttive emesse. (…) Questo elemento, tuttavia, se certamente idoneo all’insorgere di una responsabilità disciplinare, perché riferibile ad una erronea valutazione dei propri spazi di intervento, appare equivoco ai fini dell’affermazione di una penale responsabilità degli imputati per il reato contestato.” [Sentenza di assoluzione del 20 febbraio 2006, n. 514/06 del procedimento a carico di Mario Mori e Sergio De Caprio]
Non è stato ritenuto, dunque, che le azioni poste in essere da De Caprio e Mori avessero l’obiettivo consapevole di favorire la mafia.
Infatti, conclude il Collegio giudicante, “non essendo stata provata la causale del delitto, né come “ragione di Stato” né come volontà di agevolare specifici soggetti, diversi dall’organizzazione criminale nella sua globalità, l’ipotesi accusatoria è rimasta indimostrata, arrestandosi al livello di mera possibilità logica non verificata.”
Nessuna “ragione di Stato” dimostrata, nessun intento di favorire la mafia dimostrato, quindi solo un grande errore di valutazione.
La sparatoria di Terme Vigliatore. Un altro episodio meno noto al quale Sergio De Caprio (e non solo lui) dovrà dare, a nostro parere, una risposta più plausibile di quelle fornite nel 1993 e nel 2008 è la vicenda avvenuta a Terme Vigliatore, una cittadina in provincia di Messina, in cui il famoso Capitano Ultimo, il 6 aprile del 1993, sparò ad un ragazzo incensurato di 26 anni, tale Fortunato Imbesi. E fortunato fu davvero, visto che uno dei colpi esplosi dall’arma di De Caprio mancò la sua tempia di pochi centimetri.
Leggiamo la versione di Sergio De Caprio, raccontata in data 15 ottobre 2008 davanti ai magistrati della DDA di Messina nell’ambito delle indagini sui mandanti occulti dell’omicidio del giornalista Beppe Alfano:
“Quell’evento si svolse in maniera del tutto casuale e fu determinato dalla sproporzionata reazione del soggetto che poi scoprimmo essere del tutto privo di interesse investigativo. Ricordo che eravamo venuti a Messina per una normale riunione di coordinamento investigativo tra i vari reparti siciliani. Sulla via del ritorno, percorrendo la litoranea Messina-Palermo, in un tratto di strada ricadente nel comune di Terme Vigliatore, uno dei militari che era con me ritenne di individuare, in un soggetto a bordo di un fuoristrada nero, il latitante Aglieri. Fermammo il soggetto qualificandoci con i tesserini ma, ciononostante, questi – riuscendo a districarsi tra le nostre vetture che lo avevano in qualche modo circondato – riuscì a scappare. Una manovra tanto repentina e ingiustificata ci indusse a dare maggiore fondatezza alla nostra ipotesi poiché quel gesto appariva quello di un lucido criminale. L’inseguimento successivo, lungo i binari della ferrovia, confermò ulteriormente i nostri sospetti. Ritenemmo cioè che anche nell’ipotesi che non si trattasse di Aglieri doveva essere un soggetto che certamente aveva qualcosa da nascondere e che temeva fortemente di essere controllato. Solo alla fine, quando riuscimmo a vederlo bene in faccia, capimmo che non si trattava di Aglieri. Ricordo che il soggetto venne identificato. Posso dire che era di piccola statura ed esile e che si trattava di una persona giovane. All’epoca non mi risultava, né risultava al mio Ufficio, la presenza di Santapaola Benedetto nel territorio della provincia di Messina. Non sono mai stato incaricato di svolgere indagini in ordine alla cattura di Santapaola.”
Per questo episodio De Caprio venne iscritto nel registro degli indagati per tentato omicidio nei confronti di Fortunato Imbesi. Olindo Canali, il pubblico ministero, titolare delle indagini, allora in servizio alla procura di Barcellona Pozzo di Gotto, nonostante avesse verificato l’assoluta gravità del comportamento del militare (“Il fatto è che il cap. De Caprio, per colpa consistita in assoluta imperizia e negligenza, e quindi senza la minima valutazione delle circostanze di fatto, abbia deciso di vertere in una situazione legittimante l’uso delle armi. La colpa è indubbiamente grave se riferita ad un ufficiale dei CC impegnato in un reparto ed in operazioni in cui la capacità di rendersi perfettamente conto di quanto succede è segno di altissima professionalità e preparazione.”) e la totale illegittimità nell’uso dell’arma da fuoco, visto che il ragazzo stava scappando (“mancanza assoluta di elementi idonei a far ritenere all’ufficiale di pg di trovarsi in imminente pericolo tale da giustificare l’uso delle armi sia avuto riguardo alla putatività di tale esimente in quanto le dinamiche dell’intera azione erano tali da far ritenere che nessun pericolo poteva venire da una persona che inseguita da un’auto dei CC potesse nuocere alla incolumità degli stessi, a meno di voler ritenere che tale fuoristrada fosse dotata di sofisticati congegni per ora visti solo nelle avventure cinematografiche di qualche finto eroe dello schermo”), archiviò l’indagine perché il fatto (tentato omicidio colposo) non era e non è previsto dal Codice penale (“L’errore determinato da colpa renderebbe il fatto punibile ove il fatto stesso fosse previsto come colposo dal Codice penale. Trattandosi di tentativo, tuttavia, la fattispecie non appare punibile.”) [richiesta di archiviazione del pm Olindo Canali, 20 ottobre 1993.]
Ma per comprendere l’importanza dell’episodio è necessario ricostruire il quadro degli avvenimenti nei quali si inserì la sparatoria e, per fare ciò, dobbiamo riavvolgere il nastro di ventiquattro ore. Il 5 aprile 1993, il Ros di Messina, su delega di Olindo Canali che indagava sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano , ascolta una conversazione intercettata con delle microspie ambientali posizionate all’interno di un locale di Terme Vigliatore, sito in Via Verdi. A parlare erano tre uomini, Domenico Orifici, Aurelio Salvo e tale “zio Filippo”. Lo “zio Filippo”, si chiarì in modo inequivocabile nell’arco dell’intercettazione di quel giorno, altri non era che il potentissimo boss latitante Benedetto “Nitto” Santapaola. Il maresciallo del Ros Giuseppe Scibilia avverte subito il suo comandante, il colonnello Mario Mori, in quel momento a Roma. Il giorno successivo Mori è di nuovo in Sicilia, più precisamente a Catania, ed è in quella giornata che avvengono, quasi contemporaneamente, due episodi singolari: uno è quello già raccontato della sparatoria a Fortunato Imbesi, l’altro è quello passato più sotto silenzio e cioè l’irruzione del Ros all’interno della villa di tale Mario Imbesi, che non era un omonimo del ventiseienne quasi ucciso da Ultimo ma il padre di questi, imprenditore abbastanza conosciuto nella provincia.
Ma perché parliamo di “episodi singolari”? D’altronde, dalle parole degli ufficiali del Ros, si sarebbe trattato, l’uno, di un “semplice” sbaglio di persona e, l’altro, di una perquisizione in una villa di un imprenditore. Ci espongono le “peculiarità” dei due casi i procuratori generali di Palermo Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio, nella memoria depositata nell’ambito della richiesta di riapertura dibattimentale del processo di appello contro il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per il reato di favoreggiamento a Cosa Nostra: “(…) è stata svolta dalla Procura Generale una intensa attività di indagine integrativa articolatasi nell’interrogatorio di Imbesi Fortunato, dei familiari del medesimo, dei carabinieri del Ros operanti quel giorno, nella nuova audizione del maresciallo Scibilia, a seguito della quale è stata accertato che sia alla Procura della Repubblica di Barcellona Pozzo di Gotto che nel 1993 trattò la vicenda archiviandola, sia al Tribunale di Palermo che l’ha riesaminata in questo processo al fine di valutare la condotta dell’imputato Mori, è stata fornita una versione falsa degli avvenimenti, rappresentando false circostanze, omettendo di riferirne altre determinanti ed arrivando al punto di falsificare dei documenti.”
Secondo i due procuratori, infatti, “i militari del Ros che il 6 aprile operarono a Terme di Vigliatore non si trovavano in quel luogo causalmente mentre erano di ritorno da un incontro di lavoro a Messina, ma ricevettero lo specifico ordine di servizio di recarsi quel giorno, in quel luogo, perché si doveva eseguire una operazione di polizia effettuando una preventiva ricognizione del territorio”, tant’è che “alcuni dei militari operati furono fatti venire anche da Milano e da altre sedi”; di tale missione non solo fu tenuta all’oscuro la magistratura che aveva disposto le intercettazioni che avevano rivelato il luogo in cui il Santapaola conduceva la latitanza, ma persino il maresciallo Scibilia che aveva informato il giorno prima il colonnello Mori dal quale aveva avuto assicurazione che avrebbe provveduto”.
Inoltre, secondo le nuove prove raccolte dalla Procura generale, “il pomeriggio del 6 aprile i militari del Ros iniziarono l’operazione parcheggiando le autovetture dinanzi ad una villa posta a 50 metri di distanza dal locale nel quale il giorno precedente era stato intercettato il Santapaola ed invece di fare irruzione in quel locale, fecero una irruzione armata nella villa degli Imbesi; di tale irruzione armata, riferita da tutti i proprietari della villa e dai loro familiari, non fu fatta alcuna menzione negli atti ufficiali”.
Infatti, continua la memoria, “tutti i miliari del Ros risultanti dagli atti ufficiali e che quel giorno risultavano presenti hanno affermato di non avere partecipato a tale irruzione armata e di non sapere chi fossero gli uomini che l’avevano eseguita.”
Altro particolare inquietante si aggiunge al quadro quando si va a ripescare, tra le carte dell’aprile 1993, il verbale di perquisizione della villa – effettuato ai sensi dell’art. 41 TULPS – che “non indica il nome dei miliari operanti, che non è sottoscritto dalle persone che subirono la perquisizione, e che reca in calce la firma del carabiniere Pinuccio Calvi [anch’egli membro della squadra del Ros comandata da De Caprio, ndA], il quale ha dichiarato che la propria firma è stata falsificata.”
A seguito di tale irruzione, concludono i due procuratori, Benedetto Santapaola non fece più ritorno nel luogo dove era stato intercettato. [Memoria del P.G. illustrativa delle richieste di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale del processo d’appello Mori-Obinu; Palermo, 26 settembre 2014]
Nello stesso momento dell’irruzione alla villa, a qualche chilometro di distanza, il giovane Imbesi, dopo essere uscito dalla villa del padre e alla guida della macchina di quest’ultimo, si imbatte nelle auto civetta (quindi non identificabili) dei Carabinieri del Ros di Sergio De Caprio, che gli intimano l’alt. Il ragazzo, figlio di un conosciuto imprenditore, spaventato da quegli uomini armati, non si ferma (i carabinieri diranno poi di essersi qualificati ma il ragazzo negherà con convinzione, dichiarando che non avrebbe avuto nessun motivo per non fermarsi, altrimenti). Parte l’inseguimento, durante il quale Sergio De Caprio spara più colpi contro la macchina del giovane, centrando, con uno dei proiettili, il parabrezza a pochi centimetri dallo specchietto retrovisore. Imbesi, a quel punto, cerca di uscire dalla macchina e finisce tra i rovi. Al sopraggiungere di alcune auto della Polizia di Stato i carabinieri del Ros si fermano e si fanno riconoscere. De Caprio, come abbiamo letto, spiegherà, tramite una semplice relazione di servizio (visto che, nonostante l’indagine per tentato omicidio e i processi “Mori-Obinu” e quello per l’omicidio Alfano, l’ufficiale venne interrogato in merito dalla procura soltanto quindici anni dopo, nell’ottobre 2008), di aver scambiato Imbesi per il latitante Pietro Aglieri. La Procura generale non è stata convinta della versione dell’ufficiale e per questo ha chiesto – ed ottenuto – l’acquisizione della documentazione fotografica riproducente sia le sembianze fisiche di Fortunato Imbesi dell’epoca, “al fine di dimostrare che non esisteva alcuna somiglianza fisica con Pietro Aglieri”, sia la situazione dei luoghi.
Ed anche sui motivi della presenza di Ultimo e dei suoi uomini nei pressi di Terme Vigliatore e sul loro non essere a conoscenza dell’intercettazione del giorno prima, nella quale si confermava la presenza di Santapaola nel locale di Domenico Orefici, i dubbi aumentano: la squadra di Ultimo aveva il compito di catturare i latitanti, il suo superiore era stato messo a conoscenza della presenza di Santapaola in un edificio di Terme Vigliatore e De Caprio si ritrova il giorno successivo, proprio a qualche decina di metri da quel’edificio, in maniera “casuale”?
E ancora, nello stesso momento in cui viene fatta irruzione nella villa di Mario Imbesi, a pochi chilometri di distanza viene inseguito il figlio Fortunato, entrambe le azioni ad opera del Ros. Una squadra non conosceva l’operato – simultaneo – dell’altra? Infine, secondo Ultimo, la sparatoria avvenne durante il rientro della sua squadra da Messina a Palermo. C’era una via molto comoda e veloce che univa Messina con il capoluogo di regione, cioè l’autostrada, e invece De Caprio scelse la litoranea. “A Capaci era saltata l’autostrada in aria, c’erano anche persone in giro, gentaglia come Brusca, Bagarella” spiegò Ultimo durante la sua escussione nel processo di appello Mori-Obinu, affermando che la litoranea era la strada che faceva quando era Tenente a Bagheria e andava a trovare in licenza i suoi genitori. “Una strada bellissima, la litoranea” disse. Ma la litoranea, come strada che collega direttamente Messina a Palermo, non esiste.
C’è l’autostrada, che all’epoca, da Messina si fermava nei pressi di Sant’Agata di Militello per riprendere una cinquantina di chilometri dopo, vicino a Cefalù; c’è la statale che, per via del traffico che si può trovare nei tratti in cui attraversa centri abitati, consente, cercando di transitare anche dal tratto della litoranea che costeggia Terme Vigliatore (parte del quale peraltro è sterrato), di raggiungere Palermo – da Messina – in “sole” 6 ore e 37 minuti, contro le tre ore e mezza circa che ci volevano utilizzando l’autostrada e il pezzo di statale tra Sant’Agata di Militello e Cefalù (calcolo di Google Maps).
I suoi sottoposti, oltretutto, sentiti i primi mesi del 2015 nell’ambito del processo d’appello Mori – Obinu, non confermano totalmente le dichiarazioni di Ultimo: secondo l’ex carabiniere Roberto Longu, per esempio, la squadra si presentò a Terme Vigliatore per “osservare il territorio” data la possibile presenza, in quella zona, di un traffico di armi; per Giuseppe Mangano, (l’uomo che credette di riconoscere Pietro Aglieri in Fortunato Imbesi) invece, stavano percorrendo l’autostrada ma, ad un certo punto, De Caprio volle “fare una sosta”.
Sono state tutte coincidenze? Sergio De Caprio ci dice di sì, le nuove indagini dei P.g. Roberto Scarpinato e Luigi Patronaggio ci suggeriscono che, probabilmente, le cose sono andate in modo diverso.
Ultimo, la trattativa e i familiari delle vittime di mafia che pretendono la verità. De Caprio non ha mai fatto mistero delle sue opinioni in merito all’ipotesi di una trattativa tra Stato e mafia e a chi quell’ipotesi la sostiene.
Era il 19 luglio 2010 e diversi familiari di vittime di mafia, tra cui Salvatore Borsellino (fratello del giudice Paolo) e Sonia Alfano (figlia del giornalista Beppe), parlano di Via D’Amelio come di una “strage di Stato”. Il commento di Ultimo non si fa attendere:
“Chi parla di stragi di Stato”, con riferimento a quelle di Capaci e di via D’Amelio, «è un vile criminale» e lavora «per delegittimare lo Stato e legittimare Cosa Nostra. Lo Stato ha combattuto la mafia. E ha vinto». E, non soddisfatto, aggiunge: «Mi sembra che il patto tra mafia e pezzi dello Stato sia quello che stanno facendo adesso questi strani personaggi, portando avanti le tesi di Riina. I ragazzi devono invece sapere che lo Stato ha combattuto la mafia e ha vinto». «I servitori dello Stato hanno pagato prezzi altissimi e meritano rispetto». Secondo l’ufficiale dell’Arma, «bisogna riflettere su criminalità e giustizia e capire se c’è una giustizia criminale che aiuta Riina e che invece combatte quelli che hanno combattuto Riina». Una «giustizia criminale», alla quale Ultimo fa riferimento anche a proposito della recente sentenza che ha condannato a 14 anni di reclusione per droga il generale Giampaolo Ganzer, comandante dei carabinieri del Ros [la pena venne ridotta a 4 anni e 11 mesi in appello, il 13 dicembre 2013, ndA]. «Come ha detto lo stesso generale comandante, le sentenze si rispettano: e infatti noi “soldati straccioni” la rispettiamo, come la sentenza che ha condannato a morte Gesù. Ma anche lì il problema è riflettere tra criminalità e giustizia, individuare la “giustizia criminale” e combatterla».” [Ansa, 19 luglio 2010]
E non lesina critiche e invettive nemmeno alla trasmissione “Servizio Pubblico” e al magistrato Alfonso Sabella, rei di aver parlato della trattativa Stato-mafia in prima serata:
“(…) Questa della trattativa, dunque, è solo una pagliacciata, un bel business giornalistico giudiziario che delegittima lo Stato e legittima cosa nostra e che fa ridere solo Salvatore Riina”. Parlando poi della trasmissione Anno Zero, l’ufficiale dei carabinieri aggiunge: “l’unico che mi sembra veramente manovrato da cosa nostra è il dottor Sabella, per quello che dice nel programma contro il Ros e contro il valoroso generale Mori. Ed è incredibile che svolga funzioni nella magistratura: evidentemente gode di appoggi molto importanti» [Ansa, 25 novembre 2010]
Che la trattativa sia solo una pagliacciata è una valutazione smentita da voci più che autorevoli
“Ricordo che mio marito mi disse testualmente che ‘c’era un colloquio tra mafia e parti infedeli dello Stato’. Ciò mi disse intorno alla metà di giugno del 1992”. [Agnese Borsellino, verbale S.I.T, 27 gennaio 2010, Procura di Caltanissetta].
“Quello che conta, invece, è come apparve, all’esterno e oggettivamente, l’iniziativa del ROS, e come la intesero gli uomini di “cosa nostra”. Conseguentemente, quale influenza ebbe sulle determinazioni di costoro. Sotto questi aspetti vanno detto senz’altro alcune parole non equivoche: l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire come una “trattativa”; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di “trattativa”, “dialogo”, ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo; costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare di vertici di “cosa nostra” per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica si impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata.”
[Sentenza Corte D’Assise di Firenze, 6-6-1998, Processo “Stragi 1993”]
Buoni o cattivi.
Molto spesso, anche grazie alla collaborazione di una certa stampa che tende a banalizzare e semplificare ogni questione, riducendo ogni evento, persona o comportamento ad una guerra tra buoni e cattivi, le persone tendono ad identificare i protagonisti di certi eventi di dominio pubblico come eroi o delinquenti. Ma la realtà è ben più complessa e, per comprenderla e, quando serve, cambiarla, è necessaria una certa laicità di pensiero nella raccolta e nella lettura dei fatti.
Il colonnello Sergio De Caprio, dipinto da molti come un eroe, ha però diverse ombre che non ha mai davvero chiarito, trincerandosi dietro giustificazioni improbabili che rasentano, a tratti, un’offesa all’intelligenza.
La realtà, infatti, è ben diversa da una fiction di Mediaset. di Movimento Agende Rosse – 25 agosto 2015
NOTE
- ^ Alessia Candito, Regione Calabria, l’annuncio della presidente Santelli: “Il Capitano Ultimo assessore all’ambiente”, in Repubblica, 18 febbraio 2020. URL consultato il 9 marzo 2020 (archiviato il 19 febbraio 2020).
- ^ Il Capitano Ultimo annuncia: “Dopo 42 anni di servizio lascio l’Arma dei Carabinieri”, in Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2020. URL consultato il 9 marzo 2020 (archiviato il 7 marzo 2020).
- ^ Dalla sentenza De Caprio-Mori, 20 febbraio 2006: “DE CAPRIO Sergio nato a Montevarchi (AR) il 21/02/1961”.
- ^ Repubblica
- ^ Adnkronos
- ^ Trattativa, Nicola Mancino in aula: “Ciancimino è inattendibile. Martelli? Dichiarazioni a rate”, su ilfattoquotidiano.it.
- ^ Processo Dell’Utri, Massimo Ciancimino non depone davanti alla Corte d’Appello – Corriere della Sera
- ^ Salta a:a bhttps://www.laprivatarepubblica.com/overruling/Covo%20Riina%20-%20Tribunale%20-%2020-2-2006.pdf
- ^ Ultimo non prese Riina da solo, ecco perché , magazinesicurezza.info, su magazinesicurezza.info. URL consultato l’11 novembre 2018 (archiviato dall’url originale l’11 novembre 2018).
- ^ Il «capitano Ultimo» senza scorta. I colleghi: «Lo proteggiamo noi», Corriere della Sera, 14 novembre 2009
- ^ Il capitano Ultimo racconta ‘La paura sul volto di Riina’, All’uomo che il 15 gennaio di diciassette anni fa stese una coperta sulla testa di Totò Riina, mettendo così fine alla lunghissima latitanza del capo di Cosa nostra, hanno ridato la scorta. Sconsigliandogli però di tornare a Palermo, La Repubblica, 16 gennaio 2010
- ^ “Trovato il tesoro di Ciancimino”. Nella discarica più grande d’Europa Archiviato il 4 novembre 2012 in Internet Archive. ilfattoquotidiano.it, 4 ottobre 2012
- ^ Ciancimino, è caccia al tesoro espresso.repubblica.it, 4 ottobre 2012
- ^ Lucca, indagine su discarica romena – Indagato Ciancimino jr per riciclaggio repubblica.it, 4 ottobre 2012
- ^ Finmeccanica, arrestato presidente Giuseppe Orsi – Lecce ed il Salento online, su ilpaesenuovo.it. URL consultato il 13 febbraio 2013(archiviato dall’url originale il 26 novembre 2013).