L’HO UCCISO CON UN COLPO ALLA NUCA

PADRE PUGLISI: parla Salvatore Grigoli, il suo assassino 

 

Salvatore Grigoli, collaboratore dell’Arma dei Carabinieri, ex mafioso al soldo dei fratelli Graviano. Vissuto fra i quartieri di Cosa Nostra, con 46 omicidi alle spalle risulta uno dei più spietati killer, presenziando inoltre alle stragi di Firenze e a vari attentati a Roma, nonché a un attentato ai danni di Maurizio Costanzo. I fratelli Graviano, assieme a un altro mafioso, Gaspare Spatuzza, lo incaricarono dell’omicidio ai danni di don Giuseppe Puglisi, che con il centro “Padre Nostro” toglieva tanti giovani ragazzi a Cosa Nostra. L’omicidio si svolse il giorno del compleanno del parroco di Brancaccio, allora uno dei cuori della mafia a Palermo. Stando ai racconti di Grigoli, Spatuzza si affiancò a un tranquillo don Puglisi dicendo: “Padre, questa è una rapina”.
Il prete avrebbe ribattuto, con un sorriso: “Me l’aspettavo”. 
Dopo aver sparato un colpo alla nuca, sempre stando ai racconti del pentito, la morte di Puglisi sembrò una maledizione, dati i continui fallimenti a cui andavano incontro.
Stanco della vita mafiosa, arrestato, confessò tutti i delitti e cominciò una collaborazione, che lo portò ad essere sotto scorta e a vivere con continui spostamenti per evitare vendette da parte della mafia. WIKIPEDIA


GRIGOLI: «L’ordine (di uccidere Don Pino) me lo comunicò il Gaspare Spatuzza che mi disse…dice… “Madre Natura” che lo chiamavamo proprio come Madre Natura a Giuseppe Graviano, diciamo fece sapere che si deve fare questo omicidio di Padre Puglisi».
«Il motivo fu, perché si diceva che il padre fosse un confidente o perlomeno qualcuno che desse una mano alla Polizia di effettuare indagini anche su loro stessi che erano latitanti, addirittura c’erano le suore, una comunità di suore che potevano esserci poliziotti infiltrati là dentro…, per questo motivo.
Una 7,65 fu usata anche perché doveva sembrare un omicidio non fatto da “Cosa Nostra”, ma un omicidio di un tossicodipendente, o di un ladruncolo, qualche cosa del genere. Infatti noi portammo via al prete il suo borsello per sembrare che fosse una rapina». […].


AUDIO UDIENZE PROCESSO OMICIDIO PUGLISI


Tratto dal verbale dell’udienza del 7 luglio del 1997, rendeva spontanee dichiarazioni, riportate nella sentenza di primo grado “Io vorrei collaborare….con la giustizia, quindi definendomi collaboratore”. 

 

“Però, per quanto riguarda questo processo, vorrei definirmi io più che altro un pentito, perché mi sono pentito realmente di aver commesso questo omicidio”.“Riguardo ….io cominciai già a pensare qualcosa del genere all’incirca, riguardo sul pentirmi, un sei mesi addietro a questa parte…. E mi ha dato modo di pensare questo il fatto che da un anno a questa parte io non ero più sostenuto da nessuno, né economicamente né ….cioè in poche parole io non ero più in condizioni di campare, come si suol dire la famiglia; mi sono dovuto persino impegnarmi dell’oro che avevo io per potere mandare dei soldi a casa….e fare….altre cose; addirittura farmi prestare dei soldi per potere tirare avanti i miei figli e questa cosa mi ha cominciato a fare pensare io con chi…per tutta…per gran parte della mia vita, con chi ho avuto a che fare, se è stato giusto le cose che ho commesso, i delitti….cioè questa cosa mi cominciò a far pensare se era stato giusto quello che avevo fatto io per conto di questa organizzazione. E da questo, ecco, che io ho deciso anche di collaborare con la giustizia”. “Adesso vorrei dire io cosa sono a conoscenza e le mie responsabilità riguardo il delitto di Padre Puglisi”. “Vorrei premettere un’altra cosa, che io….tengo a precisare che non è assolutamente vero il fatto che io mi sia vantato, dopo aver commesso questo omicidio, perché non ne trovavo le ragioni, non me ne vantavo per altri omicidi….figuriamoci di questo che già….anche perché, dopo averlo commesso, ci pensavo spesso a questo omicidio e non vedevo la ragione per cui è stato fatto….anche se i motivi ne sono a conoscenza, ma non mi sembravano motivi validi per uccidere un prete”. “Prima….volevo precisare un’altra cosa, prima dell’omicidio, ho commesso un altro reato, lo dico perché secondo me è attinente a questo omicidio. Fummo incaricati io, Spatuzza e Guido Federico di bruciare tre porte di tre famiglie di uno stabile di via Azolino Hazon, nei dintorni di questa via…perché queste persone erano vicine a padre Puglisi”. “I fatti che io conosco, le responsabilità dell’omicidio sono quelli che un giorno…non ricordo se fu lo Spatuzza o Nino Mangano che un giorno mi disse che dovevamo commettere questo omicidio, che deve essere stato lo Spatuzza anche perché la persona che conosceva il padre. Già aveva parlato con Giuseppe Graviano e si doveva commettere questo omicidio, sicuramente ne parlai anche con Nino Mangano, perché io non facevo niente se non ne parlassi con lui”. “Quindi una sera….cercammo di vedere i movimenti, gli spostamenti del padre e lo incontrammo a Brancaccio, in un telefono pubblico. Non mi ricordo se già ero armato o dopo averlo visto…ci recammo per armarci, anche se poi l’unico a essere armato ero io e lo attendemmo nei pressi di casa”. “Così fu, eravamo io, lo Spatuzza, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo
Eravamo comunque…non avevamo né macchine rubate, né motociclette, niente di tutto questo, eravamo con le macchine….una era di disponibilità del Giacalone, un BMW e una Renault 5 di proprietà del Cosimo Lo Nigro.
Scese Spatuzza dalla macchina del Lo Nigro, perché Spatuzza era con Lo Nigro ed io ero con Giacalone.

Il primo ad arrivare fu lo Spatuzza, ricordo che il padre si stava accingendo ad aprire il portone di casa, ….lo Spatuzza si ci affiancò, perché il padre aveva un borsello, gli mise la mano nel borsello e gli disse: padre questa è una rapina”. 
“Allorchè il padre neanche si era accorto di me….e il padre, fu una cosa questa qui che non posso dimenticare, perché ogni volta che penso a questo episodio mi viene in mente questa visione del padre che sorrise, non capii se fu un sorriso ironico o sorrise….sorrise e gli disse allo Spatuzza “me l’aspettavo”. Allorchè io gli sparai un colpo alla nuca e il padre morì sul colpo senza neanche accorgersene di essere stato ucciso”.

 “Dopo di ciò chiaramente il borsello fu portato via dallo Spatuzza… Dopo di ciò ci recammo in uno stabilimento della zona industriale cosiddetto Valtras, uno stabilimento di export-import…una specie di spedizionieri erano e lì fu controllato il borsello.
Ricordo bene che c’era una patente, lo ricordo bene perché lo Spatuzza aveva la mania, perché lui all’epoca già era latitante, di togliere le marche da bollo che potevano servire per eventuali documenti falsi e tutti i documenti e tolse le marche da bollo”. 
“Tra le altre cose ricordo che c’era una lettera…non ricordo se è stata inviata al padre o….c’era una busta con un foglio, una lettera di una persona che gli aveva scritto che, se non ricordo male, gli facesse gli auguri non so di cosa, all’incirca trecento mila lire e poi altri pezzettini di carta…”
“Vorrei premettere che il borsello fu portato via, perché si voleva far credere che l’omicidio….cioè l’omicidio dovevano pensare gli inquirenti che era stato fatto da qualche tossicodipendente o da qualche rapinatore, ecco perché fu utilizzata la 7,65, non è un’arma consueta agli omicidi di mafia”. “Questo è quello che io sono a conoscenza…

La confessione del killer

Il testimone

 


PUGLISI: COSÌ PARLÒ IL SUO KILLER 

 La vita di un giovane mafioso cresciuto nel quartiere dominato da Cosa nostra, i rapporti coi boss, il delitto, il pentimento. La sconvolgente testimonianza.

Spunta all’improvviso nella penombra del parlatorio. È vestito di nero:  nero il suo pullover, i suoi jeans, le sue scarpette di vernice. In una stanza di un carcere di massima sicurezza Salvatore Grigoli soppesa le parole e le pronuncia con sofferenza. È stato uno dei killer più spietati di Cosa nostra: ha confessato 46 omicidi, è implicato nelle stragi di Firenze, negli attentati di Roma, in quello ai Parioli ai danni di Maurizio Costanzo. Ed è l’autore dell’assassinio che gli ha cambiato la vita, quello di don Pino Puglisi, il parroco di Palermo ucciso il 15 settembre di sei anni fa davanti alla porta di casa. Un assassinio che, racconta, «ci sembrò subito come una maledizione, perché da allora cominciò ad andarci tutto storto». Quella che segue è la cruda testimonianza di un uomo di 36 anni che ha deciso di collaborare con la giustizia dopo l’arresto di due anni fa. E che dichiara il suo pentimento.

Quando sentì per la prima volta il nome Puglisi? 

«Quando mi hanno comunicato che doveva morire, un paio di giorni prima di ucciderlo».

Perché era stato dato quell’ordine? 

«C’era la convinzione che il Centro Padre nostro, da lui creato, fosse un covo di infiltrati della polizia. Poi si scoprì che non era vero. Ma innanzitutto perché nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva questo suo fascino, soprattutto i giovani».

C’era qualche frase in particolare?

«Non so se c’era una frase particolare, anche perché a noi le cose ce le riferivano. I Graviano (i fratelli Filippo e Giuseppe, boss di Brancaccio, accusati di essere i mandanti, ndr) non andavano alle sue messe. Erano cose che gli venivano raccontate. Ma Cosa nostra sapeva tutto, pure che continuava ad andare in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e il recupero degli scantinati di via Hazon, che voleva fare requisire, il Comitato intercondominiale, le prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare».

Prima dell’omicidio ci furono le vostre intimidazioni: l’incendio alle porte di casa dei membri del Comitato, le minacce, il pestaggio di un ragazzo. Puglisi era cosciente dei rischi?

«Lui aveva capito certamente da dove arrivava il messaggio. Noi facevamo questi attentati per allontanare da Brancaccio don Pino e la gente che lo appoggiava. Infatti un paio se ne andarono. Ma Puglisi continuava a fare quello che aveva sempre fatto, parlare contro la mafia…».

Un delitto annunciato.

«Sì, anche perché lui rimase solo. Secondo me, si poteva salvare. Se lo Stato lo avesse protetto, ad esempio. E così successe quello che è successo».

E arrivaste a quella sera.

«Lo avvistammo in una cabina telefonica mentre eravamo in macchina. Andammo a prendere l’arma. Toccava a me. Ero io quello che sparava».

Era nervoso, guardingo?

«No. Era tranquillo. Che era il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza (un componente del commando che lo uccise, ndr) gli tolse il borsello e gli disse: padre, questa è una rapina. Lui rispose: me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso».

Il sorriso di un santo?

«Non ho esperienza di santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».

È vero che si vantò di essere l’omicida di Puglisi?

«È assolutamente falso. Io non avevo assolutamente nulla di cui vantarmi: se in Cosa nostra fosse stato consentito giudicare un omicidio, io l’avrei criticato».

Quell’omicidio fece molto clamore, fin dal giorno dopo. Che effetto vi fece i giorni seguenti?

«Nessun effetto».

E le manifestazioni antimafia per le vie di Brancaccio, un mese dopo?

«Cominciammo a capire che non era stata una cosa utile per noi. Anzi, aveva peggiorato la situazione. Una specie di autogol. A quel punto abbiamo scelto il silenzio. E poi cominciarono i problemi, e tra di noi, lo commentavamo come una maledizione».

Cosa nostra rispettava i preti, quello era il primo omicidio del dopoguerra.

«Per Cosa nostra la Chiesa era quella che, se c’era un latitante, lo nascondeva. Non perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno. Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni».

Lei è a conoscenza di qualche latitante nascosto da sacerdoti?

«No, però si sapeva nell’ambiente, che in passato era avvenuto».

E la Chiesa di Puglisi?

«La Chiesa di Puglisi era una Chiesa diversa».

Ricorda le parole del Papa ad Agrigento contro i mafiosi, nel 1993?

«Vagamente, io allora ero un mafioso. Mi toccò molto di più una lettera pubblicata sul Giornale di Sicilia da alcuni giovani che mi invitavano al pentimento».

Ma nell’ambiente di Cosa nostra che effetto fecero le parole del Papa?

«Si vociferava che la Chiesa cominciava ad essere diversa».

Le bombe in Laterano furono messe per questo?

«No. Era tutta un’altra storia. Rientra in una strategia stragista di Cosa nostra contro le istituzioni».

Lei è accusato di un delitto orribile e odioso: il rapimento del figlio del pentito Di Matteo, sequestrato per lungo tempo, ucciso e poi sciolto nell’acido per ritorsione contro il padre.

«L’ho conosciuto bene quel bambino. Madonna mia, era un ragazzo pieno di vita… Cosa nostra mi ha tradito: mi avevano detto che lo dovevamo tenere per un paio di giorni e basta, fino a quando il padre ritrattava. E invece… Ho fatto cose che non si possono giustificare, ma questa… questa è stato il motivo del mio pentimento. Non gliel’ho potuta perdonare»

Ci sono mafiosi religiosi in Cosa nostra?

«Il novanta per cento dice di credere in Dio. Uno dei miei coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad ammazzare qualcuno. A me questa cosa mi dava fastidio: ma che aiuto ti può dare Dio, che andiamo ad ammazzare?, gli dicevo io. Ho sentito dire che Giuseppe Graviano qualche volta andava a messa. È gente che legge la Bibbia. La Bibbia la leggevo anch’io, da latitante. Mi piaceva leggerla. La leggevo allora e la leggo adesso da credente. Perché è quando sei solo che cominci a riflettere. Perché loro ti inculcano questa cultura: che tutto quello che fa Cosa nostra è giusto».

Che passi della Bibbia ama leggere?

«La vita di Cristo sulla terra».

Lei dice di essersi convertito.

«Vede, io c’ho questa convinzione: che a me non mi crederà nessuno. Io sto cambiando, devo cambiare, ma voglio che siano i fatti a far parlare me. Mi piacerebbe essere a Palermo il 15 settembre per l’anniversario della morte di Puglisi. Ma a me queste cose non piace dirle, perché penseranno che sono un ipocrita. Lo Stato poi dovrebbe aiutare chi può cambiare. In questo carcere, ad esempio, mi hanno negato persino un prete. Come si fa a cambiare? Per cambiare bisogna essere aiutati. Per questo sono molto grato a padre Mario, una persona squisita».

Padre Mario Golesano, il parroco di Brancaccio che ha sostituito Puglisi.

«Sì, io gli devo moltissimo, non mi ha mai abbandonato. Lui mi ha scritto per primo. Ho provato un’emozione intensa nel ricevere quella lettera. Mi scriveva di quanto era bello sentire il pane profumato, faticato, sudato, guadagnato con i sacrifici. Di sentire la gioia dei miei bambini. La gioia che io ho tolto a tanti bambini. Il mio rammarico è quello di aver tolto tanti padri ai loro figli».

Un profumo che a Brancaccio non sentì.

«Lì fin da bambini si comincia a sentire il fascino degli uomini di rispetto». Lei ha scritto anche una lettera aperta al sindaco di Palermo, Orlando.

«Come rappresentante della cittadinanza. Ho invitato chi è in Cosa nostra a cambiare, a seguire lo stesso cammino che sto facendo io. Conosco i miei coimputati e sono convinto che alcuni di loro potrebbero cambiare. Anche se è difficile, perché Cosa nostra ti inculca che tutto è giusto, che lo Stato è il nemico numero uno, che i magistrati sono dei mostri, che Falcone e Borsellino sono i nemici numero uno di Cosa nostra».

Cosa nostra a Palermo è ancora potente?

«Non vorrei che si finisse come a Napoli, in un gruppo di clan in cui il primo che si sveglia spara. Almeno Cosa nostra manteneva l’ordine. Cosa nostra in questo momento è in ginocchio. E l’arma è quella dei collaboratori di giustizia. Chi lascia che vengano denigrati fa un grosso sbaglio». 

Che cos’è la borgata Brancaccio di Palermo nelle parole dell’ex uomo d’onore Salvatore Grigoli?

«Un quartiere degradato, dove non c’è niente, dove ti abituano a subire il fascino degli uomini di rispetto fin da quando sei ragazzino.

Perché se rubano una macchina, Cosa nostra te la fa ritrovare il giorno dopo, perché non si muove niente senza che lo sappia Madre Natura». Madre Natura, ossia Cosa nostra. Che cos’era Brancaccio per padre Puglisi?

«È la borgata più dimenticata della città. Non ha una scuola media, niente asilo nido e nemmeno un consultorio o centro sociale comunale, ha solo una scuola elementare e una materna», aveva detto pochi giorni prima di morire alla cronista Delia Parrinello. Già: la scuola media, vecchia fissazione di padre Puglisi, unico modo per strappare tanti ragazzi alla manovalanza mafiosa. Il suo assassino, Salvatore Grigoli, nato a Brancaccio, guarda caso si è fermato al diploma di quinta elementare. Anche se la sua storia di uomo d’onore comincia relativamente tardi, a vent’anni:

«Lavoravo nel campo dell’edilizia, ero un grande lavoratore, faticavo, faticavo, finché un giorno la mia impresa ha fallito e sono stato licenziato. Allora avevo già un bambino. Non sono uno che si arrende e che si perde d’animo. Conoscevo la gente giusta, l’ho avvicinata e ho cominciato a fare rapine. Da queste agli omicidi il passo è breve, è una “stradetta” piccola piccola».

Nei verbali degli interrogatori il collaboratore Salvatore Grigoli è straordinariamente franco:

«Ne uccidevo di gente, ne ho uccisa pure a 25 metri da casa mia».

Ben presto Salvatore diventa uno dei killer più spietati di Cosa nostra. Uomo d’onore, non inserito nei ranghi mafiosi, ma “riservato”, cioè direttamente alle dipendenze dei boss. Se le cose fossero andate diversamente, sarebbe diventato un boss, un “mammasantissima” del mandamento di Brancaccio. Efficiente, intelligente e spietato.

«Intanto continuavo con la mia attività commerciale, un negozio di articoli sportivi.
Il negozio andava male, un giorno ho detto a uno dei capi di Cosa nostra se conosceva qualcuno a cui venderlo. Lui rispose: “Tu non lo devi vendere, se va male ti aiutiamo noi”.
Poi chiamò quello che teneva i soldi della cassa e gli disse: “A Salvatore da oggi gli diamo due milioni al mese per le spese”». Ai suoi figli

Cosa nostra non fa mancare nulla, persino regolare stipendio.
«A quel tempo percepivo cinque milioni al mese». Padre Puglisi, don Treppì per gli amici, dalle tre iniziali, lo stipendio di insegnante di religione del liceo “Vittorio Emanuele” invece lo devolveva interamente per il mutuo del “Centro Padre nostro”.
Non aveva bisogno di molto altro don Pino, andava avanti a scatolette, era di una povertà francescana. Mite, tranquillo, ma di quella mitezza che sa essere, all’occorrenza, sfiorata dall’ira. Nell’intervista citata denuncia l’inattività del mondo politico e amministrativo, la stessa in cui si dibatte oggi il suo successore, don Mario Golesano. «Lavoriamo da tre anni senza risultati», dichiarava Puglisi; «nelle anticamere di tutti i sindaci, Lo Vasco, Rizzo, Orobello, di tutti gli assessori, del prefetto, anche in Questura, anche alla Usl: a chiedere almeno una scuola media, un distretto sociosanitario e un po’ di verde dove giocare e correre. Tutte richieste sostenute anche dal Consiglio di quartiere e dal Comitato intercondominiale. Risultato? Finora nessuno. C’è speranza per il distretto: l’assessore straordinario Cottone ha promesso che istruirà la pratica.
I locali ci sono». I locali erano quelli di via Hazon, dove Cosa nostra teneva armi, droga ed esplosivo (quello usato per far saltare in aria Borsellino).
Toccare quei locali significava essere condannati a morte. Cominciarono le minacce, poi il decreto dei boss. Racconta al processo Grigoli: «Uno dei miei capi mi contatta e mi dice: “Si deve fare questo omicidio.
Madre Natura ha mandato a dire di fare questa cosa”». Mercoledì 15 settembre 1993 era il giorno del compleanno di don Puglisi. I suoi killer lo stavano cercando per capire abitudini e movimenti. Lo avvistarono verso le 21 in una cabina telefonica. «Abbiamo deciso di intervenire subito». 
Non era difficile ammazzare un prete. Andarono a prendere l’arma col silenziatore in un deposito industriale, nascosta in un autocarro Lupetto. Era talmente facile che non si preoccuparono nemmeno di adoperare auto rubate.
Puglisi intanto aveva parcheggiato la sua vecchia Uno e si accingeva ad aprire il portone di casa, in via Anita Garibaldi. «Fu una questione di secondi: Spatuzza si avvicinò e gli mise la mano nella sua mano per prendergli il borsello e gli disse piano: “Padre, questa è una rapina”. Lui rispose: “Me l’aspettavo”. Poi lo sparo sordo nell’aria morbida di scirocco.
Il corpo riverso in terra, supino.
Le auto che ripartono di nuovo verso il deposito: «Qui abbiamo visionato il borsello del padre. Lo visionammo più che altro per vedere se effettivamente trovavamo qualche riscontro a quello che si era detto, qualche indicazione che poteva portarci a queste presunte infiltrazioni dei poliziotti nella chiesa».
Non trovarono nulla, solo una lettera di auguri per il compleanno. Dalla patente di guida uno di loro prese la marca. Poi se ne andarono. «Singolare coincidenza con quanto è scritto nel Vangelo secondo Giovanni: Si sono divise tra loro le mie vesti», ha detto nella sua requisitoria il pm Matassa. «Ma questo loro non potevano saperlo».

Famiglia Cristiana 28.6.2012   Francesco Anfossi


15.9.2023 La confessione di Spatuzza: “Padre Puglisi ci sorrise e noi gli sparammo un colpo alla nuca”

 

Il racconto dell’imbianchino di Brancaccio, per anni “manovale” dei boss Graviano, autore di oltre 50 omicidi, che si è poi pentito: “Lo cercai per giorni e inscenammo una rapina, doveva essere ucciso perché non voleva sottostare alle regole di Cosa nostra”. Si disse certo che “Don Pino mi ha perdonato e intercede con Dio per illuminare il mio cammino”

“Dico: ‘Questa è una rapina’, lui si gira, sorridendo dolcemente e con serenità, e mi dice: ‘L’avevo capito’. Guardo Grigoli e… un colpo in testa”. E’ così che Gaspare Spatuzza, “u tignusu”, imbianchino di Brancaccio, prima “manovale” dei boss stragisti Giuseppe e Filippo Graviano e poi pentito, raccontò come venne ucciso in via Anita Garibaldi, alle 20.40 del 15 settembre del 1993, Padre Pino Puglisi. Un delitto per il quale – assieme ad un’altra cinquantina di omicidi – Spatuzza, tornato libero a marzo, è stato condannato e di cui ha svelato tutti i contorni.

“Sono certo che don Pino mi ha perdonato”

Già a maggio del 2013, alla vigilia della beatificazione del parroco della chiesa di San Gaetano, Spatuzza – le cui dichiarazioni sono state fondamentali per svelare uno dei “più gravi depistaggi della storia della Repubblica”, quello sulla strage di via D’Amelio – in un memoriale si diceva certo che “don Pino mi ha perdonato e ora intercede presso Dio, affinché possa illuminare questo mio percorso di redenzione e di cooperazione con gli operatori della pace”.

La sentenza: “L’opera del prete era una minaccia per il potere mafioso”

Come ricostruì l’allora sostituto procuratore Lorenzo Matassa (oggi giudice), che nel 1998 sostenne l’accusa nel processo di primo grado per l’omicidio del parroco davanti alla Corte d’Assise presieduta da Vincenzo Oliveri (diventato poi presidente della Corte d’Appello e ora in pensione), “la presenza di don Pino Puglisi era vista come una minaccia per il potere mafioso, che fece subito arrivare i primi avvertimenti”. E aggiunse: “Sin dal primo giorno del suo insediamento, si era dedicato ad un’attiva opera costruttiva, anche se in modo silenzioso, di recupero sociale del quartiere, aiutando i non abbienti, i bambini abbandonati e le famiglie in difficoltà, la sua opera pastorale si era estrinsecata in ogni settore, come il recupero dei tossicodipendenti, la creazione di aggregati sociali – tra cui il centro Padre Nostro e il Comitato intercondominiale di via Azolino Hazon – e la chiesa di San Gaetano era diventata per tutti un centro di riferimento e soprattutto per gli abitanti di Brancaccio che trovavano un’alternativa alla triste e violenta realtà ambientale”. E, come successivamente spiegò – lapidario – Spatuzza, il prete “non aveva l’intenzione di sottostare alle regole di Cosa nostra” e per questo i boss di Brancaccio Giuseppe e Filippo Graviano ne decretarono la condanna a morte.

“Volevo investirlo col motorino poi invece gli abbiamo sparato”

“Ecco – raccontò Spatuzza nel 2009 ai pm di Palermo – ora c’è l’omicidio del prete don Puglisi… Per conoscerlo ho impiegato giorni interi, non riuscivo a localizzarlo… Mentre sto percorrendo la stradina lo incrocio, sento chiamare ‘Padre Pino, Padre Pino’, mi giro e dico: ‘E’ lui’. Inizialmente pensavo di investirlo con il motorino, non doveva morire. Passano 4-5 tentativi. Poi pensiamo di ucciderlo con la pistola, arriviamo in via San Ciro, vicino casa sua, già si stava avviando, siamo scesi contemporaneamente (lui e Salavatore Grigoli, ndr) dalla macchina e ci siamo avviati dietro don Puglisi, lo accostiamo, io da sinistra, Grigoli da destra. Dico: ‘Questa è una rapina’, lui si gira e mi dice: ‘L’avevo capito’. Guardo Grigoli e… un colpo in testa”.

“Gli dissi che era una rapina, lui si girò e ci sorrise…”

Nel memoriale del 2013, il pentito riferì la stessa identica versione dei fatti, ma li raccontava parlando di sé in terza persone ed aggiunse alcuni dettagli che non aveva rivelato prima, come il sorriso e la serenità del parroco prima di essere ucciso: “Gaspare Spatuzza lo affianca alla sua sinistra, Salvatore Grigoli alla destra. Padre Puglisi, con un sorriso, prima guarda Spatuzza, poi Grigoli. Allora Spatuzza, cercando la mano di padre Puglisi per rubargli il borsello che teneva con la sinistra gli intima: ‘Padre, questa è una rapina’. Puglisi, sorridendo dolcemente e con serenità, dice: ‘Lo avevo capito’. A quel punto Spatuzza prende il borsello di padre Puglisi e china la testa per far capire a Grigoli che può sparare. Salvatore Grigoli, che nel frattempo aveva puntato l’arma alla nuca di padre Puglisi, spara un colpo solo, come prestabilito, per farlo apparire un incidente nel corso di una rapina. Padre Puglisi cade a terra. Gli assassini, con passo regolare, si allontanano dal luogo del delitto, a bordo delle autovetture che li aspettavano”.

Il prete colpito alle spalle mentre rientrava a casa

Un prete, Padre Puglisi, che molto più di altri mise in pratica il Vangelo, ammazzato alle spalle, di sera, mentre era solo e stava rientrando nella sua modestissima abitazione. Un uomo discreto che con la semplicità e gesti silenziosi si era trasformato in una bomba atomica per il potere mafioso, che non poteva ammettere che a Brancaccio la gente conoscesse un modo diverso di vivere, non basato sulla violenza, sull’arroganza e la prepotenza. Il pm Matassa disse infatti: “Ricostruiremo le circostanze che portarono alla morte di un uomo a causa del suo impegno evangelico e sociale, attraverseremo il fondo più oscuro, più abietto del delitto e avremo modo di constatare in quali misere condizioni di assoggettamento, di povertà, di omertà soggiacciono interi quartieri periferici della città di Palermo”, uno scenario che purtroppo, a trent’anni di distanza non è radicalmente cambiato.

I giudici: “Esempio di un clero non più timido con Cosa nostra”

I giudici nella sentenza definirono padre Puglisi come un “esponente del clero siciliano più avanzato e coraggioso” che “era divenuto un sacerdote di trincea che aveva trasformato la sua chiesa in una prima linea nella lotta alla mafia: esprimeva l’immagine di un clero isolano non più timido ed impacciato nelle prese di posizione contro il potere mafioso, bensì risoluto e battagliero nella coerenza evangelica e nella testimonianza della fede, ed impavido nel mobilitare la comunità e favorire il risveglio delle coscienze” e “aveva cercato di trasformare da roccaforte e riserva di Cosa nostra in avamposto dell’antimafia dal quale combatteva ogni forma di prepotenza e soprusi ed aveva avviato un’opera di risanamento morale e religioso”.

 

La denuncia dei boss durante le omelie

Ma scrissero anche: “Il prete aveva lucidamente inteso la sua missione – tramite il suo silenzioso ma efficace operato – come un ‘percorso di liberazione’ dei suoi parrocchiani ed in generale della gente della borgata, dall’impotente assuefazione al predominio mafioso attuato con metodologie di sopraffazione e di intimidazione, alla coscienza di sé e della dignità civile” e che “era di carattere schivo e riservato, preferendo l’impegno quotidiano alle azioni spettacolari, ma per il suo attivismo che si esprimeva nell’organizzazione di visite ed incontri con le istituzioni, nella partecipazione a cortei contro il prepotere criminale, nelle denunce del malaffare, si era esposto prima alle rappresaglie poi all’offensiva della mafia, aveva ricevuto minacce, avvertimenti, che aveva coraggiosamente denunciato ai fedeli nelle omelie domenicali”. Un coraggio che pagò con la vita. PALERMO TODAY Sandra Figliuolo