PADRE PUGLISI : PARLA SALVATORE GRIGOLI, IL SUO ASSASSINO
Salvatore Grigoli, collaboratore dell’Arma dei Carabinieri, ex mafioso al soldo dei fratelli Graviano. Vissuto fra i quartieri di Cosa Nostra, con 46 omicidi alle spalle risulta uno dei più spietati killer, presenziando inoltre alle stragi di Firenze e a vari attentati a Roma, nonché a un attentato ai danni di Maurizio Costanzo. I fratelli Graviano, assieme a un altro mafioso, Gaspare Spatuzza, lo incaricarono dell’omicidio ai danni di don Giuseppe Puglisi, che con il centro “Padre Nostro” toglieva tanti giovani ragazzi a Cosa Nostra. L’omicidio si svolse il giorno del compleanno del parroco di Brancaccio, allora uno dei cuori della mafia a Palermo. Stando ai racconti di Grigoli, Spatuzza si affiancò a un tranquillo don Puglisi dicendo: “Padre, questa è una rapina”. Il prete avrebbe ribattuto, con un sorriso: “Me l’aspettavo”. Dopo aver sparato un colpo alla nuca, sempre stando ai racconti del pentito, la morte di Puglisi sembrò una maledizione, dati i continui fallimenti a cui andavano incontro. Stanco della vita mafiosa, arrestato, confessò tutti i delitti e cominciò una collaborazione, che lo portò ad essere sotto scorta e a vivere con continui spostamenti per evitare vendette da parte della mafia. WIKIPEDIA
Tratto dal verbale dell’udienza del 7 luglio del 1997, rendeva spontanee dichiarazioni, riportate nella sentenza di primo grado
“Io vorrei collaborare….con la giustizia, quindi definendomi collaboratore”.
“Però, per quanto riguarda questo processo, vorrei definirmi io più che altro un pentito, perché mi sono pentito realmente di aver commesso questo omicidio”.
“Riguardo ….io cominciai già a pensare qualcosa del genere all’incirca, riguardo sul pentirmi, un sei mesi addietro a questa parte…. E mi ha dato modo di pensare questo il fatto che da un anno a questa parte io non ero più sostenuto da nessuno, né economicamente né ….cioè in poche parole io non ero più in condizioni di campare, come si suol dire la famiglia; mi sono dovuto persino impegnarmi dell’oro che avevo io per potere mandare dei soldi a casa….e fare….altre cose; addirittura farmi prestare dei soldi per potere tirare avanti i miei figli e questa cosa mi ha cominciato a fare pensare io con chi…per tutta…per gran parte della mia vita, con chi ho avuto a che fare, se è stato giusto le cose che ho commesso, i delitti….cioè questa cosa mi cominciò a far pensare se era stato giusto quello che avevo fatto io per conto di questa organizzazione. E da questo, ecco, che io ho deciso anche di collaborare con la giustizia”.
“Adesso vorrei dire io cosa sono a conoscenza e le mie responsabilità riguardo il delitto di Padre Puglisi”.
“Vorrei premettere un’altra cosa, che io….tengo a precisare che non è assolutamente vero il fatto che io mi sia vantato, dopo aver commesso questo omicidio, perché non ne trovavo le ragioni, non me ne vantavo per altri omicidi….figuriamoci di questo che già….anche perché, dopo averlo commesso, ci pensavo spesso a questo omicidio e non vedevo la ragione per cui è stato fatto….anche se i motivi ne sono a conoscenza, ma non mi sembravano motivi validi per uccidere un prete”. “Prima….volevo precisare un’altra cosa, prima dell’omicidio, ho commesso un altro reato, lo dico perché secondo me è attinente a questo omicidio. Fummo incaricati io, Spatuzza e Guido Federico di bruciare tre porte di tre famiglie di uno stabile di via Azolino Hazon, nei dintorni di questa via…perché queste persone erano vicine a padre Puglisi”. “I fatti che io conosco, le responsabilità dell’omicidio sono quelli che un giorno…non ricordo se fu lo Spatuzza o Nino Mangano che un giorno mi disse che dovevamo commettere questo omicidio, che deve essere stato lo Spatuzza anche perché la persona che conosceva il padre. Già aveva parlato con Giuseppe Graviano e si doveva commettere questo omicidio, sicuramente ne parlai anche con Nino Mangano, perché io non facevo niente se non ne parlassi con lui”. “Quindi una sera….cercammo di vedere i movimenti, gli spostamenti del padre e lo incontrammo a Brancaccio, in un telefono pubblico. Non mi ricordo se già ero armato o dopo averlo visto…ci recammo per armarci, anche se poi l’unico a essere armato ero io e lo attendemmo nei pressi di casa”.
“Così fu, eravamo io, lo Spatuzza, Giacalone Luigi e Lo Nigro Cosimo. Eravamo comunque…non avevamo né macchine rubate, né motociclette, niente di tutto questo, eravamo con le macchine….una era di disponibilità del Giacalone, un BMW e una Renault 5 di proprietà del Cosimo Lo Nigro. Scese Spatuzza dalla macchina del Lo Nigro, perché Spatuzza era con Lo Nigro ed io ero con Giacalone. Il primo ad arrivare fu lo Spatuzza, ricordo che il padre si stava accingendo ad aprire il portone di casa, ….lo Spatuzza si ci affiancò, perché il padre aveva un borsello, gli mise la mano nel borsello e gli disse: padre questa è una rapina”.
“Allorchè il padre neanche si era accorto di me….e il padre, fu una cosa questa qui che non posso dimenticare, perché ogni volta che penso a questo episodio mi viene in mente questa visione del padre che sorrise, non capii se fu un sorriso ironico o sorrise….sorrise e gli disse allo Spatuzza “me l’aspettavo”. Allorchè io gli sparai un colpo alla nuca e il padre morì sul colpo senza neanche accorgersene di essere stato ucciso”.
“Dopo di ciò chiaramente il borsello fu portato via dallo Spatuzza… Dopo di ciò ci recammo in uno stabilimento della zona industriale cosiddetto Valtras, uno stabilimento di export-import…una specie di spedizionieri erano e lì fu controllato il borsello. Ricordo bene che c’era una patente, lo ricordo bene perché lo Spatuzza aveva la mania, perché lui all’epoca già era latitante, di togliere le marche da bollo che potevano servire per eventuali documenti falsi e tutti i documenti e tolse le marche da bollo”.
“Tra le altre cose ricordo che c’era una lettera…non ricordo se è stata inviata al padre o….c’era una busta con un foglio, una lettera di una persona che gli aveva scritto che, se non ricordo male, gli facesse gli auguri non so di cosa, all’incirca trecento mila lire e poi altri pezzettini di carta…”
“Vorrei premettere che il borsello fu portato via, perché si voleva far credere che l’omicidio….cioè l’omicidio dovevano pensare gli inquirenti che era stato fatto da qualche tossicodipendente o da qualche rapinatore, ecco perché fu utilizzata la 7,65, non è un’arma consueta agli omicidi di mafia”. “Questo è quello che io sono a conoscenza….”.
Salvatore Grigoli, collaboratore dell’Arma dei Carabinieri, ex mafioso al soldo dei fratelli Graviano. Vissuto fra i quartieri di Cosa Nostra, con 46 omicidi alle spalle risulta uno dei più spietati killer, presenziando inoltre alle stragi di Firenze e a vari attentati a Roma, nonché a un attentato ai danni di Maurizio Costanzo. I fratelli Graviano, assieme a un altro mafioso, Gaspare Spatuzza, lo incaricarono dell’omicidio ai danni di don Giuseppe Puglisi, che con il centro “Padre Nostro” toglieva tanti giovani ragazzi a Cosa Nostra. L’omicidio si svolse il giorno del compleanno del parroco di Brancaccio, allora uno dei cuori della mafia a Palermo. Stando ai racconti di Grigoli, Spatuzza si affiancò a un tranquillo don Puglisi dicendo: “Padre, questa è una rapina”. Il prete avrebbe ribattuto, con un sorriso: “Me l’aspettavo”. Dopo aver sparato un colpo alla nuca, sempre stando ai racconti del pentito, la morte di Puglisi sembrò una maledizione, dati i continui fallimenti a cui andavano incontro. Stanco della vita mafiosa, arrestato, confessò tutti i delitti e cominciò una collaborazione, che lo portò ad essere sotto scorta e a vivere con continui spostamenti per evitare vendette da parte della mafia, dalla quale si esce “solo con il sangue” (Leonardo Sciascia). Ad oggi la collaborazione di Grigoli ha contribuito all’arresto di molti mafiosi. Ha collaborato, inoltre, con la diocesi palermitana per il processo di beatificazione di don Puglisi. WIKIPEDIA
PUGLISI: COSÌ PARLÒ IL SUO KILLER La vita di un giovane mafioso cresciuto nel quartiere dominato da Cosa nostra, i rapporti coi boss, il delitto, il pentimento. La sconvolgente testimonianza.
Spunta all’improvviso nella penombra del parlatorio. È vestito di nero: nero il suo pullover, i suoi jeans, le sue scarpette di vernice. In una stanza di un carcere di massima sicurezza Salvatore Grigoli soppesa le parole e le pronuncia con sofferenza. È stato uno dei killer più spietati di Cosa nostra: ha confessato 46 omicidi, è implicato nelle stragi di Firenze, negli attentati di Roma, in quello ai Parioli ai danni di Maurizio Costanzo. Ed è l’autore dell’assassinio che gli ha cambiato la vita, quello di don Pino Puglisi, il parroco di Palermo ucciso il 15 settembre di sei anni fa davanti alla porta di casa. Un assassinio che, racconta, «ci sembrò subito come una maledizione, perché da allora cominciò ad andarci tutto storto». Quella che segue è la cruda testimonianza di un uomo di 36 anni che ha deciso di collaborare con la giustizia dopo l’arresto di due anni fa. E che dichiara il suo pentimento.
Quando sentì per la prima volta il nome Puglisi?
«Quando mi hanno comunicato che doveva morire, un paio di giorni prima di ucciderlo».
Perché era stato dato quell’ordine?
«C’era la convinzione che il Centro Padre nostro, da lui creato, fosse un covo di infiltrati della polizia. Poi si scoprì che non era vero. Ma innanzitutto perché nelle prediche, a messa, parlava contro la mafia e la gente sentiva questo suo fascino, soprattutto i giovani».
C’era qualche frase in particolare?
«Non so se c’era una frase particolare, anche perché a noi le cose ce le riferivano. I Graviano (i fratelli Filippo e Giuseppe, boss di Brancaccio, accusati di essere i mandanti, ndr) non andavano alle sue messe. Erano cose che gli venivano raccontate. Ma Cosa nostra sapeva tutto, pure che continuava ad andare in Prefettura e al Comune per chiedere la scuola media e il recupero degli scantinati di via Hazon, che voleva fare requisire, il Comitato intercondominiale, le prediche. C’era gente vicina a don Pino che andava in chiesa e poi ci veniva a raccontare».
Prima dell’omicidio ci furono le vostre intimidazioni: l’incendio alle porte di casa dei membri del Comitato, le minacce, il pestaggio di un ragazzo. Puglisi era cosciente dei rischi?
«Lui aveva capito certamente da dove arrivava il messaggio. Noi facevamo questi attentati per allontanare da Brancaccio don Pino e la gente che lo appoggiava. Infatti un paio se ne andarono. Ma Puglisi continuava a fare quello che aveva sempre fatto, parlare contro la mafia…».
Un delitto annunciato.
«Sì, anche perché lui rimase solo. Secondo me, si poteva salvare. Se lo Stato lo avesse protetto, ad esempio. E così successe quello che è successo».
E arrivaste a quella sera.
«Lo avvistammo in una cabina telefonica mentre eravamo in macchina. Andammo a prendere l’arma. Toccava a me. Ero io quello che sparava».
Era nervoso, guardingo?
«No. Era tranquillo. Che era il giorno del suo compleanno lo scoprimmo dopo. Spatuzza (un componente del commando che lo uccise, ndr) gli tolse il borsello e gli disse: padre, questa è una rapina. Lui rispose: me l’aspettavo. Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso».
Il sorriso di un santo?
«Non ho esperienza di santi. Quello che posso dire è che c’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».
È vero che si vantò di essere l’omicida di Puglisi?
«È assolutamente falso. Io non avevo assolutamente nulla di cui vantarmi: se in Cosa nostra fosse stato consentito giudicare un omicidio, io l’avrei criticato».
Quell’omicidio fece molto clamore, fin dal giorno dopo. Che effetto vi fece i giorni seguenti?
«Nessun effetto».
E le manifestazioni antimafia per le vie di Brancaccio, un mese dopo?
«Cominciammo a capire che non era stata una cosa utile per noi. Anzi, aveva peggiorato la situazione. Una specie di autogol. A quel punto abbiamo scelto il silenzio. E poi cominciarono i problemi, e tra di noi, lo commentavamo come una maledizione».
Cosa nostra rispettava i preti, quello era il primo omicidio del dopoguerra.
«Per Cosa nostra la Chiesa era quella che, se c’era un latitante, lo nascondeva. Non perché era collusa, ma perché aiutava chi aveva bisogno. Un territorio neutro. Cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni».
Lei è a conoscenza di qualche latitante nascosto da sacerdoti?
«No, però si sapeva nell’ambiente, che in passato era avvenuto».
E la Chiesa di Puglisi?
«La Chiesa di Puglisi era una Chiesa diversa».
Ricorda le parole del Papa ad Agrigento contro i mafiosi, nel 1993?
«Vagamente, io allora ero un mafioso. Mi toccò molto di più una lettera pubblicata sul Giornale di Sicilia da alcuni giovani che mi invitavano al pentimento».
Ma nell’ambiente di Cosa nostra che effetto fecero le parole del Papa?
«Si vociferava che la Chiesa cominciava ad essere diversa».
Le bombe in Laterano furono messe per questo?
«No. Era tutta un’altra storia. Rientra in una strategia stragista di Cosa nostra contro le istituzioni».
Lei è accusato di un delitto orribile e odioso: il rapimento del figlio del pentito Di Matteo, sequestrato per lungo tempo, ucciso e poi sciolto nell’acido per ritorsione contro il padre.
«L’ho conosciuto bene quel bambino. Madonna mia, era un ragazzo pieno di vita… Cosa nostra mi ha tradito: mi avevano detto che lo dovevamo tenere per un paio di giorni e basta, fino a quando il padre ritrattava. E invece… Ho fatto cose che non si possono giustificare, ma questa… questa è stato il motivo del mio pentimento. Non gliel’ho potuta perdonare»
Ci sono mafiosi religiosi in Cosa nostra?
«Il novanta per cento dice di credere in Dio. Uno dei miei coimputati diceva sempre: in nome di Dio, prima che ci muovessimo per andare ad ammazzare qualcuno. A me questa cosa mi dava fastidio: ma che aiuto ti può dare Dio, che andiamo ad ammazzare?, gli dicevo io. Ho sentito dire che Giuseppe Graviano qualche volta andava a messa. È gente che legge la Bibbia. La Bibbia la leggevo anch’io, da latitante. Mi piaceva leggerla. La leggevo allora e la leggo adesso da credente. Perché è quando sei solo che cominci a riflettere. Perché loro ti inculcano questa cultura: che tutto quello che fa Cosa nostra è giusto».
Che passi della Bibbia ama leggere?
«La vita di Cristo sulla terra».
Lei dice di essersi convertito.
«Vede, io c’ho questa convinzione: che a me non mi crederà nessuno. Io sto cambiando, devo cambiare, ma voglio che siano i fatti a far parlare me. Mi piacerebbe essere a Palermo il 15 settembre per l’anniversario della morte di Puglisi. Ma a me queste cose non piace dirle, perché penseranno che sono un ipocrita. Lo Stato poi dovrebbe aiutare chi può cambiare. In questo carcere, ad esempio, mi hanno negato persino un prete. Come si fa a cambiare? Per cambiare bisogna essere aiutati. Per questo sono molto grato a padre Mario, una persona squisita».
Padre Mario Golesano, il parroco di Brancaccio che ha sostituito Puglisi.
«Sì, io gli devo moltissimo, non mi ha mai abbandonato. Lui mi ha scritto per primo. Ho provato un’emozione intensa nel ricevere quella lettera. Mi scriveva di quanto era bello sentire il pane profumato, faticato, sudato, guadagnato con i sacrifici. Di sentire la gioia dei miei bambini. La gioia che io ho tolto a tanti bambini. Il mio rammarico è quello di aver tolto tanti padri ai loro figli».
Un profumo che a Brancaccio non sentì.
«Lì fin da bambini si comincia a sentire il fascino degli uomini di rispetto». Lei ha scritto anche una lettera aperta al sindaco di Palermo, Orlando.
«Come rappresentante della cittadinanza. Ho invitato chi è in Cosa nostra a cambiare, a seguire lo stesso cammino che sto facendo io. Conosco i miei coimputati e sono convinto che alcuni di loro potrebbero cambiare. Anche se è difficile, perché Cosa nostra ti inculca che tutto è giusto, che lo Stato è il nemico numero uno, che i magistrati sono dei mostri, che Falcone e Borsellino sono i nemici numero uno di Cosa nostra».
Cosa nostra a Palermo è ancora potente?
«Non vorrei che si finisse come a Napoli, in un gruppo di clan in cui il primo che si sveglia spara. Almeno Cosa nostra manteneva l’ordine. Cosa nostra in questo momento è in ginocchio. E l’arma è quella dei collaboratori di giustizia. Chi lascia che vengano denigrati fa un grosso sbaglio». Che cos’è la borgata Brancaccio di Palermo nelle parole dell’ex uomo d’onore Salvatore Grigoli? «Un quartiere degradato, dove non c’è niente, dove ti abituano a subire il fascino degli uomini di rispetto fin da quando sei ragazzino. Perché se rubano una macchina, Cosa nostra te la fa ritrovare il giorno dopo, perché non si muove niente senza che lo sappia Madre Natura». Madre Natura, ossia Cosa nostra. Che cos’era Brancaccio per padre Puglisi? «È la borgata più dimenticata della città. Non ha una scuola media, niente asilo nido e nemmeno un consultorio o centro sociale comunale, ha solo una scuola elementare e una materna», aveva detto pochi giorni prima di morire alla cronista Delia Parrinello. Già: la scuola media, vecchia fissazione di padre Puglisi, unico modo per strappare tanti ragazzi alla manovalanza mafiosa. Il suo assassino, Salvatore Grigoli, nato a Brancaccio, guarda caso si è fermato al diploma di quinta elementare. Anche se la sua storia di uomo d’onore comincia relativamente tardi, a vent’anni: «Lavoravo nel campo dell’edilizia, ero un grande lavoratore, faticavo, faticavo, finché un giorno la mia impresa ha fallito e sono stato licenziato. Allora avevo già un bambino. Non sono uno che si arrende e che si perde d’animo. Conoscevo la gente giusta, l’ho avvicinata e ho cominciato a fare rapine. Da queste agli omicidi il passo è breve, è una “stradetta” piccola piccola». Nei verbali degli interrogatori il collaboratore Salvatore Grigoli è straordinariamente franco: «Ne uccidevo di gente, ne ho uccisa pure a 25 metri da casa mia». Ben presto Salvatore diventa uno dei killer più spietati di Cosa nostra. Uomo d’onore, non inserito nei ranghi mafiosi, ma “riservato”, cioè direttamente alle dipendenze dei boss. Se le cose fossero andate diversamente, sarebbe diventato un boss, un “mammasantissima” del mandamento di Brancaccio. Efficiente, intelligente e spietato. «Intanto continuavo con la mia attività commerciale, un negozio di articoli sportivi. Il negozio andava male, un giorno ho detto a uno dei capi di Cosa nostra se conosceva qualcuno a cui venderlo. Lui rispose: “Tu non lo devi vendere, se va male ti aiutiamo noi”. Poi chiamò quello che teneva i soldi della cassa e gli disse: “A Salvatore da oggi gli diamo due milioni al mese per le spese”». Ai suoi figli Cosa nostra non fa mancare nulla, persino regolare stipendio. «A quel tempo percepivo cinque milioni al mese». Padre Puglisi, don Treppì per gli amici, dalle tre iniziali, lo stipendio di insegnante di religione del liceo “Vittorio Emanuele” invece lo devolveva interamente per il mutuo del “Centro Padre nostro”. Non aveva bisogno di molto altro don Pino, andava avanti a scatolette, era di una povertà francescana. Mite, tranquillo, ma di quella mitezza che sa essere, all’occorrenza, sfiorata dall’ira. Nell’intervista citata denuncia l’inattività del mondo politico e amministrativo, la stessa in cui si dibatte oggi il suo successore, don Mario Golesano. «Lavoriamo da tre anni senza risultati», dichiarava Puglisi; «nelle anticamere di tutti i sindaci, Lo Vasco, Rizzo, Orobello, di tutti gli assessori, del prefetto, anche in Questura, anche alla Usl: a chiedere almeno una scuola media, un distretto sociosanitario e un po’ di verde dove giocare e correre. Tutte richieste sostenute anche dal Consiglio di quartiere e dal Comitato intercondominiale. Risultato? Finora nessuno. C’è speranza per il distretto: l’assessore straordinario Cottone ha promesso che istruirà la pratica. I locali ci sono». I locali erano quelli di via Hazon, dove Cosa nostra teneva armi, droga ed esplosivo (quello usato per far saltare in aria Borsellino). Toccare quei locali significava essere condannati a morte. Cominciarono le minacce, poi il decreto dei boss. Racconta al processo Grigoli: «Uno dei miei capi mi contatta e mi dice: “Si deve fare questo omicidio. Madre Natura ha mandato a dire di fare questa cosa”». Mercoledì 15 settembre 1993 era il giorno del compleanno di don Puglisi. I suoi killer lo stavano cercando per capire abitudini e movimenti. Lo avvistarono verso le 21 in una cabina telefonica. «Abbiamo deciso di intervenire subito». Non era difficile ammazzare un prete. Andarono a prendere l’arma col silenziatore in un deposito industriale, nascosta in un autocarro Lupetto. Era talmente facile che non si preoccuparono nemmeno di adoperare auto rubate. Puglisi intanto aveva parcheggiato la sua vecchia Uno e si accingeva ad aprire il portone di casa, in via Anita Garibaldi. «Fu una questione di secondi: Spatuzza si avvicinò e gli mise la mano nella sua mano per prendergli il borsello e gli disse piano: “Padre, questa è una rapina”. Lui rispose: “Me l’aspettavo”. Poi lo sparo sordo nell’aria morbida di scirocco. Il corpo riverso in terra, supino. Le auto che ripartono di nuovo verso il deposito: «Qui abbiamo visionato il borsello del padre. Lo visionammo più che altro per vedere se effettivamente trovavamo qualche riscontro a quello che si era detto, qualche indicazione che poteva portarci a queste presunte infiltrazioni dei poliziotti nella chiesa». Non trovarono nulla, solo una lettera di auguri per il compleanno. Dalla patente di guida uno di loro prese la marca. Poi se ne andarono. «Singolare coincidenza con quanto è scritto nel Vangelo secondo Giovanni: Si sono divise tra loro le mie vesti», ha detto nella sua requisitoria il pm Matassa. «Ma questo loro non potevano saperlo».
Famiglia Cristiana 28.6.2012 Francesco Anfossi
‘Ndrangheta stragista, Grigoli racconta le stragi per piegare lo Stato 27 Novembre 2018 ANTIMAFIA 2000
di Aaron Pettinari Il pentito: “Mi dissero che eravamo a ‘buon punto'”
Le stragi in Continente; i falliti attentati allo stadio “Olimpico” e al pentito Contorno; le confidenze ricevute da Nino Mangano sui contatti con la politica; il ruolo del boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano (imputato in questo processo assieme a Rocco Santo Filippone) e le rivendicazioni “Falange Armata”. Sono questi gli argomenti affrontati da Salvatore Grigoli (foto d’archivio), oggi collaboratore di giustizia ed in passato membro del gruppo di fuoco di Brancaccio che partecipò in maniera attiva negli anni delle stragi, durante la sua deposizione al processo ‘Ndrangheta stragista, in corso davanti la Corte d’Assise di Reggio Calabria, presieduta da Ornella Pastore. Il pentito è stato sentito la scorsa settimana, prima della trasferta di Roma in cui sono stati ascoltati l’ambasciatore Francesco Paolo Fulci ed il generale Giampaolo Ganzer. Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, Grigoli ha riferito di alcuni contatti tra mafia e Stato nel tentativo di limitare il 41 bis, la legge sui pentiti e per altre richieste. E le autobombe di Milano, Roma e Firenze sarebbero dovute servire a far capire allo Stato che doveva cedere.
“Loro miravano che lo Stato si rivolgesse a Cosa nostra per vedere un po’ di fermare gli attentati e da lì chiaramente mettersi d’accordo, scambiarsi favori reciproci – ha detto intervenendo in videocollegamento – In passato era già avvenuto altre volte, io ad esempio sapevo che c’era stato il contatto con i Servizi per la questione Moro, per vedere se in Cosa nostra si poteva intervenire”. Grigoli, che non era formalmente affiliato a Cosa nostra ma rientrava nella categoria degli “uomini d’onore riservati”, di certi temi parlava in particolare con Nino Mangano, divenuto capomandamento di Brancaccio dopo l’arresto dei fratelli Graviano. “Nino Mangano mi disse che c’erano dei contatti con gli uomini dello Stato che c’erano all’epoca – ha aggiunto Grigoli – mi disse qualcosa tipo che ‘eravamo a buon punto’. I rapporti li avevano con una corrente politica, con uomini di Forza Italia. Chi? All’epoca c’era Dell’Utri, questa gente qui”.
L’attentato all’Olimpico A detta del pentito è tra la fine del 1993 ed il 1994 che il gruppo di fuoco di Brancaccio si trova ad organizzare una nuova strage, quella ai carabinieri allo Stadio Olimpico. Grigoli partecipò alla preparazione dell’esplosivo, ed anche nelle fasi preparative a Roma. “La bomba doveva scoppiare durante il passaggio delle forze dell’ordine che andavano a fare il servizio di ordine pubblico – ha raccontato Grigoli – Io me ne tornai in Sicilia. Ricordo che mi aspettavo l’attentato a giorni. Poi ci furono problemi e l’auto non esplose”. Prima dell’attentato, proprio nella Capitale vi fu anche un incontro, a Torvaianica, con il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano: “Ricordo che lui ci venne a trovare in questa villetta dove eravamo appoggiati. Mi rimase impresso perché era vestito molto elegantemente, con la cravatta, la giacca, il cappotto blu. Non mi era mai capitato di vederlo vestito in quel modo”.
Le rivendicazioni “Falange Armata” Rispondendo alla domanda se avesse mai sentito parlare di sigle particolari il teste ha risposto: “Mi ricordo che alcune cose le disse Francesco Giuliano, lui era un po’ chiacchierone. Disse che dopo gli attentati in Continente, per rivendicare l’azione, si facevano telefonate a nome della Falange Armata. Se ne occupava direttamente lui da una cabina. Io ho capito che serviva per sviare le indagini. Al tempo si parlava anche di usare esplosivi diversi. Ad esempio per Contorno fu usato un esplosivo diverso dal tritolo. Cosa era la Falange Armata? Io sapevo che era un movimento politico estremista, qualcosa del genere. Come una sorta di Brigate rosse”.
Il sequestro del piccolo Di Matteo Tra le altre cose Grigoli ha anche parlato del sequestro del piccolo Di Matteo, il figlio del collaboratore di giustizia Mario Santo barbaramente ucciso e sciolto nell’acido: “Giuseppe Graviano ci incaricò del sequestro del bambino. Io partecipai al rapimento perché lui veniva in un maneggio nella nostra zona. Eravamo io, Spatuzza, Cosimo Lo Nigro, Giacalone e Fifetto Cannella. Poi lo consegnammo a Brusca e non lo rividi più ma per noi sarebbe tornato a casa. Ci avevano detto che i napoletani avevano avuto successo con i rapimenti dei parenti dei pentiti”. Parlando del ruolo di Giacalone in seno alla consorteria mafiosa ha anche ricordato che questi, diverse volte, veniva incaricato di portare delle lettere a Milano: “Queste gli venivano consegnate da Nino Mangano per conto di Giuseppe Graviano o Matteo Messina Denaro. Indirizzate a chi? Non lo ricordo”. Infine il teste ha anche riferito dei rapporti con alcuni appartenenti alla ‘Ndrangheta, in materia di traffico di stupefacenti ma ha detto di non conoscere rapporti specifici tra Graviano ed i calabresi, pur non potendo escluderli. Intanto ieri l’udienza che sarebbe stata dedicata all’audizione del collaboratore di giustizia Antonio Russo è saltata per problemi tecnici per cui il processo è stato rinviato al prossimo 6 dicembre.
a cura di Claudio Ramaccini, Direttore Centro Studi Sociali contro la mafia – PSF