Nato a Trapani il 28 settembre 1919 fu assassinato a Trapani, 14 settembre 1988 Nel 1946 entrò in Magistratura, destinato alla Procura di Trapani. Dal 1951 al 1953 fu Pretore di Calatafimi, e a Trapani dal 1953 al 1954. Dal 1971 giudice presso il Tribunale di Trapani, fu dal 1978 Presidente di Sezione dello stesso Tribunale, fin quando andò in pensione il 1º maggio 1987. Un anno dopo, i Carabinieri di Trapani, alle 8 del mattino del 14 settembre 1988 a Locogrande (contrada nelle vicinanze di Trapani) ne rinvenivano il cadavere dietro l’autovettura di proprietà dell’ex-magistrato. Presentava un colpo di arma da fuoco alla testa ed un altro all’addome Le indagini evidenziavano che il delitto era stato organizzato e compiuto da componenti della criminalità organizzata locale.
Il processo Un primo processo celebrato innanzi la Corte d’Assise di Trapani portò alla momentanea condanna di alcuni soggetti ritenuti gli esecutori dell’omicidio. Detti soggetti furono poi assolti in grado d’appello. Negli anni successivi, complici le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, si giunse alla condanna di Totò Riina, considerato mandante dell’omicidio. Nel 1985 Giacomelli, aveva firmato il provvedimento di sequestro di beni a Gaetano Riina, fratello del boss. Nelle motivazioni i Giudici d’Assise ripercorrono il momento storico in cui fu commesso il delitto. Emerse, così, che la mafia aveva deciso di colpire, per la prima volta in assoluto, un Magistrato giudicante, uno qualsiasi. Si decise di uccidere Giacomelli perché, nella sua qualità di Presidente della sezione per le misure di prevenzione del locale Tribunale, confiscò l’abitazione del fratello del capo di Cosa Nostra, non consentendogli più di utilizzarla. Qualche giorno dopo la mafia decise di colpire un altro Magistrato giudicante operante nel distretto di Corte d’Appello di Palermo: Antonino Saetta. Quello di Alberto Giacomelli resta l’unico caso di omicidio di un Magistrato in pensione nella storia d’Italia.
Quando viene ucciso, Alberto Giacomelli ha 69 anni e non esercita più le funzioni di magistrato; è in pensione da quindici mesi. È una mattina come tante, quella del 14 settembre 1988. L’ex magistrato esce alle 8 dalla casa di Logogrande a bordo della sua Fiat Panda. Attraversa la strada di campagna che costeggia vigneti e uliveti che si affacciano sul mare per poi immettersi sulla provinciale che conduce a Trapani. Probabilmente gli assassini lo costringono a fermarsi e a scendere dall’auto. Tre i colpi sparati, due dei quali colpiscono il giudice alla testa e all’addome causandone la morte. Per gli investigatori, il suo caso è a lungo un rompicapo, un delitto senza movente. Giacomelli non è un “magistrato d’assalto”, non si è quasi mai occupato di vicende di mafia e conduce una vita tranquilla. In un primo processo, celebrato davanti alla Corte d’Assise di Trapani, per il fatto è condannata una banda di giovani “balordi”, accusati da un (falso) pentito di aver ucciso per vendetta. La “banda” sarà assolta in grado d’appello. La svolta si verifica anni dopo, con le rivelazioni di un collaboratore di giustizia. Giacomelli, dice il collaboratore, è stato ucciso per “una questione di famiglia”. Come scrisse il giornalista del quotidiano trapanese La Sicilia, Rino Giacalone, non “famiglia” nel senso di Cosa Nostra, ma “famiglia di sangue”. Questa la nuova verità: il magistrato nel gennaio del 1985, nella sua qualità di Presidente della sezione per le misure di prevenzione del tribunale di Trapani, aveva confiscato l’abitazione di Gaetano Riina, fratello di Totò, applicando, tra i primi, la legge “Rognoni-La Torre”. Il 9 settembre del 1987 i Rima impugnarono il sequestro e Gaetano cercò di mantenere il possesso del bene facendosene nominare “affidatario”. Ma il tentativo fallì e l’anno successivo Giacomelli fu ucciso. Totò Rima è stato condannato in via definitiva all’ergastolo quale mandante dell’omicidio. A oggi non si conoscono i nomi dei killer. Alberto Giacomelli è un magistrato all’antica. La passione per la professione gli è stata trasmessa dal padre, anch’egli giudice. Conseguita la laurea in giurisprudenza, nel 1946 assume le funzioni giudiziarie e viene destinato alla Procura della Repubblica di Trapani ove è Sostituto Procuratore fino al 1971, salvo che per i brevi periodi in cui è Pretore a Calatafimi e nella stessa Trapani. Viene poi trasferito al Tribunale di Trapani. Esercita funzioni di Giudice fino all’ottobre del 1978, quando assume quelle di Presidente di sezione ricoperte fino al suo pensionamento. Quando si ritira in campagna ad occuparsi delle terre di cui è proprietario, quasi tutti i trapanesi lo chiamano affettuosamente “U zu Bettu”. Il suo collega Pietro A. Sirena lo ricorda così: “Alberto era un uomo buono e mite, ed era allo stesso tempo un vero galantuomo, doti queste assai rare e senza le quali si potrà forse essere “giuristi”, ma non si potrà amministrare vera “giustizia”: compito del giudice non è quello di applicare meccanicamente le regole del diritto, ma soprattutto di mediare, da uomo onesto, le tensioni della società in cui vive”. La giornalista Serena Verrecchia dirà: “Il giudice Giacomelli era un uomo che non si aspettava di morire, un magistrato che non aveva sfidato a volto aperto Cosa nostra, ma un servitore dello Stato che quando il destino lo aveva posto dinanzi ad una prova di coraggio non si era tirato indietro. Non aveva badato ai nomi, Alberto Giacomelli. Aveva compiuto il suo dovere quando era stato chiamato a farlo e per questo fu ammazzato. Il suo non può restare un nome affisso al bordo di una strada, una storia caduta nell’oblio, ma deve diventare per tutti la testimonianza dell’aspetto brutale e vendicativo della mafia”. Nelle cronache di mafia, Alberto Giacomelli è abbastanza sconosciuto nell’Italia di oggi. Compare solo negli elenchi dei magistrati uccisi. Gli anniversari della morte sono ricordati da pochi. Al Palazzo di Giustizia della sua città nessuna targa lo commemora. L’ex Presidente del tribunale Alfredo Longa commenta amaramente: ‘la sua uccisione fu tanto vigliacca quanto brutale. Oggi il rammarico più grande è l’oblio in cui è caduto l’omicidio quasi ci fossero vittime eccellenti ed altre meno”. (tratto dal volume “Nel loro segno” del Csm)
Quel giudice in pensione assassinato da Totò Riina. In una strada di campagna che attraversa uliveti e vigneti che si affacciano sul mare cantato da Omero e Virgilio, davanti l’ isola di Mozia, a ridosso dell’ estremo lembo della Sicilia Occidentale, la mattina del 10 settembre 1988 venne assassinato un magistrato inerme, in pensione da poco più di 15 mesi, dell’ età di 69 anni. Lo uccisero all’ alba di una giornata ventosa di settembre, caratterizzata da un cielo limpido. Era uscito di buon’ ora dalla casa di campagna in contrada Locogrande, a 15 chilometri da Trapani, a bordo della sua Fiat Panda. Da tempo non adoperava più la vettura blindata. Percorse poche centinaia di metri quando venne bloccato da due sicari, a bordo di una Vespa rally 200, che lo costrinsero a scendere. Uno di loro estrasse dalla cinta dei pantaloni una pistola Taurus, calibro 38, con matricola abrasa, di fabbricazione brasiliana, e sparò un colpo all’ altezza dell’ addome e uno, quello di grazia, alla nuca. Moriva così il dottor Alberto Giacomelli, che nell’ ultimo periodo della sua carriera aveva svolto le funzioni di presidente di sezione del tribunale di Trapani, dove tutti lo conoscevano come un galantuomo e lo consideravano una delle figure più carismatiche, quando aveva lasciato la magistratura per curare le sue vigne e i suoi agrumeti. i trovavo seduto alla mia piccola scrivania, intento ad ultimare la tesi di laurea, quando appresi la notizia di quel delitto: rimasi attonito ed incredulo, non ritenevo possibile che un magistrato da tempo in pensione, un funzionario delle Stato, potesse morire in quel modo. Lo trovarono verso le otto del mattino, nel centro dell’ asfalto, di una strada che si incunea nelle campagne silenziose e deserte di Paceco, vestito di grigio, fuori dall’ automobile, che aveva appena fatto in tempo a sbucare sulla provinciale che porta a Trapani, con le chiavi in mano, riverso per terra in una pozza di sangue. A poca distanza dal luogo teatro del delittoi killer abbandonarono la vespa, lasciarono cadere la pistola dietro un muretto di pietra grezza e infilarono il casco rosso dentro un cassonetto dell’ immondizia, prima di dileguarsi. Da tre giorni Alberto Giacomelli era in campagna, nella sua splendida casa padronale immersa fra palme, macchie di gerani e generosi vigneti, con i familiari: la moglie Antonietta, la figlia Fausta, il genero Sebio Spanò. Un anno prima sconosciuti avevano bruciato la sua villa a Custonaci, dietro la grande montagna di San Vito Lo Capo, ma l’ episodio non destò eccessivi allarmi. Sembrava un delitto dalla sorte segnata, uno di quegli omicidi che subito si archiviano e si dimenticano. Subito dopo l’ assassinio si formularono varie ipotesi sulle ragioni che lo avevano determinato. Qualcuno lo collegò ai suoi interessi di proprietario terriero, altria corse clandestine di cavalli organizzatea Locogrande. Servirono quattordici anni perché una sentenza della corte d’ assise di Trapani riconoscesse, sulla base di indicazioni provenienti da più collaboratori di giustizia, ciò che mi apparve da subito del tutto evidente, vale a dire che si trattava di un omicidio di mafia. Dopo il coinvolgimento di quattro giovani pregiudicati accusati dell’ omicidio, due dei quali condannati in primo grado e tutti poi assolti in appello, il 28 marzo 2002 Salvatore Riina fu condannato all’ ergastolo perché ritenuto il mandante del delitto. Una decisione divenuta definitiva il 12 marzo 2003. Il capo di Cosa Nostra voleva che venisse ucciso un giudice, uno qualsiasi, in quel momento. Decretò la sua morte solo perché da presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Trapani aveva disposto, il 28 gennaio 1985, la confisca di villa e terreni posseduti a Mazara del Vallo da Gaetano Riina, fratello di Totò, e dalla moglie, Vita Cardinetto. Nel processo fu imputato anche Vincenzo Virga, accusato di avere organizzato il comando omicida, ma venne assolto a causa del silenzio mantenuto in aula dal collaboratore Vincenzo Sinacori, il quale non ha ripetuto le dichiarazioni rese in fase d’ indagine. Il pentito Leonardo Canino ha raccontato che lo zio Diego aveva un appuntamento con il giudice quel mattino, che ormai in pensione si occupava della sua azienda agricola. Era giunto sin quasi davanti il baglio di Locogrande di proprietà di Giacomelli, vide un corpo disteso per terra e, nel frattempo, gli si avvicinarono alcune persone, che già conosceva, le quali perentoriamente lo invitarono a guardare altrove. Quattro anni dopo, nel 1992, Diego Canino venne ucciso. Invero, nonostante il decorso di quattro lustri, l’ omicidio del dottor Giacomelli continua a rimanere sul piano giudiziario un caso non del tutto decifrato. Gli esecutori materiali del delitto non sono stati individuati e non siè compreso fino in fondo perché in quel momento Riina volle la sua morte. L’ uccisione del giudice Giacomelli è lì a ricordarci quanto siano importanti i procedimenti relativi alle misure di prevenzione e quanto siano temute le confische dai mafiosi. Indagini recenti confermano la convinzione che l’ onorata società teme i funzionari impegnati nel settore: imprenditori che indossavano abiti mafiosi sono intervenuti presso esponenti politici di rilievo per chiedere, e ottenere, nel 2003, il trasferimento da Trapani del prefetto Fulvio Sodano perché ostacolava i mafiosi che volevano riprendersi i beni sequestrati. Nei primi anni ottanta i più faticavano ad ammettere chea Trapani la mafia esistesse. Sebbene nel 1983 fosse stato ucciso il giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto, sulle colline di Valderice, e il notevole numero dei morti ammazzati che seguirono, gli investigatori sino ad allora avevano fatto ben poco per rendere difficile la vita ai boss. In quel tremendo anno 1988, la magistratura siciliana tornò a tingersi di rosso. All’ eliminazione dell’ anziano magistrato in pensione, infatti, seguì, a distanza di undici giorni, il 25 settembre, quella del presidente di sezione della corte d’ assise d’ appello di Palermo, Antonino Saetta e del figlio Stefano, che vennero trucidati in un agguato sulla statale Agrigento-Caltanissetta. E’ bene che il Paese non dimentichi quel che accadde tanti anni fa, soprattutto coloro che insistentemente lanciano accuse nei confronti della magistratura, con ciò contribuendo a delegittimare il suo operato, e che agiscono con il proposito di ingessarla e di renderla docile verso chi detiene il potere. La necessità del ricordo è un dovere nei confronti delle ferite, mai più rimarginate, subite dai familiari delle vittime. Un obbligo morale che deve diventare collettivo perché, purtroppo, la provincia di Trapani continua ad essere imprigionata dalla paura, generata da un’ asfissiante presenza mafiosa, ed impermeabile agli sforzi investigativi e alla rivolta della società civile. LUCA TESCAROLI 10 settembre 2009 La Repubblica
Alberto Giacomelli quando viene ucciso, Alberto Giacomelli ha 69 anni e non esercita più le funzioni di magistrato; è in pensione da quindici mesi. È una mattina come tante, quella del 14 settembre 1988. L’ex magistrato esce alle 8 dalla casa di Logogrande a bordo della sua Fiat Panda. Attraversa la strada di campagna che costeggia vigneti e uliveti che si affacciano sul mare per poi immettersi sulla provinciale che conduce a Trapani. Probabilmente gli assassini lo costringono a fermarsi e a scendere dall’auto. Tre i colpi sparati, due dei quali colpiscono il giudice alla testa e all’addome causandone la morte. Per gli investigatori, il suo caso è a lungo un rompicapo, un delitto senza movente. Giacomelli non è un “magistrato d’assalto”, non si è quasi mai occupato di vicende di mafia e conduce una vita tranquilla. In un primo processo, celebrato davanti alla Corte d’Assise di Trapani, per il fatto è condannata una banda di giovani “balordi”, accusati da un (falso) pentito di aver ucciso per vendetta. La “banda” sarà assolta in grado d’appello. La svolta si verifica anni dopo, con le rivelazioni di un collaboratore di giustizia. Giacomelli, dice il collaboratore, è stato ucciso per “una questione di famiglia”. Come scrisse il giornalista del quotidiano trapanese La Sicilia, Rino Giacalone, non “famiglia” nel senso di Cosa Nostra, ma “famiglia di sangue”. Questa la nuova verità: il magistrato nel gennaio del 1985, nella sua qualità di Presidente della sezione per le misure di prevenzione del tribunale di Trapani, aveva confiscato l’abitazione di Gaetano Riina, fratello di Totò, applicando, tra i primi, la legge “Rognoni-La Torre”. Il 9 settembre del 1987 i Rima impugnarono il sequestro e Gaetano cercò di mantenere il possesso del bene facendosene nominare “affidatario”. Ma il tentativo fallì e l’anno successivo Giacomelli fu ucciso. Totò Rima è stato condannato in via definitiva all’ergastolo quale mandante dell’omicidio. A oggi non si conoscono i nomi dei killer. Alberto Giacomelli è un magistrato all’antica. La passione per la professione gli è stata trasmessa dal padre, anch’egli giudice. Conseguita la laurea in giurisprudenza, nel 1946 assume le funzioni giudiziarie e viene destinato alla Procura della Repubblica di Trapani ove è Sostituto Procuratore fino al 1971, salvo che per i brevi periodi in cui è Pretore a Calatafimi e nella stessa Trapani. Viene poi trasferito al Tribunale di Trapani. Esercita funzioni di Giudice fino all’ottobre del 1978, quando assume quelle di Presidente di sezione ricoperte fino al suo pensionamento. Quando si ritira in campagna ad occuparsi delle terre di cui è proprietario, quasi tutti i trapanesi lo chiamano affettuosamente “U zu Bettu”. Il suo collega Pietro A. Sirena lo ricorda così: “Alberto era un uomo buono e mite, ed era allo stesso tempo un vero galantuomo, doti queste assai rare e senza le quali si potrà forse essere “giuristi”, ma non si potrà amministrare vera “giustizia”: compito del giudice non è quello di applicare meccanicamente le regole del diritto, ma soprattutto di mediare, da uomo onesto, le tensioni della società in cui vive”. La giornalista Serena Verrecchia dirà: “Il giudice Giacomelli era un uomo che non si aspettava di morire, un magistrato che non aveva sfidato a volto aperto Cosa nostra, ma un servitore dello Stato che quando il destino lo aveva posto dinanzi ad una prova di coraggio non si era tirato indietro. Non aveva badato ai nomi, Alberto Giacomelli. Aveva compiuto il suo dovere quando era stato chiamato a farlo e per questo fu ammazzato. Il suo non può restare un nome affisso al bordo di una strada, una storia caduta nell’oblio, ma deve diventare per tutti la testimonianza dell’aspetto brutale e vendicativo della mafia”. Nelle cronache di mafia, Alberto Giacomelli è abbastanza sconosciuto nell’Italia di oggi. Compare solo negli elenchi dei magistrati uccisi. Gli anniversari della morte sono ricordati da pochi. Al Palazzo di Giustizia della sua città nessuna targa lo commemora. L’ex Presidente del tribunale Alfredo Longa commenta amaramente: ‘la sua uccisione fu tanto vigliacca quanto brutale. Oggi il rammarico più grande è l’oblio in cui è caduto l’omicidio quasi ci fossero vittime eccellenti ed altre meno”. Ora il consiglio comunale di Trapani ha voluto ricordare il magistrato ucciso dalla mafia intitolandogli una piazza nell’area adiacente il tribunale. Alla cerimonia, erano presenti i due figli del magistrato.”Che questa piazza possa diventare un luogo di incontro e di solidarietà”. Questo l’augurio espresso dal vescovo, monsignor Francesco Miccichè. «Giacomelli era un uomo che aveva il suo credo, quello della giustizia. Per ricordarne il sacrificio, il consiglio comunale di Trapani ha voluto intestare la piazzetta adiacente il tribunale, ricordarlo ai presenti per le sue qualità umane per aver instaurato con i suoi colleghi un clima familiare non curandosi delle gerarchie”. (tratto dal volume “Nel loro segno” del Csm)
Storia del giudice Alberto Giacomelli raccontata dal figlio, Don Giuseppe Il padre fu assassinato dalla mafia vicino Trapani il 14 settembre del 1988. Intervista al sacerdote Giuseppe Giacomelli su “un uomo per bene” “Mio padre non aveva paura di essere ucciso perché mi diceva che era la dimostrazione di avere servito lo Stato fino a morire” “Quando celebro messa e dico “Questo è il sangue versato per voi”, non posso non pensare al sangue su quella stradella di campagna, dove mio padre è rimasto per tante ore per terra, che ha macchiato così tanto l’asfalto da dover rifare il manto stradale”
Don Giuseppe Giacomelli è un sacerdote, vive a Imola ed è il figlio di Alberto Giacomelli, il Magistrato ucciso da Cosa Nostra vicino Trapani il 14 settembre del 1988. Resta l’unico, tra i figli delle vittime della mafia, ad essere sacerdote. Quando avemmo l’idea di intervistarlo non conoscevamo il suo “lavoro”. Lo scoprimmo leggendo un bel libro sul padre, dal titolo Un uomo per bene. Vita di Alberto Giacomelli, giudice ucciso dalla mafia, scritto da Salvo Ognibene. E intervistare Don Giuseppe non è facile, in pratica non concede interviste. Allora ci siamo rivolti ad un suo caro amico e alla fine Don Giuseppe ha accettato di conversare con noi. La prima cosa che ci racconta è proprio di questa sua ritrosia a rilasciare interviste. ”Nella mia vita ho concesso solo due interviste, entrambe autorizzate dal Vescovo, perché sono una persona schiva che non ama la pubblicità. Questa a voi la rilascio volentieri perché so del vostro impegno nella ricerca di una verità fatta di aspetti concreti e testimonianze vive che possano consolidare una memoria perenne e onesta in onore delle vittime di Cosa Nostra”. Noi non possiamo che ringraziare per la fiducia e la stima che un uomo come Don Giuseppe ha avuto nei nostri confronti.
Una delle prime domande che vorremmo porle è che persona fosse suo padre e che rapporto c’era tra voi. “Era un uomo di gesti e parole chiare, oneste. Un uomo non studiato, non falso, spontaneo che non aveva paura di mostrarsi così. Presente in famiglia, generoso e amorevole ma restava sempre un magistrato, in ogni momento e in ogni azione e con ciò voglio dire che ogni sua espressione era alla ricerca del giusto equilibrio. I ricordi che ho di mio padre sono di un affetto vero e non sdolcinato, premuroso ma senza invadenza, attento anche a distanza a tutti noi figli ma sempre vicino con un cuore benevolo naturalmente incline alla conciliazione. Mi osservava, chiedeva, e sulle mie risposte non sempre era d’accordo, mi correggeva, ma dal confronto nascevano aiuti e stimoli continui che mi hanno aiutato a conoscermi e a crescere”.
Che clima c’era in famiglia? Era rigido nell’insegnamento che aveva con lei e con sua sorella? “Era padre e marito che sapeva essere semplice e coinvolgente; amava la casa, si occupava della spesa quotidiana, collaborava all’andamento domestico. Insomma, era una persona comune, era se stesso. In questo aspetto familiare ho sempre pensato che somigliasse al giudice Paolo Borsellino del quale è noto il suo costante impegno famigliare; dico spesso che in lui rivedevo mio padre. Era molto credente come Borsellino ma non praticante come mia madre che, ad esempio, ad ottobre e a maggio era sempre in ginocchio col rosario, aveva realizzato un altare a casa nostra per la Madonna, e io mi lamentavo. Adesso mi ritrovo ad essere sacerdote e con il rosario sempre in mano…”
A proposito del dr Borsellino, quando questi partecipò ai funerali di suo padre disse che lo conosceva già dal ’67, e durante un’assemblea che ci fu al palazzo di giustizia per l’omicidio, pronunciò delle parole bellissime di stima dicendo che: “Come molti magistrati siciliani non si era sottratto al suo compito anche a costo del sacrificio della vita”. Lei ha ricordi del dottor Borsellino? “No io non l’ho conosciuto. Ero già via per seguire la mia vocazione. Falcone sì ma Borsellino no”.
Abbiamo letto che il Giudice Giovanni Falcone, come molti altri giovani magistrati, frequentava la vostra casa. “Falcone era una persona con un grande desiderio di vivere la magistratura fino in fondo, si vedeva. Era giovane, un uomo tutto d’un pezzo che aveva il desiderio di cominciare subito, con l’ansia di fare bene e presto, e mio padre smorzava un po’ questa sua ansia, consigliandogli di andare per gradi”.
Negli anni 80 presso il tribunale di Trapani vi fu la vicenda dell’arresto di Antonino Costa per corruzione. Il CSM ordinò un’ispezione negli uffici giudiziari. Suo padre era stato considerato da qualche suo collega come “Giudice scarsamente aggiornato e professionalmente dequalificato”. Ci fu un’inchiesta del Consiglio Superiore della Magistratura dalla quale però Alberto Giacomelli uscì totalmente riabilitato. Quali furono i sentimenti di suo padre? “Rimase enormemente tranquillo, e io lo rimproveravo. Gli dicevo: “Ti rendi conto? Con tutto quello che hai fatto per la giustizia nella tua vita e non fai nulla per difenderti?”. E lui mi rispondeva che aveva fiducia, che la giustizia esiste e trionfa sempre. Quando arrivarono le scuse e fu riabilitato me lo ricordo come fosse oggi, mi disse:“La giustizia ancora una volta, ha trionfato”. La Giustizia era il suo credo. E quando io leggo i Salmi in cui vi è scritto che “la Giustizia e la Misericordia si incontreranno” lì ci vedo il mio babbo”.
I colleghi di suo padre raccontano che era una persona molto giusta, e che quando doveva emettere una sentenza da Presidente, si faceva scrupoli su tutto, e pensava alla persona che avrebbe condannato e a ciò che sarebbe avvenuto. “Infatti era proprio così. Con uno slogan potrei dire che non era un giustiziere ma faceva giustizia. Perché teneva presente la persona, il danno che oggettivamente poteva ricadere sul condannato, ma guardava sempre in positivo; credeva nella correzione, ma nella correzione vera affinché la persona capisse. Tanti Magistrati lo chiamavano per consigli. Quando intitolarono un’aula a mio padre all’interno del palazzo di giustizia di Trapani, il Presidente dell’epoca si ricordò di quando era un giovane magistrato da poco arrivato, ricordando che un giorno, entrando nei corridoi dei tribunale e notando un movimento particolare, chiese cosa stesse accadendo. La risposta lo meravigliò non poco: ”Alberto Giacomelli presiede un processo importante e c’è molta gente che attende la sua sentenza”. Lo stupore aumentò ancor di più quando dall’aula arrivò un fragoroso applauso. Il popolo aveva approvato la sentenza del giudice Giacomelli”.
Nell’immediatezza dell’omicidio le indagini furono depistate. Si cercò di screditare la figura di suo padre parlando di delitto passionale o questioni di terreni perché suo padre era un appassionato dell’ agricoltura e della campagna. Però, in verità, pochi credettero a quelle illazioni. E si presentarono indagini complesse. Nella famiglia come si reagì a queste voci diffamatorie? “Quelle dicerie non ci scalfirono minimamente. Io ne venni a conoscenza molto dopo ma, così come ci aveva insegnato mio padre, aspettammo che si facesse chiarezza e giustizia. Il tempo ci diede ragione”.
All’inizio, durante le indagini, furono incriminati quattro ragazzi. “Si, erano stati condannati da mio padre per droga”.
Due di essi furono condannati, e due assolti, poi in appello furono assolti anche i due condannati in primo grado. Dopo anni arrivarono i collaboratori: Sinacori, Brusca, Milazzo e Canino. E si incominciò a capire il perché dell’omicidio. In pratica l’assassinio fu una vendetta mafiosa perché suo padre aveva prima sequestrato e poi confiscato i beni di Gaetano Riina fratello del più noto Salvatore. Forse fu la prima applicazione della legge Rognoni-La Torre che, nel 1982, aveva introdotto queste misure. “Brusca raccontò, per averlo saputo da Totò Riina, che il delitto Giacomelli non era solo un delitto di “cosa nostra”, ma di “casa nostra” nel senso che era interno alla famiglia Riina”.
Ci vuole ricordare cosa avvenne, di preciso, che comportò l’assassinio di suo padre? “Nel gennaio del 1984 erano stati sequestrati i beni di Gaetano Riina e nel gennaio dell’anno successivo egli fu sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale per tre anni e contestualmente fu disposta la confisca dei beni dello stesso e della di lui moglie, Vita Cardinetto. Mio padre, in qualità di Giudice più anziano, presiedeva il collegio che applicò le misure. E quindi la paternità di quel provvedimento fu fatta risalire al mio papà. Fu una delle prime applicazioni della Rognoni–La Torre che era entrata in vigore nel settembre 1982. Non solo uno dei primi provvedimenti ma addirittura adottato nei confronti della famiglia mafiosa che in quel periodo storico era all’apice del potere. Indirettamente, venivano colpiti anche gli interessi economici di Totò Riina. Quindi la cosa creò un grande sconquasso in seno alla “famiglia” e fu vista come un oltraggio al potere e al prestigio mafioso”.
Venne condannato solo Riina come mandante, mentre Virga (capo mandamento di Trapani) presunto esecutore, fu assolto. Quindi la mano che uccise materialmente è rimasta ignota anche se il collaboratone Vincenzo Milazzo aveva indicato due nomi: Bica e Bonanno. Ma non si è riuscito a trovare dei riscontri oggettivi per portarli in giudizio. Quali sono i sentimenti di un figlio di vittima di mafia quando non riesce ad avere una ricostruzione completa e quindi avere completamente giustizia? La sentenza di condanna: sent.4-02 – Riina Salvatore . “Non provo rancore. Negli ultimi due anni fui la guida spirituale di mio padre. Lo convinsi ad andare in pensione. Quando è stato ucciso aveva 68 anni ed era in quiescenza da appena un anno. Mentre era in servizio la scorta veniva a prenderlo davanti casa e lui, però, li pregava di andare a prelevarlo un poco più avanti, per evitare confusione proprio sotto casa. Noi eravamo preoccupati, avevano già ucciso altri magistrati. Alla fine, dopo varie insistenze accettò il mio consiglio ma mi disse: “Sappi che mi ammazzeranno lo stesso.” In effetti è strano che uccidano un magistrato in quiescenza ma lui se lo aspettava. E non aveva paura di essere ucciso, perché, mi diceva che: “era la dimostrazione di avere servito lo Stato fino a morire.” Quando celebro messa e dico: “Questo è il sangue versato per voi”, non posso non pensare al sangue su quella stradella di campagna, dove mio padre è rimasto per tante ore per terra, che ha macchiato così tanto l’asfalto da dover rifare il manto stradale. Questo lo dissi la prima volta a Bologna durante la giornata in ricordo delle vittime di mafia. E continuo a ricordarmi quella strada. Sono arrivato la sera stessa, mi aspettavano per chiudere la bara. La mia preoccupazione era vedere il volto e ìl corpo sfigurato di mio padre; così non fu, grazie a Dio era stato ricomposto bene. Ho avuto il coraggio di vedere la fiction che hanno fatto su Riina ma l’ho guardata con il rosario in mano, pregando. Vedere tutto ciò che passava in TV era sconcertante. Ma sono riuscito a seguirlo tutto”.
Lei ha raccontato che suo padre la portava spesso con sé quando andava a trovare i detenuti nelle carceri, in particolare a Trapani, nel settore definito “Colombaia”, in cui erano rinchiusi coloro che erano stati premiati per buona condotta oppure che avevano ancora poco da scontare; per cui ha avuto modo già da piccolo di comprendere il dolore e lo stato d’animo degli uomini che si trovano in determinate condizioni. Questa esperienza ha inciso, poi, nella sua vocazione? “Posso dire che grazie a degli esercizi ignaziani, che ho fatto 4 anni fa con il mio padre spirituale, un gesuita professore di Filosofia nella licenza in teologia spirituale, ho rivisto tutta la mia esistenza, un percorso di vita meraviglioso e allora questo mi ha dato l’opportunità di rivedere un atteggiamento tipico della mia persona e cioè quello di ascoltare. Ascolto tantissima gente, ma ascolto anche me stesso, e ho ritrovato tanti ricordi che sono riemersi con una gioia incredibile. E tra questi ci sono i viaggi alla Colombaia. E’ una fortezza di fronte al porto di Trapani, in mezzo al mare, un po’ un simbolo della città, cui si arriva anche per strada quando c’è la bassa marea. Altrimenti ci si va con le barche come faceva mio padre quando mi portava con lui. La Colombaia confina anche con un mare alto. I detenuti stavano lì vicino a pescare ed erano quelli che avevano avuto un permesso per buona condotta o comunque stavano per finire la loro pena. E di questi mio padre si fidava totalmente..Mi affidava a loro, ero piccolino, mi insegnavano a pescare. E doveva vederli come erano orgogliosi quando, al ritorno di mio padre, gli dicevano: “ Giudice, ha visto cosa ha pescato Giuseppe?”. Ma La storia della mia vocazione nasce quando ero già all’università. All’inizio volevo fare l’Architetto o, in alternativa, la carriera di Ambasciatore. Ma non avevo studiato disegno, per lo meno non in certi termini e mio padre mi dissuase. Per la carriera diplomatica serviva la laurea in legge e quindi mi iscrissi a questa facoltà, non pensavo proprio alla magistratura. Ho iniziato Giurisprudenza con il desiderio di continuare poi la carriera diplomatica, per viaggiare nel mondo e rappresentare l’Italia, questo era il mio desiderio. Ero un diciottenne come tanti, amavo la musica, la discoteca, andare con gli amici nei locali, vestirmi alla moda, viaggiare. Mio padre mi mandò a Londra da solo quando avevo 15 anni. Sapeva di potersi fidare. Passavamo l’estate a Erice, un borgo storico e climatico sopra il monte omonimo che domina Trapani, e in quel periodo riuscii ad incontrare anche i miei idoli di allora come Romina Power. Quando venne per ricevere il premio per la manifestazione “Venere Ericina”io riuscii a fare colazione da solo con lei in un bar della piazza. Questo ero io. Quindi mio padre poteva mai immaginare che io poi diventassi sacerdote?? Neanche io, non ci pensavo minimamente”.
E poi quale fu l’episodio che cambiò la sua vita? Cosa la portò ad intraprendere la strada del sacerdozio? “Devo fare una premessa. Nel 1968 mia mamma, donna molto praticante, era una delle “figlie di Padre Pio”, portò tutta la famiglia a San Giovanni Rotondo, fu nel marzo/ aprile del 68 quindi pochi mesi prima che Padre Pio morisse. Quando noi andammo non disse messa perché stava già male, ma rimasi colpito dai suoi occhi, fui “fulminato “ dagli occhi di Padre Pio. Qualche mese dopo lo sognai e mi diceva :”Cosa vuoi? “ E io risposi semplicemente:” Preghi per mio padre, mia madre e mia sorella..” e lui:” io prego però però… “ . Al mattino, appena alzato, lo dissi a mia madre la quale cercò di tranquillizzarmi ma in quel momento, dalla radio accesa, arrivò la notizia che Padre Pio era morto . Quella frase la interpretai molti anni dopo perché mia madre ebbe varie problematiche di salute superate anche grazie alla fede, mio padre sappiamo quello che è successo, e anche mia sorella ebbe una brutta esperienza quando andò a Roma per vedere Giovanni Paolo II. Scese dall’aereo, svenne e cadde per terra. Fu operata urgentemente di peritonite acuta, e fu 20 giorni in ospedale. Grazie a Dio e alla preghiera di Padre Pio tutto si risolse bene ma gli occhi di Padre Pio mi rimanevano impressi in mente e ancora adesso, mentre parlo con lei, mi sento guardato da lui. Continuavo la mia vita di giovane del mio tempo quando prossimo alla laurea, mentre passavo davanti la mia parrocchia, la cattedrale San Lorenzo a Trapani, mi posi una domanda:” Devo fare una scelta, essere o non essere cristiano”. Entrai. L’ anziano parroco stava proclamando il Vangelo e precisamente queste parole: ”Venite a me voi tutti che siete affaticati , stanchi e oppressi, e Io vi ristoreró”. Uscii dalla chiesa colpito da queste parole e comprai subito il Vangelo, volevo sapere chi fosse veramente Gesù. Dopo il vangelo acquistai il libro sulla vita di San Francesco d’Assisi perché sapevo, per mia cultura, che aveva messo in pratica, alla lettera, il Vangelo. Ci furono poi vari incontri con un Santo sacerdote e con un giovane paralitico il quale diventò, durante gli studi universitari di Palermo, il mio migliore amico. Devo a lui l’aver scoperto che amare non è possedere ma donarsi. Dopo quell’ incontro il mondo della sofferenza fu l’angolo della vita frequentato da me. Il resto è troppo lungo da raccontare ma decisi di diventare sacerdote”.
E suo padre come la prese? “Mio padre si mostrò preoccupatissimo. La mia vita era cambiata parecchio. E mio padre, da magistrato qual era, affrontó il caso con un approccio severo e affettuoso. Mi chiese innanzitutto di terminare gli studi universitari poi fare l’esperienza del servizio militare e del lavoro.Essendo laureato in Legge chiesi di fare esperienza presso uno studio di avvocato penalista. Ho sempre sospettato che mio padre e l’Avvocato concordassero del mio futuro perché papà voleva davvero mettere alla prova la mia scelta sacerdotale. E fu così che per sei mesi restai in quello studio legale seguendo l’Avvocato negli incontri giornalieri con giovani detenuti nelle carceri di Castellammare e Alcamo. Un’esperienza davvero importante e, per un aspirante sacerdote, davvero toccante e decisiva tanto che un giorno dissi a mio padre: “Adesso basta! non ce la faccio piu’’ e lui di rimando ”Va bene! Ma per andare in seminario occorre pagare la retta e io non te la pago, quindi devi procurarti il danaro necessario”e mi comunicò che il banco di Sicilia proprio in quei giorni bandiva un concorso per 50 posti. La prima selezione era per titoli e io, avendoli, la superai. Dopo ci fu il concorso vero e proprio e anche quello andò bene per cui iniziai a lavorare al Banco di Sicilia di Marsala. Successivamente venni trasferito, a causa di un incidente stradale, a Trapani. Intanto erano trascorsi due anni e avevo il denaro per pagarmi il seminario. Ma mio padre parlò con il Vescovo per cercare di convincermi ad aspettare ancora un anno. Bisognava essere certi della mia vocazione. A quel punto intervenne il Signore portandomi a conoscenza del secondo centro di vocazioni adulte di Italia che nasceva proprie nel periodo in cui avevo le ferie. Colsi l’occasione che si rivelò, tra l’altro, vantaggiosa perché si trovava in Emilia Romagna. Non era un seminario ma una comunità religiosa dove il Vescovo di Trapani non poteva interferire. Per questi motivi decisi di accettare anche se nel mio cuore sentivo forte la nostalgia della parrocchia e della sua vita palpitante e comunitaria. I miei alla fine si rassegnarono alla mia scelta. Io diventai sacerdote ed esplicai il mio sacerdozio in varie attività religiose all’interno dell’ordine. Ad un certo punto il Signore permise, tramite l’invito del vescovo di Modena monsignor Quadri che aveva urgente bisogno di occupare il posto di cappellano in ospedale lasciato vuoto dai religiosi, che occupassi io come sacerdote diocesano quel posto. Così si realizzò ció che fin dall’inizio avrei desiderato essere”.
Durante gli anni ‘70 in Sicilia molti sacerdoti iniziarono a discutere di questo allontanamento della chiesa dalle clientele politiche, ci fu una ferma condanna della criminalità organizzata, si cominciava a non tollerare più i silenzi e le compromissioni. Si iniziava una presa di coscienza già comunque presente nei quartieri periferici. La mafia si serviva di riti religiosi per legittimarsi davanti al popolo. Don Pino Puglisi, e poi nell’82 una delle prime omelie fu quella del Cardinale Pappalardo durante i funerali di Dalla Chiesa. Era la prima volta che a Palermo un alto prelato della chiesa-successore del cardinale Ruffini che descriveva la mafia come un’invenzione dei comunisti-faceva un’inventiva contro la mafia. Voi l’avevate avvertito come sacerdoti? Vi giungevano degli echi sulla mafia? “No, era poco sentita all’epoca, almeno dove io mi trovavo non sapevamo molto. Io ero informato grazie sempre alla figura di mio padre. Sapevo chi era Totò Riina, chi erano i più noti mafiosi, conoscevo lo stato di prostrazione della società in Sicilia ma iniziai a scorgere, specie dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, le piccole e poi sempre più vibranti reazioni della gente. Credo che la società oggi sia diversa, è cambiata e ancora sta cambiando e soprattutto i giovani hanno voglia di sapere ed esserci. E’ tempo di riprendersi la propria dignità e l’amore verso il prossimo”.
Il prete di quartiere e l’associazionismo sono una realtà importante nelle zone ad alto rischio delle città, soprattutto nelle aree più disagiate. Adesso ci sono i social, la tecnologia, e quindi i ragazzi possono vivere diversamente l’aggregazione, secondo lei il sacerdote e l’associazionismo, hanno i mezzi socio-culturali per essere parte attiva nel contrasto alle mafie? Che mezzi usate per contrastare la criminalità organizzata? “Ogni sacerdote ha una sua peculiarità e non solo in quello che svolge. Io sono il sacerdote che celebra messa, amo molto la Parola di Dio e la sento dentro sempre di più, e sono soprattutto una persona che ascolta. Me stesso e il prossimo. Uso i social per rimanere in contatto con le persone che ho conosciuto anche fuori dall’Italia, non ho automobile per scelta, cammino per strada, e tramite l’ascolto vivo davvero un’esperienza bellissima che mi rende sempre più vivo e dentro il tempo che viviamo. Per questo molti mi chiamano padre e non don Giuseppe. E questo mi fa sentire presente!”
Queste persone che restano in contatto con lei, come l’ hanno conosciuta? “Alcuni mi hanno ascoltato nel celebrare messa, altri sono venuti a confessarsi, e hanno voluto rimanere in contatto con me. Non c è un ministero che come sacerdote non abbia esercitato”.
Lei vive a Imola, ci sono associazioni che si occupano del fenomeno mafioso e che intervengono nelle scuole? “Qui c’è Libera ed è presente un po’ ovunque. Quando mi chiamano intervengo volentieri, così come partecipo anche ad incontri organizzati con magistrati a livello nazionale, che considero davvero interessanti e arricchenti”.
La figura del parroco in un quartiere disagiato quanto può fare? “Tantissimo. La figura di Gesù è rivoluzionaria ed è la prima della storia. I miei amici più cari, più intimi, sono Francesco d’Assisi e Paolo di Tarso. È bellissimo quello che Paolo dice. “Per me vivere è Cristo e morire è un guadagno”. I professori di religione mi chiamano nelle scuole per parlare di mio padre, cosa che faccio con malinconia ma anche con grande gioia ed è sempre un’occasione per parlare d’altro e di altri, ad esempio di Rita Atria, la minorenne di Partanna che, dopo l’assassinio dei suoi cari, fece la scelta coraggiosa di rivolgersi alla Giustizia e riferire tutto il suo passato per poi suicidarsi dopo la morte di Borsellino. E tuttavia abbiamo il dovere di ricordare molte altre vittime di mafia come cerco ad ogni occasione di fare anch’io”.
Se lei, anche durante una confessione, si trovasse davanti ad un soggetto che è palesemente appartenente alla criminalità organizzata, come si comporterebbe? “Intanto lo aiuterei dicendogli che non sta togliendo la vita solo agli altri, ma anche a sé stesso ma se non si redime non posso assolverlo perché non è pentito:.
Ma i parroci come si dovrebbero comportare nel caso delle processioni in cui vi sono i cosiddetti “ inchini” delle statue davanti le case dei boss? “Chiunque venga a conoscenza di casi del genere deve riferirne al Vescovo. Anche i semplici cittadini. Perché la chiesa è una famiglia, il popolo di Dio. Il Vescovo è il padre dei Sacerdoti, e in questi come in altri casi la sua parola saprà correggere e indirizzare”. LA VOCE DI NEW YORK 19.9.2020 – FRATERNO SOSTEGNO AD AGNESE BORSELLINO