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Enzo Salvatore Brusca (San Giuseppe Jato, 29 ottobre 1968) mafioso e collaboratore di giustizia italiano. Figlio di Bernardo e fratello minore del boss Giovanni Brusca, partecipò alle fasi di preparazione della Strage di Capaci e fu uno dei carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo. Accusato di 5 omicidi (tra cui quello dell’imprenditore Vincenzo Miceli e del giovane Cosimo Fabio Mazzola), venne arrestato il 20 maggio 1996 insieme al fratello Giovanni e condannato a 30 anni di reclusione. Dopo essere divenuto collaboratore di giustizia entra nel programma di protezione e nel 2003 esce dal carcere per scontare il resto della sua pena in detenzione domiciliare.
La brillantissima indagine condotta dai miei colleghi che si occupavano di Di Maggio consente di smascherare il tentativo di Brusca di minare l’attendibilità del collaboratore ed Enzo non solo è costretto a rimanere latitante, ma deve anche farsi operare. E stavolta davvero.
Teme infatti che, in caso di arresto, gli inquirenti si accorgano che sul suo corpo non c’è traccia di cicatrici compatibili con l’operazione di ernia. Il dottor Salvatore Aragona si presenta allora, con bisturi e tamponi, in un casolare dove Enzo passa la sua latitanza. In una normale camera da letto ben diversa da una sterile sala operatoria e con l’assistenza di Giuseppe Monticciolo – che tutto poteva fare in vita sua meno che l’infermiere – il medico pratica al paziente una blanda anestesia locale. Gli incide in profondità l’inguine, ledendogli accidentalmente anche un nervo e provocandogli fortissimi dolori; quindi sutura la ferita.
Con il famoso senno di poi – mi dice Enzo Brusca quando mi parla del drammatico intervento chirurgico cui si era sottoposto e della quantità massiccia di antibiotici che aveva dovuto assumere per scongiurare probabili infezioni – mai e poi mai si sarebbe fatto operare in quelle condizioni. A saperlo avrebbe scelto un alibi diverso. Magari come quello che gli stessi Brusca erano riusciti a fornire a un loro uomo, Michelino Traina, l’esecutore materiale dell’omicidio Capomaccio, sospettato, a ragione, di aver preso parte a una sanguinosa rapina all’ufficio postale di Altofonte con morti e feriti.
In quel caso avevano dato fondo alla fantasia e avevano, addirittura, replicato una cerimonia di nozze. Approfittando di un matrimonio di gente del luogo che si era svolto proprio il giorno della rapina, avevano fatto indossare nuovamente agli sposi gli abiti nuziali. Un fotografo compiacente aveva scattato nuove foto del finto matrimonio. Nella scena ricostruita, in mezzo ad alcuni degli invitati, costretti a rimettersi, per l’occasione, i vestiti della festa, faceva capolino la faccia sorridente di Michele Traina. In giacca e cravatta e con un bel garofano bianco all’occhiello.
Le testimonianze, false, degli sposi e il riscontro documentale delle fotografie avevano salvato Michelino da qualche decina di anni di carcere, mentre l’alibi di Enzo era miseramente naufragato. Ma Giovanni Brusca insiste nella sua «crociata» contro gli odiati pentiti.
Il 25 novembre 1993 Gioacchino La Barbera, capofamiglia di Altofonte, detenuto da nove mesi, decide di collaborare e indica a magistrati e investigatori i luoghi dove sono sepolti i cadaveri di quattro persone uccise e un deposito di armi.
Il collaboratore, però, fornisce le relative indicazioni qualche giorno dopo il suo primo interrogatorio. Troppo tardi. E il piano di Brusca va, almeno in parte, a buon fine. Il boss di San Giuseppe Jato, che ha saputo per tempo dai familiari di La Barbera della sua decisione di saltare il fosso, si attiva immediatamente. Fa subito spostare morti e armi in altri luoghi affinché le indicazioni del collaboratore risultino infondate. Sono Chiodo e Monticciolo che si disfano dei cadaveri, già in avanzato stato di decomposizione. Li distribuiscono nei cassonetti di vari paesi. Un’azione raccapricciante: corpi di esseri umani che finiranno come immondizia in qualche discarica dove non potremo più recuperarli. Brusca non fa però in tempo a trasferire altri due cadaveri, quelli di Vincenzo Milazzo, capofamiglia di Alcamo, e della sua fidanzata uccisi dallo stesso boss di San Giuseppe Jato nel luglio 1992. La Barbera li ha interrati personalmente con una pala meccanica e riesce a condurre la Dia sul posto esatto, «salvando» così la sua attendibilità.
I tentativi di inquinare le indagini
Paradossalmente i depistaggi e gli inquinamenti che riescono meglio a Brusca sono proprio quelli che, alla fine, non voleva portare avanti. Il primo di questi riguarda un’indagine che era stata avviata nei confronti di don Mario Campisi, segretario particolare di monsignor Salvatore Cassisa, arcivescovo di Monreale.
Nel corso delle ricerche di don Luchino Bagarella, avevamo messo sotto controllo il telefono dei Marchese, i parenti della moglie, e, durante un’intercettazione, gli investigatori avevano sentito la voce del boss corleonese che parlava con il cognato Gregorio. Una conversazione su irrilevanti questioni familiari. Dal successivo controllo era emerso che la telefonata proveniva dal cellulare intestato a don Mario Campisi.
Il segretario dell’alto prelato di Monreale era un sacerdote molto attivo negli ambienti giovanili. Pur non venendo mai meno alla sua missione pastorale, partecipava con i ragazzi a feste, veglioni e mangiate collettive. Nel gruppo c’era anche un’amica, una mezza fidanzata di Giovanni Brusca. Insieme decidono di fare a don Mario, se così si può dire, uno scherzo da prete.
La ragazza sottrae il telefono al sacerdote per pochi istanti. Giusto il tempo di staccare la batteria e annotare il numero seriale dell’apparecchio che fa avere a Giovanni Brusca. All’epoca, con il seriale e il numero di telefono, era estremamente semplice clonare un cellulare analogico e Brusca è particolarmente interessato ad ascoltare le conversazioni private del religioso, convinto che la sappia lunga in fatto di donne.
Quel cellulare, copia perfetta dell’apparecchio di don Mario, Brusca lo usa anche mentre svolge i suoi affari. Durante un summit di mafia, il boss curioso, annoiato dagli argomenti affrontati quel giorno, che non lo interessavano, si collega all’utenza del sacerdote per carpirne i dialoghi. Ma poi si dimentica di disconnettere l’apparecchio che lascia acceso sul tavolo. Bagarella, che ha bisogno di chiamare suo cognato Gregorio, usa il telefonino per la conversazione che poi verrà intercettata. Così don Mario Campisi finisce nel registro degli indagati per favoreggiamento aggravato nei confronti di don Luchino Bagarella. L’ipotesi, all’epoca, non sembrava nemmeno tanto insensata poiché monsignor Cassisa, il suo diretto superiore, era rimasto coinvolto, insieme a qualche presunto mafioso, in una storia di appalti e mazzette per i lavori di ristrutturazione del duomo di Monreale. Don Mario era, però, all’oscuro di tutto e, probabilmente, sarebbe stato anche arrestato se i nostri tecnici non avessero capito, alla fine, che si trattava di una clonazione.
L’obiettivo è Luciano Violante
Per un altro tentativo di depistaggio invece Giovanni Brusca non è proprio del tutto incolpevole. Si tratta del noto piano calunnioso elaborato contro Luciano Violante, ex magistrato, parlamentare di sinistra e uno dei simboli dell’antimafia.
Il boss di San Giuseppe Jato, ossessionato dal cosiddetto pentitismo, aveva capito che l’unica arma vincente dei boss era quella di mettere un freno alle collaborazioni con la giustizia. Un pentito fa male, molto male. Rivela dall’interno le dinamiche dell’associazione, i rapporti di forza, i moventi dei delitti. L’investigatore poteva conoscere migliaia di episodi, poteva anche avere un’idea delle relazioni interpersonali o degli obiettivi del sodalizio mafioso, ma senza una chiave di lettura interna, poteva solo formulare delle ipotesi che non poteva sempre dimostrare nei processi.
Brusca conosceva perfettamente le normative giuridiche e aveva anche una chiara idea di come funzionava la giustizia nel nostro Paese. Sapeva che, magari in primo grado, sulla base dell’onda emotiva determinata dalla gravità dei delitti commessi e dell’audizione diretta di vittime, testimoni e investigatori, i giudici potevano anche accontentarsi di indizi, di supposizioni, di ricostruzioni logiche. E ci poteva anche scappare qualche condanna per gli uomini d’onore. Era messa nel conto, ma in appello e, men che meno, in Cassazione no. Lì i fatti sono lontani; lì il processo si fa solo sulle carte; lì le prove logiche e deduttive valgono veramente poco. Senza la parola dei pentiti non sarebbe rimasto granché.
Le strategie di intimidazione dei collaboratori di giustizia avevano fallito, il massacro sistematico dei loro familiari portato avanti da Riina non aveva condotto a risultati di rilievo. Gli assassini a sangue freddo dei figli di Buscetta, di tutti i parenti di Contorno, delle donne della famiglia di Marino Mannoia, erano stati inutili, così come, e gli risultava personalmente, inutili erano stati i due dispendiosi anni di prigionia inflitti a un bambino al fine di indurre il padre a ritrattare.
Bisogna ricorrere a qualcos’altro. E cosa c’è di meglio della calunnia? «’U carbuni si nun tingi mascarìa», il carbone se proprio non colora almeno macchia, si dice in Sicilia.
Inserire dei virus nel sistema in grado di offuscare la credibilità dei pentiti, insinuare dubbi sulla loro sincerità, seminare sospetti sulla genuinità della loro collaborazione. E questo potrebbe bastare. Per farlo bene occorre però un «obiettivo» importante, magari inserito in un contesto che ne incrementi esponenzialmente lo scalpore. L’occasione ideale non può che essere il processo Andreotti e la scelta non può che cadere su Luciano Violante, che da presidente della Commissione antimafia si era occupato della vicenda che aveva coinvolto il senatore a vita.
Così la racconta Giovanni Brusca: mentre era ancora libero, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, aveva casualmente notato la presenza dell’onorevole Violante su un volo di linea Palermo-Roma. Anni dopo aveva pensato di sfruttare la circostanza. Voleva sostenere che non si era trattato di un incontro occasionale, ma che, al contrario, era stato appositamente organizzato da un esponente della sinistra del suo paese. Secondo il suo piano, Brusca, qualora fosse stato arrestato, avrebbe dovuto chiedere di rendere spontanee dichiarazioni in un dibattimento. Nell’occasione avrebbe pubblicamente dichiarato che Luciano Violante, durante il volo, gli si era seduto accanto per qualche minuto e gli aveva proposto l’impunità per lui e per suo padre se avesse reso false dichiarazioni accusatorie su Giulio Andreotti.
La calunnia, studiata con furbizia, sarebbe stata una vera e propria bomba mediatica. Al boss di San Giuseppe Jato poco importava che venisse creduto o meno. Ci sarebbero state comunque tante e tali polemiche sul processo Andreotti, sulla gestione dei pentiti che lo accusavano, sulla lealtà e correttezza degli organi investigativi e dei rappresentanti delle istituzioni, da travolgere l’intera normativa antimafia.
Brusca, però, da aspirante collaboratore non aveva mai accennato a questa vicenda. In tre mesi di colloqui investigativi e in un mese di interrogatori formali non l’aveva mai tirata fuori. Era un progetto che aveva elaborato da mafioso latitante ma che aveva successivamente abbandonato.
È invece il suo ex avvocato Vito Ganci, verso la fine di agosto, a parlarne con i giornalisti, come se fosse una circostanza realmente accaduta e che i magistrati che interrogavano Brusca avevano messo a tacere. Solo a questo punto e su nostre specifiche domande, Brusca racconta del suo progetto originario e smentisce il suo vecchio difensore riferendo che il fatto era radicalmente falso. Nell’immaginario collettivo la cosiddetta vicenda Violante è da ricondurre alle dichiarazioni di Giovanni Brasca, ma non è così.
Brusca, è vero, aveva pensato al progetto calunnioso, ma non aveva nemmeno cominciato a eseguirlo. Forse anche perché rischiava di trovare smentite nel suo stesso ambiente, familiare e mafioso, smentite che avrebbero potuto trasformare il suo piano in un vero e proprio boomerang. Giuseppe Monticciolo – qualche mese prima, in epoca assolutamente non sospetta – ci aveva raccontato, in un formale interrogatorio, del progetto elaborato dal suo ex capo su Luciano Violante. Monticciolo sosteneva addirittura che Brusca non era nemmeno su quell’aereo, dove invece si trovava qualcun altro che gli aveva raccontato di aver visto il parlamentare.
La stessa versione dei fatti me la darà, mesi dopo, Enzo Brusca: «Su quell’aereo c’era mio fratello Emanuele, il maggiore. Non capisco perché Giovanni si ostini a dire che su quel volo c’era lui».
Enzo, almeno per me, è stata la cartina al tornasole, lo strumento che mi ha consentito di verificare in tempo reale l’attendibilità del più noto fratello.
E finalmente Giovanni parla
Infatti, dopo che Enzo Brusca ci rivela l’intero piano di depistaggio organizzato da Giovanni lo facciamo trasferire segretamente in un carcere speciale, tutto per lui. A Monza, in una sezione in ristrutturazione.
Dove non c’è nessun altro detenuto; dove svolge colloqui centellinati e solo con la sua compagna; dove non può entrare alcuno degli agenti della polizia penitenziaria che si occupano di collaboratori di giustizia e, soprattutto, del fratello Giovanni.
Un carcere dove, però, Enzo Salvatore Brusca – mi dice – si sente finalmente libero.
Non è un paradosso, ma la presa d’atto di un timidissimo «picciotto» di ventotto anni. Se non fosse stato figlio di Bernardo Brusca, se non avesse avuto quali modelli di vita il fratello Giovanni o gente come Salvo Madonia e Giuseppe Graviano, se non avesse passato le domeniche a giocare in una casa di campagna con i figli di Raffaele Ganci, mentre suo padre e il boss della Noce arrostivano cadaveri sul retro (l’acido non sempre era disponibile), forse non avrebbe mai nemmeno saputo cosa era la mafia.
Senza nascondere il dolore che ancora gli provoca l’episodio, Enzo mi racconta una vicenda della sua infanzia, quando per carnevale era riuscito a convincere la madre a comprargli una divisa da guardiamarina. L’aveva indossata ed era corso dal padre per fargli vedere quanto stava bene con quell’uniforme, tutta lustrini e medagliette. Don Bernardo, non appena lo aveva visto, con una mano gli aveva strappato i galloni dorati dalle spalline e con l’altra gli aveva mollato uno schiaffone: «Levati ‘sta cosa da sbirro». Una solenne umiliazione.
In cella, Enzo Brusca era finalmente libero anche di mangiare quello che gli andava. Nell’ultima Pasquetta trascorsa con Bagarella, pur avendo una seria forma di intolleranza alimentare ai crostacei, dopo un’occhiataccia del fratello Giovanni, aveva dovuto ingoiare una decina di gamberoni per non dispiacere il boss corleonese che, al contrario, ne era ghiotto e, per l’occasione, ne aveva ordinato un paiodi casse.
Mentre il fratello è recluso nel carcere di Monza, a Giovanni notifichiamo un avviso di garanzia per calunnia aggravata. Gli comunichiamo la decisione di Enzo di abbandonare il suo progetto e gli diamo un po’ di tempo per pensare bene alla sua scelta.
Dopo un paio di settimane il boss di San Giuseppe Jato cambia decisamente registro. Capisce che ormai non ha più scelta. È stato letteralmente sbugiardato dal fratello e non può tornare indietro, non può più fare il mafioso detenuto. Da allora, pur con riserve su alcuni argomenti, inizia a collaborare davvero. Qualche mese dopo ci determineremo a richiedere per lui l’applicazione del programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia.
La collaborazione effettiva
Certo non tutte le questioni sono state risolte. La collaborazione di Brusca procede tra polemiche, smentite, confronti, contraddizioni. Tutto enormemente amplificato dal fatto che si tratta del boia di Capaci. Molti degli apparenti contrasti con le dichiarazioni di altri collaboratori erano, invero, frutto di diverse interpretazioni degli stessi episodi, un po’ come per i protagonisti di Rashōmon, la splendida pellicola giapponese di Akira Kurosawa.
Dovevamo essere noi a capire. Con lui era fondamentale, come si dice, separare i fatti dalle opinioni, limitarsi a isolare l’episodio storico depurandolo dalle valutazioni personali e soprattutto dagli inquinamenti che l’originaria ricostruzione del fatto aveva inevitabilmente subito passando di bocca in bocca. Tra i miei stessi colleghi non tutti, per esempio, avevano capito che più si abbassa il livello gerarchico mafioso del dichiarante più i progetti criminali che questo rivela appaiono concreti.
Se a Brusca era scappata l’espressione «l’avvocato Tizio si sta comportando proprio male», per Monticciolo il boss di San Giuseppe Jato aveva pensato di uccidere il legale e per Chiodo, addirittura, si stavano organizzando per ammazzarlo.
In tre anni ho interrogato Brusca circa ottanta volte. Sono sicuramente il magistrato che lo ha incontrato di più e penso di essere riuscito in qualche modo a comprendere il ruolo che ha svolto in Cosa nostra, il suo modo di agire, di pensare, di relazionarsi.
C’è una cosa, però, che certamente non ho mai capito di lui: quanto fosse consapevole del contrasto tra la forma e la sostanza del suo comportamento, a volte macabramente ridicolo. Una volta, dopo aver passato diverse ore a parlare di omicidi, strangolamenti e di cadaveri sciolti nell’acido, mi chiese scusa perché aveva usato l’espressione «ci siamo fatti questa pulitina di piedi» per dire che avevano ammazzato un gruppo di persone. Frase che evidentemente gli era risuonata un po’ volgare.
Il massimo Giovanni Brusca l’ha toccato però in un’altra circostanza, quando mi ha raccontato dell’omicidio di un giovane di Altofonte. Aveva programmato il delitto e individuato chi tra i suoi uomini dovesse parteciparvi, ma, il giorno prefissato, uno di questi non si era presentato all’appuntamento perché coinvolto in un incidente stradale. Brusca aveva deciso di portare ugualmente a termine il progetto di morte, obbligando un altro dei suoi a svolgere un doppio ruolo: «Avevamo fretta, non potevamo più aspettare. Quello si doveva sposare una settimana dopo». «E perché tutta questa fretta?» gli chiedo. Non dimenticherò mai l’espressione stupita del suo viso. Perplesso perché non avevo capito immediatamente: «Ma dottore, non potevamo certo lasciare una vedova!».
Tratto dal libro CACCIATORI DI MAFIOSI di Alfonso Sabella
Palermo:c’era una volta un bambino che amava i cavalli Era Giuseppe DI Matteo, ucciso dalla mafia vent’anni fa: non aveva ancora 13 anni quando lo rapirono per punire il padre Santino, pentito. Palermo, gennaio 2016 – Vent’anni fa Giuseppe Di Matteo veniva ucciso da Vincenzo Chiodo, Enzo Salvatore Brusca e Giuseppe Monticciolo. Giuseppe al momento della morte aveva 15 anni, erano 779 giorni che lo tenevano riunchiuso come una bestia per vendetta verso il padre Santino, pentito di mafia. Giuseppe è morto non perché il padre si era pentito, ma perché il padre era diventato un mafioso: questa la vera causa della sua fine atroce – e non lo diciamo solo noi, ma anche Giuseppe Cimarosa che ha più titoli dei nostri per esprimersi al riguardo. Giuseppe amava tantissimo i cavalli: erano la sua gioia, montava regolarmente e faceva piccoli concorsi. Palermo e San Giuseppe Jato hanno deciso di ricordarlo con una serie di celebrazioni intitolate “C’era una volta un bambino che amava i cavalli“ Non dimentichiamoci di Giuseppe Di Matteo, né di cosa sia la mafia. E se per caso dovesse mai servirvi un buon motivo per esssere onesti (che piccole espressioni di mafia e delinquenza le incrociamo tutti, nella vita), leggete questo stralcio dall’udienza di Vincenzo Chiodo del 28 luglio 1998. Ma leggetela solo se siete disposti all’orrore. “Chiodo Vincenzo all’udienza del 28 luglio 1998 ha anch’egli raccontato le fasi della uccisione del bambino, soppresso la sera dell’11 gennaio 1996. Ricordava bene tale data, giacchè mancava appena un mese e un giorno al suo compleanno, essendo egli nato il 12 febbraio 1963. Già nelle sere precedenti era stata avvertito da Francesco La Rosa di recarsi in campagna, perchè doveva arrivare Enzo Salvatore Brusca. Aveva a lungo atteso in una diversa strada, giacchè – come aveva fatto sapere al Brusca tramite il La Rosa medesimo – la via maestra non era transitabile a causa delle piogge e doveva seguirsi altro percorso. La prima sera lo stesso La Rosa lo aveva informato che Brusca non sarebbe venuto e che l’appuntamento era rinviato all’indomani. Lo stesso era avvenuto il giorno seguente, allorchè aveva atteso invano dalle ore 19 sino alle ore 22 o 23. La Rosa non gli aveva spiegato le ragione della venuta del Brusca. La terza sera, infine, il medesimo La Rosa lo aveva ancora una volta avvertito che l’incontro ci sarebbe stato; gli aveva anzi detto di preparare della carne per la cena. Aveva invitato il suo interlocutore a rimanere in loro compagnia, ma questi, all’apparenza terrorizzato, aveva declinato l’invito, dicendogli: “No no, me ne vado, sono fatti vostri, fatti vostri e fatti vostri”. Tale comportamento gli era sembrato alquanto strano, anche perchè il La Rosa di solito aveva sempre accettato di buon grado l’invito In controesame all’udienza del 29.7.98 Chiodo ha ribadito che aveva atteso la venuta di Enzo Brusca in quel di Giambascio almeno un paio di giorni prima. Erano stati Monticciolo Giuseppe e La Rosa Francesco ad avvertirlo che doveva sopraggiungere il Brusca; era impossibile che avessero potuto prenderlo in giro, perchè su queste cose non si era mai scherzato. Dopo che il piccolo Di Matteo era rimasto definitivamente a Giambascio, il Brusca Enzo Salvatore non aveva piu` frequentato quella casa; era venuto soltanto il giorno in cui era stato strangolato l’ostaggio. Doveva arrivare due giorni prima, ma Chiodo sconosceva se doveva rimanere lì o se per il bambino; nessuno gli aveva detto alcunchè, in quanto gli era stato ordinato soltanto di comprare della carne e quel che potesse servire per la cena e di attendere nella casa. Enzo Salvatore Brusca era arrivato verso le ore 21 a bordo di una Fiat Uno pilotata da altra persona che Chiodo, nascosto tra i cespugli a fumare una sigaretta, non aveva riconosciuto. Era sceso dalla macchina, aveva saluto il suo accompagnatore, che era andato subito via, ed era andato incontro al collaborante che frattanto era uscito allo scoperto.
Enzo Brusca lo aveva messo sottobraccio e gli aveva detto “figliolo, andiamo !”, ritenendo che fossero a piedi. Chiodo aveva prelevato la macchina che aveva in precedenza nascosto ed insieme avevano raggiunto la casa di Giambascio. Appena davanti al cancello, Brusca gli aveva chiesto del bambino, che non aveva più rivisto sin da quando era stato portato a Giambascio. Il collaborante lo aveva rassicurato che stava bene e che quel giorno aveva mangiato delle uova che il ragazzo stesso aveva cucinato, avendo a disposizione un fornellino. Aveva manifestato contemporaneamente il desiderio di vederlo ed, avendogli egli fatto presente che aveva lasciato nella sua abitazione in paese il telecomando per azionare il saliscendi e le chiavi per aprire la porta di ferro, aveva detto di soprassedere sino all’arrivo di Giuseppe Monticciolo. Chiodo aveva così appreso che doveva sopraggiungere pure quest’ultimo.
Costui era arrivato poco dopo ed aveva esplicitamente comunicato che si doveva uccidere il bambino, senza specificare chi ne avesse impartito l’ordine; aveva contemporaneamente chiesto a Vincenzo Chiodo – il quale aveva già intuito la terribile sorte che stava per toccare all’ostaggio attraverso l’eccessivo interessamento dimostrato dal Brusca verso il ragazzo – se se la sentisse di farlo.
Enzo Brusca aveva mostrato una certa riluttanza e, nel vano tentativo di soprassedere, aveva fatto presente che Chiodo non aveva con sè il telecomando e che oltre tutto occorreva prelevare l’acido presso tal “Funcidda” per dissolvere il corpo, la nafta per attivare il generatore di corrente elettrico ed altro.
Quando Monticciolo aveva, dunque, comunicato quella sera la suprema decisione, dopo che Enzo Brusca, avanzando difficoltà organizzative, aveva proposto che la macabra operazione fosse rinviata all’indomani e dopo che era prevalsa la linea oltranzista del Monticciolo medesimo, si erano un po’ consultati per distribuire a ciascuno il proprio compito, essendovi parecchia indecisione su chi dovesse materialmente uccidere il bambino. Monticciolo proponeva, infatti, che fosse il Chiodo o il Brusca ad agire, dicendo: “lo fai tu, lo faccio io”; Enzo Brusca in apparenza manifestava la volontà che il Chiodo ne fosse tenuto fuori, ma in concreto voleva verificare se il collaborante si facesse avanti.
Ad ogni buon conto, avevano organizzato le operazioni preliminari: Monticciolo si era allontanato adducendo che si recava a prendere l’acido presso tale “Funcidda”, che il collaborante sconosceva; Chiodo si era recato in paese per prendere nella sua officina un fusto in lamiera, uno scalpello e un mazzuolo per scoperchiare il fusto. Si era poi ricordato che un recipiente siffatto era custodito a Giambascio, sicchè si era limitato a prelevare un bruciatore a gas, lo scalpello, il mazzuolo, il telecomando, le chiavi e ad acquistare presso il distributore di carburante la nafta.
Munito dell’occorrente necessario, il collaborante era ritornato in campagna e poco dopo era tornato pure Giuseppe Monticciolo, portando due fustini di plastica di circa venti litri pieni di acido; aveva, quindi, prelevato da un capanno uno dei fusti utilizzati per conservare la nafta, lo aveva portato dentro casa e con scalpello e martello aveva provveduto a scoperchiare il fusto, cercando di fare il minor rumore possibile.
Compiuta tale operazione, tutti e tre insieme avevano portato giù nel bunker il fusto appena tagliato e i due fustini di acido, depositandoli davanti la porta della cella dell’ostaggio. Monticciolo aveva contemporaneamente riferito al Chiodo che doveva far scrivere al bambino una lettera, nella quale egli comunicava al nonno che era stato abbandonato da tutti, che aveva tentato il suicidio impiccandosi con le lenzuola, ma che era stata salvato. Insieme – Monticciolo e Chiodo – ne avevano poi indicato il testo al bambino, invitandolo a preparare la missiva che avrebbero ritirato dopo.
Erano risaliti nel piano superiore, uscendo fuori, e avevano cenato nella cucina sottostante, mangiando carne arrostita in padella, preparata dal Chiodo. Dopo cena, che si era svolta in un clima del tutto tranquillo, il collaborante aveva tagliato un pezzo di corda da una fune che si trovava all’esterno ed Enzo Brusca l’aveva annodata per formare il cappio.
Erano ridiscesi nel bunker; Chiodo si era fatto consegnare la lettera, ritirandola dalla mani del ragazzo senza fare uso di guanti (tanto da essere stato rimproverato dal Monticciolo per il fatto che avrebbe potuto lasciare pericolose impronte digitali); si erano infine apprestati a compiere la macabra operazione dello strangolamento.
Chiodo, nonostante che Enzo Brusca avesse prima manifestato il suo dissenso a che egli intervenisse, si era fatto avanti in omaggio alla regola che più volte gli aveva ripetuto lo stesso Brusca: “Mai tirarsi indietro su qualsiasi eventuale occasione”. Era del tutto tranquillo, non lo impensieriva minimamente il fatto che dovesse uccidere un bambino: “… il dovere era piu` forte di questo, cioe` perche’ li` non e` che uno poteva rifiutare al momento questo, perche’ poteva succedere diciamo il peggio”. In quel momento non aveva neppure pensato ai suoi figli; se ne era vergognato di fronte a loro quando aveva fatto la sua scelta di collaborare.
Era la prima volta che uccideva una persona; in precedenza aveva collaborato con i medesimi soggetti e con l’aggiunta di Romualdo Agrigento all’occultamento di cadaveri.
Sempre in controesame, Chiodo ha aggiunto che, quando si doveva strangolare il bambino, sia il Monticciolo che Enzo Brusca gli avevano detto: “Va beh, lo fai appoggiare li` al muro, gli metti la corda al collo, la tiri che poi noi ti aiutiamo”. In effetti Chiodo – così come gli era stato ordinato – aveva fatto appoggiare il bambino al muro con le braccia alzate, gli aveva messo la corda al collo, l’aveva tirata ed erano intervenuti gli altri. In pochi attimi il piccolo era rimasto soffocato.
Il collaborante, quasi con aria di compiacimento, ha spiegato in dettaglio tutte le operazioni compiute; aveva aperto la porta; il ragazzo stava in piedi vicino al letto ed ha così proseguito il suo racconto:
“Si, allora gia` eravamo nella stanza, io ho aperto la porta…, ho fatto pure fatica ad aprire la porta perche’ era quasi arrugginita, perche’ giu` c’era molta umidita`…, c’era sempre la condensa del corpo che stava chiuso senza avere un’aria … come in altre case. Allora io ho detto al bambino – io ero ancora incappucciato – ho detto al bambino di mettersi in un angolo cioe` vicino al letto, quasi ai piedi del letto, in un angolo con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io gli ho detto, si e` messo di fronte il muro, diciamo, a faccia al muro. Io ci sono andato da dietro, ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si e` messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si e` messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho buttato il bambino giu` e Monticciolo si stava avviando per tenere le gambe, gli dice “mi dispiace”, rivolto al bambino, “tuo papa` ha fatto il cornuto”. Nello stesso momento o subito dopo Enzo Brusca dice “ti dovevo guardare meglio degli occhi miei”, dice, “eppure chi lo doveva dire?”, queste sono state le parole diciamo al bambino.
Io mi ricordo il bambino, cioe` me lo ricordo quasi giornalmente la faccia, diciamo, mi ricordo sempre, ce l’ho sempre davanti agli occhi. …Il bambino non ha capito niente, perche’ non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era.. come voglio dire, non aveva la reazione piu` di un bambino, sembrava molle, … anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente.. non lo so, mancanza di liberta`, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro…, cioe` questo, il bambino penso che non ha capito niente, neanche lui ha capito, dice: sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo quello e poi non si e` mosso piu`, solo gli occhi, cioe` girava gli occhi … A me poi mi sono cominciate tremare le gambe ed io ho lasciato il posto a Monticciolo, che lui mi ha detto di andare anche sopra, dopo che pero` il bambino penso che gia` era morto perche’ si vedeva che gia` gli occhi proprio al di fuori… vedevo la bava che gli usciva tutta dalla bocca. Ed io sono uscito, nell’attimo che stavo andando sopra a vedere se c’era movimento strano … e ho visto il Monticciolo che tirava forte la corda e con il piede batteva forte nella corda per potere stringere ancora il cappio, nella corda… Ho preso un pochettino d’aria, sono risceso e ho detto a Monticciolo “dammi di nuovo a me la corda” e il Monticciolo dice “va beh, lascia stare”, finche` poi il bambino gia` era morto. Enzo Brusca ogni tanto si appoggiava al petto del bambino per sentire i battiti del cuore, quando ha visto che il bambino gia` era morto mi ha ordinato Enzo Brusca a me “spoglialo”. Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire, diciamo, o e` un fatto naturale perche’ e` gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio al polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio, l’uno, cosi`, e l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra. Andando sopra abbiamo lasciato il tappo del tunnel socchiuso per fare uscire il vapore dell’acido che usciva… Quando siamo saliti sopra Enzo Brusca e Monticciolo mi hanno baciato, dicendo che mi ero comportato.. come se mi avessero fatto gli auguri di Natale o chissa`…., complimentandosi per come mi ero comportato… Siamo entrati dentro la casa dove avevamo cenato prima, cosi`, eravamo li`, abbiamo fumato una sigaretta, si parlava cosi`. Poi dopo un po’ Enzo Brusca mi dice “vai sopra, vai a guardare che cosa c’e`, se funziona l’acido, se va bene o meno”.
In quel momento non aveva avvertito emozioni di sorta: “Io ero un soldato, io eseguivo.. io ho condiviso sempre le scelte di Brusca e le scelte degli altri, io mi sento responsabile, io non voglio.. cioe` non voglio incolpare altri e discolpare la mia persona, io mi sento responsabile come e` responsabile Brusca e tutti, io mi sento responsabile diciamo, anche se io posso dire che era meglio se non succedeva il discorso del bambino e non succedeva che io ero presente in quella situazione, cioe` questo, e non lo auguro a nessuno, diciamo, ne’ primo, ne’ chi ne ha fatto uno, ne’ chi ne ha fatto due, ne’ chi ne ha fatto tre, perche’ io non lo so se i miei figli mi possono a me perdonare. Prima il Presidente me lo diceva, io a volte non ho il coraggio di guardare i miei figli”. Ed ha proseguito: “Io ci sono andato giu`, sono andato a vedere li` e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perche’ io ho cercato di mescolare con un bastone e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba … e una parte.. pero` era un attimo perche’ sono andato.. uscito perche’ li` dentro la puzza dell’acido … era.. cioe` si soffocava li` dentro. Poi siamo andati tutti a letto a dormire, abbiamo dormito li`. Monticciolo mi ha detto che alle 5 lo dovevo chiamare perche’ lui se ne doveva andare; abbiamo dormito tutti e tre assieme nello stesso letto matrimoniale che avevamo nella stanza lì”.
Chiodo si era svegliato di buon mattino; aveva svegliato il Monticciolo che era andato via e si era recato a svuotare il fusto, rifiutando l’intervento dell’Enzo Brusca che aveva offerto la sua collaborazione. Il corpo del povero ragazzo si era interamente liquefatto senza che nulla di solido fosse rimasto, salvo la corda che gli era rimasta messa al collo. Con una latta aveva prelevato quel liquido di colore scuro versandolo nei due bidoncini di plastica che prima contenevano l’acido, svuotandoli in aperta campagna.
Aveva riportato in superficie il fusto e il Brusca vedendo la corda che era rimasta aveva detto scherzando al Chiodo di tenerla per trofeo. Aveva bruciato il materasso dove dormiva l’ostaggio, i suoi indumenti e tutto quanto si apparteneva al bambino. Con un’ascia aveva fatto in mille pezzettini la rete, sulla quale era stata adagiato il materasso e che era stata ancorato al pavimento con i piedi annegati nel cemento (operazione che aveva in precedenza fatto il La Rosa, per evitare che il ragazzo l’alzasse e facesse rumore); aveva raccolto i pezzi, le coperte, la macchina fotografica in diversi sacchi della spazzatura che aveva distribuito in vari cassonetti. Avevano, quindi, ripulito tutto, mettendo una pietra sopra nella vicenda.
Ancora in controesame, Chiodo ha precisato che dopo che era stato sciolto il corpo del bambino, era rimasto integro il pezzo di corda adoperato per strangolarlo e se ne era meravigliato, facendolo notare al Brusca, il quale gli aveva detto: “L’acido niente ci fa alla corda, tienetila per trofeo!”, in quanto era il suo primo delitto. In effetti, aveva bruciato la corda assieme a tutti gli altri oggetti, compreso il materasso e il fusto metallico che era stato messo sul fuoco per togliere qualsiasi traccia dell’acido. Enzo Brusca gli aveva detto che la scoperta della vicenda del sequestro avrebbe fatto più danno della strage di Capaci in due occasioni. Glielo aveva ripetuto dopo che Foma aveva lasciato l’incarico, incontrandolo nella contrada Parrini, dicendogli: “Apriti gli occhi, stai attento, tu lo sai a cosa si va incontro, la responsabilita` che ti ritrovi…La responsabilita` che ti ritrovi sai qual e`? Adesso basta solo pensare che prima erano tante persone che badavano a questo bambino, adesso ti ritrovi tu solo a gestire, con diverse complicazioni che si sono aggravate. Stai attento, perche’ lo sai che se succede che scoprono il bambino e cose.. fara` piu` scalpore della strage di Capaci”. Sostanzialmente Enzo Brusca, essendo un violento, alludeva anche alle sofferenze che erano stato inferte al piccolo Di Matteo che era stato tenuto in luoghi malsani, legato mani e piedi e sballottolato di qua e di là. Nella casa di Giambascio era rimasto soltanto Enzo Brusca, che aveva poi diretto gli ulteriori lavori di muratura che erano stati subito dopo effettuati. Erano state infine ricoperte con l’intonaco le pareti lasciate grezze e si era proceduto alla piastrellatura del pavimento che era ancora mancante“. Ed era solo un ragazzino che sognava i cavalli, proprio come siamo stati noi. CAVALLO MAGAZINE
- AVEVA 13 ANNI, DOPO 775 GIORNI DI PRIGIONIA L’HO STRANGOLATO E SCIOLTO NELL’ACIDO