GIOACCHINO LA BARBERA, COSÌ UCCIDEMMO FALCONE
Nato ad Altofonte il 23 novembre 1959 in veste di collaboratore di giustizia è stato fra i testimoni chiave nel processo contro gli assassini di Giovanni Falcone. La Barbera diede materialmente il segnale a Giovanni Brusca per far partire l’attentato. Per la sua collaborazione alla strage venne condannato a 14 anni di reclusione. Nel 1994, in seguito al suo pentimento, viene ucciso il padre Girolamo La Barbera detto “Zu Mommo” da Domenico Raccuglia e Michele Traina.
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Così uccidemmo il giudice Falcone, ma dietro le stragi non c’è solo mafia” Parla Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci e diede il segnale per l’esplosione: “Nel gruppo anche uno che non era dei nostri, forse un uomo dei servizi” “Sentii un boato, fortissimo, poi vidi alzarsi un’enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri…”. Seduto in poltrona, in jeans e camicia bianca, Gioacchino La Barbera racconta quel pomeriggio del 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci. L’ex uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento, apre le porte della sua casa. Ha un altro nome, una nuova vita, e ci chiede di mantenere segreta la località dove vive sotto protezione. “Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera… amuninni a mangiari ‘na pizza”.
“Così portai l’archivio di Riina a Messina Denaro” Una donna avrebbe raccontato di uomini in mimetica sul tetto della Mobiluxor, il mobilificio a ridosso dell’autostrada. E, stando ad altre testimonianze, ci sarebbe stato un misterioso aereo a sorvolare quel tratto della Palermo-Punta Raisi… “Degli uomini in mimetica non so niente… Ma vidi un elicottero, forse della protezione civile o dei carabinieri”.
Durante la strage di Capaci, o durante la preparazione, notò qualcuno estraneo a Cosa Nostra? “C’era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri… Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato”.
Potrebbe essere lo stesso uomo che tradì Emanuele Piazza, quindi un uomo dei servizi? “In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l’ho mai riconosciuto… Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate”.
Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del ’93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. Gioè si suicidò o fu ucciso? “Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene… Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l’unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all’Asinara”.
Il boss Francesco Di Carlo ha dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2. “So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi… che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità”.
La famiglia di Bernardo Provenzano rientrò a Corleone per lo stesso motivo? “Anche Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso… Ma è una mia deduzione”.
L’omicidio Lima: Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato il delitto. Ma furono davvero loro a uccidere? “Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C’erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino”.
L’omicidio Mattarella? “Per quel che ne so io, fu voluto da politici”.
Ci sono delle intercettazioni in casa Guttadauro fra il medico di Altofonte Salvatore Aragona e il boss Giuseppe Guttadauro sulla morte di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Alla domanda su chi commissionò l’omicidio, il boss risponde: estranei a Cosa Nostra… “Discorsi da ufficio, non avrebbero potuto sapere. Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove”.
La strage di via D’Amelio. Lei sapeva delle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino? “Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all’inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l’avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c’è traccia: sono spariti verbali e registrazioni”.
Si parla sempre di liste di nomi, di archivi spariti dalla villa di Totò Riina… Ma esistono questi documenti? Perché non sono mai state trovate carte importanti nei covi di Nitto Santapaola o di altri capi mandamento? Solo Riina aveva archivi? “Riina non era un capo. Era il capo di Cosa Nostra… Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L’auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti”.
Ha conosciuto il Capitano Ultimo? “Mai visto. So che Bagarella ha messo una taglia sulla sua testa dopo l’arresto del cognato. Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori”. LA REPUBBLICA di RAFFAELLA FANELLI. 19 settembre 2015
Strage di Capaci, parla il pentito La Barbera: «Fui io a dare il segnale per far esplodere il ponte al passaggio delle auto su cui viaggiavano Giovanni Falcone e la sua scorta,” racconta come andarono le cose nel pomeriggio del 23 maggio 1992. «Sentii un boato, fortissimo – dice La Barbera – poi vidi alzarsi un’enorme nuvola di fumo alta quasi cinquanta metri… ».
LA BARBERA: «AVEVO MESSO IO L’ESPLOSIVO» – È Raffaella Fanelli a riportare su Repubblica le parole del boss, ex uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, condannato a 14 anni grazie allo sconto di pena dovuto al suo status di collaboratore di giustizia. Era stato lui, La Barbera, a posizionare il tritolo sotto lo svincolo autostradale di Capaci e fu lui a dare a Giovanni Brusca l’ordine di premere il telecomando. Racconta La Barbera, che oggi vive sotto altro nome in una località segreta: «Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera… amuninni a mangiari ‘na pizza».
QUELL’UOMO MISTERIOSO – Ma c’era anche un altro uomo, che fu notato da La Barbera in quanto estraneo a Cosa Nostra: […] «C’era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri… Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato» […] In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l’ho mai riconosciuto…»
«SO DI RIUNIONI TRA RIINA ED EX MINISTRI DC» – E le riunioni nella villa di San Felice Circeo, dove sarebbero state pianificate le stragi, alle quali avrebbero partecipato anche diversi iscritti alla loggia massonica P2? «So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi… che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità». Giornalettismo 19.9.2015
Capaci bis, La Barbera: “Giovanni Falcone si sarebbe potuto salvare”La confessione arriva dal pentito Gioacchino La Barbera, collaboratore di giustizia che partecipò all’attentato, alla corte d’Assise di Caltanissetta nel secondo processo sulla strage del 23 maggio del 1992 dove persero la vita il magistrato, la moglie e tre uomini della scorta Falcone si sarebbe potuto salvare “se nell’auto bianca che lo trasportava si fosse seduto dietro” ma Totò Riina e Leoluca Bagarella “intendevano comunque lanciare un segnale ben preciso con quell’attentato: la bomba era per Falcone, non era importante l’esito dell’operazione”. La confessione arriva dal pentito Gioacchino La Barbera, collaboratore di giustizia che partecipato all’attentato, alla corte d’assise di Caltanissetta nel secondo processo sulla strage del 23 maggio del 1992 dove persero la vita il magistrato, la moglie e tre uomini della scorta. “Nessuno di noi immaginava – ha detto La Barbera deponendo come testimone assistito nell’aula bunker di Rebibbia – che Falcone si mettesse alla guida di quella macchina bianca. Si fosse sistemato dietro, si sarebbe salvato come l’agente Giuseppe Costanza. E noi tutti avevamo messo in conto il rischio che il giudice non morisse”.
Capaci era un segnale anche senza la morte di Giovanni Falcone Il collaboratore di giustizia ha spiegato che sarebbe stato certamente più facile eliminare Falcone a Roma, ma Riina pretese che l’operazione venisse portata a termine a Capaci “per dimostrare che in Sicilia comandava lui” e che “chi aveva ancora una concezione ‘antica’ di Cosa Nostra era destinato a essere accantonato. Santapaola, ad esempio, era stato già messo da parte e Matteo Messina Denaro – ha affermato La Barbera – era visto da Riina come un ragazzino di Trapani che si chiudeva in casa quando sentiva il rumore di un mortaretto”.
La Barbera: “Fui io a collegare il detonatore il giorno della strage” “L’esplosivo fu collocato nel cunicolo tempo prima ma il giorno dell’attentato fui io a collegare i fili per il detonatore”. La Barbera racconta alcuni particolari inediti durante la sua testimonianza. “La ricevente era spenta e quando ricevemmo la telefonata io avevo il compito di accenderla. Non posso escludere di aver collegato anche i fili del detonatore perché ricordo che c’era un certo pericolo nel lasciare tutto là”. Del compito dell’ex boss di Altofonte aveva parlato anche pentito Brusca e che trova conferma. “Io mi ricordo che lasciare lì la ricevente era un bel rischio. Io mi limitai ad inserire il circuito. Se era tutto apposto? Assolutamente sì. Il materasso che avevamo lasciato a copertura del cunicolo era al suo posto. Non so se qualcuno può essere intervenuto per inserire altro esplosivo. Mi sento di escluderlo però”.
“Mai prima di Capaci usammo così tanto esplosivo” Il pentito racconta ai giudici della Corte d’assise di Caltanissetta le varie fasi di preparazione dell’attento che portò alla morte Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: “Caricammo dodici, tredici bidoncini, da 20-25 kg ognuno. Ancora non sapevo per chi era tutto quell’esplosivo ma mai prima d’ora ne avevamo utilizzato così tanto”. “Utilizzammo due tipi di esplosivo. Uno era granuloso, l’altro era di tipo farinoso – ha detto l’ex boss di Altofonte – Le operazioni di travaso vennero eseguite in un villino a Capaci. Fu Rampulla a suggerire il da farsi. Ci spiegò che per avere una maggiore deflagrazione era importante mescolare i due tipi di esplosivo. E di fatti nel cunicolo dovevamo inserirli in maniera alternata”.
Bagarella conobbe estremisti in cella Leoluca Bagarella aveva conosciuto in carcere alcuni estremisti destinati ad essere “coinvolti in cose che la mafia non aveva mai fatto prima”. E’ quanto ha rivelato La Barbera alla Corte d’Assise di Caltanissetta. Il pentito ha riferito che Bagarella gli disse di “aver conosciuto in galera delle persone serie. Non so se di destra o di sinistra, ma diceva che erano in grado di spiegargli come trattare con lo Stato e suggerirgli cosa fare per dare fastidio allo Stato” – 25 novembre 2014 RAI NEWS
Stato-mafia: Gioacchino La Barbera e quella trattativa parallela Via Ughetti, Gioè e Bellini nel racconto del collaboratore di giustizia di Lorenzo Baldo – 23 gennaio 2014 Antimafia Duemila In una terra che vive di segnali l’udienza di oggi al processo sulla trattativa Stato-mafia inizia proprio con un segnale preciso: quello di uno Stato che pretende rispetto. Anche da parte del più efferato boss di Cosa Nostra i cui proclami di morte sono da alcuni giorni sotto gli occhi di tutti. E’ lo stesso presidente della Corte di Assise a rivolgersi a Totò Riina. Nel collegarsi in videoconferenza con la saletta del carcere di Opera (Mi) Alfredo Montalto nota che il capo di Cosa Nostra ha un cappello in testa. Il magistrato gli ricorda che quella saletta rappresenta di fatto un’aula di giustizia e che quindi, in segno di rispetto, il cappello deve essere tolto. Riina esegue senza battere ciglio. Dagli spalti dell’aula bunker dell’Ucciardone una nutrita schiera della “Scorta Civica” osserva attentamente la scena. Il drappello è formato da un cartello di associazioni che da lunedì scorso è presente cinque giorni alla settimana, a turni alternati, davanti a palazzo di giustizia (meno il giovedì quando una rappresentanza si trasferisce all’Ucciardone per seguire l’udienza del processo sulla trattativa). E’ la risposta migliore alla tracotanza di Totò Riina che si lamenta per la presenza di una parte della popolazione “che li difende” (ai magistrati, ndr) e “che li aiuta”. Sulle gradinate ci sono uomini e donne, ragazzi e ragazze, alcuni di Palermo, altri vengono da fuori. Sono lì per sostenere il pm Nino Di Matteo e i suoi colleghi del pool; anche loro pretendono da Riina quello stesso rispetto che esige il presidente Montalto. L’audizione del collaboratore di giustizia, Gioacchino La Barbera, ex boss della famiglia di Altofonte (del mandamento di San Giuseppe Jato), può finalmente entrare nel vivo.
Da Salvo Lima a Calogero Mannino Il pm Francesco Del Bene introduce l’argomento della strategia stragista di Cosa Nostra. Riferendosi all’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima Gioacchino La Barbera non usa mezzi termini: “Si doveva dare una lezione allo Stato, tutti quelli che avevano fatto delle promesse e che poi non avevano mantenuto, si dovevano uccidere”. “Nell’estate del ’92 Cosa nostra decise che si dovevano fare dei danni perché non erano state mantenute le promesse fatte”. Del Bene chiede a quali promesse faccia riferimento. “Promessa come quella che il maxiprocesso in Corte di Cassazione andasse bene – replica La Barbera –. Si sperava in qualcosa di buono per Cosa Nostra, come era successo nei tempi passati, ma questo non era successo e quindi si è deciso per fare questi omicidi, come Salvo Lima e Ignazio Salvo, ma anche attentati. L’ordine veniva da Totò Riina, a noi lo riferiva Bagarella che faceva da ambasciatore”. Ecco allora che a detta di La Barbera “fu decisa la strategia di attacco allo Stato, con le stragi. Iniziammo con Falcone, che era sempre stato un nostro nemico dichiarato e si proseguì con Borsellino”. Di fatto nella lista delle persone da ammazzare c’era anche l’ex ministro Calogero Mannino. La Barbera racconta di aver ricevuto quell’indicazione da Salvatore Biondino, uomo di fiducia di Riina. “Si parlò anche di colpire i figli di Andreotti – prosegue il collaboratore di giustizia – perché il padre non aveva fatto nulla per Cosa Nostra, si era disinteressato del 41 bis, non l’aveva fatto togliere e non aveva fatto tornare tutto come prima”. Il pentito conferma quindi il progetto di attentato nei confronti dell’attuale presidente del Senato Piero Grasso. “C’era già l’esplosivo – afferma La Barbera – e il telecomando. Grasso doveva venire a Monreale, e lì doveva avvenire l’attentato. Facemmo un sopralluogo, ma poi non se ne fece più nulla, ma ci fu un problema tecnico. Rischiavamo che scoppiasse prima del passaggio e non se ne fece più nulla”. Nella black-list di Cosa Nostra c’era anche l’esponente socialista Claudio Martelli. “Prima di essere arrestato – specifica il collaboratore – Brusca mandò il genero di Nino Salvo, Gaetano Sangiorgi, a Roma per capire se Claudio Martelli era un facile obiettivo. Sangiorgi studiò dove abitava e tornò dicendo che viveva sulla via Appia. Forse era stato scelto perché si era fatto tanto per procurargli i voti e lui parlava male di Cosa Nostra ed era stato uno dei protagonisti della legge sul 41 bis”.
Paolo Bellini e il covo via Ughetti Tra i temi trattati dai pm Del Bene e Di Matteo con il collaboratore di giustizia c’è anche il mistero che lega il covo di via Ughetti all’estremista nero Paolo Bellini. Vent’anni fa era stato un altro collaboratore di giustizia, Pino Marchese (il primo pentito dei corleonesi), ad indicare come soggetti particolarmente pericolosi Gioacchino La Barbera e Antonino Gioè, due mafiosi che nel ’92 erano poco noti. Dal “suggerimento” di Marchese, passando attraverso una solida attività di indagine su quei due uomini (intercettazioni telefoniche, pedinamenti, microspie nei luoghi da loro frequentati e attività di osservazione) si era arrivati al covo di via Ughetti dove i due si erano appostati. L’appartamento era stato quindi microfonato e aveva consentito l’ascolto e la registrazione della conversazione in cui i due avevano fatto un riferimento esplicito alla strage di Capaci, facendo intendere il loro personale e diretto coinvolgimento nell’eccidio. Poco dopo, grazie ad un’imponente operazione di polizia, si era arrivati ad arrestare numerosi mafiosi, fra cui gli stessi Gioè e La Barbera. Successivamente Gioè si era tolto la vita in carcere lasciando molti interrogativi su quello che da subito risultò uno stranissimo suicidio. Dal canto suo La Barbera, subito dopo il “pentimento” di Mario Santo Di Matteo (il primo ad autoaccusarsi della strage di Capaci), aveva iniziato anch’egli a collaborare aiutando in maniera decisiva a individuare e punire gli esecutori della strage. Un suicidio decisamente strano quello di Gioè, avvenuto proprio quando, come aveva dichiarato il pentito Mario Santo Di Matteo, (Gioè) stava probabilmente accingendosi a collaborare con la magistratura. Ma sono i dialoghi tra lo stesso Gioè e Paolo Bellini quelli che interessano maggiormente i magistrati che mirano a ricostruire un aspetto di questa trattativa “parallela”. Per comprendere questa triangolazione occorre fare un passo indietro. Bellini aveva conosciuto Gioè alcuni anni prima delle stragi, durante una comune detenzione nel carcere di Sciacca. All’epoca Bellini agiva sotto copertura dei servizi segreti, essendo in possesso di documentazione di identità riferibile a tale Roberto Da Silva. Proprio con questo nome era stato tratto in arresto e aveva conosciuto Nino Gioè. Tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 Paolo Bellini era rientrato in Sicilia e aveva ripreso contatto con Gioè sollecitandolo ad aiutare il Nucleo del patrimonio artistico a recuperare alcune opere d’arte trafugate alla pinacoteca di Modena. Di fatto Bellini agiva per conto del maresciallo dei carabinieri Roberto Tempesta e aveva fornito allo stesso Gioè le fotografie delle opere da ritrovare. In cambio Gioè aveva chiesto un trattamento di favore per cinque capimafia detenuti tra cui Bernardo Brusca e Pippo Calò. Bellini aveva quindi consegnato l’elenco con i cinque nomi al maresciallo Tempesta che, a sua volta, l’aveva consegnato al colonnello Mario Mori del Ros dei carabinieri. Bellini e Tempesta avevano di seguito riferito di progetti di Cosa Nostra di attentati al patrimonio artistico italiano. La Barbera conferma in aula che era stato Bellini a suggerire a Gioé di smetterla con le stragi e colpire il patrimonio artistico italiano. “Ti immagini se l’Italia si sveglia e non trova più la Torre di Pisa”. “E noi cominciammo – ribadisce il pentito – a organizzarci in questo senso”. Tempesta aveva quindi dichiarato di averne parlato a Mori ma questi lo aveva del tutto escluso. Sta di fatto che nel ’93 vengono colpite la chiesa di San Giovanni al Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma, poi la sede dell’Accademia dei Georgofili a Firenze dove muoiono cinque persone: Dario Capolicchio, un ragazzo di 22 anni, Fabrizio Nencioni, Angela Fiume e le loro due bambine, Nadia e Caterina rispettivamente di 9 anni e di 50 giorni.
Francesco Di Carlo e l’ombra dei Servizi Resta ancora un altro episodio da decifrare: l’incontro in carcere, in Inghilterra, del boss mafioso (poi diventato collaboratore di giustizia) Francesco Di Carlo con misteriosi uomini dei servizi segreti. Uomini degli apparati dell’intelligence che avevano chiesto a Di Carlo quale mafioso sarebbe stato in grado di realizzare attentati di prim’ordine. E Di Carlo aveva fatto il nome proprio di suo cugino: Nino Gioè. Ecco allora che i principali protagonisti di queste vicende ritornano ad essere figure decisive per ricomporre questo mosaico. A rispondere di tutto questo sarà lo stesso Francesco Di Carlo alla prossima udienza del 30 gennaio.
MAFIA, LE CONFESSIONI SHOCK DI GIOACCHINO LA BARBERA, IL BOSS CHE MISE IL TRITOLO A CAPACI Parole shock di Gioacchino La Barbera, il boss che sistemò il tritolo a Capaci, ex uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, collaboratore di giustizia condannato a 14 anni grazie agli sconti per il pentimento. Racconta di quel pomeriggio del 23 maggio 1992 e lo fa in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica . “Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima. Quando mi dissero che la macchina blindata era partita da Palermo per l’aeroporto mi portai con la mia Lancia Delta sulla via che costeggia l’autostrada Palermo-Punta Raisi, all’altezza del bar Johnnie Walker… Seguii il corteo delle macchine blindate parlando al cellulare con Gioè. Andavano più piano del previsto, sui 90-100 chilometri orari… Chiusi la telefonata dicendo vabbè ci vediamo stasera… amuninni a mangiari ‘na pizza”. La Barbera un misterioso uomo sui 45 anni “che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri… Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato”. Il collaboratore parla di Nino Gioè, capomafia di Altofonte e uomo fidato di Totò Riina, che si sarebbe impiccato la notte tra il 28 e 29 luglio del ’93, il giorno successivo agli attentati a Milano e Roma. “Non so se si è suicidato. Rispondendo a questa domanda mi fa mettere nei guai funzionari della Dia che con me si sono comportati bene… Che mi hanno aiutato. Sapevo che avevano fatto dei verbali con lui. Gioè stava collaborando, ne sono certo. Ero nella sua stessa sezione, insieme a Santino Di Matteo, e Gioè era l’unico a ricevere visite. La mia finestra dava sulla strada e vedevo un viavai di macchine e di persone che arrivavano per lui. Pochi giorni prima della sua morte, dal carcere di Rebibbia mi trasferirono a Pianosa mentre Di Matteo fu tradotto all’Asinara”. Sugli omicidi di Lima e Mattarella, il pentito dice che dietro non c’era solo la mafia. “Su Lima vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C’erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino. L’omicidio Mattarella? “Per quel che ne so io, fu voluto da politici”. Il discorso finale scivola sull’arresto di Totò Riina. “Riina non era un capo – dice La Barbera -. Era il capo di Cosa Nostra… Dopo il suo arresto accompagnai, insieme a Nino Gioè, i figli e la moglie di Riina fino alla stazione, da lì presero un taxi per Corleone. Poi seguii la pulizia e l’estrazione della cassaforte dalla villa di via Bernini e portai in un parcheggio la golf bianca intestata a un giardiniere della provincia di Trapani, non ricordo se Marsala o Mazara. Un’auto che ritirò Matteo Messina Denaro, con tutto quello che era stato trovato nella cassaforte. L’auto non era di valore quindi posso pensare che fossero più importanti i documenti”. 19 Settembre, 2015 Corriere Sciacca
Mafia, il pentito La Barbera rivela: A Capaci c’era un uomo che non era dei nostra LA “C’era un uomo sui 45 anni che non avevo mai visto prima. Non era dei nostri… In questi anni mi hanno mostrato centinaia di fotografie ma non l’ho mai riconosciuto… Evidentemente mi hanno mostrato quelle sbagliate”. Lo ha detto in un’intervista a Repubblica Gioacchino La Barbera, oggi collaboratore di giustizia, condannato a 14 anni di reclusione per la collaborazione alla strage in cui fu ucciso Giovanni Falcone. “Arrivò con Nino Troia – ricorda – il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato”. Fu lui a dare materialmente il segnale per il via all’attentato. “Fui io a dare il segnale agli altri appostati sulla collina. Ero in contatto telefonico con Nino Gioè. Sapevamo che il giudice sarebbe arrivato di venerdì o sabato… Era tutto pronto, e il cunicolo già imbottito di esplosivo. Ce lo avevo messo io, due settimane prima”, ricorda. A proposito delle dichiarazioni del boss Francesco Di Carlo , che dichiarò che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, nella provincia di Latina, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2, La Barbera dice: “So di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi… che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità”. Anche “Provenzano sapeva, mi pare ovvio. La decisione di far tornare a Corleone la moglie e i figli un mese prima di Capaci potrebbe non essere stato un caso”. Secondo La Barbera, poi, l’omicidio di Piersanti Mattarella, fratello del presidente della Repubblica, “fu voluto da politici”. E “credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove”. Secondo La Barbera, Leoluca Bagarella ha messo una taglia sulla testa del capitano Ultimo dopo l’arresto del cognato: “Mi impressionò la sua rabbia e la determinazione a vendicarsi. Era impazzito: dava soldi a tutti i carabinieri e poliziotti che ci portavano notizie. Lo voleva, e lo vuole morto. Sarà pure in 41-bis ma è un furbo: lui sa che è questo il momento giusto per farlo fuori”. E sulle false dichiarazioni di Vincenzo Scarantino a proposito della strage di via D’Amelio: “Mi assumo la responsabilità di quello che sto dicendo: all’inizio della mia collaborazione mi fu proposto di fare un confronto audio visivo con lo stesso Scarantino alla presenza dei carabinieri che l’avevano in gestione, funzionari della Dia e i magistrati di Caltanissetta che allora si occupavano del caso. Durante il confronto lo sbugiardai. Dissi subito che Scarantino non sapeva cose importanti di Cosa Nostra. Di quel confronto non c’è traccia: sono spariti verbali e registrazioni”. PRESSE settembre 2015
Intervistato da Repubblica (19 settembre) Arrivò con Nino Troia, il proprietario del mobilificio di Capaci dove fu ucciso Emanuele Piazza, un giovane collaboratore del Sisde che pensava di fare l’infiltrato”. L’intervistatrice insiste, e ricorda che un altro boss diventato collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo, abbia dichiarato che le stragi furono pianificate in una villa di San Felice Circeo, in una riunione del 1980 a cui avrebbero partecipato anche numerosi iscritti alla loggia massonica P2. La Barbera risponde di essere a conoscenza “di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani. I loro nomi sono stati fatti, come quelli dei giudici che aggiustavano i processi…che ne parliamo a fare. Il fratello di Francesco Di Carlo, Andrea, faceva parte della commissione, e sapeva quello che Riina avrebbe fatto. Per questo si consegnò prima delle stragi: non voleva responsabilità”. Si parla del delitto di Salvo Lima; due mafiosi, Francesco Onorato e Giovan Battista Ferrante hanno confessato di esserne gli autori. Furono proprio loro a uccidere, è la domanda. Risposta: “Contano poco i nomi. Vuole sapere se ci fu una collaborazione dei servizi segreti? Ci fu. C’erano uomini dei servizi sul Monte Pellegrino”. In crescendo: l’omicidio di Piersanti Mattarella, “per quel che ne so io, fu voluto da politici”. E anche per quel che riguarda l’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Credo che Dalla Chiesa sia stato ucciso per fare un favore. Ma non ho le prove”. Ricapitoliamo: qualcuno estraneo a Cosa Nostra “ronzava” attorno nei giorni della strage di Capaci, “mai visto prima…non era dei nostri”. Inoltre La Barbera sa “di riunioni con generali e di incontri tra Riina ed ex ministri democristiani…”; c’è stata una collaborazione dei servizi segreti per quel che riguarda il delitto Lima; a voler morto Mattarella sono stati dei politici; a uccidere Dalla Chiesa è stato un favore. “Dietro le stragi non c’è solo mafia”, titola “Repubblica”. Poi siccome a volte uno è roso da tarli, dubbi e perplessità, e bisogna pur venirne a capo, risolverli, si va su google, e si digita “Strage, Rapido 904 La Barbera”. Ti imbatti così in alcuni servizi audio-video, di “Repubblica-TV”; neppure troppo remoti, sono stati postati il 3 marzo 2015. C’è un avvocato che pone delle domande a La Barbera. Trascrivo. Avvocato: “Sa se queste stragi, diciamo in progettazione, riguardavano obiettivi determinati, appunto politici, Salvo Lima, Ignazio Salvo, oppure anche magistrati, oppure vi era anche un progetto di stragi contro persone in maniera indiscriminata?”.
La Barbera: “Gli attentati che sappiamo, gli attentati che sono successi, l’attentato che era già in fase preparatoria contro il dottor Grasso, quelle cose che sono successe e quelle che stavano succedendo…”.
Avvocato: “Lo scopo qual era, di quelle stragi?”. La Barbera: “Lo scopo era di intimidire lo Stato e scendere a patti, perché con quella sentenza non si erano rispettati i patti con Cosa Nostra…”.
Avvocato: “Le faccio una contestazione, questo per i fini di memoria. Lei dice, ho fatto riferimento ad un verbale, a cui ho fatto riferimento, rispondendo alla domanda: ricordo che all’indomani dell’arresto del Garofalo per la strage del treno, all’interno dell’organizzazione mafiosa si diceva che erano stati i servizi segreti, in particolare queste cose me le diceva Andrea Di Carlo”. La Barbera: “Guardi, voglio precisare che ogni strage, ogni delitto eccellente, nell’ambiente si diceva di Cosa Nostra, si diceva sempre così: sicuramente i servizi segreti, i servizi deviati…ma sono solo discorsi, dottoressa…”.
Avvocato: “Discorsi che cosa vuole dire? Era vero, non era vero? Sono discorsi, lo dice perché…?”. La Barbera: “No, no…Allora dottoressa, per quello che mi riguarda sono solo dicerie, perché anche per la strage di Capaci alla quale ho partecipato, la prima cosa…ma lì…i servizi segreti…a chi faceva comodo…E invece no. Eravamo stati noi. Questo è un esempio che sto facendo…”.
Avvocato: “Giusto per saperlo io, anche per altre stragi come Capaci si diceva che erano stati i servizi segreti, all’interno di Cosa Nostra?”. La Barbera: “All’interno di Cosa Nostra se ne parlava con persone che non sono a conoscenza della strage, perché chi aveva partecipato, sapeva…”.
Allora: in quella sede, La Barbera dice che la presenza e la partecipazione di servizi segreti più o meno deviati sono “solo discorsi…dicerie”; che le stragi, Capaci compresa, “eravamo stati noi”. Magari tutto ha una spiegazione, una logica, una “coerenza”. Per ora c’è una certa confusione tra quello che dice Gioacchino La Barbera uno, e quello che dice Gioacchino La Barbera due. Attendiamo il Gioacchino La Barbera tre; così che la confusione sia completa
LE DICHIARAZIONI DI GIOACCHINO LA BARBERA Nel novembre 1993, assumeva atteggiamento di collaborazione con la giustizia Gioacchino La Barbera, che era stato indicato da Baldassare Di Maggio e da Giuseppe Marchese come uomo d’onore della famiglia di Altofonte. La Barbera era stato arrestato nel marzo 1993, quando la sua responsabilità in ordine alla strage, era emersa anche da intercettazioni ambientali eseguite da appartenenti alla DIA, in un appartamento, sito in Palermo, Via Ughetti n° 17, dove l’imputato e Antonino Gioé vivevano in stato di sostanziale clandestinità, pur se ancora non raggiunti da alcun provvedimento giudiziario. L’apporto probatorio di La Barbera, convalidando le precedenti dichiarazioni rese da Di Matteo e Cancemi agli inquirenti, permetteva di ricostruire con precisione le fasi preparatorie ed esecutive dell’attentato, giacché egli stesso aveva partecipato a quasi tutte le operazioni. In particolare, il collaborante riferiva quanto a sua conoscenza in merito al trasporto ed al travaso dell’esplosivo a Capaci; all’assemblaggio, nella prima decade di maggio, da parte dell’artificiere Pietro Rampulla del congegno radio che aveva provocato l’esplosione; alla scelta dei siti più idonei per la collocazione della carica esplosiva e per l’azionamento del telecomando; alle prove di velocità per sincronizzare il meccanismo di attivazione della carica; alle modalità di caricamento delle porzioni di esplosivo nel condotto, sottostante il tratto autostradale; ai soggetti incaricate di provocare l’esplosione; al ruoli ricoperti da ciascun indagato; all’individuazione dei soggetti componenti il commando operativo il giorno della strage, indicandone i compiti. Con riferimento all’attività preparatoria, il collaborante riferiva di una prima fase svoltasi presso l’abitazione di campagna del Di Matteo, consistente in riunioni, tenutesi nella prima decade di maggio a cui avevano partecipato, oltre a lui, Gioé, Di Matteo, non sempre presente, Brusca, e Rampulla. Tali incontri, erano finalizzati alla predisposizione del telecomando, delle riceventi e dei detonatori. Il ruolo di artificiere era stato svolto da Pietro Rampulla, mentre gli altri avevano svolto un’attività di supporto. Il collaborante aveva provveduto all’acquisto delle batterie, che occorrevano per attivare le riceventi, nonché di un grosso numero di vecchie lampadine per il flash. Nel corso di una mattinata, collocabile dopo il 10 maggio, l’esplosivo era stato trasportato dall’abitazione del Di Matteo, sita in Via Del Fante, alla villa di Nino Troia a Capaci. A tale incombente avevano provveduto lo stesso La Barbera, Brusca, Gioé, Rampulla e Di Matteo. L’esplosivo era contenuto in due o tre bidoni di plastica da 50 kg cadauno. Contestualmente, avevano provveduto a portare, nella villa anzidetta, anche una borsa contenente i detonatori e i congegni elettronici. All’interno dell’abitazione vi erano, oltre ai soggetti sopra citati, Raffaele Ganci, Salvatore Biondino, Nino Troia, Giovanni Battaglia, uno dei due figli di Ganci, che riconosceva fotograficamente in Domenico Ganci, Salvatore Cancemi, certo Salvatore che, successivamente, riconosceva fotograficamente in Salvatore Biondo, Giovan Battista Ferrante. L’esplosivo trasportato veniva travasato in dodici o tredici bidoncini, unitamente all’esplosivo che già si trovava in quell’abitazione. Nino Troia e Giovanni Battaglia venivano incaricati di custodire il materiale esplodente, i congegni elettronici e i detonatori. I collaboranti 5 Il giorno seguente, si provvedeva a svolgere tutta l’attività concernente la scelta del luogo più idoneo per la collocazione di chi doveva attivare il telecomando e del posto ove collocare l’esplosivo che veniva individuato da Biondino e da Brusca. Inoltre, venivano effettuate delle prove dirette a simulare l’esplosione al momento del passaggio del corteo. In particolare, Di Matteo passava, a bordo della sua autovettura Lancia Delta Integrale, dal luogo prescelto e, nell’istante in cui ciò avveniva, si azionava il telecomando collegato con una lampadina-flash, per verificare i tempi e i modi di azionamento del telecomando con cui si lanciava il radiosegnale. Ed ancora, durante una serata, a ridosso di un venerdì, Gioé, Brusca, Rampulla, Battaglia, Biondo, Bagarella e lui stesso avevano provveduto al caricamento del condotto con l’esplosivo. Per tali attività, erano stati utilizzati una torcia elettrica, dei guanti da chirurgo, uno skate-board e del mastice a ventosa. Dopo il caricamento, avevano provveduto a coprire l’imboccatura del condotto con delle frasche e un materasso. Il giorno seguente al caricamento, si era tenuta, presso il casolare, posto nella disponibilità di Troia e Battaglia, una riunione operativa per puntualizzare i compiti affidati a ciascuno. Alla stessa avevano partecipato, oltre al collaborante, Brusca, Rampulla, Gioé, Ferrante, Biondino, Salvatore identificato in Salvatore Biondo, Battaglia, Troia, Raffaele Ganci e uno dei suoi figli individuato poi per Domenico Ganci e Cancemi. In particolare, i Ganci e Cancemi dovevano segnalare la partenza dell’autovettura del magistrato dal garage a La Barbera, solo se il predetto veicolo avesse imboccato l’autostrada per Punta Raisi, utilizzando un telefono pubblico. Fino al giorno dell’attentato La Barbera, Biondino, Ferrante, Salvatore (Biondo), Battaglia, Troia, Brusca. Rampulla e Gioé rimanevano nella zona operativa. Ed ancora, con riferimento all’attività successiva all’esplosione, La Barbera riferiva di essersi recato a Palermo in un appartamento, sito in Via Ignazio Gioé, dove aveva concordato di incontrarsi con Gioé e Brusca. Quivi giunto, non trovando le vetture dei complici, contattava telefonicamente Gioé che gli rappresentava, in maniera ermetica, l’opportunità di incontrarsi nel piazzale antistante la casa di cura Villa Serena, all’interno del cancello. Dopo una breve sosta tutti e tre si recavano ad Altofonte, a casa di Gioé, dove Brusca sottolineava che il corteo aveva proceduto contrariamente alle previsioni, alla velocità di 80-90 Km/h circa. Inoltre, nel corso della discussione, si faceva riferimento ad una dose di fortuna giacché la bassa velocità aveva determinato l’azionamento del telecomando in anticipo. Gioé e Brusca si erano allontanati dal luogo della strage, in direzione di Palermo, dapprima, percorrendo la strada in direzione di Palermo, sino allo svincolo di Capaci, e, successivamente, immettendosi sull’autostrada. Il collaborante aveva intuito che Gioé e Brusca si erano fermati, prima di giungere all’appuntamento a Villa Serena, a casa di qualcuno dove avevano seguito le notizie sulla strage diffuse dagli organi d’informazione. Le dichiarazioni del La Barbera, per come già osservato, trovavano ampi riscontri nei dati di prova generica e nelle convergenti dichiarazioni dei collaboranti Di Matteo e Cancemi, non inficiate dalle marginali discrasie ed incongruenze che avevano riguardato aspetti secondari della vicenda di cui ognuno di essi possedeva autonome ed originali cognizioni.
A CURA DI CLAUDIO RAMACCINI DIRETTORE CENTRO STUDI SOCIALI CONTRO LE MAFIE – PROGETTO SAN FRANCESCO