Michele Traina

 

Audio deposisioni ai processi

 

Un pentito ha svelato lo stratagemma studiato dalla cosca di San Giuseppe Jato: furono riconvocati sposi e invitati per le foto La maledetta cravatta dello sposo e un “infame”. Fine dell’ alibi perfetto studiato dalla cosca mafiosa di San Giuseppe Jato per salvare il killer dal grilletto veloce che, con il benestare dei boss di Cosa nostra, aveva provato a rapinare la Cassa rurale e artigiana di Altofonte, uccidendo il presidente ma anche il suo complice. Un “incidente” che rischiava di mettere nei guai esponenti di primo piano di Cosa nostra, da Giovanni Brusca (che aveva autorizzato il colpo) a Mario Santo Di Matteo (che vi aveva partecipato). Che cosa, meglio di un grande matrimonio di mafia, avrebbe potuto fornire un alibi di ferro al rapinatore maldestro? Detto fatto: tre giorni dopo la cerimonia, svoltasi contemporaneamente alla rapina, il matrimonio fu “rifatto”, o almeno le foto delle nozze. Tutti, sposi, testimoni e invitati, si rivestirono con gli stessi abiti, le signore si rifecero i capelli, poi tornarono davanti alla chiesa e nella sala banchetti per farsi immortalare sorridenti e con i calici in mano nelle immancabili foto ricordo. Nelle quali, questa volta, compariva anche il rapinatore-killer. Assolutamente geniale, perfetto, se non fosse stato per la cravatta, la cravatta dello sposo che, così come vuole la tradizione mafiosa, venne tagliata dagli invitati durante il rinfresco. E dunque non poteva essere riproposta per le foto truccate. Ci provarono ugualmente i due sposi, Cosimo Vernengo e Rosaria Marchese, a ricomporre la galleria degli scatti, utilizzando una cravatta simile, il più possibile coperta dagli abbracci degli amici. Ma quando, 5 anni dopo, Giovanni ed Enzo Brusca cominciarono a collaborare e fecero luce anche sulla rapina alla Cassa rurale e artigiana di Altofonte, dall’ album delle nozze sparirono quattro foto. Probabilmente proprio quelle incriminate. L’ incredibile storia del matrimonio “rifatto” è stata raccontata ieri in aula proprio da Enzo Salvatore Brusca, chiamato a deporre in videoconferenza dal pm Francesco Del Bene al processo che, dopo 14 anni, vede sul banco degli imputati Michele Traina, il rapinatore di Santa Maria di Gesù poi diventato uno dei killer del gruppo di fuoco di San Giuseppe Jato e oggi pluriergastolano, Giovanni Brusca e Mario Santo Di Matteo, oggi entrambi collaboratori di giustizia. I fatti risalgono al 2 aprile del 1991. Alle due del pomeriggio, Michele Traina e Settimo Russo entrarono nella banca nella piazza principale di Altofonte. Il direttore, Francesco Paolo Pipitone reagì e tentò di disarmare Russo. L’ imprevisto gettò nel panico Michele Traina, che fece fuoco colpendo alla nuca il suo complice e uccidendo anche il direttore. «Per costruirsi l’ alibi – ha raccontato ieri Enzo Brusca ai giudici della seconda sezione della Corte d’ assise presieduta da Salvatore Di Vitale – Traina pensò di rifare le foto delle nozze di Cosimo Vernengo, che si erano svolte lo stesso giorno della rapina, come se lui avesse partecipato alla festa, persino come testimone. Qualche giorno dopo le nozze – ha proseguito Brusca – si rivestirono tutti, gli sposi e i parenti stretti, indossando gli stessi abiti del matrimonio. Ma il trucco non riuscì, perché durante la festa di nozze, come si usa, allo sposo era stata tagliata la cravatta, e Vernengo non riuscì a trovarne una identica». Brusca sostiene di aver saputo dell’ espediente fallito dagli stessi Traina e Vernengo, e da Santi Pullarà, figlio di Giovanni. «Traina era molto addolorato – ha concluso Brusca – per l’ uccisione involontaria del suo complice. Seppi che parte dei proventi di quella rapina furono poi versati ai familiari del ragazzo morto per errore». I due sposi, interrogati dai magistrati, hanno ovviamente confermato che Traina era presente alle nozze. Li aspetta un’ incriminazione per falsa testimonianza.   ALESSANDRA ZINITI   21 aprile 2005 LA REPUBBLICA

 

   Brusca non convince, pentiti a confronto Il giorno che Michele Traina andò a uccidere Massimo Capomaccio Mico Farinella era lì. Acquattato dietro a una macchina, a due passi dal luogo del delitto. Una donna lo vide e poco dopo lo riconobbe in fotografia. Farinella fu arrestato. L’ accusa però lo vuole assolto. Giovanni Brusca dice che non c’ entra nulla col delitto. Che non aveva ragioni per uccidere Capomaccio, imprenditore edile delle Madonie, e che si trovava lì perché aveva un appuntamento con la vittima. Un altro pentito, Giuseppe Monticciolo sostiene il contrario. Così il giudice, prima di decidere, vuole che i due pentiti siano messi faccia a faccia per un confronto. Nel processo, celebrato con il rito abbreviato, Brusca è insieme il mandante dell’ omicidio, il reo confesso, l’ accusatore di altri due, processati con il rito ordinario (Michele Traina, l’ esecutore e Leoluca Bagarella che acconsentì) e il principale teste a discolpa di Farinella. Un intrigo che divide pm e parti civili a un passo dalla sentenza. È accaduto così che, alla vigilia della decisione, il pm Gaspare Sturzo abbia chiesto 8 anni e 2 mesi per Brusca e l’ assoluzione di Farinella, mentre gli avvocati Monica Genovese e Loredana Fiumara, legali dei fratelli Bruno e Michele Capomaccio, oggi collaboratori di giustizia, costituitisi parte civile, abbiano insistito per la condanna di Farinella. Il rampollo della mafia della Madonie vede ora il suo destino appeso al confronto deciso dal giudice Fabio Licata che ha chiesto di sentire anche un altro teste, Roberto Raccuglia. Intorno al processo per la morte di Massimo Capomaccio, assassinato il 24 settembre del 1994 tra via Petrarca e via Rapisardi, Giovanni Brusca si gioca un pezzo della propria credibilità. Soprattutto sul versante delle accuse agli ex amici del clan Farinella, capeggiato da Giuseppe, in ottimi rapporti con il patriarca Bernardo Brusca. Fu Giovanni a volere l’ omicidio per punire nel sangue il mancato versamento di una tangente destinata ai corleonesi, incaricandone Traina che però dovette procurarsi il lasciapassare di Bagarella. Senza neppure avvertirlo, ottenuto il via libera, Traina, killer fedelissimo di Brusca, sarebbe andato a compiere la propria missione. Il punto centrale è sul luogo del delitto. Secondo i fratelli Capomaccio, Massimo aveva appuntamento con Mico Farinella per mezzogiorno di quel giorno a Cefalù. L’ appuntamento fu spostato a Palermo, nel posto dove l’ imprenditore fu poi ucciso. «Chi altri, dunque, se non Farinella poteva informare Traina?», sostengono i legali. C’ è poi la versione di Monticciolo, amico di Brusca, che invece ha sostenuto che Farinella prese parte all’ agguato e ne aveva buone ragioni, essendo direttamente coinvolto nella contestazione mossa a Capomaccio. Monticciolo però avrebbe poi cambiato versione, allineandosi alla tesi di Brusca. L’ audizione di Roberto Raccuglia, testimone di alcuni racconti intorno all’ omicidio, potrebbe fugare i primi dubbi sul ruolo di Farinella. Raccuglia sarà sentito l’ 11 maggio a Pagliarelli. La data del confronto non è stata ancora decisa. Comincerà invece il prossimo 22 maggio il processo in corte d’ assise a Traina e Bagarella. Per l’ omicidio del loro congiunto, i fratelli Bruno e Michele Capomaccio hanno chiesto complessivamente oltre cinque miliardi di risarcimento. Michele, in particolare, attraverso l’ avvocato Fiumara, ha avanzato la richiesta più alta: 4 miliardi e mezzo, perché gestiva insieme con il congiunto ucciso l’ impresa edile chiusa dopo l’ omicidio.  e.b18 aprile 2001  LA REPUBBLICA