Commissario Ravidà: ”Indagine mafia e appalti non è la causa della strage di via d’Amelio”
Ora ci dicono che l’indagine mafia e appalti sarebbe “la motivazione scatenante per la strage di via d’Amelio. Ma io vi posso dire con cognizione di causa, perché ho fatto decine di indagini“, che legami tra mafiosi, “politici e imprenditori ci sono sempre stati”, ma “non sono scoppiate bombe. Quindi questa urgenza di uccidere Borsellino a 57 giorni dalla strage di Falcone non si ritrova in questa motivazione“.
Così ieri Mario Ravidà, già ispettore e commissario della Polizia di Stato, prima nella Criminalpol della Squadra Mobile di Catania (Antiterrorismo), poi nella Direzione investigativa antimafia (Dia), al teatro comunale di Porto San Giorgio (Fermo) in occasione della presentazione del libro ‘Luigi Ilardo. Omicidio di Stato’ (scritto da Anna Vinci, edito da Chiarelettere) a cui hanno partecipato anche Luana Ilardo, figlia del collaboratore Luigi Ilardo, e la giornalista Sandra Amurri. L’ex commissario ha affrontato con profondità il tema attualmente in discussione presso la commissione antimafia, ovvero gli eventi verificatisi nei 57 giorni antecedenti la morte di Paolo Borsellino. Come consuetudine, è stata nuovamente sollevata la questione riguardante il dossier mafia e appalti, argomento su cui ci siamo già ampiamente soffermati.
Per trovare la verità sulla morte del giudice ucciso il 19 luglio del ’92 è necessario allargare il campo e mettere a fuoco le tante mani che si muovevano sotto il banco della Trattativa: “Borsellino aveva parlato con la dottoressa Ferraro” che “gli aveva confermato che i carabinieri di Mario Mori stavano portando avanti una Trattativa con Cosa Nostra per arrivare ad un accordo per far finire le stragi“. Un’operazione che, storia alla mano, non ha minimamente impedito alla mafia di Totò Riina di far scoppiare altre bombe. Un uomo, però, ha dichiarato di sapere i segreti di quelle stragi, chi erano i veri mandanti: l’infiltrato Luigi Ilardo (confidente dell’allora colonnello dell’Arma Michele Riccio) ha detto Ravidà, “muore nel momento in cui dice che è in grado di rivelare il perché degli attentati stragisti che sono successi in questo paese a cominciare dagli anni ’60 e a finire dagli anni ’93-’94. Ebbene, non si tratta solo di mafia o di terrorismo nero o rosso, come ci hanno fatto credere. Non è così”. Ilardo, ha aggiunto, “non era uno qualsiasi”: era capomafia della provincia di Caltanissetta infiltrato per conto dello Stato dentro Cosa nostra.
“Voleva rivelare il perché questi attentati sono successi e avrebbe dato prova del fatto che gli esplosivi che vennero procurati dai terroristi neri per fare questi attentati uscivano da basi militari e quindi era esplosivo militare. Questo esplosivo poi veniva ritirato da agenti dei servizi segreti, veniva dato ad altri appartenenti alla mafia, tra cui suo padre e ad un certo Gianni Chisena“, un “soggetto borderline, vicino ai servizi segreti, vicino alla mafia e vicino alla massoneria”. Ma Ilardo non ebbe il tempo di parlare: poco dopo aver dichiarato che avrebbe iniziato ufficialmente la sua collaborazione con lo Stato venne ucciso a Catania il 10 maggio del 1996. Per la figlia dell’infiltrato, Luana Ilardo, la morte del padre è un “omicidio simbolo. Come dice il dottor. Di Matteo è il frutto avvelenato della Trattativa Stato – Mafia“. “È una di quelle pochissime morti veramente accertate e acclarate della Trattativa” ha aggiunto, “come per Attilio Manca, perché ricordiamoci che se Luigi Lardo fosse morto e i Ros avessero fatto il loro dovere oggi non saremmo qui a parlare, a cercare anche la verità su Attilio Manca“. “Per chi ha l’interesse di sapere la verità sull’omicidio di Luigi Lardo da un punto di vista tecnico, processuale, di indagine – ha detto Luana – vi consiglio veramente di leggere la relazione scritta insieme all’ex Ispettore della Dia Mario Ravidà. Abbiamo lavorato un mese incessantemente a questa relazione, che è una relazione che si basa semplicemente su fatti realmente accaduti, su audizioni, ascolti di collaboratori di giustizia, è stato per noi un lavoro estenuante che comunque parla semplicemente della verità“. Luca Grossi
- La storia del misterioso palazzo di via D’Amelio
- Trattativa: Riccio, Ilardo e il Ros. Le conferme di Arena e Ravidà
- “VI SVELO I RETROSCENA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA”
- Mafia, l’ex capo della Dia querela Giarrusso: “Non impedii la cattura di Provenzano”
- STATO e MAFIA parla Ravidà della DIA
Mario Ravida’, un Commissario della Polizia di Stato, andato in quiescenza nel 2011; ho vissuto, per lavoro, gli anni delle stragi tra cui quella del Dott. Paolo Borsellino e la sua scorta.
Un libro scritto per onorare la memoria di Magistrati, Uomini Politici e appartenenti alle Forze dell’Ordine; caduti per qualcosa in cui credevano nel nome di un’ideale di Legalità e Giustizia. Uomini che hanno portato avanti il proprio incarico applicando la Legge con serietà e rigore, ignorando indebite pressioni o volontà diverse. Un libro scritto per celebrare chi non ha ceduto di un millimetro al mal comune dilagante nelle Istituzioni pagandone le conseguenze con il bene più alto: la vita. ANTIMAFIA DUEMILA
Mi e’ stato chiesto di scrivere un ricordo di quel triste avvenimento; da un lato ho il piacere di trasmettere la mia esperienza e dall’altro, il ricordare, mi crea un enorme dolore. Non soltanto per il tristissimo episodio ma anche per il fatto che nel tempo e’ emerso, sia da mie esperienze personali che dal processo sulla trattativa “Stato-mafia” in corso a Palermo, come pezzi di quelle Istituzioni che ho servito per una vita, verosimilmente sono scesi a “patti” proprio con quelle organizzazioni che ha effettuato le stragi, per porre fine agli attentanti che la mafia ha compiuto in Italia. Il solo pensiero che questo possa essere vero mi suscita un sentimento di ribellione e mi fa domandare che senso hanno avuto tutti i sacrifici umani di tutti coloro che hanno cercato di affermare legalita’ e giustizia in questo paese? Mi piace pensare che tutti i caduti di mafia abbiano donato la loro vita per gli onesti di questo Nazione e per nessun’altro, almeno sino a quando non emerga tutta la verità su quanto è accaduto.
“… Sono passati 57 giorni dalla morte di Falcone. Il 19 luglio 1992 Paolo Borsellino, dopo aver trascorso una giornata al mare, rientra a Palermo per andare a trovare l’anziana madre in via D’Amelio. Con lui i colleghi della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Il Giudice scende per citofonare alla madre, cinque colleghi lo scortano sino al citofono, un sesto, Antonio Vullo si allontana in retromarcia per parcheggiare una delle due auto. Improvvisamente un boato, muoiono tutti, eccetto Vullo. Quel pomeriggio sentì la notizia alla televisione e i sentimenti che provai con la notizia dell’attentato a Falcone ritornarono con maggiore intensità. Telefonai a Francesco (un collega che lavorava con me) e lo avvisai di quello che era successo e anche lui rimase sgomento della notizia. Le lacrime mi uscivano da sole, sebbene conservavo una freddezza innaturale. Non ricordo se fu il pomeriggio stesso o la mattina successiva che fui avvisato dall’Ufficio che io, Francesco e un altro collega della Criminalpol dovevamo recarci a Palermo, in missione, per rafforzare nelle attività d’indagine quella Criminalpol. La stessa mattina di buon ora partimmo alla volta di Palermo con un’auto della Criminalpol di Catania. Giunti a Palermo, penso intorno alle 09.00, 09.30, ci fu comunicato che dovevamo effettuare un briefing per le 10.30 con il Dirigente Dott. Di Costanzo e il suo vice Dott. Tucci, per assumere disposizioni sul da farsi. Conoscevo entrambi i Dirigenti, il primo perché era stato Dirigente della Squadra Mobile di Catania e Tucci perché era stato Funzionario addetto alla Criminalpol di Catania. Credo, se non sbaglio, che dalle 09.30 alle 10.30 ci siamo recati in via D’Amelio per renderci conto di quello che era effettivamente accaduto. Sul posto ricordo ancora e penso lo sarà per sempre, un odore che identificai in odore di carne bruciata. Attorno solo distruzione, le auto nei pressi dell’esplosione erano distrutte e incenerite dalle fiamme che si sprigionarono a causa della deflagrazione. I palazzi, sebbene fossero di numerosi piani, sventrati sino all’ultimo piano. Stavo attento a dove mettevo i piedi perché avevo come l’impressione che potessi pestare da un momento all’altro qualche pezzo umano. Ritornammo per l’ora stabilita alla Criminalpol di Palermo e trovammo Di Costanzo e Tucci i quali ci dissero di ritornare in via D’Amelio e cominciare a contattare quanta più gente era possibile, per verificare cosa avessero visto. In via D’Amelio, Antonio Carambia, si chiamava così il terzo collega, si allontanò per cominciare a interrogare la gente dei palazzi. Io e Francesco con più calma, della prima volta, ci siamo chiesti da dove, gli attentatori, avessero potuto azionare il telecomando per innescare la deflagrazione. Escludemmo immediatamente che potessero essersi posizionati nei pressi dell’esplosione, in quanto sarebbero stati sicuramente coinvolti visto i danni causati e quindi ci guardammo intorno. A distanza di circa 100 metri in linea d’aria vi era un palazzo in costruzione, definito in tutta la sua struttura e sembrava un luogo ideale per quanto avevamo pensato. Via D’Amelio era una strada a fondo cieco, alla fine vi era un muretto e dietro un agrumeto. Escludemmo anche quel posto, per la vicinanza. Sicuramente dall’agrumeto, lo spostamento d’aria avrebbe causato danni ai possibili attentatori. Arrivammo nei pressi del palazzo in costruzione e ricordo che l’ingresso era delimitato da pannelli di lamiera, classici dei cantieri e vi era una porticina, sempre in lamiera, ed era leggermente aperta. Questo ci diete la certezza che all’interno ci potesse essere qualcuno. Aprimmo la porta ed entrammo, dirigendoci verso l’ingresso dello stabile. Francesco ricorda che all’esterno dell’immobile in costruzione vi era un’autovettura, forse una “mercedes”. Io non ho memoria dell’auto. Entrammo nel palazzo e le scale erano ancora da rifinire, così come tutta la struttura ma, stranamente, non vi erano operai sebbene fosse un giorno feriale e quindi lavorativo. Cominciammo a salire le scale e circa alla metà della costruzione incontrammo una persona, ci presentammo come agenti di polizia mostrando un tesserino e chiedemmo chi era e cosa facesse in quel posto l’uomo. Questo ci rispose che era uno dei costruttori. Continuammo chiedendo se fosse da solo e rispose che all’ultimo piano vi era un suo fratello, anch’esso proprietario e costruttore dell’immobile. Lo invitammo quindi a salire con noi. Giunti credo all’ultimo piano, ma comunque un appartamento posto in alto, vi era il fratello dell’uomo incontrato prima seduto ad una scrivania dove vi era posizionato un telefono. Chiedemmo quindi i documenti di entrambi e li identificammo come i germani Graziano. Non ricordo i nomi di battesimo. Francesco chiese di poter effettuare una telefonata e chiamò il 113 ed all’operatore, dopo essersi presentato, chiese di controllare al terminale elettronico i due soggetti. Nel contempo io, non ricordo se era allo stesso piano dell’appartamento o in una soprastante terrazza mi affacciai per vedere la visuale su via D’Amelio. Il posto era perfetto, vi era una visuale aperta e si vedeva tutta la via D’Amelio a cominciare dall’ingresso, sino al muretto che delimitava il predetto agrumeto. Da quel posto la distanza era tale da poter azionare un telecomando stando contemporaneamente a distanza di sicurezza per non riportare danni dall’esplosione. Notai un vetro che definì scudato, per la sua consistenza e robustezza, il quale era appoggiato al muretto che delimitava la vetrata, ed era incrinato credo dagli effetti della deflagrazione. Nei pressi del vetro vi erano concentrati numerose cicche di sigarette, come se in quel posto fossero state, per parecchio tempo, una o più persone. Rientrai all’interno e Francesco stava ancora parlando con l’operatore della Centrale Operativa. Vidi Francesco che in un determinato momento si fece in volto più serio e disse la posizione esatta di dove ci trovavamo all’operatore. Chiuso il telefono Francesco mi comunicò che uno o tutte e due i soggetti, avevano precedenti di Polizia per associazione mafiosa e che l’operatore ci stava inviando altro personale in ausilio. Nel frattempo feci uscire Francesco nel balcone e anch’egli si rese conto che il posto era ideale per lo scopo pensato. I due soggetti erano con precedenti di Polizia ma non avevano provvedimenti a carico, quindi decidemmo di scendere e di aspettare i colleghi all’ingresso del palazzo. Mentre stavamo scendendo incontrammo dei colleghi della Criminalpol che salivano le scale. Ci salutammo e indicammo dove si trovavano i due soggetti controllati, quindi dedussi che sicuramente erano loro il personale inviatoci in ausilio dalla Centrale Operativa I colleghi della Criminalpol che conoscevamo di vista, tra i quali una donna, ci dissero che avrebbero provveduto loro ad eventuali altre incombenze. Ricordo, inoltre, che Francesco annotò sia i nominativi delle persone che i loro numeri di cellulare, in quanto sebbene erano a quel tempo ancora pochi gli apparecchi telefonici mobili, i due ne erano entrambi forniti. Rientrati in Ufficio stilammo di quanto detto, una dettagliata relazione di servizio riportando sia l’ottima visuale su via D’Amelio, sia il vetro posto in quel modo; la concentrazione di cicche nei pressi del vetro, nonché i numeri di cellulare dei due soggetti. Il pomeriggio e i giorni a seguire non ci furono date altre disposizioni e dopo aver partecipato ai funerali di Borsellino e dei colleghi della scorta ci fu disposto di rientrare a Catania. Di tale episodio non ne abbiamo saputo più nulla. Ricordo che di ciò, in via del tutto discorsiva, ricordando l’episodio delle stragi, ne parlammo in tempi recenti con un giornalista conosciuto a Palermo, nel corso della testimonianza al processo contro i due generali dei Carabinieri accusati di favoreggiamento a “cosa nostra”, per l’episodio della mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso. Il Giornalista sicuramente si rese conto, conoscendo meglio di noi i due soggetti nominati, essendo di Palermo ed avendo trattato sempre cronaca giudiziaria, dell’importanza che poteva assumere tale episodio. Tempo dopo siamo stati chiamati dalla D.D.A. di Caltanissetta, che stava preparando un processo denominato “Borsellino quater”, ed abbiamo raccontato ai P.M. in due verbali separati, quanto suddetto. Recentemente sia io che Francesco, abbiamo fornito testimonianza, sui fatti, al processo “borsellino quater” che si sta tenendo a Caltanissetta dove apprendemmo che in concomitanza dell’esplosione era giunta una telefonata anonima al 113 che segnalava strane presenze di persone proprio nella terrazza da noi segnalata. Ci fu detto nel corso dell’interrogatorio d’avanti ai P.M. che della relazione fatta, al fascicolo processuale non ne è stata mai trovata traccia. Spero che siano stati effettuati degli accertamenti su quanto da noi affermato, essendo conservati agli atti tutte le interrogazioni al terminale Elettronico, dovrebbe risultare ancora oggi il controllo effettuato sui due Graziano, potendo così risalire al giorno, all’ora e ai nominativi che nell’occasione furono forniti alla centrale operativa del 113. Con il senno del poi, mi rammarico, visto come sono andate le cose, di non aver fatto di più in quell’occasione. Avrei potuto fare intervenire la Scientifica e far effettuare i rilievi dattiloscopici al vetro, recuperare le cicche ed effettuare un’immediata interrogazione sui numeri composti dai due soggetti dai loro cellulari nell’immediatezza dell’esplosione, per verificare eventuali contatti. Ma chi poteva immaginare che potessero esserci dei risvolti così eclatanti e principalmente che potessero essere nella strage coinvolti uomini appartenenti alle Istituzioni, che avrebbero “insabbiato” numerosi elementi per nascondere la verità……?>>“Fonte “Carne da macello” – Altromondo editore
In merito alla vicenda di Luigi Ilardo, quella che segue è la testimonianza di Mario Ravida’: “La gravità dei fatti, sta nel contesto che, sebbene fossero passati 5 anni dal delitto di Ilardo (2001), si era venuto a sapere (tramite mia relazione di servizio per notizie confidenziali apprese) chi erano, con nomi cognomi e mezzi usati, gli autori materiali! Nessuna Istituzione preposta a cio’ ( DIA e Magistratura) hanno ritenuto di svolgere le doverose indagini per appurare eventuali collusioni Istituzionali nel momento in cui venivano apprese tali notizie (2001)! Si sono dovuti aspettare ulteriori 12 anni, oltre i 5, sino ad arrivare a 17 anni dal delitto, per fare un processo agli stessi personaggi segnalati ed indicati dopo appena 5 anni dai fatti! Credo che questo sia gravissimo e quello che si sarebbe potuto scoprire (a 5 anni dal delitto) sarebbe stato diverso da quello che il processo ha messo in luce dopo 17 anni perché si pente colui che mi aveva confidato chi erano gli autori del delitto Ilardoe quali mezzi avevano usato per compierlo! Credo sia il momento di far uscire tutta la verità e chiedere conto, ragione e motivazione a chi non ha voluto ( per volontà, incapacità o altro) fare le indagini dopo 5 anni dal delitto! Oltre ad appurare perché il processo agli assassini di Ilardo ha chiuso, con un nulla di fatto, il fascicolo di reato su eventuali connessioni Istituzionali; sebbene, come suddetto, a 5 anni dal delitto si sapevano chi erano gli assassini e a quale “squadra criminale” appartenessero. Squadra criminale Santapaoliana; ma avulsa dal contesto perché diretta da un personaggio ( Maurizio Zuccaro) che si e’ sempre mantenuto al di fuori delle discussioni tra clan. Mantenendo una sua autonomia sebbene inserito nel contesto Santapaoliano. Sia in ambito criminale che in quello investigativo, lo Zuccaro era indicato come possibile vicino ad ambienti Istituzionali non meglio precisati. La motivazione principale scaturiva dal fatto che, sebbene condannato all’ergastolo, era sempre agli arresti domiciliari per una malattia invalidante rivelatosi, successivamente, falsa. Nessuno si spiegava come mai Zuccaro beneficiasse di tali concessioni a differenza di altri!!!!!”
29.10.2020 TRATTATIVA STATO MAFIA
28.3.2021 – Mario RavidaHo ascoltato, recentemente, una deposizione di un mio collega al processo contro i presunti depistatori della strage di Borsellino. Scrivo quanto segue, nella speranza che possa essere letto e valutato da chi di dovere:
il giorno dopo la strage viene inviata a Palermo, per dare ausilio alle indagini scattate immediatamente dopo l’attentato, una pattuglia della Criminalpol di Catania. La stessa era composta dagli Ispettori Mario Ravida’, Francesco Arena e dell’Assistente Carambia Antonio. Dopo una riunione alla Criminalpol di Palermo, ai catanesi, viene disposto dai Dirigenti di Palermo Dott. Tucci e Dott. Di Costanzo ( entrambi deceduti) di recarsi sul posto dell’attentato e raccogliere quante più testimonianze e’ possibile. Mentre Carambia si reca nei palazzi immediatamente adiacenti via D’Amelio per sentire eventuali testimoni, Ravida’ e Arena notano, dietro un giardinetto che chiudeva la via D’Amelio, un palazzo di circa 5 piani in costruzione. Definito nella struttura ma ancora da completare. Rendendosi entrambi conto che quel sito poteva, quantomeno, essere un buon punto di osservazione per gli attentatori, vi fanno accesso. Sul posto trovano esclusivamente ( stranamente, sebbene fosse lunedì e quindi un giorno lavorativo, non vi erano operai) i costruttori del palazzo, i fratelli Graziano che da interrogazioni al terminale elettronico del Ministero degli Interni, risultano avere numerosi precedenti penali, anche per associazione mafiosa. Dal posto e più specificatamente da una terrazza che si affacciava verso via D’Amelio vengono notati:
- 1) un spessissima lastra di vetro appoggiata al parapetto della terrazza, incrinata per il probabile spostamento d’aria dell’esplosione;
- 2) delle cicche di sigarette, raccolte nei pressi della lastra;
- 3) una vista netta e pulita distante circa 150 mt., In linea d’aria, su tutta via D’Amelio.
La centrale operativa del 113, oltre ad aver fornito ai due Ispettori le risultanze sui precedenti penali dei Graziano chiede agli Ispettori dove si trovavano per mandare in ausilio altro personale. Gli Ispettori, accertatosi che non vi erano eventuali procedimenti giudiziari da notificare ai Graziano, riscendono le scale del palazzo in costruzione per attendere i colleghi che la Centrale Operativa stava inviando sul posto e decidere, insieme, il da farsi. Mentre scendevano incontrano un gruppo di colleghi della Criminalpil di Palermo, alcuni conosciuti di vista dai due Ispettori, tra i quali una donna, che erano immediatamente sopraggiunti. I Palermitani affermano che eventuali altre incombenze, sarebbero stati compiuti da loro. I due Ispettori Catanesi si limitano, una volta rientrati in Ufficio, a stilare una dettagliata relazione su quanto avevano rilevato. Nella relazione vengono riportati anche due numeri di telefono relativi ai cellulari trovati in possesso dei due Graziano. Il giorno dopo i fatti, viene disposto dalla Dirigenza di quella Criminalpol che il personale di Catania poteva fare rientro in quanto non vi era più necessità del loro ausilio. Per circa 18 anni, i due Ispettori, di quell’episodio, non ne sanno più nulla. Dopo tutto questo tempo, i Due Ispettori si trovano a Palermo per altri fatti e incontrano, casualmente, un cronista Palermitano con cui fanno amicizia. Con quest’ultimo viene affrontata la questione dell’attentato di via D’Amelio. Il cronista, essendo palermitano e conoscendo gli antefatti della strage, si rende conto che quella vicenda, poteva avere dei risvolti importanti sulle Indagini. Dopo qualche tempo, i due Ispettori, vengono chiamato a testimoniare sui fatti al processo “Borsellino quater”. Recentissimamente si e’ anche appreso che uomini del Capitano dei CC Arcangioli, ripreso mentre si allontana dal posto della strage con in mano la borsa di Borsellino, si erano recati, nell’immediatezza dell’esplosione, nel palazzo dei Graziano.
- 1) cosa sono andati a fare in quel palazzo?
- 2) qualcuno li ha sentiti o interrogati sui fatti?
- 3) chi c’era in quel palazzo nel momento dell’esplosione?
- 4) perché non fu tenuto conto di una telefonata anonima, sopraggiunta al 113, che segnalava proprio in quel palazzo, uno strano movimento di persone? ( ricordo a tutti che era domenica pomeriggio e di logica non doveva esserci nessun operaio come non vi erano neanche il lunedì successivo durante il controllo degli Ispettori catanesi);
- 5) Si fecero indagini sui Graziano e sulla vicenda dagli Ispettori riportata nella loro relazione di servizio? Se no, perché?
- 6) tale relazione, come afferma oggi il collega teste al processo sui depistaggi, non era presente tra tutte quelle inviate al gruppo che indagava sulla strage. Perché? Che fine fece tale relazione?
- 7) ricordo a tutti che in tale relazione vi erano riportati i nr. dei Cellulari in uso ai Graziano e sarebbe stato interessante richiederne i tabulati per verificare con chi si erano sentiti nel momento della strage, considerato che i Graziano risultano essere stati in contatto con il Dott. Contrada. Quest’ultimo venne a conoscenza della strage quasi immediatamente. 28.3.2021 FB
Stato e mafie: parla Ravidà, ex ufficiale della DIApresente nell’aula bunker di Reggio Calabria, durante la requisitoria del PM Giuseppe Lombardo, relativa al processo sulla ‘Ndrangheta stragista. «Ancora si stanno pagando dei debiti che sono stati fatti negli anni Novanta con Cosa nostra».
«Questo processo assume un’importanza direi storica, per quanto riguarda la lotta alla mafia, alla ‘ndrangheta e alle mafie in genere. Si vanno ad analizzare e ad indicare le collusioni tra Stato, in senso lato, mafia e alta massoneria, con infiltrazioni politiche». Abbiamo raccolto il pensiero dell’ex ufficiale della DIA, Mario Ravidà, presente nell’aula bunker di Reggio
«Le parole del dott. Lombardo mi fanno venire in mente tante cose. L’unica cosa che mi colpisce e mi fa male è pensare che vittime innocenti, che credevano effettivamente in uno Stato e nella difesa dei cittadini onesti, sono morti, forse, anche per mano dello Stato. E questo mi fa veramente male. Il tradimento più alto. Noi lavoravamo per questo Stato, abbiamo lavorato per difendere lo Stato democratico. Nel momento in cui subiamo le conseguenze dallo stesso Stato diventa drammatico». Ravidà ha una esperienza quarantennale alle spalle. In prima persona ha vissuto i momenti più drammatici della Repubblica. Nel 2015, Ravidà, ha dato alle stampe un suo manoscritto, Carne da macello (AltroMondo editore), un libro scritto – come si legge nella sinossi – per onorare la memoria di magistrati, uomini politici e appartenenti alle forze dell’ordine; caduti per qualcosa in cui credevano nel nome di un ideale di legalità e giustizia. «Una cronistoria personale di quello che ho vissuto. Per caso mi sono trovato a vivere i momenti più drammatici di questa Repubblica: ad iniziare dal sequestro Moro, dove stavo facendo un corso di polizia giudiziaria a Roma e, quindi, ho partecipato a quelle che erano le operazioni per il tentativo di cattura delle Br, cosa non riuscita. Successivamente sono stato trasferito alla Digos di Napoli, sezione antiterrorismo, dove ho vissuto il sequestro Cirillo in prima persona, con i suoi retroscena, in particolare di un collaboratore che ci rivelò che dietro il sequestro, in realtà, c’era un progetto della Democrazia Cristiana e un accordo per la liberazione per una somma di un miliardo e 450 milioni. Quello che non c’è stato per Moro. A Catania, al reparto mobile, ho fatto parte della Criminalpol, quindi ho conosciuto direttamente il fenomeno mafioso ai massimi livelli, per quanto riguarda la Sicilia orientale. Con la formazione della DIA, nel 2003, ho completato il mio percorso professionale. Ho vissuto le stragi, anche se non direttamente, più che altro quella di Borsellino, dove abbiamo partecipato alle indagini.
La famosa relazione scomparsa, dopo il sopralluogo che lei fece con un suo collega della Criminalpol, il giorno dopo la strage, nel palazzo di proprietà dei fratelli Graziano, legati al clan Madonia.
«Scomparsa per diciotto anni e poi, per caso, dopo averne parlato con un giornalista, è uscita fuori».
Poi c’è la questione Ilardo, il collaboratore che stava dando un colpo mortale a Cosa nostra. È importante ricordare il colonnello Riccio, una figura fondamentale, infangato e diffamato nel corso degli anni. «Il problema è stato questo. Basti vedere quando Riccio è stato arrestato, per cosa è stato arrestato. Riccio è stato arrestato per un premio dagli esteri per l’operazione di servizio che lui stava facendo. E ne erano perfettamente a conoscenza tutti i suoi superiori. Chiaramente hanno lavorato in maniera non conforme a quelle che erano le regole di una operatività legale, però con risultati enormi».
Cosa aveva scoperto Riccio? «Aveva Ilardo. Sarebbe stato devastante per questo Stato democratico se fosse stato in vita e poteva parlare. Era a conoscenza di tutti i fatti più nascosti che non hanno avuto, sino ad ora, luce».
Possiamo entrare nel merito? «Basta citare gli omicidi di Piazza, del collega Agostino e della moglie, del piccolo Di Matteo.
Centinaia di fatti: gli attentati in Italia degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta. Loro (i mafiosi, nda) andavano a prendere l’esplosivo nelle caserme dei militari, insieme a un personaggio che si chiamava Ghisena, calabrese, legato ai servizi segreti e alla massoneria. Questo esplosivo veniva usato per gli attentati in giro per l’Italia. Parliamo di collegamenti tra mafia, ‘ndrangheta e servizi deviati. Ilardo avrebbe fatto luce su questi fatti».
Senza dimenticare la famosa operazione Mezzojuso e la mancata cattura di Binnu Provenzano. «L’operazione Mezzojuso è stata emblematica. Si è puntato dall’inizio, da quando c’era De Gennaro, all’arresto di Provenzano. L’obiettivo principale era quello. In attesa di questa operazione abbiamo fatto un mare di operazioni, abbiamo arrestato latitanti importanti di primo piano, abbiamo fatto un’operazione a Catania e abbiamo azzerato Cosa nostra. Su indicazioni di Ilardo abbiamo arrestato 50 persone».
Poi cosa succede? «Riccio viene inspiegabilmente, una volta andato via De Gennaro dai vertici della Dia, destituito all’Arma e, quindi, a Mori. Proprio in quel momento si determinò l’appuntamento con Provenzano. Sebbene ci fossero state tutte le condizioni, Riccio non è stato messo nelle condizioni di poter finalizzare l’operazione. Si sono limitati a fare qualche foto sul posto, invece di agire e arrestare Provenzano e, forse, tutti i vertici di Cosa nostra. Avremmo azzerato Cosa nostra».
Ed entrambi, Ilardo e il colonnello Riccio, faranno una brutta fine. «Ilardo muore dopo le sue dichiarazioni. Ritorna a Catania senza protezione, sebbene avesse dato queste anticipazioni davanti al fior fiore di Procuratori. Si doveva proteggere in altro modo, lo Stato doveva proteggerlo».
E Riccio? «Viene eliminato giudiziariamente. Nel momento in cui sta facendo le denunce a varie Procure: Catania, Caltanissetta, Palermo, per la storia di Ilardo. E proprio in quei momenti viene arrestato, a dieci anni dai fatti che gli contestano. Una storia strana, non riesco ancora a comprendere le esigenze cautelari per un colonnello dei carabinieri pluridecorato. Quali prove poteva inquinare dieci anni dopo i fatti contestati».
Non è solo mafia. Ci troviamo di fronte a quelle «menti raffinatissime» di cui parlava Falcone «Ci sono diversi elementi che possono portare a questa conclusione. Sono convinto di una cosa: c’è stato un momento storico in Italia dove diverse decisioni giudiziarie portano a pensare che ci sia stata una concordanza tra varie strutture. Riccio viene arrestato dai magistrati di Genova. Per quanto riguarda l’omicidio di Ilardo, ci sono state delle fughe di notizie. Ci sono stati dei ritardi da parte dei funzionari della DIA.
Perché la DIA caccia Riccio nel momento in cui stava dando dei risultati eccezionali? Come ha confermato il direttore della DIA, durante il processo Trattativa Stato-mafia, nessuno aveva mai dato questi risultati. Queste sono domande che dovremmo farci un po’ tutti».
I soggetti che lei ha incontrato, durante la sua attività professionale, sono approdati all’interno delle Istituzioni? «Sì, qualcuno ha fatto da consulente in Commissione parlamentare antimafia».
Se la sente di fare il nome?«Sì, il dott. Pappalardo che conferma, al processo contro Mori e Obinnu, di essere stato uno degli artefici della cacciata di Riccio dalla DIA. Sebbene ammette che, forse, mai nessuno come Riccio aveva portato quei risultati. La domanda da farsi è perché allora viene rimandato nell’Arma? È lo stesso funzionario che prima dell’arresto di Riccio vuole incontrare me e un altro mio collega, insieme lavoravamo con il colonnello, e ci intima di non frequentare più Riccio, sebbene avevamo in corso l’indagine Chiara luce contro Cosa nostra catanese, proprio per merito di Ilardo che ci aveva fatto identificare il responsabile del clan Santapaola che in quel momento reggeva la cosca. Sono domande a cui non ho mai trovato una risposta logica. Chiaramente non potevamo, proprio per questi motivi, non frequentare più Riccio. Era troppo importante tale rapporto per finalizzare l’operazione, come poi accadde con più di 25 arresti che azzerarono il clan. Il nostro Rapporto con il Colonnello continuò contravvenendo a quanto ci veniva disposto. Per tale motivo il mio collega fu anche convocato a Roma presso la direzione della DIA e da un altro alto Dirigente, anche lui siciliano, Pippo Micalizio, ora deceduto, che minacciò il mio collega di farci uscire dalla DIA se avessimo continuato tale rapporto. Devo aggiungere che Pappalardo, sebbene fosse già avvenuta la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso, non ne era al corrente. Quando lo informammo di ciò, rimase sorpreso ed aggiunse: “Mori non me lo aveva detto”. Presumo, da quanto affermò, che Pappalardo venne convinto da Mori ad allontanare Riccio dalla DIA. Forse proprio per controllarlo ed impedire la cattura del Provenzano. Come affermato da Riccio, se fosse rimasto alla DIA, si sarebbe sicuramente finalizzata anche la cattura di Provenzano con il nostro ausilio e come era già accaduto con gli altri latitanti catturati. Queste sono cose che, effettivamente, lasciano pensare. Sono le cose strane che sono successe. Come nell’omicidio Ilardo, dove è stato aperto un fascicolo per connessioni istituzionali. A distanza di cinque anni dall’omicidio ricevo una notizia da parte di un mio confidente che mi dice chi erano gli autori, i mezzi usati per commettere il delitto. La mia relazione finisce in un cassetto, dopo le mie proteste questo documento finisce in Procura. Si deve sentire il mio confidente, dopo dodici anni, e si arrestano i personaggi che avevo segnalato. Cose strane e nessuno chiede nulla sui ritardi, sulle omissioni».
Oggi come siamo messi in Italia per quanto riguarda la lotta alle mafie? «È un momento strano. Abbiamo visto tutti quello che è successo con il ministro Bonafede e il mancato incarico a Di Matteo. Perché non mettere le persone giuste al posto giusto? È una volontà di Stato o una incapacità?»
Che giudizio si è fatto del ministro Bonafede? «Il Movimento 5stelle era nato per cambiare l’Italia ma non sono questi i modi per cambiarla. Il decreto ultimo che riguarda gli appalti pubblici ha solo aumentato la mancanza di controllo per le enormi somme che saranno stanziate per gli appalti pubblici. Il dubbio, il sospetto e la paura è che possono banchettare, per quanto riguarda la corruzione, senza nessun controllo. Questo è un’altra cosa gravissima».
La trattativa Stato-mafie è terminata? «Ancora si stanno pagando dei debiti che sono stati fatti negli anni Novanta con Cosa nostra».
Se ne può uscire da questa situazione? «Se ne può uscire nel momento in cui un Governo nasce per cambiare totalmente le cose. Si dovrebbero attenzionare in modo pressante le mafie, la corruzione e tanto altro. Ma c’è una volontà di fare questo?». 10.7.2020 Paolo De Chiara Word