PIERO NAVA, un uomo chiamato coraggio

 

 

INTERVISTA 26.1.2013

INTERVISTA  (versione integrale) 26.1.2023

 

FILM

Testimone a rischio è un film drammatico del 1997 diretto da Pasquale Pozzessere, che narra la vicenda di Piero Nava, interpretato da un premiato Fabrizio Bentivoglio, testimone oculare dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. Nava, un rappresentante di sistemi di sicurezza, rese subito testimonianza alla polizia di quanto visto il 21 settembre 1990 sulla superstrada Canicattì-Agrigento.  All’epoca non esisteva ancora in Italia la disciplina di programmi di protezione per i testimoni a rischio. Il film si incentra su come la vita di un onesto cittadino si trasformi completamente, in seguito al fatto, in un assurdo destino di isolamento anche e soprattutto in ragione della debole protezione offerta dallo Stato.

 


 IL PRIMO TESTIMONE DI GIUSTIZIA IN ITALIA

Piero Nava, il testimone che accusò i sicari del GIUDICE LIVATINO: «La mia vita in incognito»

In un libro – dall’eloquente titolo «Io sono nessuno» il racconto della sua vita a trent’anni dall’efferato omicidio del magistrato ucciso dalla mafia ad Agrigento, il 21 settembre 1990. «Mai ripensamenti, ho fatto il mio dovere»

 




ROSARIO LIVATINO, il giudice ragazzino ucciso dalla mafia


 

 


Pietro Ivano Nava 
(Milano, 1950) ex agente di commercio, originario del lecchese, fu testimone oculare dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. Nava rese subito testimonianza alla polizia di quanto avvenne il 21 settembre 1990 sulla superstrada Canicattì-Agrigento. Le sue dichiarazioni furono fondamentali per individuare gli esecutori del delitto di mafia. Il personaggio diviene simbolo del dovere civico di denuncia del fenomeno mafioso e di lotta all’omertà. All’epoca non esisteva ancora in Italia alcun programma di protezione per i testimoni a rischio. Nava, rappresentante di porte blindate per una ditta di Asti, pagherà il suo gesto perdendo il lavoro e i propri affetti per colpa della mafia, e finendo nel più assoluto isolamento, costretto a cambiare più volte residenza e ad emigrare all’estero.

 

 

 

Piero Nava è un eroe dimenticato del nostro Paese. Un eroe senza volto, ma un eroe vero.  il 21 settembre 1990 percorre la strada tra Enna e Agrigento per raggiungere un cliente. Pur guidando una Lancia Thema fiammante, va piano per un problema a una ruota. È così che vede e registra nella memoria una strana scena. Prima due ragazzi su una moto da cross che lo superano sgommando, poi dietro la curva una Fiesta incidentata e come una rissa, un terzo individuo, pistole, l’uomo della macchina che fugge giù dalla scarpata, gli altri che lo inseguono. Nava pensa a una rapina e cerca subito qualcuno della Polizia. Non sa ancora, in quel momento, che la sua vita sta per cambiare per sempre. Poco dopo, in commissariato apprende che quello a cui ha testimoniato è il feroce omicidio di un giovane giudice coraggioso, Rosario Livatino, uno che “stava dando fastidio”. Siamo all’inizio dell’escalation che due anni dopo porterà agli attentati contro Falcone e Borsellino. E quel giorno è proprio Falcone a far intuire a Nava che lui e la sua famiglia si trovano in estremo pericolo, devono nascondersi, anzi meglio sparire, soprattutto se lui confermerà la sua preziosa testimonianza. Nava non ha dubbi: dire la verità è l’unica scelta possibile. E la sua verità porterà i killer all’ergastolo. Tutto ciò, però, ha un prezzo altissimo per lui e i suoi familiari, perdere la propria identità, il lavoro che stava garantendo loro agio e soddisfazioni, la casa, le amicizie, le relazioni. Ha inizio così la vita eroica e dedita alla Giustizia che Nava per la prima volta racconta in questo libro importante e denso di emozione, in un alternarsi di dramma e speranza, paura e orgoglio per aver fatto il proprio dovere. Una vera odissea umana, resa ancor più difficile da un buco legislativo che fino al 2018 omologava i pentiti ai veri testimoni di Giustizia come lui. Eroi “oscuri” ma esemplari per ogni cittadino.


Piero Nava, il primo “testimone di giustizia” contro le mafie

Nel 2017, con voto unanime in Parlamento, è stata approvata  la proposta di legge che riconosce il 21 marzo come “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie”. Vittima innocente della Stidda e di un sistema di giustizia che non era pronto, è da oltre trent’anni anche l’agente di commercio lecchese Piero Nava che, andando al lavoro, ha visto l’esecuzione del giudice Rosario Livatino. Testimoniando contro la mafia, Nava è diventato il primo testimone di giustizia

Tra queste 1055 vittime c’è il giudice Rosario Angelo Livatino – ucciso il 21 settembre 1990 dalla Stidda, costola di Cosa Nostra in Sicilia. Non c’è tra questi nomi quello di Piero Ivano Nava, a cui il 21 settembre del ’90 è cambiata la vita, o meglio, è cessata per come l’aveva conosciuta sin lì. Perché ha visto tutto dell’omicidio di Livatino e ha scelto di testimoniare, diventando il primo testimone – slegato quindi dalle dinamiche del reato – di giustizia contro la mafia. «Sulla statale 640, quella mattina, morimmo in due: il giudice e Pietro Nava. Quello fu l’ultimo giorno della mia vita di prima. Nel momento esatto in cui andai a denunciare quel che avevo visto, tutto cambiò per sempre», spiega Nava, al telefono, con la voce camuffata e parlando da un luogo sconosciutoper ragioni di sicurezza.

Da cittadino a “testimone a rischio”

Quelli di Livatino e di Nava sono destini incrociati. Si sono unite le loro storie laddove l’estate abbraccia l’autunno sulla superstrada Canicattì-Agrigento: quattro sicari affiancano la Ford Fiesta del giudice Rosario Livatino, la speronano e sparano al magistrato, uccidendolo, mentre tenta la fuga a piedi. Il tutto avviene sotto gli occhi di Piero Nava, un agente di commercio lecchese in trasferta in Sicilia che non esita a contattare il 112 e a raccontare quanto accaduto, descrivendo i killer nei dettagli. Non lo sa ancora, ma quel gesto lo renderà il primo testimone civile di un omicidio di mafia e da quel momento la sua vita cambierà drasticamente. Mai nessuno, prima di lui, aveva osato testimoniare, da libero cittadino, contro la Stidda e in generale la mafia in Sicilia.

Piero Nava con la sua vita – costretta per anni alla clandestinità insieme alla sua famiglia, senza più nome né casa, per via della sua testimonianza – diviene simbolo del dovere civico di denuncia del fenomeno mafioso e di lotta all’omertà. «All’epoca non esisteva ancora in Italia alcun programma di protezione per i testimoni a rischio. Per il mio gesto ho perso il lavoro e i miei affetti, non sono mai più tornato a Lecco e sono finito nel più assoluto isolamento, costretto a cambiare più volte residenza e ad emigrare all’estero», racconta Nava.

Dal buio alla luce

Nava però si è fatto scudo e forza con la sua famiglia: «In questi anni nessuno mi ha mai giudicato per la scelta che ho fatto di testimoniare. Né i familiari più stretti né i miei amici». Le foto della sua vita, racconta, sono state fatte sparire dalle forze dell’ordine per questioni di sicurezza. Il momento più difficile? «È stato quando sono arrivato al porto di Messina con la mia auto e non mi hanno fatto salire sui traghetti normali. Lì grazie a Sandro, il mio angelo custode nelle forze dell’ordine per anni, ho realizzato che non avrei più avuto la mia vita, quella che conoscevo. Accadeva 36 ore dopo l’omicidio di Livatino». Dal buio alla luce: «Il momento più gratificante della mia vita è stata la visita al Papaquattro anni fa. Papa Francesco ha sottolineato il mio coraggio di testimoniare per la Giustizia». Ma questa esperienza Piero Nava non l’ha vissuta da solo, aveva due figli piccoli. Come avete spiegato ai ragazzi cosa stava succedendo? «Con semplicità. Abbiamo detto loro che avevo visto delle cose che non andavano e che avevo scelto di denunciare e che quindi avremmo dovuto fare una vita di versa. Il più grande aveva sette anni e mia figlia tre. Sono stati bravissimi. Abbiamo vissuto in nove posti diversi, cambiato identità e case. Non nego sia stata una sofferenza, anzi, quando mia glia si è sposata non sono potuto andare al matrimonio. La mia, purtroppo, è sempre una presenza ingombrante».

E lo Stato?

«Lo Stato ha fatto quello che poteva in una situazione nuova per le istituzioni e con esponenti delle forze dell’ordine che facevano anche loro la vita a cui ero costretto anch’io. È stata molto dura. Sono stato fermo dieci anni con il lavoro e per me il lavoro era una parte fondamentale della vita. Per sfogarmi lucidavo talmente il pavimento che i miei cani non riuscivano a stare in piedi. A 50 anni, ho ricominciato come se fossi un ragazzino di diciotto».

Lo Stato a quei tempi però non era pronto, c’erano i pentiti ma ancora nessun testimone di mafia. È con l’azione di Rosy Bindi, dal 2013 al 2018 presidente della commissione antimafia del Parlamento, e insieme a Piero Nava che si iniziano a creare delle normative specifiche per i testimoni, diverse da quelle dei collaboratori di giustizia. Lo Stato fino a quel momento tutelava solo i collaboratori, mafiosi e vicini alla criminalità organizzata, ma non i cittadini. Una differenza sostanziale per una parità di trattamento. I collaboratori infatti sono persone che hanno fatto parte integrante delle organizzazioni mafiose e che si sono macchiate di reato. Con loro si fa un contratto per raccontare vicende e storie della criminalità organizzata in cambio di sconti di pena. I testimoni no, sono come Piero Nava, cittadini che hanno assistito al un omicidio o un reato di mafia senza esserne in alcuno modo legati.

Nava, da “cavia” per la giustizia a esempio per i giovani

«Piero fece “da cavia”, – ha detto recentemente Rosy Bindi presentando il libro che Nava ha scritto a trent’anni dall’inizio di questa sua nuova vita “Io sono nessuno” – collaborando in totale assenza di un quadro giuridico, collaborando con le forze dell’ordine. Lui è stato il primo a costituire la la figura del testimone di giustizia. Ed è il senso civico di quest’uomo che ci ha permesso tutelare queste figure e di cercare di inquadrarle in un ordinamento giuridico». «Ai più giovani mi sento di dire di sconfiggere l’indifferenza. Non essere ignavi. L’ignavia ammazza tutti, lo Stato e anche me. Quindi non devono essere indifferenti rispetto alle ingiustizie che vedono», conclude Nava. La lezione profonda che a tutti lascia la vicenda umana di Piero Nava è quella della ‘normalità’ del servizio alla giustizia e alla verità. Un insegnamento che morendo ma soprattutto in vita, diede anche Livatino. L’antimafia deve andare in questa direzione, non quella della grande retorica degli eroi, ma in quella della normalizzazione del servire la giustizia. Come fece Nava.

 

 
 
 
 
 
 
 

 

VIDEO


Livatino. Piero Nava, testimone dell’omicidio: «Quell’istante mi ha cambiato la vita»

Nel giorno della beatificazione del giudice Rosario Livatino, Lecco organizza una commemorazione per rinsaldare il legame che c’è tra la città lariana e il giudice siciliano. Nel cortile dell’ex Wall Street, luogo simbolo della ’ndrangheta negli anni ’90 e restituito alla collettività con il progetto sociale di Fiore – cucina in libertà, le principali autorità del territorio ricordano il ruolo avuto l’agente di commercio lecchese Piero Nava nel permettere la cattura degli assassini del giudice. Nava per questo da trent’anni ha cambiato identità e ha dovuto tagliare legami con il passato, anche con la sua città natale, ma partecipa – telefonicamente – alla commemorazione lecchese.
«Il giorno che ho appreso della notizia della beatificazione – spiega Nava, storico testimone di giustizia contro la criminalità organizzata – ho provato un’emozione molto forte. Quando a dicembre è stata resa nota la decisione ho considerato un dono straordinario l’idea che questo riconoscimento spirituale a Livatino sia stato annunciato lo stesso anno, il trentennale dall’omicidio, in cui anch’io ho in parte rivisto la luce riuscendo a raccontare ciò che io e la mia famiglia abbiamo dovuto vivere, ma anche per ricordare la straordinaria figura di Rosario Livatino. Un esempio di dovere civile e morale, un magistrato e un martire. Con la sua beatificazione papa Francesco ci ricorda la forza della fede e della giustizia».
Il giorno della morte del giudice Livatino è cambiata anche la sua di vita: da allora come si è evoluto il suo percorso spirituale? «Da piccolo ho frequentato l’oratorio delle Rondinelle, un oratorio molto grosso dei salesiani a Sesto San Giovanni. Andavo sempre a Messa la domenica. E anche ora sono credente. Sono stati 30 anni bui, faticosi e dolorosi, per me e per tutti la mia famiglia, durante i quali ho potuto sempre fare affidamento sulla preghiera e sul conforto della fede. Io vado in chiesa tutte le domeniche e all’eucarestia io dico un’Ave Maria per i miei morti iniziando dal giudice. Si è creato un rapporto speciale con Livatino».

Quelli di Livatino e di Nava sono destini incrociati.
Ieri il giudice di Canicattì è diventato beato, un esempio universale delle virtù morali e spirituali che incarnava contrastando la criminalità organizzata, mentre Nava è ufficialmente da due settimane Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana – dopo il decreto emesso da Mattarella a ottobre 2020, quando incontrò personalmente il lecchese -.
Nava con il suo ruolo di testimone è stato, ed è, un servitore dello Stato. «Quella mattina ho assistito alla barbara morte di Rosario Livatino e ho deciso di testimoniare. Non sapevo chi fosse la vittima dell’agguato cui avevo assistito, solo molte ore più tardi ho saputo che si trattava di un giudice, di un giovane magistrato antimafia. Oggi so che quell’istante che ha cambiato per sempre la mia vita è servito a dare giustizia ad un beato.
Quel giorno sono morto insieme a lui, mi sono caricato sulle spalle una croce che continuo a portare ancora oggi. Spero che l’esempio, la Fede e il rigore morale del giudice Livatino possa ispirare i giovani nel fare le scelte giuste. È il motivo per cui ho deciso di raccontare la mia storia in un libro. Ho voluto dire dire ai ragazzi che la mafia e la criminalità organizzata proliferano dove c’è indifferenza, invece ciascuno di noi è chiamato a fare la propria parte, perché lo Stato siamo tutti noi».
La storia di Piero Nava è raccontato nel libro “Io non sono nessuno”, scritto da Stefano Scaccabarozzi, Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi, che per l’occasione presentano l’adattamento teatrale “Sono Stato anch’io”.


 IL PRIMO TESTIMONE DI GIUSTIZIA IN ITALIA “Un lecchese di cui andare fieri”. La città omaggia il super testimone Piero Nava

“Da lei abbiamo ricevuto una grande lezione civica”. Con queste parole, seguite da uno scrosciante applauso di tutta piazza Garibaldi, il sindaco Virginio Brivio ha idealmente ri-consegnato a Piero Nava la benemerenza cittadina, il San Nicolò d’oro assegnatagli nel 1998 ma mai pervenutogli. Piero Nava è un lecchese, un italiano di cui andare orgogliosamente fieri perché grazie alla sua testimonianza gli assassini del giudice Rosario Livatino, ucciso in un agguato mafioso la mattina del 21 settembre 1990, sono stati condannati e assicurati alla giustizia. Da quel giorno però la vita del primo testimone di giustizia italiano è stravolta: vive da anni sotto protezione, ha cambiatoidentità, abbandonato casa, amici, parenti e qualsiasi affetto lo legasse alla sua vita precedente. “Quella scelta dolorosa ma che rifarei ancora perchè lo Stato siamo ognuno di noi”, come ha ribadito ancora ieri è diventata un libro autobiografico “Io sono nessuno”, edito da Rizzoli e curato da tre giornalisti lecchesi, Lorenzo Bonini, Stefano Scaccabarozzi e Paolo Valsecchi con la prefazione di Rosy Bindi che Nava ha ringraziato per averlo aiutato ad incontrare Papa Francesco tre anni fa. Sul palco anche il vice-prefetto Mariano Scapolatello mentre in piazza Garibaldi tra i molti che hanno seguito l’evento un altro ex ministro, Roberto Castelli “compagno di partite a calcio”, come ha ricordato Piero Nava, un lecchese, un italiano con la schiena dritta. di Andrea Morleo IL GIORNO 


Piero Nava, il testimone che accusò i sicari del GIUDICE LIVATINO: «La mia vita in incognito»


In un libro – dall’eloquente titolo «Io sono nessuno» il racconto della sua vita a trent’anni dall’efferato omicidio del magistrato ucciso dalla mafia ad Agrigento, il 21 settembre 1990. «Mai ripensamenti, ho fatto il mio dovere»

Pietro Ivano Nava (Milano, 1950) ex agente di commercio, originario del lecchese, fu testimone oculare dell’omicidio del giudice Rosario Livatino. Nava rese subito testimonianza alla polizia di quanto avvenne il 21 settembre 1990 sulla superstrada Canicattì–Agrigento. Le sue dichiarazioni furono fondamentali per individuare gli esecutori del delitto di mafia. Il personaggio diviene simbolo del dovere civico di denuncia del fenomeno mafioso e di lotta all’omertà. All’epoca non esisteva ancora in Italia alcun programma di protezione per i testimoni a rischio. Nava, rappresentante di porte blindate per una ditta di Asti, pagherà il suo gesto perdendo il lavoro e i propri affetti per colpa della mafia, e finendo nel più assoluto isolamento, costretto a cambiare più volte residenza e ad emigrare all’estero.
Alla sua vicenda è dedicato il film Testimone a rischio del 1997, con Fabrizio Bentivoglio, vincitore per l’interpretazione di un David di Donatello, e prima ancora il libro L’avventura di un uomo tranquillo, dove si mostra la forza morale del personaggio, la debole protezione dello Stato e come la vita di un onesto cittadino si trasformi in seguito alla testimonianza. 

Piero Nava è un eroe dimenticato del nostro Paese. Un eroe senza volto, ma un eroe vero.  il 21 settembre 1990 percorre la strada tra Enna e Agrigento per raggiungere un cliente. Pur guidando una Lancia Thema fiammante, va piano per un problema a una ruota. È così che vede e registra nella memoria una strana scena. Prima due ragazzi su una moto da cross che lo superano sgommando, poi dietro la curva una Fiesta incidentata e come una rissa, un terzo individuo, pistole, l’uomo della macchina che fugge giù dalla scarpata, gli altri che lo inseguono. Nava pensa a una rapina e cerca subito qualcuno della Polizia. Non sa ancora, in quel momento, che la sua vita sta per cambiare per sempre. Poco dopo, in commissariato apprende che quello a cui ha testimoniato è il feroce omicidio di un giovane giudice coraggioso, Rosario Livatino, uno che “stava dando fastidio”. Siamo all’inizio dell’escalation che due anni dopo porterà agli attentati contro Falcone e Borsellino. E quel giorno è proprio Falcone a far intuire a Nava che lui e la sua famiglia si trovano in estremo pericolo, devono nascondersi, anzi meglio sparire, soprattutto se lui confermerà la sua preziosa testimonianza. Nava non ha dubbi: dire la verità è l’unica scelta possibile. E la sua verità porterà i killer all’ergastolo. Tutto ciò, però, ha un prezzo altissimo per lui e i suoi familiari, perdere la propria identità, il lavoro che stava garantendo loro agio e soddisfazioni, la casa, le amicizie, le relazioni. Ha inizio così la vita eroica e dedita alla Giustizia che Nava per la prima volta racconta in questo libro importante e denso di emozione, in un alternarsi di dramma e speranza, paura e orgoglio per aver fatto il proprio dovere. Una vera odissea umana, resa ancor più difficile da un buco legislativo che fino al 2018 omologava i pentiti ai veri testimoni di Giustizia come lui. Eroi “oscuri” ma esemplari per ogni cittadino.


Mafia, Lecco premia il testimone del delitto Livatino che dovette lasciare la città.

 Pietro Nava era collegato da una località segreta: “Se non avessi detto nulla avrei perso la mia dignità”La città di Lecco ha ringraziato con una cerimonia pubblica Pietro Nava, l’agente di commercio originario di Lecco, che il 21 settembre 1990 assistette all’omicidio del giudice Rosario Livatino sulla statale tra Agrigento e Caltanissetta. Da quel giorno cambiò la vita di Nava che divenne il super testimone al processo dove i mafiosi vennero condannati: lui infatti non fece più ritorno in città. L’amministrazione comunale di Lecco gli conferì l’onorificenza San Nicolò nel 1998, ma non venne mai ritirata. Questa sera a Lecco si è svolta la cerimonia in piazza Garibaldi – collegamento su maxi schermo via Skype con Pietro Nava che vive in una località segreta – alla presenza del sindaco di Lecco Virginio Brivio, degli ex ministri Rosy Bindi (Pd) e Roberto Castelli (Lega) e di centinaia di persone. Pietro Nava ha ringraziato dicendo: “Se non avessi detto nulla avrei perso la mia dignità”. LA REPUBBLICA 15.9.2020


Nava, super testimone dell’omicidio Livatino: “I miei figli hanno cambiato 5 cognomi, ma lo rifarei”

 

A quasi 30 anni esatti dall’omicidio del giudice Rosario Livatino, la città di Lecco ha voluto premiare il super testimone Piero Nava, che grazie alla sua testimonianza fece arrestare i due killer. Purtroppo però Nava, oggi 71enne, non ha potuto ritirare di persona la medaglia: “A Lecco ho lasciato tutto. La mia vita di prima non c’è più. Senza un passato, sono nessuno”, dice Nava a Fanpage.it raccontando 30 anni di vita in incognito. “I miei figli hanno avuto cinque cognomi diversi, ma hanno sempre capito”. Nonostante tutto Nava non ha rimpianti: “Testimonierei ancora”. E sul recente permesso premio concesso a uno dei mandanti dell’omicidio dice: “Se glielo hanno concesso avranno avuto le loro buone ragioni”. La città di Lecco lo ha premiato due volte: la prima nel 1998, la seconda martedì sera. Ed entrambe le volte la medaglia non è mai stata consegnata. Perché Piero Nava, il super testimone dell’omicidio del giudice Rosario Livatino, nella sua città in trent’anni ci è tornato di rado e per pochi minuti: giusto il tempo di deporre un mazzo di fiori sulla tomba dei suoi genitori e via. Senza fare visita ad amici e parenti e, soprattutto, stando ben attento a non farsi riconoscere. “A Lecco ho lasciato tutto. La mia vita di prima non c’è più. Senza un passato, sono nessuno”, racconta Piero Nava, 71 anni, a Fanpage.it.
Non ho sentito lo sparo, ma ho visto tutto  C’è un prima e un dopo nella vita di Nava. Nel mezzo, quello che ha visto la mattina del 21 settembre del 1990 lungo la superstrada Canicattì-Agrigento. Nava, con una bella carriera da rappresentante, era in anticipo quella mattina: “Non era mia abitudine arrivare tardi a un appuntamento con un cliente. Così, anche quella volta, mi sono messo in macchina per tempo”. A decidere il suo destino, è una delle gomme della sua auto: lungo la strada si buca e costringe Nava a rallentare, ma non a fermarsi. Proprio per quella sua velocità ridotta riesce a guardare bene in faccia i due uomini che, in sella a una moto, lo sorpassano. Saranno gli stessi che qualche metro più in là vedrà fermi a lato della strada a fianco di due macchine: è uno dei due motociclisti a impugnare la pistola e a sparare al giudice. “Ero in auto. Non ho sentito nessuno sparo, ma ho visto tutto”, racconta Nava. “Non ho pensato neanche per un secondo a non andare a testimoniare. Come avrei potuto leggere i giornali e non far nulla? Era contro l’educazione che ho ricevuto. Da quel giorno ho abbracciato la mia croce, come si fa ogni volta che si prende una decisione”. Dopo quel 21 settembre Nava lascia il lavoro e sparisce insieme alla compagna, alla figlia e al figlio.
I miei figli hanno avuto cinque cognomi diversi  In trent’anni la famiglia di sposta nove volte tra estero e Italia: “I miei figli hanno avuto cinque cognomi diversi. Hanno sempre capito, non mi hanno mai tradito. Non hanno mai raccontato nulla, neppure ai loro amici più stretti. Non hanno mai provato rancore, anche quando dicevo loro di non salutare nessuno e di fare le valige che il giorno dopo saremmo ripartiti”. E così ha fatto anche lui: “Ho imparato a stare da solo, e ci sto bene. Perché quando passi una vita a nasconderti, fai fatica a stringere amicizie. Dovresti se no rispondere a troppe domande”.
Sono libero di scegliere. Allo Stato comunico solo il nuovo indirizzo   In tutti questi anni è stato Nava a decidere i suoi spostamenti: “Sono sempre stato libero di scegliere dove andare”. Allo Stato, che lo ha supportato economicamente, comunicava solo il nuovo indirizzo: “Perché all’epoca dei fatti non esisteva ancora un programma di protezione dei testimoni. Anzi, quando parlavo con magistrati e forze dell’ordine ripetevo loro che non ero un collaboratore, ma una uomo che è sempre stato dalla parte dello Stato”.
Testimonierei ancora  Oggi Piero Nava è un uomo sereno. Non si volta mai indietro e ha fatto sua una frase che gli ripeteva sempre la madre: “Quello che Dio vuole”. Per questo non ha nessun rimpianto: “Testimonierei ancora”. Anche quando un mese dopo l’omicidio arrestano i due killer Domenico Pace e Paolo Amico in Germania e nella tasca di uno dei due trovano un pizzino con scritto: “Piero Nava. Luogo di nascita: Sesto San Giovanni”. Anche quando lunedì scorso, a pochi giorni dal trentesimo anniversario della morte del giudice, all’ergastolano Giuseppe Montanti, riconosciuto in via definitiva nel 1999 come mandante dell’omicidio, è stato concesso il primo permesso premio di nove ore per incontrare suo figlio in una località segreta: “Non sono io a dover giudicare se è giusto o sbagliata questa decisione. Se gli hanno concesso il permesso vuol dire che hanno avuto le loro buone ragioni. Oggi non odio nessuno”.
Io sono nessuno  Nava martedì sera si è collegato telefonicamente con Lecco per ricevere “virtualmente” la benemerenza della città alla presenza del sindaco Virginio Brivio, di Rosy Bindi, già presidente della Commissione parlamentare antimafia, e a Stefano Scaccabarozzi, Lorenzo Bonini e Paolo Valsecchi, gli autori del libro “Io sono nessuno”, in cui Nava per la prima volta racconta di sé, presentato durante l’evento. Perché sarà forse vero che Nava si sente “una persona senza un passato”, ma passerà alla storia per essere stato il primo super testimone d’Italia. “Nei miei ricordi conserverò sempre un messaggio di mia figlia: ‘Per gli altri forse tu non sei nessuno, ma per me resti sempre mio padre’”, conclude Nava. FANPAGE 17.9.2020

 

 

Questo libro raccoglie le storie di persone che hanno saputo fare scelte coraggiose e appassionate, pur rimanendo fedeli a sé stesse.


La storia dell’unico testimone dell’omicidio di Rosario Livatino 

Piero aveva 41 anni, vendeva porte blindate, era il responsabile per tutto il Sud Italia di una grande azienda piemontese. I suoi clienti erano in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, e quella settimana era in viaggio nell’isola. Aveva preso casa prima a Ischia e poi a Giffoni, in provincia di Salerno, e copriva tutto il suo territorio in macchina. Si era appena comprato una Lancia Thema station wagon color canna di fucile, ricorda che l’aveva presa con un leasing a Bologna e che quell’ultimo modello non l’aveva ancora nessuno, in Sicilia tutti si fermavano a guardargliela. Un dettaglio che avrà il suo peso in questa storia.
«Ero quasi al bivio per Favara, erano le otto e venti, e mi mancava ormai solo un quarto d’ora di strada, andavo piano e sorpassai un’Ape che trasportava dell’uva, ricordo che era bianca e con gli acini grossi, l’uva Italia che producono nelle vigne intorno alla Valle dei Templi. Due ragazzi con la moto mi sfiorarono e io mi incazzai moltissimo pensando che mi avessero rigato la Thema, guardai la targa ma non si poteva leggere perché era coperta da del nastro adesivo, quello usato dai carrozzieri. Percorsi un rettilineo, poi due curve e vidi la moto ferma e una macchina con il vetro dietro rotto. Pensai: “Si sono schiantati”. Invece, quando arrivai lì accanto, vidi una camicia azzurra che scappava in un campo, un ragazzo con il casco bianco fermo sulla moto e l’altro che saltava il guardrail con la pistola in pugno. Ricordo anche la camicia e gli anfibi  del killer e le Timberland di quello sulla moto».
La camicia azzurra era di Rosario Livatino, magistrato alla Procura di Agrigento. Aveva solo 37 anni, ma si era fatto notare per il suo coraggio e per la sua fede nella legalità: aveva lavorato alla prima inchiesta sulla mafia agrigentina, che avrebbe portato a condannare quaranta persone, e aveva osato confiscare i beni delle famiglie mafiose. Per questo venne condannato. Quel 21 settembre 1990 viaggia solo e senza scorta sulla sua utilitaria, arriva come ogni giorno da Canicattì, il paese dove è nato e dove abita con i genitori. Viene sorpassato da una Uno bianca, che lo stringe e lo manda fuori strada, dal finestrino esce una mitraglietta che comincia a sparare, alcuni colpi bucano la fiancata, uno lo colpisce a una spalla.
Rosario Livatino ha con sé una pistola ma non riesce a prenderla. Va a sbattere contro il guardrail eppure ha la prontezza di mettere la retromarcia, prova a scappare indietro, non sa che alle sue spalle ci sono quei due ragazzi in moto. Sparano anche loro e gli fanno saltare il lunotto posteriore. Ha ancora la lucidità di aprire la portiera, saltare fuori dalla statale 640 e cominciare a correre tra le sterpaglie del dirupo. L’inseguimento dura un tempo lunghissimo, gli sparano più volte, percorre quasi un centinaio di metri e quando cade gli sparano un’ultima volta, un colpo simbolico e definitivo: con la lupara.
Il giorno dopo, nella cronaca pubblicata da «Repubblica», si leggerà: «Questo drammatico racconto dell’agguato e dell’inseguimento sotto la scarpata sarà ricostruito ai poliziotti da un testimone oculare.
Un testimone che ha visto tutto, uno che non ha paura di parlare. Ha descritto i volti dei killer e nei laboratori di polizia scientifica stanno già ricostruendo i loro identikit. Gli investigatori naturalmente non forniscono l’identità del testimone, dicono solo che è un signore del Nord che casualmente ha assistito al massacro. È stato lui a lanciare l’allarme, a raccontare ogni particolare ai primi magistrati che sono arrivati risalendo la strada verso Caltanissetta».
Quell’uomo è Piero. Quel 22 settembre si chiamava ancora Piero Nava. «Avevo già il telefono in macchina, sono stato tra i primi a metterlo, ma in quel punto, come in gran parte della Sicilia, non funzionava, così ho accelerato per arrivare dal mio cliente. Sono entrato, gli ho raccontato in pochi secondi quello che avevo visto e ho chiesto di farmi telefonare in questura per dare l’allarme. Ho detto soltanto: “È successo qualcosa prima del bivio per Favara. Correte a vedere”.
«Poi ho pregato il mio cliente di riaccompagnarmi là con la sua macchina. Lui restava fermo, come paralizzato, pensava che fosse la cosa più sbagliata e mi ha detto soltanto: “Guarda che sei in Sicilia”. Ho insistito: “Non importa dove sono, portami indietro, perché ho visto una cosa che mi fa stare male”. Sono salito, me lo ricordo perfettamente, sul suo Suzuki Jimny e siamo arrivati sul luogo. Era già pieno di persone, gli ho chiesto se conoscesse qualcuno. Mi ha indicato un poliziotto, un ispettore di cui era amico, gli ho detto di chiamarlo, non volevo essere io a presentarmi là in mezzo a tutti. Lui, prima di scendere, mi ha toccato il braccio e ha ripetuto: “Guarda che sei in Sicilia”.
Ho scosso la testa: “Io ho visto tutto e devo dirlo”. È andato a chiamare l’ispettore, che si è avvicinato al finestrino e mi ha detto: “C’è una macchina verde laggiù, tu scendi tranquillamente, vai là e sali, poi arrivo io”. Tornammo nell’ufficio del mio cliente, feci lì la mia prima testimonianza e ricordo che usarono la sua macchina da scrivere e che a batterla fu la figlia. Quando capirono quanti dettagli avevo notato mi chiesero di andare in Questura per una seconda testimonianza.» Sul luogo dell’omicidio, poche ore dopo, quando il corpo era ancora sotto un lenzuolo bianco in fondo alla scarpata, dove nei giorni di pioggia scorre un torrente, arrivarono due giudici con cui Rosario Livatino aveva lavorato: Paolo Borsellino e Giovanni Falcone.
Sarà proprio Falcone a interrogare Piero. «Con Falcone ho avuto uno scontro, forse sarebbe meglio dire una tensione, durante l’interrogatorio alla Questura di Agrigento. Si meravigliava di tutti i dettagli e i particolari che mi ricordavo, era molto scettico, più dicevo e più era perplesso. Probabilmente pensava che fossi un mitomane o un depistatore. Gli dissi che il killer era mancino, lui scosse la testa, gli spiegai che avevo notato il calcio della pistola mentre scavalcava il guardrail e che se fosse stato destro non lo avrei potuto vedere, perché sarebbe stato coperto dalla mano.
Quando individuarono il killer, alla fine del riconoscimento gli lanciarono un pezzo di carta appallottolato e lui istintivamente lo prese con la sinistra. Poi gli descrissi la camicia, il maglione rosso, le Timberland. Si meravigliavano tutti di tutto. Poi mi chiesero che moto era. Risposi: “Era una moto enduro, sicuramente una moto enduro, tipo un Ténéré della Yamaha”. È lì che Giovanni Falcone perse la pazienza: “Ma come fa a dire che è una enduro, pure il modello, non mi sembra possibile”. Gli risposi: “Guardi, è molto semplice: io ho due motociclette, sono due Guzzi, e si sta seduti in un certo modo. Su una enduro invece si sta seduti in un modo totalmente diverso. Non c’è possibilità di confondersi”.
In quel momento entrò un colonnello dei carabinieri. Mi ricordo ancora che, mentre parlava Falcone, si aprì la porta: “Hanno trovato la moto, l’hanno bruciata in un campo di Favale, era una moto da enduro e c’era anche una Uno”. Giovanni Falcone mi guardò e si scusò. Io risposi semplicemente: “Non si deve scusare, io quello che ho visto lo testimonio. Quello che non ho visto, non l’ho visto e non dico niente”.
«Quando finì l’interrogatorio, presi le mie chiavi dal tavolo e dissi: “Signori, avete la mia carta di identità in fotocopia, il mio numero di telefono di casa, il mio numero di cellulare. Dovrei andare a lavorare, sono già in ritardo per un appuntamento che ho a Sciacca. Se non lavoro non mangio, mi spiace, ma me ne andrei”. Mi risposero soltanto: “Ma dove crede di andare?”. Mi chiusero in una stanzetta con due agenti davanti alla porta e rimasi alla Questura di Agrigento fino alle due e mezzo di notte.
«Ricordo che avevo una camicia di seta grigia che aveva cambiato colore tanto era inzuppata di sudore. Quella notte non sapevano dove mettermi, non esisteva un protocollo di protezione dei testimoni, così l’ispettore che per primo mi aveva interrogato mi portò a dormire a casa sua, mi mise a letto nella camera del figlio. Il giorno dopo mi fecero vedere una montagna di fotografie e io ne tirai fuori alcune, erano persone che facevano tutte parte della Stidda, la mafia dei pastori di Agrigento, che sarà poi riconosciuta responsabile dell’omicidio».

Questo brano è tratto dal capitolo “Per cosa saremo giudicati” da Una volta sola, Mario Calabresi, Mondadori,

 


COMMISSIONE PARLAMENTARE DI INCHIESTA SUL FENOMENO DELLE MAFIE E SULLE ALTRE ASSOCIAZIONI CRIMINALI, ANCHE STRANIERE  Seduta n. 171 di Mercoledì 21 settembre 2016 Audizione di Piero Ivano Nava, testimone di giustizia. 

Testo del resoconto stenografico 

PRESIDENTE ROSY BINDI L’ordine del giorno reca l’audizione del signor Piero Ivano Nava, testimone di giustizia, in occasione dell’anniversario, che ricorre oggi, dell’assassinio mafioso del giudice Rosario Livatino, avvenuto il 21 settembre 1990.

L’audizione odierna rientra nell’ambito dell’approfondimento che la Commissione ha svolto sin dal suo insediamento sui testimoni di giustizia e che ha portato all’approvazione unanime, nella seduta del 21 ottobre 2014, di una relazione sul sistema di protezione dei testimoni di giustizia, fatta propria anche dalle Assemblee di entrambe le Camere. Dalla relazione è poi scaturita una proposta di legge ad hoc, A.C. 3500 Bindi ed altri, sui testimoni di giustizia, anch’essa approvata all’unanimità da tutti i Gruppi parlamentari rappresentati in Commissione, che attualmente è in discussione in Commissione giustizia alla Camera dei deputati.
Il 21 settembre 1990 Piero Nava, all’epoca quarantenne, stava percorrendo per ragioni di lavoro la statale che da Caltanissetta conduce ad Agrigento, quando si trovò ad assistere come testimone oculare all’omicidio del giudice Livatino da parte della mafia detta «stidda». Denunciò immediatamente il fatto e successivamente riuscì a riconoscere i responsabili, che sono stati tutti condannati con sentenze passate in giudicato.
La figura di Piero Nava è una figura emblematica, un testimone di giustizia per così dire «puro» che, dopo aver assistito occasionalmente all’uccisione di una persona – non sapeva infatti che si trattasse di un magistrato – ha sentito immediatamente il dovere di denunciare il fatto alle autorità per disinteressato spirito di giustizia e di solidarietà sociale. Peraltro ciò avvenne in un’epoca in cui non era ancora entrata in vigore la legge per la protezione dei collaboratori di giustizia del 1991, men che meno quella per i testimoni di giustizia del 2001.
Sappiamo che quella scelta ha determinato per lei, signor Nava, un radicale cambiamento di vita, con gravissime rinunce a livello personale, e che vive tuttora, dopo ben ventisei anni, sotto protezione e con differenti generalità.
L’audizione odierna vuole rendere omaggio per la prima volta in Parlamento a quella sua scelta etica, insieme alla memoria del giudice Livatino, e per questo le chiediamo soprattutto di parlarci della sua decisione, di quel suo slancio civico e di come ha vissuto questi anni da testimone di giustizia, perché vorremmo che le sue parole rimanessero agli atti di questa Commissione e fossero conosciute dal Paese. La avverto che qualora lo ritenesse opportuno potremo passare in seduta segreta, ma ci teniamo molto che almeno una parte dell’audizione possa essere pubblica: consideriamo ciò che ci dirà sulla sua decisione e sulla sua esperienza come testimone di giustizia anche il modo migliore per ricordare la figura del giudice Livatino.
Anche per questo al termine della sua audizione la Commissione approverà una relazione per la pubblicazione delle sentenza relative all’assassinio del giudice Livatino e degli altri documenti progressivamente acquisiti dalla Commissione sulla figura dei giudice sia come magistrato antimafia, sia come vittima di mafia.Nel ringraziarla sentitamente per aver accettato il nostro invito, le cedo volentieri la parola.

PIERO IVANO NAVA testimone di giustizia. Buonasera. In fondo la mia storia è abbastanza semplice, perché io sono passato dalla strada di scorrimento veloce, stavo andando piano perché avevo una gomma forata, avevo i tubeless sulla mia macchina, me l’avevano rigonfiata, ero stanco, non avevo avuto voglia di fermarmi da un gommista lungo la strada tra Enna e Villaggio Mosè, ho fatto una curva e un rettifilo e ho visto quello che voi sapete.Non c’è da meravigliarsi se la mia memoria è fotografica e se ho riconosciuto tutti i particolari, perché io facevo il direttore commerciale e per fare il direttore commerciale, come mi avevano insegnato i miei imprenditori, a partire da Marcegaglia a scendere, bisogna capire immediatamente come è il cliente e «stamparsi» nella memoria tutto quello che fa: i movimenti delle mani, come tocca gli occhiali, tutto. (I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta indi riprendono in seduta pubblica).

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. Riconobbi la moto, riconobbi la macchina, poi nelle indagini il giorno stesso trovarono tutto bruciato nelle campagne di Favara e avevo ragione. Alla fine della testimonianza ho detto semplicemente: «Avete il numero di telefono, il documento, sapete dove sono, prendo le chiavi della mia macchina, quando avete bisogno di me mi cercate, perché io ho da fare, devo andare a lavorare, ho un impegno per pranzo a Sciacca e devo andarci». Chiaramente mi hanno detto: «Dove credi di andare?», ho risposto: «A lavorare», «Non ti puoi più muovere» mi disse un funzionario di polizia, un ispettore.
Da quel momento è cambiata la mia vita, da quel momento non sono stato più io, è stato difficile, si fa fatica a capire cosa ti succede. A un direttore commerciale suona il telefono tutto il giorno – agenti, rappresentanti, clienti – anche per le cose più stupide – manca una maniglia, non è arrivata o è arrivata rovinata – invece, il telefono viene bloccato, non ricevi neanche una telefonata. Io avevo un agente che mi chiamava tutte le mattine alle 6.20 per darmi il report, da Catania, ma il telefono non suona più. Non puoi più telefonare, non puoi più fare niente e non ti rendi neanche conto. Io dissi tre o quattro volte: «Voglio andare a lavorare, voglio andare a lavorare con la scorta», ma mi hanno detto di no, oggi dico giustamente, come fai a lavorare con la scorta? Non hai più la tua vita, l’hai persa.
Perché ho fatto questa scelta? È semplice: io ho avuto una famiglia che mi ha insegnato che devi avere senso di responsabilità, che quando tocca a te tocca a te, che non puoi alzarti la mattina, andarti a fare la barba e dirti le bugie.
Mio nonno è stato capitano del «Savoia cavalleria» ed è morto nel 1916 – io non l’ho neanche conosciuto perché sono del 1949 – mio padre era nato nel 1908, era di un ceppo nobile, mi hanno insegnato certe cose e io non ho fatto altro che metterle in pratica.
Chiaramente non sapevo che era un giudice, ma non era questo l’importante: c’erano delle pistole, c’era qualcosa che non andava, poteva essere chiunque, in quel momento toccava a me, io non avrei più potuto né leggere un giornale, né guardarmi nello specchio se non mi fossi comportato così.
Vi chiedete se lo rifarei? Certo, perché devo avere rispetto di me stesso, il primo ad avere rispetto di me stesso devo essere io, non gli altri. È chiaro che è stato difficile, è stato molto difficile perché, come ha detto la presidente, non c’era il servizio di protezione. Io mi sono trovato con il questore Rotella al servizio di protezione, dove c’erano solo una scrivania e una seggiola. Bravissima persona, un padre, il questore Rotella, però mi disse: «Piero, cosa facciamo? Come la mettiamo?» e risposi: «Non lo so, se sei messo così e la tua organizzazione è questa, cosa vogliamo fare?».
Questa è stata anche la difficoltà, a parte che per me il cambio di generalità è stato traumatico, perché io ero famoso nel mio lavoro, mi pagavano un sacco di soldi per farlo, anche perché avevo vissuto al Sud, avevo diretto uno stabilimento al Sud ed ero stato il primo direttore del Nord ad andare al Sud a dirigere uno stabilimento nella storia dell’industria italiana. È così, non puoi fare niente, non sei più niente, fai difficoltà, non sei più nessuno, cambi le generalità e non sei nessuno. Con il mio nuovo nome chi ero?
A un certo punto non ce la facevo più e ho voluto tornare a lavorare, ho dovuto ricostruirmi la mia vita e sono partito come un ragazzo di diciotto anni con la borsettina, andavo alle riunioni delle ditte e sentivo dire delle stupidaggini in riunione, ogni tanto alzavo la mano e dicevo: «Non si fa mica così nel mercato, bisogna adoperare una strategia», ma mi guardavano e dicevano: «Ma tu che sei nuovo come fai a saperlo?». Avevo solo vent’anni di carriera alle spalle.
Piano piano negli ultimi anni sono riuscito, perché è il mio mondo, è la mia vita, a ricostruirmi un po’, non sono arrivato ai livelli di un tempo – perché probabilmente, se avessi continuato, sarei diventato amministratore delegato di qualche società o consigliere di amministrazione – ma sono arrivato quasi al mio livello di prima, con molta fatica, perché una cosa è farlo quando hai quarant’anni, altra cosa quando ne hai cinquantacinque, la forza dei quaranta non è la forza dei cinquantacinque, è inutile negarlo.
Cosa si deve fare? Prima di tutto una persona ha bisogno di essere reinserita immediatamente e in questo c’è una difficoltà, perché in un lavoro come il mio era difficile e io sapevo fare solo quello, l’ho fatto per tanti anni, ho venduto funi, serrature, nastro d’acciaio, nastro laminato, porte, porte blindate, finestre, è il mio mondo. Trovare un’occupazione per fare direzione commerciale in un’altra ditta è difficile. Però non sono tutti come me e la cosa importante è che uno venga reinserito immediatamente nel contesto lavorativo, che non debba sentirsi uno «scomodo», perché io mi sono sentito uno scomodo per tanto tempo, mi sono sentito rispondere: «Ma io non guadagno i soldi che guadagni tu» e ho semplicemente risposto: «Hai scelto di fare il questore? Hai fatto bene, io ho scelto di fare il direttore commerciale e ho fatto bene. Dovevi farlo tu il direttore commerciale, che risposta mi dai?», perché mica era colpa mia se guadagnavo dei soldi.
L’altra cosa importante è che ci vuole uno psicologo per la famiglia, perché io ho avuto la fortuna che la mia famiglia ha compreso il gesto. La mia compagna vide in televisione il telegiornale delle 13, era a tavola con i miei figli e, per caso, con il mio socio di Napoli, diedero la notizia: «Omicidio del giudice Livatino, c’è un testimone» e lei, che sapeva che percorrevo quella strada, disse: «Questo è lui, solo lui può essere andato». Il mio socio telefonò in questura ad Agrigento e stupidamente mi passarono la telefonata, ma lasciamo perdere perché c’è anche chi professionalmente ha dei difetti, ma è comprensibile perché, come in un’azienda, ci sono i vari livelli, non è importante. Serve uno psicologo per la famiglia. Io ho fatto un errore: quando sono tornato con un’altra macchina sotto casa alle 5.30 del mattino, ormai albeggiava, io vidi lo sguardo che la mia compagna mi fece dalla finestra del bagno, che è entrato in me. Lì ho fatto un’idiozia – per questo dico che ci vuole uno psicologo – perché sono entrato in casa e ho detto: «Adesso vado a dormire, sono stanco», mi ha chiesto: «Ma cos’è successo?» e ho risposto: «Non è un problema tuo, è una cosa che ho fatto io», invece no, perché tu fai un gesto di grande responsabilità e coinvolgi gli altri, non c’è niente da fare, tu hai fatto il gesto, dovrai fare degli atti e portarlo avanti, tocca a te, ma tutto il contorno è della famiglia.
Lì io ho sbagliato, non è questo che ha leso i rapporti, ma chiaramente poi il rapporto si è rotto, pur rimanendo una stima grandissima da ambo le parti, perché io la mia ex compagna la devo ringraziare, mi è stata molto vicina e non mi ha mai fatto osservazioni. Abbiamo un rapporto bellissimo anche se a un certo punto diventi fratello e sorella perché le priorità sono altre, quindi perdi certe cose, ti siedi a tavola e ti chiedi sempre: «Cosa facciamo? Cosa andiamo a dire? Siamo convocati, come la mettiamo? Ci vogliono dare nuove generalità, cosa decidiamo?» e a un certo punto non è più un rapporto.
Siamo stati insieme per quattordici anni, ma al dodicesimo anno un giorno me l’ha ricordato: «Io sono rimasta male – te lo dico dodici anni dopo – quando tu sei entrato in casa e mi hai risposto così. Io ci sono rimasta male, non hai capito che eravamo tutti coinvolti».
Non sapeva neanche la polizia che ero rientrato, perché furbamente non avvertirono nessuno nella tratta, poi mi arrivò il finimondo in casa, potete immaginarvi. Avevo una casa a quattro piani ed erano persino sul tetto con i mitragliatori, però li capisco, ognuno fa il suo lavoro e ha la sua responsabilità.
Ci vuole uno psicologo e ci vuole il reinserimento nel lavoro subito, perché uno non deve sentirsi defraudato di qualcosa – questa secondo me è la parte più difficile – e deve mantenere il suo livello, anche con i suoi vizi, come fumare, deve poterlo fare perché ti manca qualcosa. Per anni ci è mancato qualcosa.(I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta indi riprendono in seduta pubblica).

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. Dipende dall’educazione, è molto importante cosa succede nelle famiglie, l’educazione in casa e la scuola. Mi pare che non ci sia più la lezione di educazione civica, no?

PRESIDENTE. Teoricamente sarebbe stata reintrodotta.

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. Molto teoricamente. Dipende da quello, è appena successo sulla metro a Roma, l’ho letto sul giornale, hanno picchiato uno perché ha detto che non si può fumare, si è alzato qualcuno a dire qualcosa? Questo è il mondo brutto nel quale viviamo, ma perché? Perché non c’è un’educazione, perché uno non si sa prendere le responsabilità oppure ha paura di prendersi delle responsabilità perché non si sente tutelato.
Anch’io non mi sono sentito tutelato, però avevo la forza in me. Quante volte hanno cercato di impormi qualcosa, ma ho detto: «No, sono sulla sponda buona, decido io se lo voglio fare o no, non decidi tu per me, io sono dalla parte giusta, faccio parte dei buoni, tira la riga». Non tutti però hanno questa forza, probabilmente altri testimoni non l’hanno avuta, forse non avevano una famiglia come l’avevo io, non avevano la cultura che avevo io, non avevano la storia che avevo io, ma il problema è tutto lì: va inserito immediatamente, non si deve sentire uno scomodo, e io mi sono sentito scomodo tante volte. Me l’avevano detto, non faccio nomi ma me lo dissero una settimana dopo: «sarai scomodissimo per tutti!» e mi sono sentito uno scomodo, perché non sapevano cosa fare, basta dire che i poliziotti scommettevano sull’elicottero perché non nessuno credeva che c’era un testimone. Detto questo ho detto tutto. Il testimone c’era.  (I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta indi riprendono in seduta pubblica).

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Non massacrate una persona che ha fatto questo, non lo massacrate, perché ha già subìto uno shock e ci vuole veramente una grande forza interiore per resistere. E poi dategli veramente una mano, fategli sentire che gli siete vicini, quando gli mandate qualcosa che deve studiare, su cui deve rispondere o viene convocato, scrivete normalmente, non con quel gergo difficile. L’ultima è stata anche per me un’interpretazione difficile, in un primo momento mi sono arrabbiato, poi a casa ho riletto e ho detto: «No, forse voleva dire questo, proviamo a capire». Tutto deve essere più normale, più logico, più semplice, più umano, forse ho trovato il termine giusto, «umano». Se avete domande, vi rispondo senza alcun problema.

PRESIDENTE. Davvero grazie, penso che non potevamo scegliere modo migliore per ricordare oggi la figura del giudice Livatino. Proprio per questo volevo chiederle, visto che lei giustamente ha detto «Ho testimoniato perché ho visto uccidere una persona, non sapevo chi fosse» e questo rende ancora più forte la sua scelta, però avrà avuto modo poi di sapere chi era la vittima e magari di avere dei rapporti con la famiglia…

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. La famiglia una volta mi ha cercato.

PRESIDENTE. Vorremmo sapere che idea si sia fatto lei di Livatino.

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Io ho letto qualcosa di Livatino, poi, sono molto credente anche io. Ho letto che vogliono farlo beato, che era molto credente. Da quanto ho letto di lui era una persona semplice, uno che faceva il suo dovere, punto e basta, era un uomo talmente semplice, mi è dispiaciuto.
È chiaro che l’ho saputo subito, quando sono passato dal Villaggio Mosè in questura avevano lì la camicia e mi hanno detto: «Hanno ammazzato un giudice» spiegandomi chi era. Io non lo conoscevo perché non ero dell’ambiente, poi mi hanno spiegato cosa stava andando a fare.
Penso che fosse una persona a posto, che faceva il suo dovere senza chiedere o pretendere niente. Da quello che ho letto – non so dove sia la verità perché non l’ho mai chiesto – credo che fosse anche un po’ inviso ai suoi colleghi. Conoscevo per lavoro l’ambiente agrigentino, che è un ambiente molto particolare in Sicilia, forse più particolare di altre province, un po’ ostico. Da quanto ho letto penso fosse una bravissima persona.

PRESIDENTE. Si è incontrato con la famiglia?

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. La famiglia ha chiesto di incontrarmi, mi hanno mandato i ringraziamenti, oltretutto aveva un papà e una mamma molto anziani, che avevano aiutato questo ragazzo a diventare magistrato.
Mi hanno mandato i ringraziamenti tramite la polizia perché la mia protezione non ha voluto che mi recassi da loro, anche giustamente. Ho parlato una volta due minuti al telefono con il papà, che piangeva, poverino, quindi ci siamo detti tre o quattro parole che onestamente non ricordo, ma mi ha detto «Grazie» tante volte. Non c’è da dire grazie, era un crimine, è molto semplice.
Era un giudice, ma se fosse stato un pastore sarebbe stato uguale: era un crimine, una cosa che non funzionava, che non doveva essere fatta, non andava bene, mi ha urtato, mi ha proprio urtato. Io ho avuto proprio un urto. Stranamente poi ho avuto la sensazione che stesse capitando qualcosa lungo la strada, mi sorpassarono con la moto con la targa coperta, c’era qualcosa che non andava, poi faccio la curva e… Poi provo a telefonare (come sempre l’Italia è un pochino in ritardo sulla tecnologia) perché avevo già il cellulare in macchina che mi era stato dato appena uscito, però in Sicilia non funzionava, quindi non ho potuto chiamare, altrimenti avrei telefonato immediatamente. D’altronde andavo piano, è stata una serie di cose, non potevo non vedere, e per me stesso non potevo non andarlo a dire, non c’è niente da fare. Non è che uno fa una scelta, non hai scelta, ti tocca, hai visto un crimine e vai a dirlo, punto e basta. Poi quello che succede si vedrà.
Io non mi rendevo neanche conto, non sapevo neanche che mi avrebbero aiutato, ho preso le mie chiavi e ho detto: «Signori, avete tutto, mi potete trovare quando volete, me ne devo andare», quindi io non immaginavo poi l’inferno. Purtroppo è stato un inferno, perché allora non c’erano regole, è stato un inferno perché era difficile, è stato un inferno perché ero un personaggio scomodo. (I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta indi riprendono in seduta pubblica).

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Quello che dovete fare è cercare di ricostruire il senso civico. Questo manca, due giorni fa si è verificato questo episodio a Roma e nessuno ha parlato, perché la gente non si sente tutelata, è questa la campagna che va fatta, anche se è difficile. Capisco che è di una difficoltà estrema, però, se posso dirlo, su questo c’è stato un po’ di abbandono, quindi io ho avuto la fortuna di avere una famiglia che me l’ha fatto sentire, altri sicuramente ce l’hanno come la mia o migliore della mia, però non credo che oggi sia tanto così. Le persone hanno questa impressione e non si sentono cittadini, non sentono di far parte dello Stato, è una sensazione strana, l’ho avuta anch’io tante volte, è una brutta sensazione perché lo Stato sono anche io, partecipo per una piccolissima parte, ma lo Stato sono anche io. Ma stranamente senti che non ne fai parte, è una sensazione a pelle che non riesci a definire e a chiudere in un quadro, però la senti, da cosa deriva non lo so, però c’è. Questo è il consiglio che vi posso dare: lavoro e uno psicologo subito. So che non è semplice affiancarsi e andare a sentire i pareri dei vari enti, non lasciare all’inventiva, perché i funzionari sono bravissimi ragazzi, però magari sono ignoranti in materia e quindi inventano e possono far bene o sbagliare, mentre se vado dal direttore dell’INPS e gli chiedo come sistemare la pensione a una persona – senza consulenti, in Italia ne abbiamo troppi – lui me lo spiega e il funzionario lo applica, non che magari inventa e poi sbaglia. Manca un po’ di semplicità, di…

PRESIDENTE. Di cose normali.

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. Sì, di cose normali, manca un po’ di normalità.

PRESIDENTE. L’onorevole Mattiello è il coordinatore del comitato sui testimoni di giustizia e anche il relatore per la nuova legge sui testimoni e voleva rivolgerle una domanda. Dopo di lui l’onorevole D’Uva, che è anche lui un attivo componente di quel comitato e si è adoperato molto perché anche il disegno di legge fosse presentato con voto unanime.

DAVIDE MATTIELLO. Grazie, presidente, mi associo al ringraziamento e sono personalmente contento di poterla conoscere in questo contesto. Come la presidente evidenziava, con il collega D’Uva abbiamo ascoltato molte storie di testimoni di giustizia. Ogni storia ha il suo valore, ogni percorso va rispettato, ma casi come il suo ancora oggi ce ne sono proprio pochi nel nostro Paese…

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Ed è lì il male.

DAVIDE MATTIELLO. Quindi tanto più hanno valore le considerazioni culturali che stava facendo. Il lavoro che noi abbiamo fatto fin qui, che la presidente Bindi ha richiamato e che adesso stiamo facendo in Commissione giustizia lavorando su questa proposta di riforma sembra cogliere molti degli aspetti che lei ha esplicitato a partire dalla sua esperienza. Mi sono appuntato il riferimento allo psicologo, il riferimento all’inserimento lavorativo, il bisogno che non ci sia più confusione tra testimone e collaboratore. Il senso di questa proposta di legge è proprio questo, avere finalmente nel nostro ordinamento una legge dedicata ai testimoni, in modo da compiere un passo ulteriore per non confondere. Mi sono segnato anche l’importanza dell’incidente probatorio, le difficoltà del cambio di generalità. Le chiedo quindi se, oltre a questi punti sui quali stiamo lavorando, ve ne siano altri. Un’ultima considerazione: da tutta la sua storia mi pare ancor più confermato il bisogno di fondo che il testimone sia sovraesposto il meno possibile nel processo come fonte di prova. Noi dobbiamo fare tutto il possibile per migliorare la vita di chi, in ragione della denuncia fatta, si espone a un rischio tale che la sua vita deve essere modificata radicalmente.

Ma il problema è l’esposizione a tale rischio. Lei lo ha fatto nel 1990 e già aveva un cellulare in macchina – anche se non funzionava in Sicilia – oggi siamo nel 2016, l’incidente probatorio è il minimo sindacale per non sovraesporre un testimone oculare facendolo diventare testimone di giustizia a norma di legge, cioè una persona così esposta al rischio della vita da rendere inadeguate le ordinarie misure di protezione. È necessario – ne ero già convinto e la sua storia me l’ha confermato perché, per quanto poi si lavori con psicologi, inserimento lavorativo, cambi di generalità, la vita è stravolta, indietro non si torna – che con investigatori e magistrati si operi al meglio per evitare che la testimonianza al processo sia così decisiva. Oggi, infatti, la tecnologia consente altre strategie investigative, che pure partano dal valore della testimonianza oculare. Concludo, rivolgendomi alla presidente. Considero molto importante che, per quanto possibile, quanto sta avvenendo qui oggi sia trasmesso alla Commissione giustizia della Camera, credo che sia un contributo molto importante e che nell’attuale fase di raccolta dei materiali giovi a tutti poter leggere direttamente la testimonianza del signor Nava. Rinnovo infine, sempre rivolgendomi alla presidente Bindi, l’auspicio che in Commissione possa essere audito quanto prima il Viceministro Bubbico, per fare il punto su alcune novità di legge già operanti, su cui è bene avere un bilancio, in particolare sull’inserimento lavorativo dei testimoni di giustizia a oltre due anni dall’approvazione di quelle norme.

FRANCESCO D’UVA. Mi sono iscritto dopo il collega Mattiello perché mi sembrava il minimo permettere al coordinatore del comitato di parlare per primo. Abbiamo fatto questo lavoro e devo dire, signor Nava, che la stimo in maniera particolare, perché abbiamo avuto tante audizioni di testimoni di giustizia, non molti testimoni oculari, spesso imprenditori che denunciavano, con tutte altre questioni, e lei è sicuramente un esempio per tutti. Speriamo di poter fare in modo che una storia del genere che risale al 1990 possa non essere dimenticata dalle nuove generazioni. Le volevo chiedere se ha avuto modo di leggere la proposta di legge, per avere una sua opinione al riguardo.

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Se mi date una copia, vi posso mandare le mie osservazioni.

FRANCESCO D’UVA. C’è anche la relazione, che sicuramente non è scritta in quel gergo a cui faceva riferimento. Sarebbe interessante avere la sua opinione al riguardo. Sul cambio di generalità mi chiedevo come sia avvenuto. Ha avuto una nuova carta di identità?

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Sì, ho avuto tutto.

FRANCESCO D’UVA. Un’ultima domanda: come sono stati i suoi rapporti con la commissione centrale del Ministero dell’interno? Abbiamo avuto varie testimonianze e vorremmo raccogliere anche la sua.

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. A proposito dell’incidente probatorio, lei ha mai fatto un incidente probatorio?

DAVIDE MATTIELLO. No.

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Vuole sapere come è stato il mio? Al carcere di Sollicciano, in una stanzetta, io seduto qua, il GIP davanti, l’avvocato difensore vicino e i due assassini dietro di me, che mi potevano toccare così, senza neanche stendere il braccio. Il funzionario di polizia, il dottor Cecere, che era il responsabile dello SCO di Firenze, ha chiesto di poter entrare e non poteva entrare. Per carità, gli è stato pure offerto il caffè, però questo è l’incidente probatorio, per una persona normale avere i due assassini dietro che, se fanno così, lo toccano…Questo è da evitare, non si fa un incidente probatorio così a uno che viene da un altro mondo, dalla strada, una persona normale. Capisco la prassi, capisco che il funzionario di polizia non possa stare dentro, ma sono cose che si cambiano: il funzionario di polizia è garanzia di sicurezza, se questi mi davano una botta, una botta più o una botta meno, comunque l’ergastolo sapevano di prenderlo. Erano qui tutti e due. È uno stato shock(I lavori della Commissione proseguono in seduta segreta indi riprendono in seduta pubblica).

PRESIDENTE. Quando ci siamo incontrati prima dell’audizione ho detto al signor Nava che è stato un testimone prezioso non solo per il coraggio ma, come ci ha raccontato, perché ha visto tante cose, se le è ricordate e non ne ha sbagliata una, dimostrandosi quindi all’altezza della professionalità di Livatino. Le vostre due figure sono state veramente scritte nello stesso libro, visto che lei è credente mi pare che possiamo dirlo…

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Certo, anzi ci tengo.

PRESIDENTE. Siete stati scritti nello stesso libro della vita, vi ha unito la sua morte ma siete stati scritti nello stesso libro della vita. Mi auguro che gli attuali incidenti probatori non si svolgano come lei ci ha raccontato. Credo che lei abbia fatto da pioniere come testimone. Non che dopo la legislazione del 1991 e del 2001 i problemi siano stati risolti, no e noi ci stiamo impegnando per migliorare il sistema. Le consegno la relazione e la proposta di legge sul sistema di protezione dei testimoni di giustizia. Ci promette che avremo un’interlocuzione?

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. Certo, vi mando una relazione. Preparatevi, che magari su qualcosa non sono d’accordo.

PRESIDENTE. Magari.

FRANCESCO D’UVA.C’è tempo per emendare.

PRESIDENTE. Siamo in tempo per emendare, il percorso inizia ora e la ringraziamo davvero di cuore, penso che sia stata una delle audizioni più importanti e più interessanti che abbiamo fatto in questa Commissione, anche più utili, oltre che più toccanti e più motivanti. Grazie per essere stato qui con noi, grazie per tutta la sua vita, per quello che ha fatto e anche per avercelo comunicato come una cosa normale, perché non poteva che essere così. Noi siamo convinti che per combattere la mafia non ci sia bisogno di persone straordinarie, ma ci sia bisogno di cittadini normali, quindi grazie davvero. Vorrei farle un’altra domanda: lei ha mai avuto un riconoscimento?

PIERO IVANO NAVA, testimone di giustizia. Io ho ricevuto la medaglia d’oro al valor civile da parte di un comune, sono sul gonfalone – che logicamente non ho mai ricevuto perché non sanno dove sono – la cittadinanza onoraria del comune di Canicattì con relativa medaglia d’oro, poi il comune di Palma di Montechiaro, da cui arrivavano, ha intestato il comune a me e alla mia ex compagna, così non si dimentica nessuno, infatti, il comune è intestato a Piero e Franca Nava. Questi sono i riconoscimenti che ho avuto, dallo Stato non ne ho avuti.

PRESIDENTE. Un’ultima cosa che volevo chiederle anche prima: il suo rapporto con Falcone come è stato?

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. All’inizio è stato di contrapposizione.

PRESIDENTE. Eravate entrambi persone di carattere.

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Io non sapevo chi fosse, mi hanno detto dopo che era Falcone, ma vengo comunque da un mondo dove Falcone o Marcegaglia sono comunque come me, con due gambe, due occhi, un naso. È chiaro che lui si era meravigliato, non faceva parte dei magistrati d’inchiesta perché veniva da Palermo, la stanza era piccola, io ero seduto qua, il funzionario di polizia importante qui, il magistrato qua. La dovizia di particolari l’aveva meravigliato, quindi abbiamo avuto uno scontro sulla moto, perché io ho dichiarato che c’era una Uno verde e che la moto era un Tenerè, lui mi guarda e mi fa: «Come fai a dire che è un Teneré?», e io gli rispondo: «Scusi, io non so chi è lei, ma io ho due motociclette, oltre a cinque automobili, un California Guzzi che si guida in una certa posizione e un Convert 1000 Guzzi che si guida in un’altra. Il Teneré si guida così: non c’è niente da fare, sul Teneré devi stare così. Era un Teneré». In quel momento entra il colonnello dei Carabinieri dicendo che avevano trovato macchina e moto bruciate e le armi, e dice che la moto era un Teneré! Allora Falcone mi ha detto: «Mi scusi» e ho risposto: «Niente, sono qua e vi dico quello che ho visto, quello che non ho visto vi dico che non l’ho visto». È chiaro che erano meravigliati perché uno che si ricordava i colori dalla camicia, che mancavano le cinghiette degli stivali, che era mancino, le Timberland, il maglione rovinato da una parte, il casco, le posizioni eccetera. Me ne hanno messi tre per tre volte a Sollicciano con il casco, alti uguali e vestiti uguali e ho sempre detto: «È quello lì», la terza volta mi hanno chiesto come facessi, ma tutti abbiamo una postura e anche quello aveva una certa postura. Mica è colpa mia se ho questa capacità e tutto quello che hanno riscontrato era vero, che ci devo fare? Per questo ho preso le mie chiavi e ho detto «Sapete tutto e me ne devo andare», perché per me era una cosa normale e la reputo ancora tale. L’ha detto lei, per sconfiggerli, se si va nella normalità, sono subito perdenti, perché loro si fanno le elucubrazioni mentali e tu vai avanti con la normalità, quindi sono perdenti, è semplice.

PRESIDENTE. Come sapete, questa audizione non è stata trasmessa sugli impianti audiovisivi a circuito chiuso per ovvie ragioni di sicurezza, ma daremo la notizia di aver audito il signor Nava non appena avrà lasciato Palazzo San Macuto.
Davvero grazie, ci ricorderemo di lei e anche lei non si dimentichi della Commissione.

PIERO IVANO NAVA,testimone di giustizia. Vi ricordo, vi ho guardato.

PRESIDENTE. Immagino non le sia sfuggito niente. La ringraziamo nuovamente. Dichiaro conclusa l’audizione.

PRESIDENTE. Nella seduta odierna, la Commissione è chiamata ad esaminare una proposta di «relazione per la memoria di Rosario Livatino. Pubblicazione di atti e documenti». Si tratta della pubblicazione delle sentenze dei processi relativi all’omicidio del giudice Livatino e alla raccolta degli atti e dei documenti relativi alla sua figura di magistrato antimafia e vittima di mafia. Ricordo peraltro che è in corso anche la causa di beatificazione. Questi atti saranno raccolti presso l’archivio della Commissione, e poi versati all’archivio storico della Camera, a disposizione di tutti coloro che vorranno consultarli.
Credo sia un modo normale per la nostra Commissione di ricordare Livatino, perché mettiamo a disposizione le cose più preziose che abbiamo, ossia tutta la nostra documentazione. Non ci ha lasciato molte relazioni, però dalle poche cose a disposizione traspare una personalità molto ricca, oltre che un magistrato molto competente e integerrimo, come ebbe a dire Papa Giovanni Paolo II ricordandolo, un giovane con una grandissima maturità e un grandissimo equilibrio, caratteristiche che si addicono a un magistrato. In questo modo la Commissione rende ragione a una persona che, facendo semplicemente il magistrato, ha combattuto la mafia e per questo è stato ucciso. Ha chiesto la parola il senatore Molinari.

FRANCESCO MOLINARI. Non sono credente, ma trovo eccezionale che queste due persone siano state unite in questo modo, quindi proporrei di allegare anche l’audizione di oggi alla documentazione che pubblichiamo.

PRESIDENTE. Credo che nelle sentenze sia già contenuta anche la testimonianza del signor Nava. Il resoconto stenografico dell’audizione di oggi sarà pubblicato nei nostri atti, però, se non vi sono obiezioni, potremmo inserirlo nella parte introduttiva della relazione

Pongo ora in votazione la proposta di «relazione per la memoria di Rosario Livatino. Pubblicazione di atti e documenti». (È approvata all’unanimità).

 

 

 

PENTITI, TESTIMONI E COLLABORANTI…